Essere fedeli alla realtà delle cose, nel bene e nel male, implica un integrale amore per la verità e una totale gratitudine per il fatto stesso di essere nati. — H. Arendt
1. Venire al mondo e venire alla vita.
Bisogna ammetterlo, la nostra cultura filosofica ha sempre mostrato una certa predilezione per la questione della morte rispetto a quella, in realtà non meno rilevante, della nascita. Basti pensare al ruolo chiave che l’essere-per-la-morte ricopre nella struttura di Essere e tempo: la radicale assunzione della «possibilità più propria» del Dasein come via d’accesso all’esistenza autentica ci induce a pensare lo stesso fenomeno della nascita alla luce della morte, «la fine per cui l’Esserci esistendo è.»1 Scrive Heidegger: «La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire.»2 E ancora: «La chiarificazione esistenziale dell’essere-per-la-fine offre una base adeguata per stabilire in qual senso si possa discorrere della totalità dell’Esserci, visto che questa totalità si deve costituire attraverso la morte come fine.»3 Dunque, l’esistenza nella sua totalità può e dev’essere pensata unicamente a partire dalla morte come suo orizzonte costitutivo: la nascita, tutt’al più, è l’atto a partire dal quale il Dasein inizia ad «essere-per-la-morte». Ma sul senso della nascita come fenomeno sui generis, in Essere e tempo non troviamo nemmeno una parola.
D’altra parte, non bisogna stupirsi di tale silenzio heideggeriano sulla nascita: se la Seinsfrage è riconosciuta come il compito fondamentale della filosofia e il problema della manifestazione, ossia del fenomenalizzarsi di ogni fenomenalità, è totalmente ricompreso nel problema dell’essere in generale — celebre è la definizione heideggeriana della fenomenologia come «metodo dell’ontologia»4 —, allora nascere non può che significare «venire all’essere», «entrare nell’esistenza», cioè assumere il proprio Dasein nella sua «possibilità più propria», che è appunto la morte. Dunque, nel quadro dell’ontologia heideggeriana, la nascita non possiede alcuno statuto fenomenologico particolare: rappresenta semplicemente l’assunzione irrinunciabile della propria gettatezza e del proprio costitutivo «essere-avanti-a-sé». Così, Heidegger finisce per convergere col linguaggio comune allorché quest’ultimo considera sinonimi «nascere» e «venire al mondo», inteso come ingresso in quella rete di significati e rapporti che contraddistingue, fino alla morte, la vita di ciascuno.
Ora, la tesi che cercheremo qui di prospettare è che la questione della nascita, se riproposta ad un livello più radicale rispetto a quello ontologico, mette completamente fuori gioco la pretesa priorità dell’ontologia sulla fenomenologia, così come il privilegio della Seinsfrage sulla questione generale della manifestazione. In questo percorso teorico cercheremo di riflettere a fondo su un breve ma decisivo testo di Michel Henry, Phénoménologie de la naissance, uscito la prima volta nel 1994.5 L’originalità di questo testo emerge innanzitutto se lo si confronta con L’essence de la manifestation,6 di trentuno anni prima, in cui fenomenologia ed ontologia appaiono ancora legate da un sottile ma robusto fil rouge: il compito proprio della fenomenologia, afferma chiaramente Henry in quel testo, è «l’élucidation ontologique de l’essence du phénomène.»7 E ancora:
Avec la manifestation de l’horizon, l’être se montre. Le problème est celui de la possibilité de la manifestation de l’horizon. Cette possibilité réside dans l’essence de la manifestation. L’immanence du devenir phénoménal à l’essence originaire et pure de la phénoménalité a un fondement. Ce fondement, c’est l’essence elle-même. Le problème du devenir phénoménal de l’essence de la phénoménalité est justement le problème de la structure interne de celleci.8
Dunque, la manifestazione dell’orizzonte coincide con la manifestazione dell’essere: secondo Henry, l’essere deve potersi manifestare, così come la coscienza deve poter accedere all’essere e questo doversi poter manifestare dell’essere costituisce la condizione di possibilità della sua stessa manifestazione. In altri termini, l’essere non è qui inteso (heideggerianamente) come orizzonte dei fenomeni, ma come possibilità della manifestazione dell’orizzonte dei fenomeni, cioè come struttura fenomenologica in grado di fondare la possibilità originaria della manifestazione dell’orizzonte. Dunque, se ne L’essence de la manifestation Henry, pur rompendo con la tesi heideggeriana della priorità dell’ontologia sulla fenomenologia, pone queste ultime sullo stesso piano come due facce dell’unica «ontologia fenomenologica universale», nella Phénoménologie de la naissance esse si trovano in un rapporto di acuta tensione:
La prétention de reconduire la phénoménologie à l’ontologie en faisant d’elle le simple instrument d’une pensée de l’être, n’est qu’une illusion langagière qui n’affecte en rien l’incontournable fondation de la seconde dans la première pour autant que, en fait d’étant, il n’y a que ce qui apparaît et, en fait d’être, que cet apparaître lui-même. L’universalité langagière de la question de l’être n’a qu’une préséance formelle s’il est vrai que c’est dans les modes concrets de la phénoménalisation effective de la phénoménalité et en elle seulement que se décide chaque fois ce qu’il en est de l’être, non dans le concept ou le préconcept vides de celuici. Cette préséance de l’ontologie, l’universalité présumée du sens de l’être, c’est ce que la question de la naissance vient faire éclater.9
