Andrea Tagliapietra, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, Einaudi, Torino 2003, 506 pp., € 22,00.
Ai bambini si insegna a dire sempre la verità. Le bugie hanno le gambe corte. Pinocchio, si sa, non poteva mentire senza darlo a vedere. La menzogna è aborrita in qualsiasi contesto educativo, a qualsiasi latitudine. Ma se insegniamo ai bambini che devono dirci la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, li esortiamo però anche a trattenersi, a nascondere la verità o a tacerla, quando dirla apertamente e indiscriminatamente potrebbe risultare imprudente o pericoloso. Il valore della menzogna e della verità, per dirla in sintesi un po’ sbrigativa, è relativo nel senso più letterale. Diciamo la verità a vantaggio di qualcuno e mentiamo o siamo reticenti contro qualcuno. Se dicessimo sempre la verità avremmo troppi nemici da cui guardarci («veritas odium parit», recita un vecchio adagio latino) e finiremmo col distruggere le condizioni della convivenza. La coesione sociale richiede complicità e mutua comprensione, che andrebbero distrutte senza una sincerità selettiva e una certa benevola ipocrisia. Dicendo sempre la verità, creeremmo le condizioni in cui più nessuno comunica. Chi dice sempre la verità è un mentecatto o un idiota, che è poi irrimediabilmente emarginato.
Ma la sincerità assoluta non è impossibile solo perché, se fosse praticata sistematicamente, si assisterrebbe alla disgregazione della società civile e al conflitto endemico. La sincerità assoluta è impossibile anche per il fatto che nessuno conosce così perfettamente la verità da poterla dichiarare come definitiva e inconfutabile. Vediamo sempre solo la parte di un tutto, la superficie di una profondità; perciò pur con tutte le migliori intenzioni non potremmo dire tutta la verità. Il paradosso della verità che si deve dire è che varrebbe la pena dirla solo se fosse compiuta e attendibile. Per dire la verità (su noi stessi, sugli altri, sul mondo) bisogna conoscerla; ma se la verità fosse perfettamente conoscibile sarebbe universale, oggettiva e visibile a tutti. Se agli uomini non è concesso conoscere la verità, la loro sincerità, per quanto in buona fede, è sempre dubbia e imperfetta. Ogni verità rivelata da un uomo è sempre il risultato di un’interpretazione, di un’inferenza spesso inconscia, di un’invenzione inconsapevole. Il quoziente di autoinganno aumenta quando si rivela se stessi, talché si nega credito all’autovalutazione, con il buon argomento che nessuno può essere buon giudice di se stesso. Solo Dio conosce perfettamente la realtà passata, presente e futura; dunque solo Dio può essere veridico, verace e sincero. Dio è colui che non nasconde nulla perché a Lui nulla può essere nascosto. Dio è il Nascosto per il quale nulla è nascosto. La sapienza di Dio è la sua stessa presenza ovunque, con noi e in noi. Il salmo 139 è l’omaggio all’onniscienza divina: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, / tu sai quando seggo e quando mi alzo. / Penetri da lontano i miei pensieri, / mi scruti quando cammino e quando riposo. / Ti sono note tutte le mie vie; / la mia parola non è ancora sulla lingua / e tu, Signore, già la conosci tutta. / Alle spalle e di fronte mi circondi / e poni su di me la tua mano» (1-5). Lo sguardo di Dio penetra nel futuro e nel passato, nulla può sfuggirgli, non esiste alcuna possibilità di rivendicare il diritto alla privacy nei suoi confronti. La temuta invadenza dell’occhio elettronico, che oggi suscita allarmistiche e non ingiustificate controversie, è ben misera cosa rispetto al potere divino di scrutare la sua creatura da cima a fondo, nell’eternità e nel tempo. Se la libertà dai nostri simili dipende in qualche misura dal potere di nasconderci al loro sguardo, di mantenere celata una parte di noi stessi, la libertà da Dio è impossibile, dal momento che Dio è in noi. Ancora il salmo 139 ci dice: «Non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto, / intessuto nelle profondità della terra. / Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi / e tutto era scritto nel tuo libro; / i miei giorni erano fissati, / quando ancora non ne esisteva uno» (15-16). Senza un Dio al quale non si può nascondere nulla, la sincerità e la veridicità imperfette di cui l’uomo è capace non sarebbero possibili, perché mancherebbe la misura giusta, oggettiva e immutabile, rispetto al dire la verità e al mentire. La verità appare nel tempo, come disvelamento, perciò solo chi ha lo sguardo su tutto il tempo conosce la verità e può dirla. La condizione della conoscenza perfetta è quella divina, che l’uomo potrà conquistare solo alla fine dei tempi, quando vedrà direttamente ciò che ora intravede confusamente.
