Panikkar: un senso antico e nuovo della filosofia

In quel che segue non mi soffermerò su aspetti specifici della filosofia di Raimon Panikkar: cercherò invece di proporne un’interpretazione generale, secondo un punto di vista un po’ inusuale ma senz’altro in profonda sintonia con Panikkar stesso.

Dati certi complessi problemi culturali, ho personalmente dovuto diventare buddhista per potermi collegare a radici spirituali che erano pur vive nel substrato cristiano, e per capire infine che la filosofia stessa, nel suo essere originario, è a sua volta via spirituale con caratteristiche in qualche modo simili al Dharma: cioè la si può pensare come percorso di consapevolezza finalizzato a quell’apertura della mente per cui si parla di Illuminazione o di Risveglio.

Quel che posso dire al riguardo, privilegiando l’opera che mi prendo la responsabilità di intendere come il punto d’approdo del cammino di Panikkar, cioè Il silenzio del Buddha,1 lo sintetizzerò in quattro tesi; o, imitando il linguaggio panikkariano, quattro sutra. Nei quali, più ancora che esporre il suo pensiero, ne esplorerò i presupposti e le implicazioni.

1. Primo sutra. Panikkar appartiene a pieno titolo alla storia della filosofia

La questione non è certo quella decisiva, ma bisogna pur muovere da essa pensando alle difficoltà che la recezione che il pensiero di Panikkar ha finora incontrato negli ambiti della cultura ufficiale. Una difficoltà facilmente comprensibile, che io stesso ho vissuto a lungo: abituati a un certo tipo di linguaggio e a un certo quadro della storia del pensiero, si è disorientati da un autore tanto eccentrico da riuscire di difficile collocazione.

Egli stesso non fu inconsapevole di ciò, e si potrebbe addirittura cogliere un’incertezza intorno al fatto che la parola «filosofia» fosse davvero la più appropriata per classificare la sua avventura.2 Incertezza non certo fuori luogo, non foss’altro perché si rapportava a un contesto molto più ampio rispetto a ciò che in Occidente si intende con filosofia. Altrettanto legittimamente ci si potrebbe infatti chiedere: come individuare, in rapporto alla complessità delle diverse scuole di pensiero hindu e buddhiste, la collocazione che più precisamente gli andrebbe assegnata?

Rimanendo al contesto occidentale, ritengo possa comunque dirsi che il pensiero di Panikkar è in rapporto con alcuni tra i momenti più importanti della filosofia del Novecento. Citerò solo tre nomi: Jaspers, Heidegger e Pareyson.

Circa Jaspers, mi riferisco soprattutto alla nozione di epoca assiale, cioè a quella di un punto di svolta nella vicenda umana che vide fiorire contemporaneamente i primi filosofi in Grecia, i grandi profeti presso il popolo ebraico, Zarathustra in Persia, Buddha in India, Confucio in Cina.3 E anche al primo grande tentativo di costituire una storia interculturale del pensiero. Nella monumentale opera rimasta incompiuta, I grandi filosofi,4 le «personalità decisive», quelle che sono alla radice della grandi culture mondiali, sono, oltre a Socrate, Buddha, Confucio e Gesù.

È abbastanza evidente che ciò implica un mutamento profondo nel modo abituale di concepire le cose. Suggerisce una diversa storia della filosofia, in cui tra l’altro viene meno una netta linea di demarcazione tra filosofia e religione. Si tratta di un progetto che Jaspers non fece in tempo a sviluppare, ma ci sono ragioni per pensare pensare che Panikkar ne Il silenzio del Buddha lo riprenda,5 tratteggiando un grande affresco dell’intera vicenda umana. Ma di questo parleremo nel quarto e ultimo sutra.

Circa Heidegger, mi sembra evidente che Panikkar abbia ereditato da lui lo sforzo di cogliere globalmente il senso dell’Occidente dal punto di vista di un suo oltrepassamento. Un senso che è originariamente espresso da un rapporto con l’Essere di tipo appropriativo, che lo riduce a ente — ovvero oggetto manipolabile. L’antica metafisica contiene già il seme della moderna tecnica. Non resta che disporsi nell’attesa di un nuovo disvelamento dell’Essere.

La differenza è anzitutto che, quel che in Heidegger è una potente suggestione, in Panikkar diventa un cammino effettivo. Si può ben dire che sia davvero uscito dall’Occidente, riservando al tempo stesso alla civiltà occidentale moderna uno sguardo che non si limita a ricondurla all’oblio dell’Essere. A differenza di Heidegger ha saputo infatti accogliere quelle istanze emancipative in cui il nostro tempo ama identificarsi. La svolta che lo caratterizza non solo è il compimento di un ineluttabile declino nell’attesa di un nuovo inizio, bensì già in sé contiene quell’inizio, anche se il suo senso deve ancora esser colto.6 Ma di questo vedremo meglio in seguito. Si può comunque pensare che il confronto con Heidegger costituisca, sia pur nascostamente, un filo che consente di rileggere l’intera opera di Panikkar e di coglierne più profondamente il senso.