Pertanto, il nascere, come vedremo, non può in nessun modo ridursi al «venire al mondo» o al «venire all’essere», ma investe una dimensione così originaria — quella che, com’è noto, Henry chiama Vita — da risultare totalmente inaccessibile ad ogni sguardo o atteggiamento oggettivante; su questa base, la nostra cultura attuale — che Henry non ha mai esitato a descrivere come «epoca di barbarie»10 — dovrebbe ripensare a fondo ogni sua attitudine «calcolante», rammentando che ogni prassi scientifica applicata alla nascita o alla vita in generale — beninteso, la cui importanza è fuori discussione! — non ne può raggiungere de iure la fenomenalità più profonda, ma ne investe unicamente gli aspetti esteriori, per così dire psico-fisici: la vita, nel suo invisibile movimento di auto-affezione, è e resta indisponibile ad ogni sguardo naturale, trascendentale od ontologico. In questo senso, la fenomenologia materiale di Henry potrebbe decostruire agevolmente alcuni recenti non-sense11 contrabbandati mediaticamente come ricerche etico-scientifiche e che, in questa nuova luce, mostrano in realtà il punto più basso della barbarie nichilista che affligge la nostra cultura. Così, la cultura della visibilità ad ogni costo e del falso realismo scientifico, volendo ergersi ad arbitro assoluto della vita, finisce per consacrare la maggior parte dei propri sforzi alla gestione della propria paura di perderla: nel tentativo di oggettivare ogni manifestazione della vita sin dalla sua prima scaturigine, la nascita, la cultura della mera visibilità è una cultura della morte.
2. Oltre l’ontologia: l’appello.
La questione fenomenologica della nascita mostra così il proprio potenziale esplosivo: non si tratta di un problema per così dire «regionale», ma tocca uno dei nervi scoperti del progetto fenomenologico husserliano, ossia il rapporto tra fenomenologia e ontologia.12 Tematica, quest’ultima, che costituisce il punto di partenza delle ricerche di un altro fenomenologo francese molto vicino a Henry, Jean-Luc Marion. In Réduction et donation,13 egli analizza minuziosamente la possibilità che lo stesso Dasein si sottragga alla propria condizione, liberando un campo fenomenologico ben più originario in quanto ultra-trascendentale e ultra-ontologico: la forma pura dell’appello. Soffermiamoci un istante sull’argomentazione di Marion, in quanto ci fornirà gli strumenti essenziali per mettere a fuoco la posizione di Henry sul tema fenomenologico della nascita.
Com’è possibile che il Dasein si sottragga alla propria vocazione ontologica, ossia rifiuti l’Anspruch des Seins? In altri termini, com’è possibile che il Dasein lasci i propri «panni ontologici» per ritrovarsi ad un livello fenomenologico più originario? Non si tratta soltanto, come ipotizza lo stesso Heidegger nell’Introduzione alla metafisica,14 dell’ipotesi che «noi diciamo no al nostro Dasein», ma della possibilità che il Dasein stesso dica no al proprio essere, in modo tale da costituirsi come altro da quell’essere, o di nasconderlo completamente in se stesso. Ma cosa significa propriamente che il Dasein rifiuti il proprio essere? Quest’affermazione non contraddice semplicemente la determinazione stessa del Dasein come esserci, come colui che non può non essere? Insomma, un Dasein che rifiuti il proprio essere non è una figura fenomenologicamente non attestata e non attestabile? Marion sostiene, al contrario, che «una delle caratteristiche più essenziali del Dasein offre il modo di pensare come questo stesso Dasein potrebbe […] sottrarsi al proprio essere.»15 Infatti, il Dasein — secondo la ben nota definizione heideggeriana — è «quell’ente nel cui essere ne va dell’essere stesso», cioè mette in gioco, nel modo d’essere dell’esistenza, non solo la propria sussistenza ontica, ma il proprio modo d’essere: in altri termini, «il gioco del Dasein con se stesso rende manifesto il gioco dell’essere con se stesso.»16 Ora, questa dignità ontologica del Dasein offre due punti su cui è possibile che si verifichi la sua sospensione: a) da un lato, il modo d’essere proprio del Dasein, l’esistenza come possibilità, implica sempre — come Heidegger ammette — «una possibilità per lui stesso di essere o no se stesso»,17 cioè la possibilità per il Dasein di esistere autenticamente o inautenticamente. Ma se essere se stesso significa accogliere l’apertura dell’essere permettendone lo svelamento, cioè rispondendo alla sua chiamata, la possibilità di non essere se stesso non è allora riconducibile ad una revoca dell’appello dell’essere? Non si tratta di esaltare l’inautenticità, ma di assumerla come possibilità ontologica di eguale livello dell’autenticità: essa rinvia ad un altro rapporto essenziale con l’essere, il rifiuto. Scrive Marion:
L’inautenticità non nega certo l’istanza del Dasein in se stessa, poiché essa la esemplifica ancora; ma ne sospende già il carattere essenziale: nega che il rinvio all’essere stesso costituisca la possibilità ultima di ciò che io sono. L’inautenticità si disinteressa della propria messa in gioco nel gioco dell’essere; essa pretende così di partecipare ad un gioco che non deve nulla all’essere o […] come se l’essere non c’entrasse per nulla.18
b) Dall’altro lato, il modo d’essere del Dasein implica che «egli abbia da essere ogni volta il suo essere come il proprio.»19 Il Dasein non è semplicemente ciò che è, ma gli è proprio, come un carattere tipico del suo modo d’essere, l’aver da essere: non è se stesso se non rivendicando che l’essere in gioco è il suo, se non prendendolo su di sé, dunque il Dasein è se stesso solo se si dona al gioco in cui la posta in gioco è l’essere stesso. L’Io assume su di sé il proprio Dasein solo esponendosi in prima persona con l’essere, facendolo proprio senza riserve, o meglio abbandonandosi senza riserve al suo gioco. Ora, un tale aver-da-essere (l’essere come il proprio essere), osserva Marion, lascia intravedere un secondo anello debole della catena, che si ricollega in qualche modo al fenomeno d’essere: l’analitica esistenziale non può svilupparsi come fenomenologia dell’essere se il Dasein non accoglie il destino dell’essere come quello del proprio essere a titolo di ente. Ecco il punto di rottura. Se il Dasein dev’essere il proprio essere, a meno di ammettere un’oscura necessità di improba attestazione fenomenologica, esso può benissimo anche non esserlo, nel senso che può sottrarsi al gioco dell’essere come proprio gioco, come ciò che lo riguarda più direttamente: poiché il Dasein si costituisce anche in base al dover-essere, ha la possibilità di non ritenere l’essere che dovrebbe essere come ciò che gli è più proprio. Distogliendosi dall’essere, il rifiuto distrae il Dasein dal proprio dover-essere. Tuttavia, questa volta il rifiuto potrebbe operare a favore dell’autenticità poiché, distogliendo il Dasein dall’essere che dovrebbe essere, tende a liberarlo affinché si offra ad una sua proprietà più essenziale, cioè lascia che esso si costituisca come il ci, dunque per un’istanza ulteriore all’essere dell’ente. In questo modo, sospendendo la rivendicazione dell’essere rivolta al Dasein, il rifiuto non solo si inscrive a pieno titolo nei momenti fondamentali dell’analitica esistenziale, ma soprattutto riapre l’intera questione del Dasein, insinuando la possibilità che un altro, ancora più originario dell’essere in quanto capace di sospenderne la rivendicazione, contenga la possibilità stessa del ci. Scrive Marion, in un passo alquanto complesso ma allo stesso tempo decisivo:
Colui che non ha da essere […] non rompe tuttavia totalmente col Dasein. Tenta di succedergli nel possesso, dunque nell’identificazione del ci: perché il ci, che Io sono, si mantiene là? Quando il ci si determina come un Dasein, un esserci, si mantiene come ci per essere, dunque più essenzialmente per l’essere; infatti, l’essere lo rivendica e la rivendicazione dell’essere destina il ci a tale essere, a mantenersi come esserci. […] così, il ci liberato si espone alla possibilità non ontologica di un’altra rivendicazione, che lo qualificherebbe per mantenersi in favore di un altro — di un altro favore.20
Nella prospettiva di Marion, si tratta qui di delineare una nuova apertura fenomenologica ulteriore a quella husserliana e a quella heideggeriana, rinvenire cioè un sito filosofico ancora più originario rispetto all’Io trascendentale e all’Anspruch attraverso cui l’essere rivendica e interpella il Dasein. Infatti, l’ingiunzione al Dasein «ascolta!» non si pone come un appello fra altri possibili nel nome o in vista di questa o quell’autorità originaria, ma performa l’appello come tale — la chiamata a presentarsi dinanzi all’appello stesso, con la sola intenzione di attenervisi e di esporvisi. L’appello stesso interviene come tale, senza o prima di qualunque altro messaggio, con la sola intenzione di sorprendere colui che non lo attendeva: il modello dell’appello si esercita quindi ben prima la rivendicazione dell’essere, e in modo più ampio. Prima che l’essere abbia rivendicato il Dasein, la pura forma dell’appello lo ha già interpellato. Un simile passo indietro al di là della rivendicazione dell’essere, ammesso che possa di fatto compiersi, pone in primo luogo una questione di diritto: si tratterebbe ancora di una situazione autenticamente fenomenologica o non rinuncia alle basilari esigenze metodologiche di una «scienza rigorosa»? La risposta non può che essere una e una sola: l’oltrepassamento della rivendicazione dell’essere da parte della pura forma dell’appello appartiene al campo fenomenologico esattamente per la stessa ragione che ha permesso all’analitica del Dasein di sostituirsi alla costituzione dell’Io trascendentale. Scrive Marion:
L’apertura husserliana così come il nuovo inizio heideggeriano procedono seguendo la riduzione, in due figure, certo differenti ma ugualmente fenomenologiche. Ora la riconduzione della rivendicazione dell’essere alla forma pura dell’appello […] ripete ancora la riduzione: più essenziale della riduzione degli oggetti alla coscienza di un Io, interveniva la loro riduzione al rango di enti, quindi la riduzione degli enti al Dasein come solo ente ontologico; più essenziale ancora si affermava la riduzione di ogni ente all’essere, il cui svelamento si gioca proprio nella forma dell’appello rivolto al Dasein; più essenziale infine di questa rivendicazione appare finalmente la riduzione di qualunque rivendicazione alla forma pura dell’appello. Dopo la riduzione trascendentale e la riduzione esistenziale, interviene la riduzione dell’appello e all’appello.21
Questa fondamentale argomentazione di Marion è stata troppo spesso sottovalutata a favore del principio «tanta riduzione, altrettanta donazione», introdotto alla fine di Réduction et donation e ampiamente sviluppato in Étant donné22: ora, senza la riduzione alla forma pura dell’appello ci risulterebbe precluso qualunque accesso fenomenologico tanto alla donazione in generale quanto al fenomeno della nascita in particolare. Infatti, pensare l’appello nella sua struttura fenomenologica più pura comporta una completa messa fuori gioco di ogni priorità dell’essere sulla donazione, nella sua più originaria struttura di esposizione e coinvolgimento nella manifestazione. In altri termini, il ci dell’Esserci non dev’essere più concepito necessariamente come «appello dell’essere» all’esistenza autentica (cioè al proprio essere-per-la-morte), ma come appello ed esposizione provenienti da un altrove inoggettivabile in cui l’io riceve se stesso a titolo di a-donato: il Dasein o l’Ego trascendentale non vanno distrutti, ma possono subentrare in seguito come possibili «figure della risposta» dell’a-donato nei confronti della manifestazione stessa. A ben vedere, in questa prospettiva l’unico privilegio che possiamo attribuire all’a-donato non risiede più nella sua costituzione ontico-ontologica, come sostiene Heidegger a proposito del Dasein,23 ma nel suo originario «poter rispondere» a quell’«appello silenzioso» che, rivendicandolo costantemente, lo pone in relazione con ogni tipo di fenomenalità. In questa prospettiva, è possibile distinguere essenzialmente due macro-tipi di fenomenalizzazione: ciò che si manifesta in forma di oggetto secondo la propria Gegenständlichkeit — le «semplici-presenze» di cui parla Heidegger — e ciò che, non riducendosi all’oggettività della presenza, si manifesta unicamente come pura esposizione alla manifestazione, come termine originario di una chiamata senza la quale ogni sua decisione ontologica o atteggiamento riflessivo-trascendentale non sarebbe possibile. Ora, se nel primo caso la manifestazione avviene immediatamente come un «venire all’essere» — nella forma dell’oggettività — nel secondo caso si fenomenalizza come un «venire all’appello», rispetto al quale ogni «venuta all’essere» (o all’esistenza) è da considerarsi come fenomenologicamente successiva e derivata. Pertanto, le modalità di fenomenalizzazione dell’oggetto e dell’a-donato sono qualitativamente differenti e come tali non possono essere equiparate: se l’io è fenomenologicamente pensato come a-donato, il suo sorgere — dunque la sua nascita — non può in alcun modo essere pensata come un semplice «venire all’essere», necessariamente orientato esistenzialmente verso la morte.
3. Appello, vita, nascita.
Questa breve digressione su Marion ci permette forse di comprendere più agevolmente un decisivo passo di Henry: «Nascere è affare dell’essere vivente e di lui solo. Nascere non può dunque derivare dall’essere considerato come universale, nel senso dell’essere in generale — un senso adatto tanto alla pietra quanto all’essere vivente. Tale inadeguazione del senso dell’essere richiede una rivalutazione del tema dell’ontologia che equivale al suo smantellamento.»24 Che nascere sia tratto essenziale dei viventi sembra, almeno di primo acchito, un’ovvia tautologia. Tuttavia, in questo passo Henry sottolinea che il nascere non ha nulla a che fare con l’essere, poichè l’essere è la modalità di fenomenalizzazione propria degli oggetti, ossia di tutto ciò che è visibile. Ora, se è vero che i viventi sono visibili al pari delle pietre, la loro fenomenalità è toto genere differente rispetto a quella di qualunque altro oggetto, se non altro in quanto essi hanno la possibilità non solo di essere guardati, ma di guardare. Una tale differenza ci autorizza dunque a porre la questione del rapporto tra il nascere e il problema fenomenologico generale dell’apparire: se i viventi condividono con gli oggetti il loro venire all’essere nella visibilità, allora perché dovremmo attribuire alla nascita uno statuto fenomenologico diverso rispetto all’apparire comune delle cose? Venire all’essere, secondo il senso comune, significa «venire al mondo» e tale è l’abituale definizione che diamo del nascere. In questa prospettiva, non vi sarebbe alcuna differenza tra il «venire all’essere (o al mondo)» e il nascere, poiché l’essere che si attribuisce agli oggetti nel loro apparire e quello che si attribuisce ai viventi con la nascita si troverebbero in un rapporto, se non di identità, almeno di analogia: l’apparire della pietra sarebbe il medesimo a cui si apre il vivente nascendo, cioè l’«apparire del mondo», l’esteriorità.
