1. Introduzione
In che rapporto sono arte e verità? È possibile pensare una connessione tra l’esperienza estetica e la dimensione veritativa, sino ad una identificazione? In sintesi, il nostro sentire estetico può dirci qualcosa della verità? Ci poniamo questi interrogativi poiché riteniamo che oggi non si possa analizzare il fenomeno estetico senza considerare la possibilità che esso possa configurarsi come «esperienza di verità». Riteniamo, infatti, che qualsiasi punto di vista da cui sia stato osservato il fenomeno estetico nel tempo, non sia altro che una modalità differente di fare della realtà un problema e di cercare risposte a partire dalla capacità umana definita aisthesis (da cui la parola «estetica»), cioè da una peculiare capacità di sentire. Nel breve saggio che proponiamo, viene messo in luce il ruolo centrale che questa peculiarità ha occupato in un determinato periodo della storia: il Medioevo.
La nostra analisi non pretende di ricoprire tutta la fascia temporale, né tutta la complessità di questo immenso capitolo della storia umana, ma tenterà di coglierne alcuni tratti salienti che svelano come momento teoretico e momento estetico fossero, per il sentire medievale, estremamente identificati. Punto di partenza irrinunciabile per un percorso di questo tipo, sono le opere di Rosario Assunto, grande intellettuale italiano, che per primo ha definito il Medioevo con il coraggioso appellativo di «civiltà estetica». Chiamando in causa la storiografia filosofica, saremmo persuasi che Assunto non è iniziatore di una nuova scuola o di un nuovo filone di pensiero, ma che i suoi studi si inseriscono coerentemente in una rinnovata chiave di lettura del fenomeno culturale medioevale, da metà degli anni ’40 (del XX secolo) in poi. La confutazione storico-critica delle affermazioni superficiali che etichettavano quest’epoca come «buia», era un percorso che tra gli anni ’60 e gli anni ’70 (periodo in cui Assunto scrive le sue opere più rilevanti in ambito di estetica medievale) aveva raggiunto un notevole sviluppo. Un altro punto fermo importante per la comprensione del lavoro di Assunto riguarda il territorio proprio dell’attività estetica e la sua partecipazione o meno al processo conoscitivo. In sintesi, ci sono due orientamenti, due sguardi, con cui poter osservare e leggere il fatto estetico: il primo, fa riferimento al «nuovo paradigma» con cui nasce l’estetica moderna, che separando la sensibilità dall’intelletto, dà vita ad una nuova scienza (l’estetica per l’appunto), ma relega il lato sensibile dell’umano tra le facoltà inferiori, attuando una rigorosa separazione dell’estetico dal conoscitivo. Il secondo sguardo, a cui si lega Assunto, è quello che riconosce la facoltà estetica come parte integrante del processo di conoscenza della realtà. Dunque, un secondo punto di vista che lascia aperta la strada alla possibilità di una connessione tra arte e verità, tra sfera sensibile e dimensione spirituale dell’uomo. A questo punto non possiamo non menzionare l’apporto che Kant, con l’estetica critica, ha dato a questa riflessione. La sua svolta risiede nel rapporto che intercorre a livello conoscitivo tra soggetto e oggetto. Kant percorre la strada del ricongiungimento, almeno parziale, dei due punti di vista: il primo sguardo afferma l’impossibilità di ricorrere alla dimensione sensibile per la conoscenza dell’oggetto, esclusiva della dimensione teoretica, lasciando che la scienza estetica si occupi solo di affermare, seguendo alcuni canoni, se quell’oggetto è degno di essere definito «bello»; il secondo sguardo afferma invece la possibilità di una relazione conoscitiva tra soggetto e oggetto e allo stesso tempo il fondamentale apporto della sfera sensibile in questo processo. Kant continua ad affermare, da un lato, l’esclusività della dimensione teoretica nel fatto conoscitivo, ma riconoscendo che il darsi di un rapporto estetico mette in uno stato di «libero gioco» le facoltà dell’immaginazione e dell’intelletto, facoltà conoscitive che cessano di essere determinate da concetti poiché non sono costrette da alcuna particolare regola di conoscenza. Inoltre, non dimentichiamo che la vera e propria svolta dell’estetica critica riguarda il cambio di focalizzazione dell’analisi estetica dall’oggetto (Kant si distanzia dal «nuovo paradigma» che fonda la scienza estetica su canoni riferiti all’oggetto) al soggetto, al suo modo di sentire la realtà, al suo modo di percepire l’oggetto: l’estetica diventa veramente aisthesis. Questa digressione kantiana è necessaria anche per comprendere nella sua totalità l’opera di Assunto, che ha dedicato gran parte dei suoi studi proprio a Kant e alla sua estetica critica.
Nella prima parte del saggio si delineano le generalità della nuova chiave di lettura che del Medioevo si è compiuta in Europa a partire dalla metà degli anni ’40 fino a Rosario Assunto. Prima di iniziare ad analizzare la visione estetica del filosofo siciliano, ci sembrava fondamentale prendere in considerazione un tema di raccordo tra l’estetica antica e medievale: il tema della Luce. Quella che si definisce «metafisica della Luce» crediamo sia il concetto cardine, il punto focale, intorno cui si snoda il passaggio tra estetica antica e medievale. Nello specifico, sono messi in evidenza i caratteri della visibilità e dell’apparenza, di basilare importanza per la tematizzazione della Bellezza sia nel mondo antico che medievale. La Luce è il tramite, il symbolon per dire ciò che non può essere detto, il tratto sensibile e bello in luogo di una Bellezza che si pone sempre in un «oltre» rispetto all’umano. A questo proposito, il passaggio dal significante romanico alla forte anagogia gotica, ha come perno proprio la Luce, basti pensare all’importanza che le vetrate avevano in una cattedrale gotica, dove il lato estetico e quello anagogico si intrecciavano inesorabilmente.
I paragrafi successivi percorrono proprio questa strada: l’affermazione della civiltà estetica passa nel sinolo inscindibile che il Medioevo traccia tra significato e forma, tra kalon e aletheia, o meglio tra verum et pulchrum. Così la polisemia non è altro che la tensione umana verso la rappresentazione del creato nella sua armonia complessa di forme. Il mondo è un libro, per questo ogni oggetto è rimando polisemico, fino a giungere al creatore, che altro non è che creatore di Bellezza, un artista divino. Qui, non possiamo dimenticare il peso che la Scuola di Chartres ha avuto in questo senso: il naturalismo fondato sull’interpretazione cristiana del Timeo platonico ha portato ad intuizioni molto interessanti, ricadute necessariamente sulla cattedrale che sorgeva proprio accanto alla Scuola di pensiero. Non a caso, la cattedrale di Chartres rimane oggi uno degli esempi più alti del gotico in Europa.