Dal punto di vista dei concetti, si può dire che la riduzione dell’Essere a ente viene riformulata nel principio, considerato dominante nel pensiero occidentale fin da Parmenide, dell’identità di Essere e pensiero.7 Ebbene, ciò che caratterizza il nostro tempo, per cui l’opera di Panikkar potrebbe anche venire intesa come la grande risposta spirituale a Nietzsche, al di là dello stesso Heidegger, è che quell’identità va sciolta: ed è a questo punto che l’incontro con l’Oriente diventa epocale. Di tale scioglimento la più efficace metafora è infatti il silenzio del Buddha di fronte alle questioni relative al senso ultimo della realtà e del destino umano. Egli tace non perché la risposta sia irrilevante, ma perché non può e non deve essere formulata in termini concettuali. La trascendenza è tale proprio in quanto irriducibile al pensiero appropriativo.8

Per riferirsi all’Essere, Panikkar usa la metafora del ritmo, per intendere una realtà in cui siamo chiamati a inserirci e a sintonizzare la nostra vita.9

Cito per terzo Pareyson, per merito del quale Torino può essere considerata una delle capitali della filosofia mondiale. Dopo di lui possiamo aver ben chiaro che ciò che è al centro della filosofia, ovvero il rapporto con la Verità, può dar luogo a tre fondamentali vie.10

La prima è che essa esiste ed è conoscibile e comunicabile in modo univoco. La seconda è che non esiste alcuna verità, ma solo interpretazioni. La terza, la giusta «via di mezzo», è che esiste, ma si rende accessibile nella pluralità delle interpretazioni: ovvero queste ultime la manifestano, senza però mai esaurirla.

È del tutto evidente che la prima posizione corrisponde ad un atteggiamento dogmatico, in quanto tale non più accettabile alla coscienza contemporanea; per quanto a ben vedere sia l’atteggiamento per lo più alla base di ciò che chiamiamo scienza e prima ancora della tradizione platonico-aristotelica.

La seconda posizione, già presente nell’antica Sofistica e poi trionfante nel percorso che conduce da Nietzsche al Postmoderno, è invece relativista e in fondo nichilista. Se esistono solo interpretazioni, viene meno qualsiasi realtà condivisa, e nell’indifferenza si annulla il senso di ogni cosa.

Solo la terza posizione è forse davvero degna della filosofia, che dunque svolge un compito fondamentale per gli uomini, mantenendoli consapevoli della differenza tra il piano di ciò che pensano e dicono e quello di una realtà comunque sempre trascendente. E non solo si tratta di quella adottata da Panikkar — innanzitutto nell’ambito, per noi davvero decisivo, del pluralismo culturale e religioso; ma è lecito pensare che dischiuda oggi il nuovo orizzonte culturale. La filosofia del nostro tempo non può che essere pluralistica, per quanto il senso del pluralismo sia ancora tutto da comprendere.

Nella sua estrema sobrietà di riferimenti alla filosofia occidentale (fatta eccezione per l’appunto per Heidegger e Jaspers), Panikkar ne Il silenzio del Buddha traccia un quadro in cui, sullo sfondo dello svolgersi delle varie civiltà a partire dall’epoca assiale, il tema heideggeriano dell’oblio dell’Essere nella sua riduzione a ente — cioè l’affermarsi di una conoscenza appropriativa della realtà che ne vanifica il senso — è inteso non solo come destino dell’Occidente, ma come possibilità che anche l’India ha conosciuto, avendo però scelto — grazie proprio a Buddha — di non farla propria.

Insomma, l’incontro con l’Oriente è lo scioglimento di un nodo che caratterizza l’Occidente in quanto tale. L’oscillare di quest’ultimo tra dogmatismo e nichilismo è infatti il segno di un’inquietudine che non può placarsi se non accettando quella «via di mezzo» che salvaguarda la differenza tra pensiero ed Essere. E che consente di accogliere il pluralismo delle culture umane senza cadere nel relativismo.

2. Secondo sutra. Panikkar ci aiuta a riscoprire cosa la filosofia sia davvero

Se ci domandassimo quale novità nella storia del pensiero rappresenti Panikkar, non esiterei a dire che con lui finisce la filosofia occidentale e inizia quella dell’umanità intera.

Lo collegherei insomma a una svolta di capitale importanza, una sorta di secondo inizio, paragonabile a quanto siamo avvezzi a collocare nella Grecia antica.

Una svolta che è nei fatti inevitabile conseguenza della globalizzazione, giacché il rapporto sempre più ravvicinato tra culture un tempo ben lontane richiede canali comunicativi tra linguaggi talora anche molto diversi; ma a ciò, che già è in genere l’orizzonte di quel che va affermandosi in ambito accademico come «filosofia interculturale», la visione di Panikkar introduce una ben precisa prospettiva politico-spirituale. L’umanità e la vita stessa sono sottoposte al rischio della distruzione; le tradizioni culturali e soprattutto religiose è indispensabile che cooperino alla salvezza, accettando in qualche modo di relativizzare se stesse, anzi meglio riconoscendo la loro originaria interdipendenza.11 Ed è nella luce di questa prospettiva che una filosofia interculturale non può esimersi dall’affrontare seriamente questioni per lo più lasciate sullo sfondo, relative al valore di verità dei diversi linguaggi. Si escludono reciprocamente? Si annullano l’un l’altro? Oppure possono coesistere ed è lecito pensare a un reciproco arricchimento?

A maggior ragione il confronto con la filosofia di Panikkar non può non presupporre la domanda intorno a cosa la filosofia sia. E poiché, osservando le cose dall’esterno, lungo l’arco del pensiero occidentale la risposta non è univoca — da ricerca della verità a coscienza del proprio tempo -, la domanda muove nella direzione di un senso originario tutt’altro che evidente. È verosimile infatti che l’inaridimento che la filosofia occidentale ora conosce sia anche l’esito di un progressivo smarrimento di quel senso. Che è ciò a cui invece Panikkar ci richiama attraverso il titolo di una delle opere sue più interessanti: L’esperienza filosofica dell’India.12

Il suggerimento è chiaramente di pensare che la filosofia, non solo in India ma anche da noi nel suo senso originario, sia esperienza. Quel che del resto ciascuno può riconoscere in sé, non appena rammenti le ragioni profonde per cui se ne è sentito attratto.