Ora, è precisamente questa presunta identità che si tratta di mettere in questione, seguendo l’argomentazione di Henry. In che modo l’apparire attribuisce l’essere all’oggetto? Per l’appunto, facendolo apparire: dunque l’essere dell’oggetto si risolve nella sua visibilità, il suo apparire dipende dal suo essere posto «fuori di sé». Non a caso — osserva Henry — Heidegger ha potuto pensare la temporalità come il «fuori di sé originario in sé e per sé.»25 In che modo invece l’apparire conferisce l’essere al vivente? Forse ponendolo fuori di sé affinchè sia visibile allo stesso modo dell’oggetto? Se così fosse, la situazione fenomenologica del vivente e dell’oggetto sarebbe la stessa; tutt’al più, le loro differenze riguarderebbero meramente il piano ontico. Tuttavia, l’essere vivente vede l’oggetto, mentre quest’ultimo non vede niente. Ma com’è possibile che, pur derivando per ipotesi da un solo modo di fenomenalizzazione, gli oggetti e gli esseri viventi presentino una differenza fenomenologica così essenziale, tale da influenzare in modo decisivo il loro rapporto con la fenomenalità in generale? In altri termini, com’è possibile accomunare due «enti» — ammesso che l’essere vivente sia ancora definibile in questi termini — il cui rapporto con la fenomenalità è del tutto differente? Scrive Henry:
In che modo, pur venendo all’essere in un solo e medesimo apparire, illuminati da una sola luce, l’essere vivente riceverebbe l’insigne favore di trasformarsi interiormente in quella luce, nell’illuminazione dell’apparire, in modo tale da non essere più null’altro che quest’ultimo, mentre la pietra resterebbe estranea a questo rischiaramento, cieca, per sempre opaca, abbandonata ad una notte così profonda da non poter essere concepita se non come la negazione astratta della luce del mondo in cui si mostra tutto ciò che può essere per noi?26
Ecco sorgere una difficoltà inaggirabile: se da un lato l’apparire rende visibile un ente, lasciandolo apparire fuori di sé come oggetto, dall’altro lato gli conferisce il privilegio di ricevere in se stesso l’apparire in modo da quasi coincidervi e non essere più nient’altro che una sorta di «materia fenomenologica pura.»27 Nel corso della storia del pensiero questa difficoltà ha preso la forma della distinzione tra soggetto e oggetto, considerata essenziale e tuttavia del tutto inspiegata: se l’oggetto è l’ente stesso nel suo apparire, cioè il suo «essere-fuori-di-sé», la sua esteriorità, in che cosa si differenzierebbe il soggetto da quel «fuori-di-sé» in cui appare l’ente? In altre parole, se lo stesso soggetto è pensato come coscienza (Husserl) o come Dasein (Heidegger), i cui caratteri rispettivi sono l’intenzionalità o l’essere-nel-mondo, ossia ulteriori forme del «fuori-di-sé», non vi sarà altro apparire da questo «fuori-di-sé» dell’ente, cosicchè diverrà impossibile giustificare ogni differenza essenziale tra soggetto e oggetto. Così parliamo della nascita interpretata come venuta all’essere, la quale non può che significare una venuta all’apparire, a sua volta interpretata come venuta al mondo, che tuttavia designa due condizioni totalmente diverse di cui soltanto una si riferisce alla nascita e può servire a definirla, mentre l’ente intramondano, limitandosi ad entrare e uscire da questo luogo finito di luce che è il mondo, è in sè estraneo tanto al fenomeno della nascita quanto a quello della morte.28
In ultima analisi, la fenomenalità propria del «venire al mondo», cioè dell’apparire nell’esteriorità come un oggetto, è completamente irriducibile al nascere, che va piuttosto compreso come un «venire alla vita.» Soffermiamoci su questo punto decisivo. Va osservato che, nel contesto dell’analitica esistenziale di Essere e tempo, il legame dell’essere-nel-mondo con la vita risulta completamente coperto: infatti, il par. 10 — intitolato Delimitazione dell’analitica esistenziale rispetto all’antropologia, alla psicologia e alla biologia — liquida rapidamente tale rapporto affermando che «la vita è un modo di essere particolare, ma accessibile essenzialmente solo nell’Esserci.»29 Di conseguenza, dal punto di vista heideggeriano, se l’accesso alla vita dipende dal Dasein, esso non può che assumere la forma di un ingresso nel mondo degli enti, ossia nel mondo dell’esteriorità: ancora una volta, nascere significherebbe semplicemente venire all’essere, cioè venire al mondo. Tuttavia, osserva Henry, è lecito domandarsi: il Dasein può fondare l’accesso all’essere non-vivente (l’ente intramondano nella presenza della sua Zuhandenheit), all’essere vivente e alla stessa vita che fa di quest’ultimo un vivente? Per quanto riguarda l’ente intramondano, il Dasein è in grado di garantirne l’accesso in quanto ne condivide la struttura fenomenologica dell’esteriorità, dell’«essere-fuori-di-sé» — inteso come Gegenständlichkeit dell’oggetto o come intenzionalità della coscienza —; in ciò che concerne invece l’essere vivente, il Dasein, proprio in