L’ultimo libro di Tagliapietra, dal titolo tagliente e preciso come solo un ossimoro può essere, percorre i luoghi decisivi della cultura occidentale (filosofia, letteratura, antropologia, psicoanalisi, arte figurativa, teatro) per mostrare che la nozione di verità e sincerità non sono sempre e necessariamente luminose e benefiche. Viene messo in discussione, insomma, il principio socratico per cui virtù, sapere e felicità sono tutt’uno. Tagliapietra invita a considerare che sapere e virtù non sono la stessa cosa, perché l’amore per la verità e la sincerità possono manifestare la peggiore, la più perfida delle crudeltà. La verità può essere così terribile che è meglio non dirla o fare in modo che nessuno la conosca. Quella virtù che coincide con il sapere e con il dire ciò che si sa, non rende affatto felici e può far correre al parresiaste, colui che dice la verità per amore della verità, il rischio di perdere la vita. Di qui la virtù necessaria della menzogna per la sopravvivenza. Dire la verità produce degli effetti, al pari di qualsiasi azione e come tale va giudicata. Ma la nozione di sincerità, opposta e simmetrica alla bugia cui l’autore ha dedicato il saggio precedente (A. Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2001), non è affatto semplice. Nella storia della cultura occidentale la sincerità è sempre intesa come una virtù in senso morale. La negazione kantiana di un preteso diritto di mentire per amore dell’umanità rappresenta il vertice paradossale di un’ossessione per la sincerità a tutti i costi, la quale deriva dall’applicazione incondizionata del criterio deontologico. Ma l’educazione e la politica mostrano che la sincerità non può ridursi a mero esercizio di virtù morale e che il bene può essere perseguito meglio con una sincerità selettiva, se non con la menzogna più spregiudicata. Al malato terminale diremo brutalmente tutta la verità, senza tenere conto della sua indole, della sua età e di altre circostanze specifiche? La sincerità, come la menzogna, è un modo d’essere dell’individuo, è una modalità di affermazione della propria singolarità e verità, è uno meccanismo di difesa dallo sguardo dell’inquisizione (non certo dallo sguardo di Dio), il solo sguardo che possa distruggere l’interiorità, riducendo il soggetto a oggetto. La sincerità assoluta non è possibile neppure tra gli animali (sappiamo che molte specie usano stratagemmi per sviare e ingannare il predatore e che esiste una capacità di mentire anche negli animali superiori): ingenua appare quindi la contrapposizione di Plutarco tra la sincerità immediata degli animali e la pratica spregiudicata della menzogna che osserviamo nell’uomo. Tagliapietra evoca Ecce homo, dove si dice che si è sinceri per la stessa ragione per cui si mente: «In realtà, se la menzogna può essere, in alcuni casi, l’atto esemplare di quella meravigliosa facoltà di opporsi che spinge il singolo a ribaltare la logica sacrificale del tutti contro uno, nella sfida eroica dell’uno contro tutti, la sincerità autentica non è da meno. Dire la verità, essere veraci, essere sinceri, sono comportamenti che espesso espongono ad una solitudine analoga a quella del bugiardo, il quale, anche quando sta in compagnia, sa che il suo vero se stesso è altrove, isolato e prigioniero della gabbia di bugie che lo circondano» (p. XI). Sincerità e menzogna, comprese tutte le modalità intermedie, sono strategie esistenziali con cui il soggetto cerca di fare esperienza di sé e del mondo mantenendo una certa duplicità, una zona d’indecisione e imperscrutabilità, assolutamente inviolabile e inaccessibile. La verità e la menzogna di cui siamo capaci non sono che strumenti al servizio della volontà di affermare se stessi contro i persecutori di turno, contro quelli che vogliono sapere, che fanno domande dirette, che vogliono affondare il coltello («Secondo Ernst Bloch la tensione dell’interrogatorio e il lavoro anatomico della ricerca delle prove indiziarie ereditano qualcosa dalla regina probationis, da quell’»inconcepibile crudeltà» che è l’»indagine dolorosa» della tortura» (pp. 7-8).