Rosario Assunto individua il concetto di civiltà estetica, in maniera peculiare, nella sensibilità dell’uomo del tempo. L’acutezza della sua analisi risiede nell’aver considerato, prima delle strutture storico-culturali, come l’uomo medievale veniva inserito, con il suo modo di sentire, in quel grande libro che è l’ornatus mundi. Da buon studioso dell’estetica critica, prima di passare in rassegna le caratteristiche artistiche della cattedrale di Chartres, si sofferma sugli «effetti estetici» che quell’architettura genera nella sensibilità dell’uomo comune. Così, l’individuo entra a far parte di quel grande libro, anzi si trova al centro di esso, ne è spettatore e protagonista allo stesso tempo, la cattedrale cessa di essere un luogo e diventa un ipertesto, una prospettiva, in cui il soggetto può già gustare, con il senso estetico, le bellezze della vita eterna. Quella gotica è un’architettura volta all’elevazione, non solo dello Spirito, ma anche della dignità dell’uomo medievale, poiché in quella concezione è proprio l’uomo il protagonista, colui che deve essere elevato, l’uomo che deve alzare gli occhi e sentirsi investito di Bellezza.
Non solo una civiltà tutta protesa alla Bellezza, ma una civiltà inaspettatamente antropocentrica, dove il protagonismo della figura umana, però, non viene inteso in antagonismo con la natura, con il creato, bensì in armonia con esso, in cui il soggetto non è soltanto fruitore di Bellezza, ma altresì oggetto e creatore.
Nel 1946 Edgar De Bruyne (1898-1959) pubblicò la monumentale opera Études,1 in cui per la prima volta in senso organico e consapevole viene esplicitamente messa in discussione la tesi secondo cui l’estetica è una disciplina esclusivamente moderna. Gli studi hanno avuto, nel corso degli anni un successo relativo, ma importante, nello sviluppo di una coscienza estetica che non tralasci la ricchezza delle determinazioni artistiche di ogni epoca. Grandi autori, che nel XX secolo hanno affrontato il tema complesso di una estetica medievale, hanno necessariamente dovuto confrontarsi con questo lavoro che ha gettato le basi per l’apertura di nuove prospettive per la storia di questa materia. In questo senso, vogliamo concentrare la nostra attenzione su uno degli autori che, più di tutti, ha offerto alla comunità filosofica una nuova chiave di lettura del fenomeno estetico medievale, segnando un momento di chiara rottura con il passato. Rosario Assunto (1915-1994) ha capovolto i termini tradizionali, che identificavano nella medietas un’epoca di transizione, in cui il fatto estetico non assumeva una rilevanza ed una autonomia tali da poter parlare di una disciplina. Il merito di Assunto è stato quello di non fermarsi alla rivalutazione di quest’epoca, illuminandone i tratti sempre troppo sconosciuti, ma di indicare proprio nel Medioevo l’era in cui l’estetica ha conosciuto il suo apice filosofico, in cui, libera di esprimersi senza vincoli disciplinari che la definivano, si dava al pensiero di quel tempo come il paradigma dal quale guardare il mondo, e il binario trasversale sul quale muoversi nel piano culturale.
2. La metafisica della Luce
Prima di analizzare l’opera di Assunto, vogliamo identificare le assonanze tra le caratteristiche dell’estetica arcaica e i temi ricorrenti nella riflessione successiva del Medioevo.
Il neoplatonismo è sicuramente l’espressione emblematica di come il pensiero antico abbia ricoperto, nei secoli successivi alla caduta dell’Impero occidentale, un ruolo fondamentale per lo sviluppo del pensiero filosofico. In una prospettiva che identifica nel Medioevo l’era del pensiero cristiano, i pensatori dei primi secoli dopo Cristo si considerano i fondatori di quella vera philosophia che si intreccia in maniera necessaria con la divina dispositio del creato ma anche delle idee.
Il neoplatonismo si sviluppa a partire da un rinnovato interesse per le teorie platoniche, evidenti soprattutto nell’opera di Plotino, le Enneadi, in cui le affermazioni antimimetiche riferite all’arte da Platone, nella Repubblica e nel Simposio, sono molto evidenti. La preponderanza di Platone nei primi secoli del Medioevo è, in ogni modo, filtrata da una relativa conoscenza delle opere del filosofo di Atene, in quanto soprattutto il mondo latino avrà accesso ad una minima parte di quegli scritti: solo il Timeo e altri pochi frammenti. Il mondo greco avrà, invece, la fortuna di conservare in maniera molto più diretta quella tradizione. Il corpus di opere attribuite a Dionigi Areopagita ebbe un successo notevole, perpetrando e rafforzando la coscienza neoplatonica, che già nei secoli precedenti aveva offerto un linguaggio efficace all’apologetica cristiana. I testi dello pseudo-Dionigi giunsero in Europa nel IX secolo, grazie all’abate di Saint-Denis, Ilduino, che tradusse per primo in latino l’opera. Ma la traduzione che conobbe una maggiore circolazione fu quella di Giovanni Scoto Eriugena (867 ca.). Il merito di Scoto fu quello di introdurre fortemente le categorie dionisiane nella filosofia occidentale, molti dei termini utilizzati nel corpus vengono adottati dallo stesso traduttore per le proprie opere e la propria speculazione. Inoltre, Scoto Eriugena produsse un commento ad un’opera del corpus, la Gerarchia ecclesiastica, valorizzandone ancora di più la portata speculativa. Molte altre traduzioni del corpus dionisiano saranno condotte a termine nei secoli successivi, ma vogliamo soffermarci su queste prime due, per sottolineare, proprio nella traduzione, dei passaggi fondamentali alla luce della nostra ricerca.
Lo stesso De Bruyne, nei suoi Études, pone in risalto il cambiamento di traduzione della parola kalon tra la traduzione di Ilduino, che la traduce con bonum e quella di Scoto, che invece scrive pulchrum. Il passaggio è emblematico. Tra le due interpretazioni, si realizza «un mutamento che sta ad indicare il percorso verso l’autonomia della considerazione della bellezza distinta dalla triade Vero, Buono, Bello».2
Dunque, in una prospettiva che identifica lo sviluppo dell’estetica nel senso di una maggiore indipendenza del concetto di bellezza, qui si consuma già un passo in avanti importante rispetto al pensiero antico.
La matrice più spiccatamente greca degli scritti dello pseudo-Dionigi ci permette un confronto con i temi dell’estetica antica, ma non solo nel senso dell’identificazione di differenze specifiche, bensì nel recupero di quei temi in una contaminazione con il pensiero cristiano.