virtù del proprio «essere-fuori-di-sé», per quanto faccia apparire tale essere, lo riduce appunto alla visibilità, ossia al rango di qualunque altro ente. In ultima analisi, l’accesso all’essere vivente attraverso il Dasein finisce per equiparare la vita stessa al manifestarsi nella visibilità, il nascere al venire al mondo, rendendo fenomenologicamente indistinguibili l’essere vivente e la pietra. Nel momento stesso in cui l’essere vivente si scopre come tale, accede ad un livello fenomenologico ulteriore alla determinazione ontologica del Dasein: per l’appunto, accede alla vita. In altri termini, l’essere vivente scopre il carattere fondamentale dell’apparire, ossia il suo costitutivo «essere-fuori-di-sé»: lo svelamento compiuto in un tale apparire non spiega in nessun modo ciò che è reso visibile dall’apparire stesso, cioè la vita dell’essere vivente. Sorge qui una questione decisiva: se il carattere essenziale dell’essere vivente — ciò che lo rende irriducibile all’apparire nell’esteriorità — non deriva dall’apparire proprio del Dasein, qual è la sua origine fenomenologica? Insomma, perché l’apparire in cui si manifesta il Dasein non è in grado di fornire un accesso alla vita? La ragione è tanto semplice quanto enigmatica: nell’esteriorità del Dasein, ogni determinazione ontologica non è soltanto esteriore ad ogni altra — come un punto è «esteriore» agli altri punti nello spazio -, ma è esteriore a se stessa, in modo tale che la sua esteriorità corrisponde al suo apparire, un apparire che lascia spazio in sé unicamente all’esteriorità. Conclude Henry:
A questo livello di esteriorizzazione radicale, nessun vivere è possibile se vivere significa sentire se stessi e non sentire qualche altra cosa — sentire se stessi in un’immediatezza così radicale che mai nulla saprebbe rompere il pathos di cui tale sentire è fatto e che ogni messa fuori di sé di tale pathos per essenza inestatico condurrebbe alla sua distruzione. L’eterogeneità fenomenologica materiale dell’apparire patetico in cui la vita si compie e dell’apparire estatico che si esplica nella differenza tra il mondo e le cose è radicale, irriducibile, insormontabile.30
Ora, sappiamo che, per Henry, la vita si compie in un atto di autoaffezione e che, dal punto di vista fenomenologico, tale affezione originaria è esperibile come pathos, ossia come processo infinito per mezzo del quale la vita perviene a se stessa e, per così dire, «sente» se stessa: conseguentemente, nessun apparire mondano è in grado di accedere al «vivere della vita», in quanto nel mondo la vita viene necessariamente rappresentata sotto forma di una «significazione noematica irreale»,31 cioè di un oggetto. Ecco perché l’illusione (di cui è vittima anche Essere e tempo) secondo cui l’accesso alla vita avviene esclusivamente attraverso il Dasein implica la confusione — che Henry non esita a definire «rovinosa» — tra il vivere della vita e la manifestazione esteriore di ogni essere vivente la cui proprietà essenziale rinvia al suo stesso vivere e lo presuppone, pur senza poterlo fondare o esibire nella piena visibilità. L’incapacità del Dasein di offrire un autentico accesso alla vita deriva in ultima analisi dalla sua stessa incapacità di diventare lui stesso un essere vivente a causa del suo costitutivo essere-nel-mondo come essere-fuori-di-sé. Per dimostrare quest’affermazione, occorre formulare correttamente la domanda seguente: il Dasein ha la possibilità di decidere se «venire al Dasein», ossia — secondo la prospettiva heideggeriana — «venire al mondo»? La risposta è ovviamente negativa: la nascita è una sorta di inizio assoluto e che, tuttavia, implica un «prima», per così dire una paradossale «derivazione all’origine.» Che il Dasein non abbia a disposizione alcuna decisione in merito alla propria nascita è cosa ovvia: ciò presupporrebbe la possibilità di porsi in quel «prima» originario e di deciderne, inficiandone ipso facto l’originarietà. Che il Dasein non decida da sé di venire al mondo, cioè non si auto-installi nel Da del proprio Da-sein, significa che non è attraverso la propria esteriorità che il Dasein diventa tale, ossia progettando le proprie possibilità nell’orizzonte del mondo. Ma allora, come assumiamo la nostra condizione di Dasein in modo però che tale assunzione non derivi dall’esteriorità dell’essere-nel-mondo? Ancora una volta, la risposta di Henry è: con e attraverso la vita. Ben lungi dall’accedere alla vita unicamente attraverso il Dasein, accediamo a quest’ultimo solo grazie alla vita. In altre parole, se assumiamo la nostra condizione esistenziale di Dasein venendo non «al mondo», ma «alla vita», la questione della nascita dev’essere articolata nuovamente ad un livello fenomenologico ben più radicale rispetto a quanto la tradizione filosofica — almeno fino a Heidegger — abbia fatto: infatti, se venire al Dasein significa innanzitutto venire alla vita, dobbiamo comprendere cosa significhi questa «venuta alla vita».