Può sembrare che l’atteggiamento occidentale, tutto volto a costruire complessi sistemi concettuali che definiscono la realtà, si sia piuttosto allontanato da ciò, mentre non l’Oriente, che pare invece fare della dissoluzione di ogni certezza e ogni concetto la via d’accesso a un più profondo stato di coscienza. E tuttavia, se prestiamo fede alla convinzione che in Platone siano le basi di tutta la nostra filosofia, è innegabile che egli abbia fornito la più potente metafora della filosofia stessa col mito della caverna; e cosa c’invita a fare quel racconto, se non abbandonare quel che riteniamo certo? Non è evidente che, lungo quel cammino, non solo si apprende altro da ciò che in precedenza si sapeva, ma si diventa noi stessi altro? E quel che si trova e ci si trova ad essere, può esser detto con lo stesso linguaggio che si usava prima?

Se qualcuno avesse ancora dubbi, è Platone stesso a dissolverli attraverso quel famoso passaggio della Lettera Settima, nel quale diceva di ciò che propriamente deve intendersi con filosofia:

Su questo non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo tempo trascorso a discutere e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima.13

Non sembra di sentir parlare della ricerca dell’Illuminazione?

La filosofia è dunque, originariamente anche in Occidente, esperienza: in cui ci si mette in gioco e ci si trasforma. Solo su questa base si può pensare di poterla condividere. Nella tradizione antica, dai pitagorici agli stoici, la filosofia è del resto indubbiamente disciplina di vita, che richiede anzitutto di essere vissuta.

Se ne può ricavare, alla luce di una consapevolezza che Panikkar chiaramente comunica, che la filosofia è via spirituale, non del tutto distinguibile dalla religione e solo in alcuni casi alternativa ad essa.

Una via spirituale, non certo l’unica possibile; e in effetti nella tradizione hindu si distinguono tre vie fondamentali: quella per l’appunto della conoscenza (jñana marga), quella dell’azione (karma marga) e quella della devozione (bhakti marga). Madre Teresa di Calcutta non aveva probabilmente bisogno di filosofia; ma Raimon Panikkar, che per una singolare coincidenza morì nel giorno che era il centesimo anniversario della sua nascita, sicuramente sì: e altrettanto i suoi lettori.

Si potrebbe addirittura riproporre la definizione scolastica della filosofia come ancilla fidei, cioè «servitrice della fede»; a cui si potrebbe accostare quella di ancilla pacis, «servitrice della pace» — pensando che «pace» sia oggi il nome più convincente di Dio. La fede del resto in Panikkar non coincide con la credenza. È apertura originaria alla comprensione del senso della vita, che poi trova nei vari sistemi di credenze il linguaggio per esprimersi.14

In questa luce l’idea che la filosofia sia al servizio della pace non è certo riduttiva. Da Il silenzio del Buddha emerge chiaramente una ricerca che in fondo ha come meta una mente pacificata. Dalla quale poi si riverbera una conciliazione che tutto abbraccia: uomini, culture, natura.

Qualora si dovesse, a puro titolo indicativo, dire da cosa la filosofia di Panikkar sia soprattutto caratterizzata, di sicuro due elementi andrebbero sottolineati.

Il primo è quello dell’irriducibile pluralismo dei linguaggi e delle prospettive interpretative.

Le verità fondamentali della vita, per quanto sia lecito pensare che siano le stesse in ogni epoca e società, non possono esser dette né concepite se non attingendo alle parole delle diverse tradizioni e culture, mai interamente traducibili le une nelle altre: per cui sono le stesse e al tempo stesso non lo sono. Così come in genere le parole sono distinte da ciò che significano, pur essendone inseparabili.

Questa consapevolezza, se radicalmente assunta, ha il potere di liberare dalla fissità di convinzioni che allontanano dalla corrente della vita. L’attenersi a ciò potrebbe costituire almeno il germe di una forma nuova di pratica spirituale. Il Dharma dei giorni nostri non può che essere pluralistico. Qualsiasi pretesa di sua definizione univoca è in contraddizione con un cammino di liberazione autentico.

Il secondo elemento, strettamente connesso al primo, è dato da una visione altrettanto radicalmente olistica.

Si tratta di una visione che Panikkar condivide con tutto un orientamento culturale ecosistemico o della complessità, nel quale non mancano richiami spirituali anche molto espliciti — per lo più in direzione dell’Oriente -, senza però generalmente nulla che autorizzi a pensare a una via spirituale in senso proprio — una via che esprima, nel linguaggio adatto alla coscienza culturale odierna, ciò che le tradizioni hanno in vario modo trasmesso.

Si può invece senz’altro dire che Raimon Panikkar si sia mosso consapevolmente in quella direzione. Lo mostra chiaramente la scelta di compiere gesti simbolici di grande portata, come il pellegrinaggio insieme ad Henry Le Saux alle sorgenti del Gange15 e quello in tarda età intorno al monte Kailasa;16 o in genere la scelta di fare della sua stessa persona un simbolo, a cominciare dalla dichiarata appartenenza a più di una religione e insieme alla moderna cultura laica. Lo mostra però anche proprio una lettura della sua opera che si sforzi di collegare aspetti apparentemente diversi, provando a cogliere quel che è volutamente lasciato in forma allusiva.

Mi riferisco innanzitutto a un aspetto continuamente dichiarato da Panikkar, cioè la sua adesione alla visione advaita, ovvero la non dualità tipica della speculazione mistica hindu, in India spesso accusata di attingere nascostamente a fonti buddhiste — dal che il rivolgersi di Panikkar infine al Buddha potrebbe intendersi come riconoscimento dell’effettiva genesi di quel pensiero. La non dualità, così come anche il silenzio del Buddha, esprime infatti il nucleo spirituale implicito in una visione olistica, trattandosi di una comprensione del reale che oltrepassa le categorie oppositive del pensiero razionale.