I temi introdotti dal corpus dionisiano nella filosofia occidentale saranno oggetto di commento e studio per molti secoli, fino a Tommaso d’Aquino. Uno dei temi più ricorrenti è sicuramente il nesso Dio-Bellezza-Luce. L’accostamento di Bellezza e Luce viene particolarmente analizzato da Scoto Eriugena nella sua opera fondamentale, il De divisione naturae, intriso di categorie dionisiane. «Le forme visibili non sono attraenti per se stesse ma come manifestazioni e immaginazioni della bellezza invisibile: è attraverso di loro che la divina provvidenza chiama e attira l’anima dell’uomo verso la pura e invisibile bellezza della verità».3 In questo passo identifichiamo due concetti importanti: il primo riprende uno dei principi fondamentali dell’estetica arcaica: la visibilità. Per la sensibilità antica, ciò che è degno di essere chiamato bello deve sottostare alle leggi dei sensi, in maniera particolare sotto il senso della vista. Quello della visibilità può essere definito quasi uno dei canoni inamovibili dell’estetica antica. Il tema della Luce mette in risalto proprio questo ambito, tutto ciò che è luminoso è maggiormente visibile, dunque ammirabile, contemplabile, degno di essere detto bello. Il secondo concetto riguarda la sorgente da cui questa bellezza viene donata. Tuttavia, non possiamo non accorgerci della contraddizione in termini che ci viene proposta: la bellezza, che, come nel mondo arcaico, si dà nella sua luminosità e visibilità, prende forma da un’origine che quella visibilità non possiede. Dio è invisibile, non può essere rappresentato, non ha forma sensibile. Qui il Medioevo introduce uno dei suoi nodi di originalità: ciò che per antonomasia non è fruibile dai sensi concede bellezza visibile al mondo.
Nella divinità sono rappresentati tutti gli attributi di perfezione: Bene, Bellezza, Luminosità, Grazia, Proporzione, Misura, Verità; scorrendo i termini in questione, sembrerebbe quasi che il Dio dei medioevali ha la sua forma narrata in canoni estetici, gli unici che, così sembrerebbe, riescano a dare un volto, una definizione, seppur umana e relativa, a Dio.
Un altro dei grandi traduttori di Dionigi Areopagita è stato Roberto Grossatesta (1175? -1253), vescovo di Lincoln, che incarna una mentalità nuova, accademica, che ormai inizia a conoscere Aristotele, attenta agli studi scientifici, come la fisica. Questi studi lo portano a porre l’accento, tra gli altri, sul tema della Luce. Infatti, una delle sue opere più importanti è proprio il De Luce. Il tema della bellezza ha ormai, specialmente con la scuola di Chartres, identificato nella proporzione e nella misura uno dei canoni fondamentali del valore del bello. Infatti il Grossatesta indica proprio nella luce il luogo in cui la proporzione e la misura si danno alla realtà, e la materia, mediante la luce, assume connotati di grandezza e di bellezza: ci troviamo dinanzi una vera e propria metafisica della luce, che spiega le relazioni profonde tra il mondo geometrico e la sua bellezza/bontà.
Il tema della Luce è altresì presente nell’opera letteraria che, probabilmente, traduce in poesia tutta la sensibilità di quell’epoca, la Commedia di Dante, in cui la luminosità è il tratto caratteristico dell’avvicinamento alla Verità, a Dio. Lo sforzo supremo della mente del sommo poeta nell’accostarsi al mistero della Trinità viene descritto con una folgorazione luminosa, che Sapegno intende come «illuminazione suprema della Grazia».4 Molto interessante a questo proposito la lettura di Gessani, che sottolinea, in questo tratto della Commedia, la specificità della luce spirituale, che non provoca allontanamento degli occhi, ma «tiene a sé stretto lo sguardo in modo tale che il distoglierlo non darebbe sollievo».5 L’uomo scopre nel divino quell’unità che rimane paradossale per una mente abituata a conoscere per distinzioni e differenze. La verità si dà all’uomo con uno sforzo della Grazia, il desiderio umano di svelare il mistero viene appagato dalla luce che rende bella quell’immagine che risulterebbe incomprensibile alla dimensione umana: la bellezza è il termine che traduce l’infinito, che lo rende accessibile, dicibile, ammirabile. L’uomo medioevale conosce il divino, il vero, il buono attraverso la bellezza e il suo splendore luminoso.
3. Rosario Assunto e la civiltà estetica
Come già accennato, le intuizioni di Rosario Assunto rappresentano, all’interno del panorama filosofico ed estetico italiano ed europeo, un passo in avanti importante, per portata e per valore. La prima parte di questo lavoro, dedicata ad una panoramica sui temi principali dell’estetica arcaica, e l’introduzione al tema della Luce, categoria fondamentale nel pensiero filosofico e teologico medioevale,6 sono, a nostro avviso, passaggi fondamentali da tenere ben chiari alla luce di un’analisi sul Medioevo di un certo tipo. Da autore poliedrico ed eclettico, Assunto non si è mai allontanato, con i suoi scritti e con la sua ricerca, dai temi più comuni alla ricerca sul Medioevo. Al contrario, la sua analisi profonda e incredibilmente lucida prende le mosse proprio dai temi consueti del pensiero medioevale, per identificare un nuovo punto di vista. I concetti di cui parla Assunto non sono diversi da quelli presi in considerazione dalla critica medioevale tradizionale, il suo lavoro è consistito nel dare un nuovo ruolo a quegli stessi principi.
Dopo le intuizioni di De Bruyne, molti autori hanno iniziato una riconsiderazione, sotto diversi aspetti, dell’epoca medioevale; non dimentichiamo, ad esempio, l’importante apporto che ha dato con i suoi studi Umberto Eco (n. 1932). La semplicistica riduzione del Medioevo a periodo «di passaggio», ad «epoca buia», oggi constatiamo sia un’operazione miope, che non riesce ad abbracciare con uno sguardo onnicomprensivo la complessità e la dinamicità di questi secoli. In ogni modo, Rosario Assunto è stato sicuramente uno dei protagonisti di questa riconsiderazione, partendo dal ruolo che l’estetica ha giocato nel panorama socio-culturale di quell’epoca.
Al fine di dare un fondamento filosofico e scientifico al nostro tema, la centralità del concetto di bellezza nella cultura medioevale, il pensiero di Assunto ci sembra non solo una sintesi adeguata, ma altresì un punto di partenza irrinunciabile.
