M. Donà, Magia e filosofia, prefazione di Armando Torno, Bompiani, Milano 2004, 210 pp., € 7,50.
Chi concepisce la filosofia come scienza rigorosa, come ratio absoluta, come una luce implacabile che dissolve le tenebre della superstizione, il giogo insopportabile della tradizione e del dogma religioso, sarà insieme respinto e attratto da questo libro, che va accolto quale felice contributo alla ridefinizione dei rapporti tra la filosofia e la sfera dell’«irrazionale». Massimo Donà infatti sostiene che magia e filosofia non sono opposti, ma complementari e cooperanti, tanto che la più genuina tradizione filosofica identifica nella stessa figura il mago e il filosofo. Il successo della ragione scientifica nella spiegazione dei fenomeni naturali, nel corso dei secoli, non ha mai dissolto il mistero che continua ad essere, nonostante tutto, il mondo in cui siamo venuti. Mai come oggi, in un’epoca di razionalismo dispiegato, è risultato così stridente il conflitto tra i successi settoriali della scienza e della tecnica e il carattere enigmatico, inesplicabile della realtà, a partire dal fatto che qualcosa accada precisamente nel modo in cui accade. Il miracolo più grande appare la realtà stessa, il fatto che le cose esistono come esistono. Misteriosa, meravigliosa, magica è la realtà che ci circonda, nonostante le spiegazioni sempre più raffinate che la scienza ci fornisce dei fenomeni: «spiegazioni sempre parziali, che riconducono i fenomeni a cause determinate, ma che, procedendo di causa in causa, mai potranno rendere davvero ragione di una catena necessariamente infinita di connessioni, se non definendo il loro vero e proprio inizio assoluto» (p. 7). La filosofia è amore di saggezza che si completa nella magia, che è saggezza e sapienza: «la filosofia si completa, per così dire, nella magia. Se quella si applica alla conoscenza della realtà, questa si avvale di tale conoscenza per vivere in armonia con la realtà» (ibidem). Magia e filosofia sono sempre state parte del medesimo orizzonte, nello sforzo di realizzare un progetto di salvezza che ha impegnato le menti e i cuori di uomini i quali, di epoca in epoca, sono stati tanto filosofi quanto maghi.
La tradizione magica è antichissima. Mago originariamente è colui che sa far operare la divinità secondo il suo volere, che quindi è investito di un potere sulla divinità, conosce il nome segreto degli dèi. Il mago è il primo sapiente e il sapiente è un mago. «Mago, spiega Donà, è essenzialmente colui per il quale tutte le cose e tutti gli esseri viventi sono uniti da un unico legame; per cui tutto subisce l’influenza di tutto: qualsiasi mutamento particolare in una singola parte dell’universo ha per ciò stesso effetti in ogni altra parte. Alla base delle azioni del mago sta dunque l’idea radicata di una vera e propria “simpatia” cosmica. Ma chi si proclami mago non si accontenta di studiare quei nessi, quelle connessioni causali che sono oggetto di attenzione di molti; al contrario: rinviene analogie e simmetrie ben più potenti. Micro e macro cosmo vibrano ai suoi occhi di un medesimo spirito; una è l’anima mundi con cui si rapporta il mago-sapiente. Di conseguenza, solo una pratica teurgica (che supera la comprensione puramente umana o razionale) costellata di simbolismi misteriosi e segreti noti solo agli dèi, poteva condurre il mago (spesso inconsapevolmente) a ottenere determinati effetti» (p. 14). Il mago è colui che possiede una conoscenza efficace che gli permette di agire sul mondo, mentre il filosofo di per sé è depositario di un sapere contemplativo e razionale, costruito mediante l’esercizio della critica e dell’osservazione empirica. Anticamente il mago era anche medico, la magia era medicina. Le pratiche magico-teurgiche degli antichi babilonesi si servono di strumenti e modalità che poi rimarranno nel corso dei secoli e si ritroveranno sia nelle pratiche della magia «filosofico-spirituale», sia in quelle della magia da ciarlatani: cerchio magico, bacchetta, rituale compiuto per analogia (ad esempio allontanare il male accendendo e spegnendo una torcia perché il male svanisce come la torcia è stata spenta, ecc.) (p. 22).