In secondo luogo Panikkar ha voluto indicare, più di quanto non sia stato osservato, un percorso di liberazione o di salvezza.

Sul piano della consapevolezza storico-sociale, l’orizzonte è quello dei gravi pericoli che minacciano l’umanità e la vita sulla terra. C’è un senso della salvezza che ai giorni nostri chiunque può comprendere, perché legato alla percezione di una precarietà del nostro essere oggi più che mai intensa.17 Ebbene, si può dire che alla consapevolezza di quell’orizzonte, fatta emergere soprattutto dai movimenti pacifisti ed ecologisti, Panikkar si sia adoperato, più e meglio di chiunque altro, a fornire un fondamento spirituale. Si tratta di trovare una nuova innocenza.18 Ciò che va ricostituito è la percezione di un’integrità profonda del reale, che si è persa la capacità di cogliere anche a seguito di modi alienati di intendere la spiritualità. Il Nirvana non è al di là del Samsara, il Regno di Dio non è estraneo al mondo, per quanto quest’ultimo possa rifiutarlo. Tant’è vero che il modello di vita spirituale di cui Panikkar si fa portatore è basato, più che sul distacco e la rinuncia, sull’integrazione, di cui l’amore è la cifra più appropriata.19

Infine è forse il caso di pensare che lo stesso aspetto più noto del pensiero di Panikkar, cioè il modello cosmoteandrico,20 abbia la funzione di illuminare, attraverso la reinterpretazione nientemeno che del dogma trinitario, questa via spirituale nuova, per quanto profonde siano le radici nel passato. La chiave è nella comprensione che non solo Dio è inseparabile dall’Uomo, e viceversa, ma entrambi lo sono dal Mondo.

Se ci fossero solo Dio e l’Uomo, resteremmo imprigionati nell’infinito gioco di rimandi e rispecchiamenti tra soggetto e oggetto, nonché oggi in un conflitto forse senza soluzione. Invece la dimensione cosmica ce ne libera. Prima di ogni coscienza e linguaggio, prima di ogni dualismo, c’è una realtà i cui ordinamenti, per quanto attingibili attraverso mediazioni culturali, le precedono e ne sono condizione.

Il Mondo non è soltanto subordinato a Dio e campo di insidie in cui l’Uomo è collocato. Averlo visto in questo modo è frutto della perdita dell’innocenza. La ricerca di una nuova innocenza implica il ritrovamento della dimensione cosmica, che è anche riconciliazione con la corporeità. Ciò ha implicazioni spirituali profonde, oltre che fornire il sostegno più saldo all’impegno per la salvaguardia dell’ambiente.

3. Terzo sutra. Dopo Panikkar dobbiamo davvero uscire dalla storia della filosofia che ci è consueta

Panikkar non sembra essersi posto il problema della storia della filosofia se non in modo implicito, attraverso il confronto sotterraneo con Heidegger e ancor più il riferimento all’epoca assiale di Jaspers. È chiaro che però ha contribuito a porre le premesse di una storia del pensiero diversa da quella che ci è abituale.

La filosofia interculturale ha finora generalmente evitato di confrontarsi con questo compito, ma riconoscere analogie può non essere sufficiente se non le si colloca entro un quadro che, almeno per la coscienza occidentale moderna, non può che essere storico. La consapevolezza che la storia politica, sociale e culturale in genere, prima ancora che filosofica, è stata finora concepita riduttivamente come storia dell’Occidente, con le altre civiltà che costituiscono lo sfondo su cui gli eventi davvero decisivi si configurano, è ovviamente la premessa di questo compito. Solo quando una diversa storia prenderà forma, che consenta alle diverse culture di collocarsi in modo non subordinato, la loro dignità sarà davvero riconosciuta.

Questa è la ragione più evidente per cui gli apporti di Panikkar alla formulazione di una storia del pensiero diversa da quella che ci è abituale vanno considerati con particolare attenzione; con tutto ciò che sul piano più profondo ciò implica.

Bisogna anzitutto ricordare che la storia della filosofia, come comunemente la studiamo e la insegniamo, esiste da duecento anni: cioè ha preso forma all’interno della filosofia di Hegel.

Si era nell’epoca in cui il mondo occidentale moderno voleva pensare se stesso come punto d’arrivo di ogni vicenda umana, e dunque riordinò il passato e le altre culture in funzione di ciò: il loro studio andava inteso come una ricapitolazione dei percorsi che hanno condotto all’oggi. In secondo luogo ci si voleva sciogliere dal vincolo delle istituzioni religiose, che ostacolavano lo slancio verso la spregiudicatezza dell’agire che i tempi sembravano richiedere. Infine tutto il processo della civilizzazione veniva sempre più esplicitamente inteso come progressiva estensione del dominio umano sulla natura. Tra Hegel e Marx troviamo il compiersi di una parabola il cui senso è oggi molto chiaro. Il predominio dello Spirito fa da velo a quello del potere politico, dell’economia e della tecnica.

La filosofia diventa insomma ideologia, cioè pensiero inconsapevolmente finalizzato a giustificare un certo ordine sociale e culturale. E tutti i nostri manuali, che inevitabilmente discendono da Hegel, sono viziati da questo intento.

Quand’anche si mancasse ancora dei criteri per ordinare il pensiero umano in altro modo, è lecito dunque ritenere che il grande problema della filosofia odierna sia uscire da tutto ciò. E l’opera di Panikkar vi reca un contributo tanto più prezioso.

Beninteso, c’è una possibilità estrema: che una storia della filosofia non possa più, né tanto meno debba, esistere.