L’impegno di Assunto a favore di una revisione del pregiudizio tradizionale sul Medioevo, parte da un’analisi estetica, proprio perchè la critica occidentale ha negato a quel periodo storico, più di tutto il resto, proprio una dimensione estetica propria. La convinzione diffusa, secondo la quale la disciplina estetica nasce con le intuizioni di Baumgarten,7 viene da Assunto sapientemente confutata, partendo dalle stesse categorie utilizzate dai critici rispetto ai quali dissente. A questo proposito, prende le distanze da Benedetto Croce (1866-1952), quando nella sua Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, esprime un giudizio molto duro sulla riflessione intorno alla bellezza nel Medioevo: «… sopra ogni altra prevalse quella teoria narcotica dell’arte moralistica o pedagogica, che già aveva contribuito ad addormentare il dubbio e la ricerca estetica dell’antichità e che ben si confaceva a tempi di relativa decadenza di cultura…».8 Assunto non nega la dimensione moralistica e pedagogica dell’arte nell’antichità e nel Medioevo, ma si impegna a riconsiderare quei ruoli. Il fatto che l’estetica assuma ruoli che possono sembrare lontani dalla sua competenza, sottolinea che il ruolo dell’estetica non è sterile, ma fecondo e integrale, che non si pone come narcotico, bensì come «energetico»9 per la produzione artistica. Assunto non critica in maniera cieca il pensiero di Croce, ponendosi in una posizione lontana da tutta quella produzione culturale che in quel periodo, per consuetudine e convenienza, si definiva anti-crociana. D’altronde la posizione di Croce non è «peraltro così superficiale, anche per la parte riguardante il Medioevo, come ritengono coloro che giudicano Croce per sentito dire».10 Non possiamo dimenticare, allo stesso tempo, ciò che Croce riporta nella sua Critica, in un articolo su un’opera di Sella intorno all’estetica musicale in San Tommaso, in cui ammette che «le sue idee sul bello e sull’arte non sono già false…».11
Nel suo commento alle precedenti parole di Croce, Assunto inizia la sua opera di «rovesciamento» dei termini in questione. Se Croce parla di arte moralistica e pedagogica, Assunto afferma che il Medioevo propone invece una pedagogia e una morale artistica. In questo principio inizia a fondarsi la teoria di Assunto di una civiltà estetica. L’uomo medioevale non coglie ciò che conosce se non attraverso la sensibilità e la bellezza. A questo proposito, Frederic James Edward Raby, morto nel 1966, ha attribuito ad Alano di Lille uno dei testi più significativi della storia della letteratura medioevale, l’Omnis mundi creatura, che dipinge la condizione umana, molto utile al nostro scopo per indagare il modo in cui nel Medioevo la poesia, e dunque l’arte, entra in stretto contatto con la pedagogia e la morale.
4. La polisemia
I versi di Omnis mundi creatura sono divenuti famosi per i medievisti grazie a due autori eccellenti, che ne hanno fatto un paradigma: artistico, per Eco, che ne cita direttamente i versi nel suo romanzo più famoso, Il nome della rosa, estetico, per De Bruyne, che ne ricava un esempio ottimo per la sua opera di rivalutazione del ruolo dell’estetica pre-moderna:
Omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est in speculum; nostrae vitae, nostrae mortis nostri status, nostrae sortis fidele signaculum. Nostrum status pingit rosa nostris status decens glosa nostrae vitae lectio; quae dum primum mane floret, defloratus flos effloret vespertino senio.12
I versi di Alano aprono prospettive molto ampie. La prima è la convinzione insita nei medievali, che il mondo, il creato, e così l’uomo, sia un grande libro. Guardare all’universo per un uomo di quel tempo, significa scrutare gli infiniti segni (signaculum) che Dio ha lasciato alle creature per essere conosciuto. Assunto ipotizza che i versi di Alano abbiano probabilmente influenzato la grande opera di Dante Alighieri; d’altronde, aggiunge il Nostro, «non potremmo leggere la Commedia ed apprezzarla in tutta la sua inesauribile attualità, se il suo significato letterale […] non ci coinvolgesse […] se non la vivessimo anche come una ricerca di pensiero. Una ricerca in cui la tensione per la verità è tensione vissuta […] e le risposte sono gioiose quanto sofferta è la loro attesa».13 L’uomo si pone dinanzi al mondo in un atteggiamento conoscitivo, di ricerca; l’universo diventa il luogo in cui l’uomo può conoscere Dio ammirandone i segni che ha lasciato nella sua opera. I versi di Alano ci dicono che anche l’uomo nella sua profondità è un libro o un dipinto (quasi liber et pictura), opera d’arte che va scrutata, ammirata, anche la natura umana è segno fedele dell’opera del creatore. La sensibilità medievale recupera dal mondo antico quella tendenza al conoscere attraverso la vista, ma non ci troviamo più dinanzi ad un ricordo, bensì dinanzi i segni concreti della Verità. Solo l’occhio estetico può conoscere la divinità, poiché solo attraverso la bellezza dell’universo la divinità può darsi all’intelletto. Tutto ciò che Dante narra della sua avventura, del suo viaggio (il viaggio della vita dell’uomo di pensiero, che passa attraverso le buie caverne per giungere alla luce della verità), rimanda necessariamente ad un piacere estetico. Questo piacere si pone in essere nella ricerca stessa, nel viaggio, così che anche le mostruosità, le tenebre e gli esseri deformi che incontra possano essere recuperati in una prospettiva di bellezza globale. Dante esprime la gioia del piacere estetico, «la felicità che essa ci procura, piacere della contemplazione inesauribile di una verità che in quanto tale è bella, e uno non si sazia mai di rimirarla, desideroso di imprimersela bene in mente, per poterla comunicare agli altri».14 Assunto ci parla di «intenzionale polisemia della poesia», in cui il senso non è univoco, bensì costruito su letture che toccano piani diversi; il passaggio dal piano letterale a quello allegorico, fino a quello anagogico, passando per il senso morale, non può essere considerato un movimento narcotico, per tornare ad utilizzare il linguaggio crociano, ma solo un panorama più complesso in cui l’artista può sfogliare il libro del mondo, foriero di significati e rimandi infiniti. Di nuovo, questa lettura che Assunto ci invita a sostenere, strizza l’occhio alla visione semplicistica di un Medioevo buio e sterile, quando invece, considerazioni di questa fattura, dice Assunto, «non saprei trovare in alcun moderno trattato di estetica».15 Nel piacere estetico fondato su un ricirculare dei sensi, soprattutto la vista, un tornare sui segni, metterli in connessione e comprendere, leggiamo una sorta di circolo ermeneutico, una concezione molto più complessa e sviluppata di quanto si immagini. La polisemia è uno dei tratti caratteristici dell’estetica medievale, la ricchezza di significati liberi, che il mondo porta con sé.