Un commento è d’obbligo: anche se la verità dell’innocenza della vittima e la falsità della posizione dei persecutori che la dichiarano colpevole non sono punti di vista intercambiabili, si deve riconoscere che sia la vittima che i suoi carnefici hanno a disposizione menzogna e sincerità, di cui possono e debbono fare uso pur di far trionfare la propria posizione. Infatti dire la verità può fare più vittime che mentire e viceversa mentire può contribuire alla salvezza delle vittime o aiutarle a sottrarsi al supplizio più della sincerità. Perciò menzogna e sincerità non sono, rispettivamente, un male e un bene assoluti. La sola verità che, in questo deserto di afflizione, s’impone come criterio indiscutibile è la verità dell’innocenza della vittima, di ogni vittima. Qui si tocca l’aspetto decisivo, quello per cui il valore di menzogna e sincerità non si misura in base a una mera corrispondenza tra pensiero, linguaggio e realtà. Conta non il criterio epistemologico di determinazione del vero e del falso, ma il criterio antropologico di individuazione della vittima e della verità della sua innocenza.
Ma il buon cristiano è colui che adotta sistematicamente il principio parresiastico della sincerità, la veridica semplicità del fanciullo, ad imitazione della semplicità divina del bene. Per imitare Dio e Gesù bisogna dire la verità a tutti i costi. «Le parole di Gesù, scrive Tagliapietra, lodano la semplicità e criticano ogni volontà di ostentazione e di doppiezza: la trasparenza è pieno adeguamento fra il cuore e la parola (Mt. 6, 22-23; Lc. 11, 34-35)» (p. 105). La decisione di dire la verità a tutti i costi, la pratica parresiastica della sincerità conduce il cristiano al martirio, alla testimonianza ineludibile della verità della fede. «Ora, scrive Tommaso d’Aquino nella citazione di Tagliapietra, la verità della fede non implica soltanto l’atto interno del credere (credulitas cordis), ma anche l’esterna professione di essa (protestatio). E questo non si fa solo con le parole, ma anche mediante i fatti con i quali uno mostra di aver fede» (p. 127). La sincerità e la trasparenza assolute rappresentano un ideale difficile da perseguire, quando non portano al sacrificio, di sé o di altri. La confessione mira a questo disvelamento tellurico e anatomico della propria anima; confessarsi significa apsirare a far coincidere ciò che si è con ciò che si appare. Le Confessioni di Rousseau sono la dichiarazione solenne della più assoluta volontà di sincerità. Per dare prova di questa sincerità Rousseau proclama apertamente le sue colpe, ma il suo dichiararsi colpevole non è privo di ostentazione vanagloriosa. Rousseau, dichiarandosi colpevole in anticipo, spiazza i propri giudici inquisitori e lettori, strappando loro un consenso incondizionato, come merita «la sincerità di chi si pone nella situazione di subire la propria verità» (Starobinski citato da Tagliapietra, p. 269). La prova inconfutabile della sincerità di cui è capace Rousseau, in sostanza, la cerca (e la trova) nell’esibizione dell’autosacrificio. E chi si dichiara pronto al martirio, come chi lo subisce realmente, disarma anche il giudice più ostinato e intransigente. Rousseau è sincero (o almeno dichiara di esserlo), ma è autentico?