Se la filosofia è esperienza, e addirittura percorso spirituale, ciascuno deve sempre compierlo da capo. Parafrasando Kierkegaard: siamo sempre contemporanei di Socrate. Ovvero: dalla caverna non si esce in comitiva, né tantomeno c’è un momento della storia, con buona pace dell’Illuminismo, in cui l’umanità possa pensare di esserne uscita in blocco.

Appare però evidente che ci si muove sempre entro contesti socio-culturali, da cui il cammino personale viene variamente condizionato. Si può anche pensare che la meta sia identica, ma in ogni caso ben diverse sono le forme in cui la si rappresenta. Può dunque sorgere il problema di quali rapporti sussistano tra i diversi contesti: quali confini li delimitino e quali analogie sia lecito stabilire. E non appena le differenze e le analogie vengano ordinate in un quadro coerente, ecco riaffiorare la dimensione storica.

Il fatto che il modello storico finora accreditato non sia più utilizzabile non autorizza insomma a concludere che nessuna visione storica sia in quanto tale più riproponibile. Può anzi darsi che, mettendo in discussione convinzioni culturali profondamente radicate, non foss’altro per l’impedimento che esse arrecano al cammino personale, si pongano le premesse per un modello radicalmente diverso.

Provo ad accennare semplicemente alcuni spunti, che la riflessione su Panikkar induce a cogliere.

Una prima convinzione, che ai livelli alti della cultura oggi vive un profondo discredito, ma viene rilanciata a livello di massa, è l’evoluzionismo. Sotto questo aspetto l’insegnamento di Panikkar è inequivocabile: bisogna smettere di pensare all’uomo come essere puramente storico. L’incontro con l’India è al riguardo decisivo. Tanto più che, da Schopenhauer in poi, nello specchio dell’Oriente l’Occidente cerca in sé qualcosa di diverso da quel che ha sempre visto; e non può non trovare l’intuizione di un nucleo profondo che è al di là del divenire storico.

Paradossalmente una diversa visione storica della filosofia e della cultura in genere deve muovere dal presupposto che l’uomo non sia riducibile alla sua storicità. Anche se questo non necessariamente significa che un nucleo metastorico sia davvero identificabile: e sotto questo aspetto l’approdo «buddhista» di Panikkar potrebbe scoraggiare ogni scorciatoia «spiritualista».

Una seconda questione è la visione, ancora largamente condivisa, che vede la filosofia in Grecia sorgere quando il mythos lascia il campo al logos. Questa è la radice di ogni evoluzionismo. La storia della filosofia diventa infatti fin dalle origini storia dell’Illuminismo,21 e la filosofia stessa non trova ragion d’essere se non come fase di passaggio tra religione e scienza. Dove la suprema sintesi finisce per trovarsi neppure in Hegel, ma in una delle peggiori filosofie mai apparse, cioè in Comte — una filosofia di cui peraltro il senso comune odierno è intimamente impregnato.

Tutto ciò in Panikkar è superato dall’affermazione che il logos non sostituisce affatto il mythos, ma anzi sempre lo presuppone come suo orizzonte, ancorché inconsapevole.22 Per capirci, oggi il mito a cui l’umanità più intimamente si sente legata è proprio il mito della pace.23 Si potrebbe aggiungere che il mito da cui si deve liberare è quello della storia e del progresso.

Se volessimo trarre conclusioni che Panikkar non formula direttamente, ma sono la logica conseguenza del suo pensiero, un terzo spunto verrebbe fornito da un noto titolo di Heidegger, o meglio dalla suggestione sprigionata dalla sua versione italiana. Si potrebbe dire che la filosofia in Occidente è un sentiero interrotto.

Mentre in Oriente il logos, senza minimamente pensare di sostituirsi al mythos, ha stabilito con esso un intreccio indissolubile, generando un rinnovamento della tradizione attraverso un’esperienza in apparente contrasto con essa — così va inteso il Dharma -, in Occidente ciò non è avvenuto. Una civiltà nella quale già in epoca antica i processi di sradicamento erano andati ben oltre quanto avvenuto in qualsiasi altro luogo ha certamente attribuito alla filosofia un altissimo prestigio morale, impedendole però forse di penetrare nella carne e nel sangue della vita e diventare quindi vera e propria tradizione.

Se vediamo le cose sotto questo aspetto, la grande impresa di Platone, per quel che si può intuire del suo intento — o almeno quel che più direttamente si collegava a Socrate -, è da considerare fallita. La filosofia è rimasta come forma della coscienza delle classi dominanti, con l’ambizione più o meno esplicita di riorganizzare l’intera vita sociale come finora avevano fatto le religioni, ma sul piano spirituale non ha potuto che attendere di essere inglobata dalla grande rivoluzione religiosa generatasi in Medio Oriente, pur non amalgamandosi del tutto con essa e riemergendo in epoca moderna come substrato delle ideologie antireligiose da cui la Modernità è plasmata.

Oggi però siamo a una nuova svolta. Quelle ideologie, dopo aver contribuito a generare una civiltà ineguagliata per potenza materiale, hanno perso ogni forza creativa, e quella civiltà, ormai estesasi su scala planetaria, si mostra pericolosamente senza guida. È alle grandi tradizioni religiose dunque che si guarda, o meglio a quello che ne resta dopo l’erosione di cui sono state fatte oggetto. Da radici comunque vive, che affondano profondamente nella terra che custodisce il segreto dell’uomo di sempre, si attende la salvezza dai pericoli immensi che ci minacciano.

Al tempo stesso però Panikkar non vede nella modernità secolarizzata solo un allontanamento e una perdita di contatto con l’origine, bensì anche una realtà nuova di cui non si è ancora compreso il senso spirituale.24 Per questo parla di sacra secolarità.