L’affermazione di Assunto rispetto alla contemplazione di una verità bella, ci porta necessariamente alla considerazione di un problema: i trascendentalia e il posto che tra di essi occupa la bellezza. Uno dei punti fermi della sensibilità medievale e che smentisce le affermazioni rispetto ad una presunta storia piena di ombre e contraddizioni, è il fatto che per l’uomo medievale, quando si parla di bellezza, si considera tutto l’essere. Se i greci ci parlano di kalokagathía, riferendosi comunque ad una preminenza della struttura morale rispetto a quella estetica, per i medievali lo statuto ontologico della bontà e della bellezza si equivalgono al punto tale da sfiorare la sinonimia. Dinanzi alla lettura della Genesi, «Dio aveva visto che tutto ciò che aveva fatto era buono», per l’uomo medievale non c’è bisogno di spiegare che, dunque era anche bello, bensì nel significato stesso di quel buono è insito il bello, al punto tale che potremmo dire «buono/bello». L’apporto dei Padri dei primi secoli, «concorreva a rafforzare questa visione estetica dell’universo».16 Basti pensare a come l’opera di Dionigi Areopagita abbia influenzato la produzione culturale fino a Tommaso d’Aquino. Rispetto al tema della bellezza dell’universo e della creazione, dobbiamo tenere a mente l’opera platonica che più di tutte ha contribuito alla formazione della sensibilità filosofica medioevale: il Timeo, che come abbiamo già detto in precedenza, è probabilmente l’unica opera originale di Platone conosciuta dai medievali. I commenti a quest’opera (più in là affronteremo l’importante apporto che ha dato la Scuola di Chartres a questa tematica, anche attraverso il Timeo) hanno generato un filone di pensiero molto fecondo che ha avuto presa nella mentalità comune grazie alla traduzione in termini teologici compiuta dai Padri. Per questo possiamo leggere da Calcidio: questo mondo, ricevendo animali mortali ed immortali ed essendone pieno, è così divenuto un animale visibile, che accoglie in sé tutte le cose visibili, ed è immagine dell’intelligibile, dio sensibile, massimo ottimo e bellissimo, e perfettissimo questo cielo uno e unigenito.17 L’adesione appassionata che il Medioevo presenta rispetto al fatto religioso traduce questi termini in senso molto enfatico; ma alla nostra analisi interessa osservare come il concetto di bellezza non subisce uno sforzo di applicazione, ma risieda già come categoria trascendentale nell’idea di dio. Importante sottolineare anche come si definisca questo mondo: un dio sensibile, ovvero la presenza del creatore, che è Verità da ricercare, si trova sul libro naturale del creato.
Dopo questa breve parentesi chiarificatrice sulla presenza della bellezza tra i trascendentalia, torniamo all’analisi che Assunto compie riguardo al tema della polisemia nell’arte medioevale. In riferimento al piacere, Assunto giunge a parlare del parallelismo che si attua nel Medioevo tra godimento estetico e godimento sessuale. Questo accostamento, ritenuto da molti un lato tutto moderno dell’estetica, è in realtà, dice Assunto, «già presente in quel pensiero medievale di cui Dante ha fornito in poesia la sintesi più alta».18 Solo il Medioevo è capace di determinare il godimento sessuale dalla dimensione estetica, poiché l’arte non è una dimensione oggettiva, ma comprende e congiunge ogni determinazione della vita, quella fisiologica e di pensiero. L’estetica medievale ha bisogno della dimensione del corpo e dello spirito e trova nell’amore la sintesi più alta di questo movimento. Questo è un altro tratto della civiltà estetica: l’uomo che si rispecchia nella poesia e nell’arte ritrova tutto se stesso, senza perdere nulla, senza lasciare nulla indietro, tutto l’uomo e tutto il creato sono presenti nella dimensione estetica. L’uomo legge nella bellezza del mondo (compreso l’uomo) i segni della Verità, ma allo stesso tempo ha bisogno di quei segni per leggere se stesso, «sì che nel godimento della lettura, ognuno di noi sperimenti l’anagogicità della poesia, e si senta diventare altro, partecipe di quella grazia della quale il poeta diventa destinatario».19
5. La religione estetica
Il significato anagogico, che potremmo definire «sopra-senso» è il movimento più di tutti emblematico del modo di comprendere medioevale. Non c’è bisogno di una dimostrazione troppo accurata per sottolineare la centralità del discorso religioso nell’epoca medievale. Il Medioevo è l’unico periodo in cui la religione ha segnato in maniera decisiva ogni sfera della civiltà. All’interno di questa visione del mondo, Dio rappresenta la Verità, ciò che va ricercato, studiato, contemplato. L’immagine di Dio è il paradigma del mondo, ogni cosa parla di lui, dalle piante, agli animali, ai fenomeni di ogni tipo presenti nell’universo. La stessa polisemia, che ritroveremo più avanti, non è altro che una serie di significati che riportano ad un’unica fonte. Infatti, la polisemia non si verificò solo in poesia, ma abbracciò ogni evento legato alla produzione culturale umana. A questo proposito l’architettura si rivelò una delle espressioni artistiche che maggiormente realizzava quel sopra-senso. Se tutto tendeva al sacro attraverso l’anagogia, la dimensione religiosa era certamente quella maggiormente interessata a questo discorso. Il rapporto tra arte e religione nel Medioevo era molto complesso. La cultura medievale si contraddistingue per la capacità di pensare per immagini. La spinta estetica del senso religioso medievale portava l’uomo, che sperimentava tutti i giorni l’anagogicità, a non rimanere inerme dinanzi al mondo, bensì a cambiarlo, a renderlo più bello, «a realizzare quel sopra-mondo di cui recava la promessa».20 L’uomo trovava la sua consolazione dai mali terreni in quella bellezza sopramondana, che giungeva all’uomo come annuncio salvifico della grazia. La bellezza era sorgente di felicità per tutti, non solo felicità del godimento estetico, ma una felicità integrale, che racchiudeva il lato fisiologico e quello spirituale. Assunto ci ricorda che non era necessario aver compiuto studi particolari per riuscire a godere della bellezza delle cattedrali, come quella di Chartres, ma la bellezza si dava all’uomo nella sua luminosa chiarezza, poiché anche Dio era luce e unità. La Biblia pauperum è l’esperienza emblematica di come l’immagine fosse centrale nell’esperienza religiosa medioevale. «Diremo allora che la religione medievale era fondamentalmente una religione artistica».21 Questa affermazione del Nostro ci indica come l’uomo si trovasse dinanzi l’evento dell’assoluta trascendenza e dell’assoluta immanenza, riuniti in una sola forma. «Il fondamento speculativo di quella onnipresenza e onnicapacità dell’immagine che caratterizzò la civiltà medioevale, e la costituisce, s’è detto, come una civiltà dell’immagine».22
Il rapporto stretto intessuto tra arte e religione era possibile anche per la profondità che l’immagine portava in seno. Assunto insiste molto su questo punto nei suoi scritti, portando alla luce la sterilità delle immagini odierne, a confronto con il solido allegorismo medievale «la cui incomparabilità col messaggio-immagine oggigiorno praticato consiste, appunto, in questo, che negli odierni messaggi l’immagine non è solidale con alcun significato noetico, ma parla esclusivamente alla vista…».23 La forza dell’immagine medievale risiedeva nella capacità di innalzare la sensibilità vivente ad un livello più alto della sua fisiologicità. L’immagine, il prodotto dell’arte umana, che imita il mondo (prodotto dell’arte divina), è il veicolo principale per giungere a Dio, alla sua contemplazione; in una civiltà in cui il fatto religioso rappresenta il nodo centrale del pensiero, questo ruolo dell’immagine diventa la chiave di volta per spiegare un’epoca. «L’arte era forma della vita, ambiente e cerimoniale e rito della vita, l’unità della giornaliera miseria e del giornaliero dolore con il loro ideale contrapposto, portava il sopramondo nel mondo, configurava come assoluta immanenza, bellezza del mondo e sua metamorfosi, la trascendenza assoluta per cui il sopramondo era anche l’oltre-mondo, radicalmente altro rispetto al mondo».24 La religione aveva bisogno dell’arte per dare validità e forma alle promesse oltremondane, che un altro mondo esiste davvero, e grazie all’arte anticiparne l’adempimento qui sulla terra.