Uno degli aspetti più interessanti del volume di Tagliapietre, in cui levità e profondità si alleano in un abile intreccio, è il percorso di questa articolata distinzione tra sincerità e autenticità. All’opposto di Rousseau, Nietzsche preferisce l’autenticità, anche a costo dell’insincerità. Nel contesto di una puntuale esegesi del pensiero di Nietzsche, Tagliapietra scrive: «Al di là dei criteri del bene e del male espressi nelle norme culturali e sociali, chi mente consapevolmente per affermare la sua volontà, anche se non è sincero verso gli altri, è sincero verso se stesso ed è, quindi, autentico. «La sincerità verso se stessi - recita un frammento del 1880 - è più antica della sincerità verso gli altri. L’animale si accorge di venire spesso ingannato, e altrettanto spesso deve dissimulare» (1880, 6 [236] […] Dello stesso tenore è un altro frammento del 1880, in cui Nietzsche distingue la sincerità verso gli altri, che è sacrificio, dalla sincerità verso se stessi, che è autoconservazione: «dobbiamo essere veri solo verso noi stessi: esserlo verso gli altri significa sacrificarsi, e solo se esiste in noi un’inclinazione naturale in tal senso anche la verità verso gli altri è un bisogno naturale, che vuole essere soddisfatto. La verità verso noi stessi è una questione di autoconservazione» (1880, 4 [104])» (p. 383).
Nietzsche dunque, difendendo una concezione della verità che si iscrive all’interno della logica vittimaria, elabora una strategia di attacco al cristianesimo attraverso la restaurazione della menzogna mitica della colpevolezza della vittima e della necessità della sua espulsione. Il commento di Tagliapietra ha il merito di richiamare il senso della filosofia nietzscheana, che René Girard e Giuseppe Fornari hanno magistralmente chiarito nel volume Il caso Nietzsche. La ribellione fallita dell’Anticristo, Marietti 1820, Genova-Milano 2002. Vediamo infatti che, per Nietzsche, non abbiamo l’obbligo di essere sinceri verso gli altri (per non diventare loro vittime), mentre abbiamo il dovere di essere sinceri verso noi stessi, anche se questo ci trasforma in persecutori come logica conseguenza dell’autoconservazione. Dioniso contro il Crocifisso, lo sparagmòs contro la Passione. La distinzione tra sincerità e autenticità è in fondo la giustificazione della dicotomia tra persecutori e vittime. I persecutori del mito erano persuasi che ci fosse una sola verità: la colpevolezza della vittima. Solo la fede incondizionata nella realtà del male assoluto rappresentato dalla vittima e nella necessità di espellerla permetteva al meccanismo sacrificale di funzionare regolarmente, realizzando la pace e l’ordine distrutti in seguito al dispiegarsi mimetico della rivalità e della violenza. I persecutori moderni, invece, che non credono veramente nella colpevolezza della vittima, per rimanere persecutori, debbono servirsi della distinzione tra autenticità e sincerità. Essi chiamano «autenticità» la disponibilità a diventare persecutori, nel caso in cui ciò fosse indispensabile per non perire come vittime. Il Dio delle vittime, all’opposto, venuto tra gli uomini, non poteva che diventare vittima dei suoi persecutori; a differenza del moderno persecutore, il Dio delle vittime preferiva il sacrificio di sé (sacrificio nel senso della vera madre del giudizio di Salomone, non nell’accezione mitico-vittimaria del termine). Adesso comprendiamo perfettamente perché nei vangeli sono insegnate la trasparenza e la semplicità e non troviamo alcun invito a essere se stessi, alcuna elaborazione del concetto di Eigentlichkeit o di Jemeinigkeit. Nei vangeli si dice che, se esiste la verità, non può essere doppia, una per le vittime e una per i persecutori. Se esiste la verità, bisogna difenderla al prezzo della propria vita.