Dunque, nascere significa «venire alla vita», cioè entrare in essa, accedere a questa straordinaria e misteriosa dimensione di «essere vivente». Tuttavia, significa innanzitutto che solo a partire dalla vita una tale venuta è possibile, cioè che soltanto la vita può generare e produrre una tale entrata in essa: utilizzando un termine che Henry non impiega ma che ci pare coerente col movimento della sua argomentazione, si potrebbe affermare che, nella nascita, la vita «chiama» a sé il vivente, lo «coinvolge» e lo «include» nella sua eterna generazione. Dunque, il venire alla vita sottende in primo luogo il venire della vita. Scrive Henry:
Questo radicamento di ogni nascita […] nell’essenza della vita spiega la ragione per cui l’uomo in quanto essere vivente — non l’uomo intramondano, l’ente-uomo privo di questo carattere di essere vivente — non è nulla di originario, nulla che possa essere compreso a partire da se stesso ma soltanto a partire dall’essenza della vita che lo precede eternamente nel processo stesso attraverso cui essa non cessa di generarlo […], cioè non cessa di farlo nascere.32
Così, la vita si auto-genera nel processo di autoaffezione, processo attraverso cui essa viene a sè, si scontra contro di sè, gioisce e soffre di sè, in una parola sente se stessa, non essendo altro da questo eterno sentire e «patire» se stessa. Di conseguenza, vivere consiste in questo originario sentire se stessi: ogni altra determinazione è successiva e non pertiene al livello fenomenologico più radicale. Inoltre, l’auto-affezione è sempre un movimento, ossia un processo costante attraverso cui la vita non cessa mai di venire a se stessa: in questo movimento dobbiamo situare anche l’origine della temporalizzazione originaria, radicalmente immanente e inestatica, dunque unicamente «patetica», che ci permette di pensare la temporalità propria della nascita. Conclude Henry: «La vita si auto-genera come Sé singolo. La generazione del Sé singolo che io sono nell’auto-generazione della vita assoluta è la mia nascita trascendentale.»33 Ciò significa evidentemente che la generazione dell’Io singolo non è disgiungibile dall’auto-generazione della vita: l’Io singolo che io sono non viene a sè se non nella venuta a sè della vita e la conserva come il proprio presupposto, come la propria condizione necessaria. Così la vita attraversa e coinvolge nel proprio movimento tutti coloro che genera in modo tale che non vi sia niente in essa che non contenga questa essenza autogenerativa della vita.
Dunque l’Io proviene dalla propria «nascita trascendentale» alla vita: l’Io non sorge se non pervenendo a sé, cioè se la vita non viene a se stessa. Nell’auto-temporalizzazione della propria auto-affezione, la vita sente se stessa coinvolgendo nel proprio movimento inestatico l’Io singolo, in un’immanenza così assoluta da escludere qualunque esteriorità, dunque ogni venuta al mondo: come sottolinea Henry, non occorre immaginare degli esseri puramente spirituali — forse degli angeli? — per concepire la totale estraneità al mondo, poiché questa è la nostra condizione più radicale e autentica. Tuttavia, resta da affrontare un’ultima fondamentale questione: come si rivela la vita all’Io, come gli si dà ciò che lo costituisce come tale? Oppure, più precisamente: nella sua «nascita trascendentale», come si riferisce l’essere vivente all’auto-generazione della vita assoluta e quale rapporto può instaurare con essa? In questo punto particolare, ci sembra che i percorsi di Henry e Marion si saldino perfettamente: infatti, la suesposta dinamica fenomenologica della forma pura dell’appello, proposta da Marion in Réduction et donation e sviluppata successivamente nella figura dell’a-donato, mette precisamente in relazione un tipo di fenomenalità che «accade» all’Io esponendolo alla propria radice fenomenologica più profonda, ossia l’esser costantemente costituito da altrove in un movimento che lo coinvolge e lo interpella mettendone fuori gioco ogni certezza metafisica, logica e ontologica. Facendo «reagire» queste due prospettive teoriche, scopriamo che la vita, nel suo movimento inestatico di auto-affezione, fa sorgere l’Io — ne pone la nascita trascendentale come originario «sentire» se stesso in un’immanenza così assoluta da escludere qualunque esteriorità, qualunque «venuta al mondo» — proprio coinvolgendolo e, per così dire, chiamandolo all’infinito processo di generazione vitale. Spetterà poi all’Io accogliere la propria genesi trascendentale come ciò che lo presuppone ab origine e che, ben lungi dall’attribuirgli la capacità di auto-fondarsi, lo fa «essere» a titolo di destinatario della fenomenalità e di — per utilizzare una celebre espressione di Marion — «affittuario della soggettività».34 Scrive Henry:
La venuta dell’Io nell’auto-generazione della vita assoluta non è dunque nessun evento assimilabile a ciò che intendiamo abitualmente per nascita. Non siamo nati per poter in seguito condurre in proprio la nostra vita. […] L’Io si impadronisce dei propri poteri e innanzitutto di se stesso solo in quanto la vita assoluta non smette di auto-sentirsi in lui, e ciò perché non vi è che una sola vita e una sola auto-affezione, quella stessa in cui l’Io si trova affetto come il Sé singolo che egli è.35
Non siamo dunque nati un giorno particolare — tutt’al più, in linguaggio husserliano, il nostro «corpo psico-fisico» è entrato ad un certo punto nella rete di relazioni mondane tra enti caratterizzati dal proprio «essere-fuori-di-sé.» Al contrario, siamo costantemente generati nell’auto-generazione della vita: ecco perché la nascita non va considerata come un evento verificatosi in un dato momento, ma come una condizione. In ultima analisi, «veniamo al mondo» in quanto unità psico-fisiche, ma «veniamo alla vita» in quanto originariamente coinvolti nel suo movimento di continua generazione. Se questo flusso generativo continuo s’interrompesse, l’Io ne risulterebbe distrutto per sempre.