Concordiamo con il Nostro, che per un recupero integrale della teoria di una religione che si realizza nell’arte e dall’arte prende la sua forma, dobbiamo rivolgerci con lo sguardo all’evento che per antonomasia descrive questo connubio: la liturgia. Nella liturgia ritorna in maniera poderosa la polisemia come categoria che costituisce l’architettura, l’arredamento, il vestiario, gli addobbi, il cerimoniale delle funzioni religiose, le musiche, la luce. Proprio quest’ultima, carattere fondamentale nell’estetica medioevale, era il discrimine principale nella progettazione architettonica di una cattedrale, soprattutto per lo stile gotico, in cui la luce veniva filtrata a seconda dell’ora e della funzione. I suoi diversi colori, le sue diverse posizioni nell’arco della giornata, accompagnavano gli uomini in preghiera, rappresentando la storia ideale eterna dell’uomo, la sua caduta e la sua salvezza. Una fonte molto importante alla luce del tema liturgico ci viene offerta dal Rationale divinorum officiorum di Guglielmo Durando, vescovo di Mende, scritto nella parte finale del XIII secolo. Nel commento a questo testo è interessante notare come Assunto muova una critica serrata al devozionismo moderno, che ha segnato a suo avviso la fine della vera religione e l’inizio della lenta morte dell’arte.25 Durando porta alla luce la polisemia dell’impianto liturgico, descrivendo come le suppellettili della chiesa rappresentino se stesse e qualcos’altro: la pittura, la scultura, l’arredamento, l’architettura, tutto era volto ad uno scopo liturgico, ma allo stesso tempo avevano un senso proprio. I significati, allegorico, morale, anagogico, sono raggiungibili solo partendo dal senso proprio, dalla qualità estetica, che però fonda il suo essere nella funzionalità liturgica. In un ricirculare continuo, la liturgia trova la sua essenza nella dimensione estetica, allo stesso tempo le forme d’arte espresse sono, poiché sono altro.
L’attenzione liturgica all’interno della chiesa portava il fedele (potremmo dire con questa affermazione l’uomo medievale) ad un confronto con l’esteticità della vita e della storia; perfino la sua fede viene posta su un piano estetico. La luce delle cattedrali gotiche «portava i fedeli all’interno della propria figuralità: da spettatori che erano di accadimenti avvenuti nel tempo e fissati per sempre in figurazione rammemorativa, li promuoveva al rango di testimoni diretti di una vicenda che infinitamente si rinnovava, collocata com’era in una temporalità, altra e diversa da quella del mondo».26 In questa dimensione, quella che maggiormente spicca tra le immagini è quella dell’uomo. La Scrittura dice che l’uomo è immagine e somiglianza di Dio, dunque l’animale più importante, l’immagine che più di tutti si avvicina a quella della divinità e che a Dio può condurre in maniera più diretta. D’altronde l’immagine umana che, secondo il Vangelo di Giovanni, è Logos fatto carne, è quella del Cristo, che nelle sue raffigurazioni viene mostrato nella sua attualità e presenza nella storia.27 La liturgia ci indica che, nel Medioevo, il rapporto tra arte e religione non consiste nel confronto tra due momenti diversi, bensì sono lo stesso momento spirituale. «La religione non si esplicava e si svolgeva se non in modi e forme che erano arte. E la stessa impossibilità di distinguere, negli edifici destinati al culto, negli oggetti che servivano al culto, l’ammirazione dovuta alla loro bellezza dalla devozione a ciò che essi significavano, non va interpretata nel senso di una irrilevanza o mera strumentalità del valore estetico — come non di rado si tende a fare — quasi si trattasse di una confusione devozionale».28 Ma non c’è «devozionismo», di stampo moderno, bensì bellezza che in quanto tale genera devozione. Questa precisazione viene presentata da Assunto con un esempio di storia vissuta: il trionfo della Maestà di Duccio di Boninsegna. Il 9 giugno 1311, a Siena viene portata in duomo la Maestà di Duccio, in processione devota per le strade della città. I committenti sapevano che il valore sacro di quell’opera non era dato solo dal significato dell’immagine, ma anche dal valore estetico, per questo la avevano commissionata a Duccio di Boninsegna, poiché sapevano come dipingeva. Ne apprezzavano l’individualità. L’opera non era bella per il soggetto religioso che rappresentava, bensì perchè l’arte e la religione si stavano esprimendo ad un livello alto. Quella Maestà raffigura un momento spirituale importante per la città di Siena e per i suoi fedeli. La bellezza prodotta dall’artificio umano sono, specialmente in ambito liturgico, il microcosmo che riporta al macrocosmo.29 Questa analisi del rapporto tra arte e religione ci indica l’estetica come necessaria alla religione, e considerando la religione la caratteristica principale di quest’epoca, poniamo l’estetica in una posizione fondamentale e polisemica rispetto alla realtà. Così la sua vasta estensione «ci autorizza pertanto a trasformare in quella di civiltà estetica, l’abituale definizione della civiltà medioevale come civiltà religiosa».30
C’è un ultimo tassello della riflessione di Assunto sullo sviluppo estetico della religiosità medievale, che merita di essere menzionato per la sua originalità, profondità di analisi e, soprattutto, per il suo forte parallelismo con il mondo arcaico. Criticando l’idea tradizionale secondo cui il Medioevo è stato un tempo di mortificazione e rinuncia, di buio della ragione e di disprezzo per la bellezza mondana, Assunto indica il Medioevo come civiltà estetica in quanto periodo che si fonda sull’ontologia del bello, su una metafisica che trova nell’estetica la sua base. Come già accennato, l’uomo medievale che si trova immerso nei polisemantici significati di una cattedrale, nella quale risuonano le corde più profonde del suo essere, quando la sua fede viene legata alle immagini della divinità che trova intorno a sé, quando tutta la realtà che lo circonda parla in termini di bellezza, anche i palazzi della politica e delle istituzioni sono riconoscibili per i simboli che l’arte offre. Assunto porta come esempio il Palazzo pubblico di Siena, in cui due affreschi di Ambrogio Lorenzetti, Gli effetti del malgoverno e Gli effetti del buongoverno, offrono alla politica non uno strumento, ma una forma. Grazie alla dimensione dell’arte tutto in quel palazzo parla di politica, non c’è bisogno di spiegare nulla, gli affreschi sono simbolo di innumerevoli significati. Il Nostro sottolinea fortemente come l’uomo medievale, forse in maniera preponderante rispetto ad altre epoche della storia, fosse consueto a pensare in termini estetici. In questo senso, la religiosità medievale ci offre l’esempio cardine, «in quanto instauratrice di una letizia e festosità di paradiso qui, nella vita terrena».31 Le feste celebrate tra le grandi opere d’arte che parlano sia ai sensi che allo spirito, obliano il male, i malanni di un mondo fatto di sofferenze, «l’arte approntò agli uomini un ricetto contro il male che li assediava»,32 permetteva ad essi di godere anticipatamente della gioia che li attendeva in eterno.