L’intento comune a tutte le pratiche magico-iniziatiche è infatti la volontà di sconfiggere il male, la morte, il dolore attraverso rituali che permettano il compiersi della vittoria della vita, e la realizzazione del bene e della felicità. Il mago è impegnato in un agone tremendo per sconfiggere le forze avverse, egli deve operare visibilmente ed efficacemente per compiere con successo l’operazione che lo contraddistingue come operatore di salvezza attraverso prodigi e miracoli. Si pensi all’episodio di Apollonio di Tiana in Filostrato che Girard ha fatto oggetto di un’analisi illuminante dal punto di vista della teoria vittimaria: Apollonio è un esempio di questa figura di mago-filosofo che opera per liberare la città di Efeso dal miasma attraverso la lapidazione di un vecchio mendicante che si trova lì per caso. Apollonio di Tiana riesce nell’intento perché conosce bene il meccanismo vittimario, sa quanto sia efficace il transfert su una vittima della violenza da espellere. Il mago è del tutto immerso nel mito, nel pensiero sacrificale. Molti, se non tutti i suoi rituali, evocano o realizzano spargimenti di sangue di qualche vittima, umana o animale. I sacerdoti delle religioni primitive erano anche maghi, essi potevano liberare dal male solo attraverso l’espulsione di una vittima, solo spargendo sangue secondo un rituale oppure, come nel caso di Apollonio di Tiana, istigando la folla a compiere un vero e proprio linciaggio. Il rito del capro espiatorio è sempre presente. Massimo Donà osserva che «il rituale poteva tradursi in un sacrificio umano autenticamente consumato, nel sacrificio di un animale, o in un sacrificio simbolico, come la cacciata dalla comunità» (p. 27). Per purificare la comunità da una minaccia (epidemia, attacco del nemico, ecc.) il mago sapeva procedere alla purificazione dalle forze immonde.
La ricostruzione di Donà è convincente, ma va aggiunta una postilla esplicativa: il mago è un vero e proprio mediatore dell’odio, secondo la terminologia della teoria mimetica, giacché egli deve dare forma e individualità concreta al male incombente da cui il mago stesso promette di liberare l’intera città. Il carattere imitativo e analogico della magia si spiega quindi in virtù dello stesso processo vittimario di espulsione della vittima e del rituale che vi si fonda. Infatti lo stesso transfert (il trasferimento della violenza sullo stesso individuo, il passaggio dal tutti contro tutti al tutti contro uno) è un atto magico, espressione della volontà che perisca uno solo piuttosto che l’intera comunità. La volontà ha in sé qualcosa di magico, l’idea che si tramuta in un fatto. Il transfert è un’operazione di semplificazione dell’ossessione rivalitaria condotta per contagio mimetico in seguito all’indicazione magistrale fornita dal mediatore dell’odio, il mago. Ora, se un certo individuo è il male stesso nella sua quintessenza, la sua distruzione assicurerà l’annientamento del male e la purificazione della comunità. L’azione magica è imitativa, analogica e simbolica proprio in ragione del rito sacrificale su cui essa si fonda. In qualità di mediatore dell’odio il mago insegna ai persecutori quale esercizio di sostituzione e di soppressione vittimaria essi debbano operare per realizzare un risultato tanto prodigioso quanto atteso: la salvezza della comunità. Possiamo convenire con Massimo Donà che la magia imitativa può anche fondarsi sul presupposto che la rappresentazione di una certa realtà porti senza ulteriori mediazioni al suo compimento. Ma questo potere magico non potrebbe esercitarsi, la stessa idea di una magia imitativa non sarebbe mai sorta, se non come evocazione di un rito sacrificale cruento, il quale a sua volta ha effetto solo in quanto ripetizione di un linciaggio originario. La potenza del mago è tutta nella sconcertante potenza del mimetismo e del transfert nei rapporti tra gli uomini. La rivalità mimetica può staccarsi da un individuo particolare e, mimeticamente, agganciarsi con accresciuta energia conflittuale e accanimento morboso a un unico individuo, divenuto magicamente il nemico mortale di tutti. Questa è la magia fondamentale, questo è il processo che il mago conosce perfettamente e sfrutta in tutte le manifestazioni della sua potenza e della sua forza. Far vivere e far morire: far vivere i persecutori facendo morire il nemico che essi considerano la causa del male che li affligge, ecco riassunta l’azione del mago in ogni epoca e latitudine. Il sapere magico è di tipo tecnologico, procede mediante connessioni non causali in senso scientifico, ma in grado di assicurare il successo delle sue formule. La ragione profonda di tale successo non è però nel sapere codificato del mago, bensì nel funzionamento pressoché automatico, indipendente, di meccanismi la cui potenza trascende l’orizzonte temporale e determina in ultima analisi la natura umana come non-natura e non determinata. Il mago sfrutta la conoscenza del carattere mimetico del comportamento degli esseri umani. Il mago agisce come se l’uomo fosse quel luogo del desiderio secondo l’altro che l’antropologia mimetica ha illustrato in varie forme e occasioni.