In ultima analisi, la fenomenologia radicale di M. Henry ci consegna l’esigenza di ripensare il paradosso abissale della nascita in tutta la sua inestaticità, ossia come processo immanente di auto-temporalizzazione della vita. Se da un lato ciò che genera non può che precedere ciò che è generato, dall’altro lato ciò che è generato dal e nel movimento di auto-affezione della vita non si rapporta mai a ciò che lo genera come ad un prima estatico. Un tale paradosso — sostiene Henry — può essere compreso distinguendo le forme di rapporto strutturalmente estatiche, ossia quelle che si risolvono nell’esteriorità, da quelle puramente inestatiche, innervate unicamente dal pathos trascendentale. Infatti, ogni determinazione affettiva o patetica non si rapporta a se stessa in modo estatico ma soltanto nella sua affettività trascendentale; tale è il caso della nascita: la sua temporalità originaria è precisamente quella della sua affettività e del suo «sentire se stessa» che, sebbene si modifichi costantemente, non cessa mai. «L’Io vivente radica il proprio vivere nella vita assoluta, così come egli deriva la propria auto-temporalizzazione dalla vita e dalla sua auto-generazione eterna. L’auto-temporalizzazione della vita assoluta è una legge fenomenologica materiale di questa vita.»36 Conseguentemente, l’Io si rapporta a se stesso soltanto rapportandosi alla vita assoluta, cioè lasciandosi coinvolgere in quell’appello originario attraverso cui la vita lo genera e lo fa nascere. In questo senso, giova ripeterlo, l’Io «viene al mondo» (o, in termini heideggeriani, «viene al Dasein») solo in quanto è già da sempre coinvolto e generato dalla e nell’auto-affezione e auto-temporalizzazione della vita. Concludiamo con le parole di Henry: «La condizione dell’Io è il pathos del proprio presupposto. La vita dell’io trascendentale è la fenomenologia della sua nascita. La condizione dell’Io è il pahos del poprio presupposto.»^[37]
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M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. Milano, Longanesi 1976, par. 48, p. 301. ↩︎
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Ivi, p. 300. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cf. M. Heidegger, Essere e tempo, par. 7: «Considerata al livello della cosa stessa [sachhaltig], la fenomenologia è la scienza dell’essere dell’ente.» ↩︎
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M. Henry, Phénoménologie de la naissance, in Phénoménologie de la vie, I, Parigi, PUF 2003 (a cura di J.-L. Marion), pp. 123-142. Pubblicato per la prima volta in Alter. Révue de phénoménologie, n. 2, 1994, pp. 295-312. ↩︎
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M. Henry, L’essence de la manifestation, Parigi, PUF 2003 (ultima ed.). ↩︎
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Ivi, p. 998. ↩︎
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Ivi, p. 163. ↩︎
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M. Henry, Phénoménologie de la naissance, cit., p. 124. ↩︎
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M. Henry, La Barbarie, Parigi, PUF 2001 (ultima ed.). ↩︎
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Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, allo studio di A.Giubilini e F.Minerva, pubblicato dal Journal of Medical Ethics nel febbraio 2012, dedicato alla possibile legittimità dell’«aborto post-natale». L’ampio dibattito che ne seguì prese subito la forma ideologica dello scontro tra bioetica laica e bioetica cattolica; tuttavia, ben a monte di questa distinzione, sarebbe sufficiente riflettere sulla serie di paralogismi in cui incorre questo studio (primo fra tutti, la possibilità dell’aborto post-nascita — nome scientifico del più tristemente noto «infanticidio» — per i casi in cui il neonato andrebbe incontro ad una vita «non degna di essere vissuta», salvo poi non specificare quali siano i criteri dirimenti in proposito), tutti incentrati sull’indebita equivalenza tra il «venire al mondo» e il «venire alla vita». ↩︎
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Si è tentato di approfondire questo tema in riferimento a Husserl e Heidegger in Con e oltre la fenomenologia. Le «eresie» fenomenologiche di J.Derrida e J.-L. Marion, Genova, Il Melangolo 2008 e in Bilancio di un’eresia. Riduzione, Ego trascendentale e Dasein tra Husserl e Heidegger, Dialegesthai, 2009. ↩︎
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J.-L. Marion, Réduction et donation, Parigi, PUF 1989 (trad. it. Riduzione e donazione, Roma, Marcianum Press 2010). Le seguenti citazioni da questo testo sono leggermente modificate rispetto alla trad. it. e seguono la numerazione di pagine dell’ed. originale francese. ↩︎
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M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia 1968, par. 4 (tit. orig. Einfuhrung in die Metaphysik, prima ed. Tubinga, M.Niemeyer 1958, poi ripubblicato in Gesamtausgabe, X, Francoforte sul Meno, Klostermann 1975 e segg.). ↩︎
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J.-L. Marion, Réduction et donation, cit., p. 292. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 29 ↩︎
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J.-L. Marion, Réduction et donation, cit., pp. 292-293. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 30. ↩︎
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J.-L. Marion, Réduction et donation, cit., p. 294 [corsivo nostro]. ↩︎
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J.-L. Marion, Réduction et donation, cit., p. 296. ↩︎
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J.-L. Marion, Étant donné. Essai pour une phénoménologie de la donation, Parigi, PUF 1997 (trad. it. Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, Torino, SEI 2001). ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., par. 2. ↩︎
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M. Henry, Phénoménologie de la naissance, cit., p. 124, trad. nostra. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 329. ↩︎
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M. Henry, Phénoménologie de la naissance, cit., p. 126. ↩︎
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Ibidem [trad. nostra]. ↩︎
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Ivi, p. 127. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 75. ↩︎
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M. Henry, Phénoménologie de la naissance, cit., pp. 128-129. ↩︎
-
Ivi, p. 129. ↩︎
-
Ivi, p. 132. ↩︎
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Ivi, p. 133. ↩︎
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J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, cit., p. 393. ↩︎
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Ivi, p. 139. ↩︎
-
Ivi, p. 141. ↩︎