La dimensione della festa e dell’oblio dei mali ci rimanda necessariamente alla sensibilità arcaica, in cui la comunità si ritrovava nell’eccitazione sacrale della festa, in cui riconosceva se stessa e dimenticava il male della vita. Come già riportato nella prima parte del nostro lavoro, Carchia nella sua Estetica antica identificava nella festa il luogo in cui veniva sospeso ogni conflitto e discordia; allo stesso modo nella bellezza del mondo l’uomo medievale ritrova la sua dimensione più umana e allo stesso tempo ultraterrena. «Quella del Medioevo fu una civiltà estetica in quanto era arte tutto quello che si faceva».33
6. Il creato e l’ornatus mundi
L’originalità dell’estetica medievale risiede nella sua capacità di essere estetica dell’arte, intesa come arte umana, e allo stesso tempo della natura, intesa come arte divina, del creato. L’attenzione al mondo naturale non era estraneo all’occidente, per il mondo greco il concetto di bellezza era normalmente estendibile anche ai fenomeni naturali e all’universo intero. Lo stupore, come scintilla del filosofare, era causato proprio dal fascino dei fenomeni della natura. Il neoplatonismo ha sicuramente dato una spinta notevole all’introduzione della riflessione sulla natura; a questo proposito è necessario sottolineare la centralità del Timeo platonico nel Medioevo e gli studi di cosmologia che le Scuole hanno compiuto intorno a quest’opera. Il Timeo di Platone tradotto da Calcidio diviene il testo in cui anche i pagani possono intendere qualcosa su Dio, sull’ordine che regge il mondo e la sua bellezza/misura. Questa tendenza permette che «la natura venga considerata, accanto alla scriptura, come l’altro libro scritto da Dio e messo a disposizione delle intelligenze umane per risalire dalla realtà visibile alla perfezione delle realtà invisibili».34
Il testo della Genesi, della Sacra Scrittura, doveva essere per i medievali un testo di grande ispirazione estetica. Rosario Assunto fa riferimento alle Omelie Esamerali di Basilio di Cesarea, uno dei padri della Chiesa che maggiormente hanno permesso l’influenza del neoplatonismo nella cultura cristiana. All’interno del suo commento ai passi della Genesi inerenti la Creazione dell’universo, il concetto di bellezza ricorre in riferimento alla perfezione e all’ordine di ciò che è creato. Basilio rimane stupito dalla bellezza di quell’ordine perfetto. Ma più avanti, nel capitolo settimo di quel primo libro, utilizzerà una forma emblematica in riferimento alla creazione del mondo: opera d’arte. Basilio, e dunque tutta la cultura medievale che è stata influenzata da queste parole, considerava in senso estetico tutta la realtà che gli si poneva dinanzi. Ma non finisce qui; leggiamo le parole del capitolo settimo: «il mondo è un’opera d’arte offerta alla penetrante conoscenza di tutti, così che per suo mezzo venga riconosciuta la sapienza del suo Creatore»; un’altra espressione ci viene incontro nella sua profondità: il traduttore35 ha reso la forma eis theorìan come penetrante conoscenza. Come indica lo stesso Assunto in maniera chiara, theorìa nel linguaggio dell’estetica vale a dire contemplazione. Questa traduzione ci porta ad affermare con Assunto che le Omelie di Basilio possono essere considerate un vero e proprio «trattatello di estetica». La natura nella sua bellezza si presenta all’uomo come l’opera d’arte da contemplare per giungere alla contemplazione di Dio. La natura è il libro in cui la divinità si dà alla dimensione terrena. Questa affermazione, a nostro avviso, smentisce ogni tipo di negazione di una dimensione mondana nel Medioevo. Tutta l’opera di Assunto ci dimostra che, in quest’epoca, la realtà mondana viene innalzata in quanto unico tramite per quella divina; mai come nel Medioevo il mondo terreno, in ogni sua determinazione, ha assunto un ruolo di così primaria importanza.
La constatazione della bellezza di un ordine e di una misura nella realtà dell’universo sensibile, è sicuramente uno dei luoghi più importanti che l’estetica medievale riprende dal mondo antico. Il principio della congruentia era, sin dai presocratici, il discrimine primario per la definizione della bellezza, fino ad Aristotele, che ne parla ampiamente nella Metafisica.36 Il Medioevo assorbe la poetica della proporzione dal mondo romano, ad esempio attraverso gli scritti di Vitruvio o di Cicerone. In ogni modo, anche nei trattati medievali che si occupavano di arti figurative (come i trattati dei monaci del Monte Athos) c’è la tendenza all’imitazione della perfezione della misura propria dell’arte musicale.
Tutta la poetica della proporzione si basava sullo sviluppo della cosmologia timaica, dalla traduzione di Calcidio; le scuole, in particolare la Scuola di Chartres, svilupparono una visione estetico-matematica dell’universo, basata sulla convinzione che il creatore dispose ogni cosa di ordine et mensura. La tradizione greco-platonica è chiara dal punto di partenza di questa filosofia che contrappone il kosmos al caos primigenio, «mediatrice di quest’opera sarà la Natura, una forza insita nelle cose, che da cose simili produce cose simili».37 Se l’ordine e la misura sono la regola artistica, allora la bellezza deriva esclusivamente da queste caratteristiche, per questo la bellezza inizia ad apparire nel mondo quando la realtà diventa misurabile e assume un ordine. Sono molti i grandi autori influenzati dalle scuole, come Alano di Lille, che abbiamo già incontrato in precedenza. La sua stessa convinzione si fondava sull’interpretazione di quell’ordine misurabile che permetteva in ogni momento di risalire al creatore. Uno dei punti di originalità di questa filosofia è sicuramente il recupero del brutto come principio estetico di valore. La bellezza, se è un canone misurabile, emerge altresì per contrasto con ciò che non è tale, dunque il brutto è oggetto di una maggiore chiarezza del buono, poiché «anche il male nell’ordine diviene bello e buono, perchè da esso nasce il bene, e accanto ad esso il bene meglio rifulge».38
Lo stesso Eco, nella sua Arte e bellezza nell’estetica medievale, in cui dedica un interessante capitolo al tema della proportio, indica in Assunto un autore fondamentale per la comprensione dei principi estetici della Scuola di Chartres e dei rapporti tra l’estetica e la cosmologia. La grande intuizione di Assunto risiede nel parallelismo che egli legge tra lo sviluppo del platonismo timaico nell’Île-de-France e la straordinaria fioritura delle cattedrali. Lo stesso arco di tempo in cui la Scuola di Chartres ha posto le basi della sua filosofia, 1100-1160, è servito agli architetti per la costruzione delle parti più importanti della relativa cattedrale. Inoltre, osserva Assunto, la scuola episcopale, in cui i pensatori studiavano, era adiacente al luogo della costruzione della cattedrale. Costruzione architettonica e filosofica camminavano di pari passo. Non dobbiamo inoltre dimenticare l’alto apporto che ha dato al gusto medievale la Scuola di San Vittore, che nasce all’ombra della cattedrale di Notre-Dame.