La magia possiede dunque un carattere sacrificale. Ogni mago guaritore esercita il suo potere secondo questa logica. Anche Gesù è stato considerato un mago da alcuni maestri del Talmud e le tentazioni da lui affrontate nel deserto sono interpretate da alcuni come tentativi di indurlo a diventare mago, come ricorda Donà (p. 76), ma questo dovrebbe valere a confermare la ritrosia di Gesù per il miracolo e il suo rifiuto di esporsi in dimostrazioni di potenza magica a richiesta. Gesù, infatti, con il suo insegnamento a non opporsi al male, ad amare i nemici e i persecutori, si pone immediatamente e originariamente come l’anti-mago per eccellenza, colui che viene sì a salvare la comunità dalla rovina che incombe, ma secondo una procedura antitetica rispetto a quella del mago. Gesù salva non attraverso l’individuazione di una vittima e la sua espulsione, come Apollonio di Tiana, ma rinunciando esplicitamente a ogni violenza, opponendosi a ogni persecuzione, liberandosi da ogni impulso di vendetta, anche a costo di diventare lui stesso vittima di una persecuzione che, infine, è smascherata in tutta la sua atroce assurdità, denudata nella sua stupidità di parodia indecente. La salvezza che Gesù assicura non è quella del mago, non è quella di una vittima uccisa, non è quella che obbedisce alla logica sacrificale, ma è quella dell’amore del Dio delle vittime per l’umanità. Non è la salvezza dell’umanità attraverso il sacrificio, ma la liberazione dell’umanità dal sacrificio. Quindi la ragione profonda della condanna della magia da parte dell’Ebraismo e della Chiesa consiste nell’orientamento antisacrificale della Bibbia ebraica e nella rivelazione antivittimaria dei vangeli. Il mago compie prodigi che presuppongono l’adesione alla logica sacrificale, che si fondano in ultima istanza sull’uccisione di una vittima. Il potere che tutti i maghi filosofi lungo i secoli cercano di conquistare con tutti i mezzi disponibili rivela la natura della loro aspirazione profonda. Il mediatore dell’odio ha bisogno di successi immediati, deve stupire, perché solo accrescendo o mantenendo il suo prestigio, per quanto fittizio, egli può sperare di avere dei seguaci nel momento in cui decide di farsi mediatore dell’odio per un’operazione sacrificale. Perciò i prodigi e tutte le cose strabilianti operate dai maghi hanno questa funzione ausiliaria di preparare il terreno, di assicurare il presupposto per la sola vera grande opera del mago: il linciaggio di una vittima o la sua ripetizione nel sacrificio. Il mago-sacerdote-filosofo deve apparire autorevole e intangibile, superiore ai comuni mortali, così che quando verrà il momento opportuno egli sappia ottenere l’obbedienza mimetica che vorticosamente trascina la folla all’entusiasmo, all’invasamento della crudeltà contro un innocente odiato all’unanimità grazie al suo «misterioso» potere di mago. Le capacità che il mago dimostra di possedere nei prodigi (che di per sé possono anche risultare giochi di prestigio) servono per deviare l’attenzione, si tratta di spostamenti dal luogo effettivo in cui davvero la sua azione si svolge con effetti concreti e devastanti, per quanto secondo una modalità all’apparenza «miracolosa». Il meccanismo vittimario, dunque, spiega quel legame tra filosofia e magia su cui Donà, doverosamente, attira l’attenzione. Ma Gesù, l’anti-mago, è venuto proprio per scardinare quel meccanismo, a smascherare l’odiosa menzogna di una potenza spuria e diabolica, che troppo a lungo ha mantenuto l’umanità nella schiavitù del peccato, nell’oscurità irrazionale del mito in cui ogni vittima è colpevole unicamente in virtù della persecuzione che la condanna.