La sua linea è insomma diversa da quella di un tradizionalismo alla Guénon. Non è alla ricerca di una tradizione primordiale, né di una philosophia perennis. La sua profonda immersione all’interno di più di una tradizione spirituale non è finalizzata all’esposizione di un modello atemporale da contrapporre al presente decaduto, bensì ad estrarre un nucleo vivo di esperienza che si trova in ogni tempo, anche nel nostro. Anzi, proprio il fatto che il nostro tempo non riconosca più la sfera del sacro nella sua separatezza, non necessariamente dimostra la sua condizione decaduta; potrebbe al contrario attestare l’esigenza di una più profonda integrazione.

Il pensiero di Panikkar è mistico. Mentre Guénon guarda come dall’esterno la vicenda umana, fornendo un modello razionale analogo, sia pur di segno opposto, a quello hegeliano e positivista, Panikkar la illumina dall’interno. Uno stile di vita spirituale che interpreti davvero il nostro tempo deve prendere atto che il mondo a cui si è chiamati a rinunciare non è più tanto quello della corporeità e della materia, bensì quello dei sistemi di potere che minacciano la vita sulla terra.25 Anzi, la dimensione cosmica — cioè la natura che per l’appunto è minacciata — è proprio ciò che deve essere ritrovato.

La filosofia di Panikkar può dirsi dunque antica, perché si ricollega a tratti della filosofia greca in quel nucleo che possiamo pensare originario, e addirittura affonda le radici in un terreno ancora più ancestrale, connettendosi agli strati più profondi della religiosità umana. Al tempo stesso è genuinamente nuova, in quanto tutto ciò converge a reinterpretare il nostro tempo, mostrandone il senso spirituale.

4. Quarto sutra. Panikkar ci invita a cooperare alla costruzione di una nuova storia

Il sutra è volutamente ambiguo, cosa che a Panikkar non sarebbe dispiaciuta. Nella lingua italiana, a differenza ad esempio di quella tedesca, la stessa parola — «storia» — indica sia gli eventi nel loro accadere, sia la loro ricostruzione e narrazione. Il che però contiene una possibilità feconda. Gli eventi non sono indipendenti dalla narrazione che se ne fa, e a sua volta la narrazione indirizza gli eventi.

Una diversa storia del pensiero, oltre che reinterpretare in altro modo la vicenda culturale umana, può dunque costituire la base di una nuova epoca. La sua urgenza è data dalla necessità, che Panikkar sottolinea spesso, di far fronte ai pericoli che incombono.

Panikkar ritiene che si debba fare i conti con seimila anni di storia umana.26 Un arco di tempo così ampio ci conduce al di là dell’inizio della filosofia greca e anche della messa in moto del Dharma — al di là insomma dell’epoca assiale. Seimila anni fa ebbero inizio i sistemi statali arcaici. Si può pensare che le tradizioni religiose a cui tuttora ci riferiamo, che nell’epoca assiale conobbero una riforma, nei loro strati più antichi risalgano a quel periodo.

Fra tutti gli elementi con cui Panikkar si è confrontato, non c’è forse quello della storia sociale. Non troviamo quindi nella sua opera qualcosa di cui pur tuttavia avremmo bisogno: cioè criteri che ci consentano di mettere in relazione i cambiamenti culturali con le trasformazioni del sistema economico, dei rapporti tra i gruppi sociali, della struttura del potere. Quel che invece Panikkar propone è un dinamismo, che assume caratteri anche storici, tutto interno a quel grande modello interpretativo che è la visione cosmoteandrica. Parliamone in breve.

Poiché tre sono le dimensioni fondamentali della realtà nel vissuto e nella coscienza culturale umana, il Mondo, Dio e l’Uomo — ovvero la Terra, il Cielo e lo Spirito -, rischiando un parziale scivolamento nell’evoluzionismo Panikkar sostiene che ciascuna di esse tende a prevalere secondo una successione che caratterizza le diverse epoche.

Viene per prima la dimensione cosmica: l’uomo si vive semplicemente come parte del Mondo. È l’epoca dell’innocenza originaria. Già però implicita in quella condizione è la propensione a subordinare il Mondo a ciò che lo trascende, cioè alla sfera del divino. Emerge infine la consapevolezza del soggetto umano come centro organizzatore della realtà. È significativo che questo terzo momento sia già presente nella svolta dell’epoca assiale. Le grandi riforme culturali e spirituali di quel periodo presuppongono un’attenzione al ruolo umano in precedenza assente.27

Può essere ovvio pensare a Panikkar come a un pensatore tutt’altro che sistematico: tali e tanti sono i fili che pare sforzarsi di connettere che il quadro generale si mostra non senza difficoltà; intendendo meglio, si osserva che però quel quadro non è mai assente, ma la sua natura è tale che non lo si può descrivere razionalmente nella sua interezza, bensì ci si deve limitare a porne in luce di volta in volta singoli aspetti.

Cercando dunque di sintetizzare, si può dire che il rapporto col divino, in precedenza soprattutto regolato dal sacrificio, viene a configurarsi in altro modo nel momento in cui il soggetto umano prende coscienza di sé e della sua facoltà di ordinare la realtà attraverso la conoscenza. Il divino stesso si trova ad essere diversamente concepito, finendo per identificarsi con l’Essere, cioè il fondamento a cui la realtà va ricondotta. Questo è quel che avviene in Grecia, e parallelamente anche in India, nel momento in cui la realtà comune viene giudicata illusoria.28 Ma poiché l’Essere è a sua volta in stretto rapporto col pensiero umano, si aprono le due grandi vie che caratterizzeranno l’Occidente.

La prima, quella fissata dalla metafisica antica, mantiene tra Dio, l’Essere e il pensiero umano una stretta corrispondenza. Il pensiero, se correttamente indirizzato, coglie l’Essere, facendosi identico a esso; laddove l’Essere a sua volta coincide con Dio. È questa la base categoriale che ha fatto da supporto alle religioni monoteistiche: Dio è in ultima istanza l’Essere, che garantisce quell’ordine della realtà che il soggetto umano va scoprendo attraverso la conoscenza.

La seconda via, che giunge ad affermarsi nell’Occidente moderno, è caratterizzata da un duplice evento. Innanzitutto aver ridotto Dio all’Essere rende implicitamente Dio superfluo: sotto questo aspetto la scienza moderna comporta inevitabilmente l’ateismo. In secondo luogo, poiché l’Essere è posto in stretta relazione col pensiero umano, è altrettanto inevitabile concludere che sia quest’ultimo a definirlo. Si apre così la porta al relativismo e al nichilismo, che si erano già espressi nella Sofistica antica. Nell’annuncio di Nietzsche della morte di Dio sono compresi il venir meno dell’Essere, come struttura di ordine e di senso sovraordinata al soggetto umano, e l’avvento per l’appunto del nichilismo.29

Si può pensare che tutto il pensiero occidentale si dibatta tra queste due vie: troviamo infatti in epoca moderna l’alternativa tra razionalismo ed empirismo, e tornando indietro quella scena originaria della filosofia in cui si confrontarono la linea dei sofisti e quella di Socrate e Platone. Dal che si ricaverebbe che la prima risultò allora sconfitta per poi però trovare in epoca moderna la sua rivincita, fino ad essere oggi pensiero dominante; e che l’alternativa sia ancora ai giorni nostri questa: tra un atteggiamento manipolativo, che vanifica il senso della verità, e uno che invece si sforza di ritrovarlo, riconnettendo pensiero e linguaggio con una struttura della realtà indipendente da essi.

Ma forse Raimon Panikkar guarda ancora oltre.

Si può senz’altro dire — in questo Panikkar ripercorre le orme di Heidegger — che con la Volontà di Potenza emerge allo scoperto quel modo appropriativo di intendere la conoscenza che si trovava già nascostamente nella metafisica, e che per Panikkar coincide con la perdita dell’innocenza. Ma, se questo è vero, il platonismo non costituisce una vera alternativa.

Quel che nel sutra precedente ho proposto di pensare come il fallimento del tentativo di Platone di far sì che la filosofia sostituisse la tradizione religiosa, assumendone la funzione regolatrice della vita personale e sociale umana, non solo era dunque inevitabile, ma potrebbe già essere il presagio di un fallimento che si dispiega lungo tutta la storia dell’Occidente, rendendosi pienamente manifesto in epoca moderna. Cioè il progetto di far coincidere il pensiero con l’Essere, riducendo in realtà l’Essere alle strutture del pensiero appropriativo con tutto ciò che ne consegue sul piano sociale, implica una violenza intimamente inaccettabile, perché lesiva di quella libertà che è inseparabile dalla vita spirituale. Sotto questo aspetto non aveva poi torto Popper a parlare di Platone totalitario;30 e si può addirittura pensare che la critica radicale di ogni platonismo espressa da Nietzsche abbia davvero un senso liberatorio, seppure ben diversamente da come appare nel pensiero debole di Vattimo. Vale a dire, annunciando l’avvento del nichilismo, Nietzsche consente di fare apertamente i conti con un male prima non affatto assente, ma dissimulato e perciò forse ancora più pericoloso.

In questa prospettiva il fatto che le religioni monoteistiche abbiano incorporato il platonismo — anche nella forma aristotelica — facendone il proprio fondamento filosofico, nuovamente con tutto ciò che ne consegue sul piano sociale, potrebbe fin dall’inizio contenere il germe della loro attuale crisi, e del rifiuto di cui sono sempre più fatte oggetto in Occidente. Cioè quel rifiuto non si riferisce solo al nichilismo, bensì anche paradossalmente allo sforzo di contrastarlo, come avvertendone la presenza inquietante proprio in ciò che gli è apparentemente opposto. Sotto questo aspetto il moderno ateismo ha un significato spirituale che va interamente riconosciuto,31 e qui la direzione del percorso di Panikkar diverge nettamente da quello di Heidegger. Cioè, mentre per quest’ultimo il pensiero moderno, fondamentalmente critico nei confronti della metafisica, è solo il venire allo scoperto di quell’oblio dell’Essere che è fin dall’inizio implicito nell’Occidente, per Panikkar può contribuire far emergere il nuovo senso dell’Essere di cui si è in attesa, una volta che siano sciolte le catene del pensiero appropriativo.

Perché ciò accada bisogna però andare ben oltre ogni soggettivismo, che abolendo Dio riconduce l’Essere all’arbitrio del pensiero umano. Non è sostituendo Dio con l’Uomo che ci si libera davvero. Ed è qui che diventa decisivo l’incontro con la figura in apparenza più decentrata nello spazio e nel tempo: cioè col Buddha.32

È davvero lecito pensare che, nell’epoca in cui in Occidente prendeva forma la filosofia greca, e ben presto con Platone assumeva la direzione che l’ha caratterizzata, in India avveniva qualcosa di diverso. L’apparire del Buddha coincide con una svolta in cui le categorie del pensiero umano vengono riconosciute come espressione del soggetto, che non vincola in alcun modo l’Essere. Per questo dell’Essere non si parla, e nemmeno di Dio, perché, se lo si facesse, si metterebbe in moto quel processo appropriativo da cui si rimane imprigionati.

Il fatto che la via del Buddha si qualifichi come via di liberazione implica invece che quel processo vada arrestato. Ciò di cui ci si deve liberare è l’attaccamento, e in senso più profondo la bramosia, vale a dire la propensione ossessiva a identificare la vita con le categorie del pensiero, come per bloccarne il flusso. Per questo essa è intrisa di sofferenza (Dukkha): perché lo sforzo di appropriazione non conduce ad alcuna condizione stabilmente soddisfacente, in quanto la vita immancabilmente sfugge alla presa. Meglio pensare allora che ogni realtà sia impermanente (Anicca), ovvero in quanto tale inafferrabile; e in ultimo senza sé (Anatta), o, come si dirà nel Mahayana, vacuità (Sunyata): perché si è rinunciato ad afferrarla. La rinuncia conduce a non riconoscere alcuna stabile identità neppure nel soggetto stesso, e infatti è in ultimo rinuncia all’io e al mio.

Quel che ne deriva non è, come parrebbe a prima vista, il nichilismo, bensì il suo più efficace antidoto. Avendo rinunciato a un’identità delle cose che è nella sua radice proiezione dei bisogni del soggetto, e insieme all’identità del soggetto stesso, la realtà si manifesta per quel che è, senza indebite manipolazioni. Quel che se ne può dire è che è interdipendente: cioè ogni entità, non potendola identificare in modo separato, è interconnessa e dipendente da altro. Questo conduce a una profonda pace, e a un sentimento di benevolenza (Metta, o Maitri) e di comunione compassionevole (Karuna) con ogni essere vivente.

Nel quadro proposto da Panikkar, concepire il Mondo, Dio e l’Uomo in modo separato può condurre a profondi conflitti. La via del Buddha è invece la ricerca della loro intima unione, che è poi il senso della Trinità cristiana — dove addirittura Panikkar afferma che il Cristianesimo non è monoteista, in quanto per l’appunto trinitario.

Nella diversa storia del pensiero e della cultura umana suggerita da Panikkar, decisivo è dunque l’incontro col Buddha. Ciò non significa che si debba necessariamente diventare buddhisti, bensì che il nuovo inizio che il nostro tempo serba in grembo può essere dischiuso dal confronto con quel diverso inizio rappresentato in India da Buddha.

La via che ne scaturisce è un Dharma che non appartiene più all’Oriente e neppure all’Occidente; un Dharma che liberamente si confronta con tutte le tradizioni e le culture umane.


  1. Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha, ed. it. Mondadori, Milano 2006. ↩︎

  2. Raimon Panikkar, Il Ritmo dell’Essere, in Opera Omnia, vol. X/1, Jaca Book, Milano 2012, p. 37. ↩︎

  3. Karl Jaspers, Origine e senso della storia, ed. it. Edizioni di Comunità, Milano 1965. ↩︎

  4. Karl Jaspers, I grandi filosofi, ed. it. Longanesi, Milano 1973. ↩︎

  5. Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha, ed. it. Mondadori, Milano 2006, p. 153. ↩︎

  6. Raimon Panikkar, op. cit. pp. 165-166. ↩︎

  7. Ibidem, pp. 193-194. ↩︎

  8. Ibidem, p. 54. ↩︎

  9. Raimon Panikkar, Il ritmo dell’Essere, in Opera Omnia, vol. X/1, Jaca Book, Milano 2012, p. 58. ↩︎

  10. Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, p. 67. ↩︎

  11. Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha, p. 31. ↩︎

  12. Raimon Panikkar, L’esperienza filosofica dell’India, ed. it. Cittadella Editrice, Assisi 2000. ↩︎

  13. Platone, Lettera VII, 341, C-D. ↩︎

  14. Panikkar, La porta stretta della conoscenza. Sensi, ragione e fede, ed. it. Rizzoli, Milano 2005, pp. 25-26 e 211-212. ↩︎

  15. Henry Le Saux (Abhishiktananda), Odette Baumer-Despeigne, Raimon Panikkar, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, Servitium editrice, Sotto il Monte 2005. ↩︎

  16. Raimon Panikkar, Milena Carrara Pavan, Pellegrinaggio e ritorno alla sorgente, Servitium — Jaca Book, Milano 2012. ↩︎

  17. Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, ed. it. Eiaudi, Torino 2002. ↩︎

  18. Raimon Panikkar, La nuova innocenza. Innocenza cosciente, ed. it. Servitium editrice, Sotto il Monte 2003. ↩︎

  19. Raimon Panikkar, Beata semplicità. La sfida di scoprirsi monaco, ed. it. Cittadella editrice, Assisi 2007. ↩︎

  20. Ovviamente il tema è diffusamente presente nell’opera di Panikkar. Si veda comunque soprattutto Visione trinitaria e cosmo teandrica:Uomo-Dio-Cosmo, Opera Omnia, vol. VIII. ↩︎

  21. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, ed. it Einaudi, Torino 1966. ↩︎

  22. Raimon Panikkar, Mito, simbolo, culto, in Opera Omnia, vol. IX/1, Jaca Book, Milano 2008. ↩︎

  23. Raimon Panikkar, Culture e religioni in dialogo. Pluralismo e interculturalità, in Opera Omnia, vol. VI/1, p. 325. ↩︎

  24. Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha, pp.165-166. ↩︎

  25. Raimon Panikkar, Beata semplicità, p. 88. ↩︎

  26. Raimon Panikkar, Il ritmo dell’Essere, p. 3. ↩︎

  27. Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha, p. 152. ↩︎

  28. Ibidem, p. 193. ↩︎

  29. Ibidem, p. 207. ↩︎

  30. Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici. Vol I, Platone totalitario, ed. it. Armando, Roma 1973. ↩︎

  31. Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha, pp. 165-175. ↩︎

  32. Ibidem, p. 162. ↩︎