Uno dei maggiori pensatori della scuola e che si impegnò in un commento al Timeo fu Guglielmo di Conches; dal suddetto commento possiamo evincere le linee principali del pensiero chartriano. La preponderanza della Natura, libro aperto in cui Dio si manifesta e manifesta la sua arte, porta allo sviluppo dell’idea di un artista imitatore della natura e non creatore. «L’artista non crea: soltanto Iddio è creatore»,39 il sarto, l’architetto imitano la natura, ma allo stesso tempo creano, poiché imitano la causa formale, imitando Dio. La pittura e la scultura vengono inserite dalla cultura del tempo tra le arti meccaniche, poiché la loro opera è esclusivamente tecnica. Ma il commento di Guglielmo al Timeo trova il suo punto più alto nella definizione dello statuto ontologico delle creature, che egli definisce ornatus mundi: Est ornatus mundi quidquid in singulis videtur elementis, ut stellae in coelo, aves in aere, pisces in aqua, homines in terra.40
L’uomo con il suo corpo assume un significato estetico all’interno del vasto panorama del mondo. All’interno della cattedrale l’uomo è un tutt’uno con il resto, non è spettatore, bensì ornatus poiché il creatore ha fatto ogni cosa bella e l’uomo è dunque un capolavoro. La Natura ordina il mondo, che è collectio ordinata creaturarum.41 All’artista non rimane altro che riprendere il suo soggetto dal mondo, «il fare immagini è dunque un imitare la natura»,42 poiché essa mette in ordine il mondo. Le immagini fatte dall’uomo prendono il loro senso dall’intelletto che si trova al di sopra della ragione che a sua volta è stimolata dall’immaginazione. Assunto ci spiega in maniera esemplare come i medievali di Chartres avessero intuito che il passaggio dai sensi all’intelletto e dall’intelletto ai sensi, fosse un movimento incredibilmente stimolato dall’ordine estetico del mondo. Potremmo quasi affermare che l’uomo del Medioevo ragiona per immagini, tanto che dagli scritti di Guglielmo di Conches apprendiamo che il simulacro fosse la capacità vedere ciò che è assente. «Il fare immagini sarà dunque un rendere percettibile come presente la figura di qualcosa che è assente»,43 l’arte di cui ci parla Guglielmo è un’arte icastica, che tende a rappresentare qualcosa che già si è visto, in poche parole ritroviamo ad un livello differente il concetto greco di mimesis. Se l’uomo arcaico fondava il suo senso di bellezza su una rimembranza di un libro letto in un’altra vita, l’uomo medievale fonda il suo gusto estetico su un sistema di valori terreno, concreto, su ciò che è possibile vedere e toccare, che cade sotto il dominio dei sensi. Alla ragione, ci dice Guglielmo, spetta il compito di giudicare le proprietà dei corpi (dijudicat homo proprietates corporum), ma ora la ragione potrà giungere a quella verità solo se l’abilità dell’artista ha colto in maniera efficace la misura del mondo, le giuste proporzioni dei corpi e della natura che rappresenta. L’artista assume un ruolo fondamentale, lui con le sue capacità, con la sua techne, con il suo spirito di osservare il mondo, di cogliere la veritas tra le righe della natura. Il gusto dei medievali porta l’immagine di Dio dall’iperuranio al mondo, la verità prende corpo nelle cose dell’universo. Assunto analizza come questo passaggio, epocale per la storia del gusto estetico, sia leggibile nel cambiamento di stile delle cattedrali europee: il passaggio da un romanico più significante, in cui le immagini deformi e non regolari lasciavano ampio spazio all’interpretazione, verso un gotico più verosimile, dove viene in evidenza l’osservazione accurata della natura, i particolari, le linee, la proporzione eccetera. Dunque, tutto ciò che è bellezza, proporzione, misura, per i sensi, è allo stesso modo bellezza per la ragione e per l’intelletto, la facoltà più alta dell’uomo, quella che maggiormente si avvicina all’intuizione di Dio. La verità del divino viene colta nella bellezza, solo essa può essere il tramite, l’ornatus mundi è il microcosmo nel quale si manifesta il macrocosmo, l’opera d’arte di Dio. L’architettura, con le sue forme misurate matematicamente e la sua bellezza e imponenza, diviene il simbolo per il cosmo, al punto tale che Dio viene definito da Alano di Lille: elegans architectus. «La cattedrale gotica voleva essere l’immagine totale dell’universo, unità progressiva di senso, immaginazione, ragione, intelletto», il senso era rapito dalla bellezza dei colori, della luce, la ragione contemplava lo spiritus rebus insitus, ovvero la categoria per cui ogni ornamento del mondo partecipa della bellezza divina del cosmo e ricollegava all’intelletto che coglieva la proporzione numerica con la quale l’artista umano aveva celebrato la bellezza della creazione. Così recuperiamo quei versi di Alano già citati in precedenza, in cui l’uomo è segno fedele quasi come la pittura. Grazie a quest’ultima è possibile rappresentare ciò che è non visibile, ovvero la verità. Essa stessa non potrebbe essere visibile al mondo se non per mezzo dell’arte.
Rosario Assunto nel suo saggio Macrocosmo e macrolibro ci indica come l’opera d’arte divina, punto di critica della critica moderna contro la possibilità di parlare di un’estetica per il Medioevo, sia primaria poiché fa di tutto ciò che è mondano oggetto di dilettazione estetica, poiché la bellezza è manifestazione della sapienza divina. Lo stesso concetto, ci ricorda Hans Glunz,44 è stato veicolato dalla Scuola di Chartres riprendendo Giovanni Scoto Eriugena nel suo commento ai Nomi divini del Dionigi Areopagita. Una lettura approfondita di questa pietra miliare della tradizione filosofica occidentale, che non possiamo affrontare in questa sede, ricompone i pezzi della lunga analisi che Assunto ha compiuto con le sue opere, in quanto afferma il Nostro: «il trattato i Nomi divini, fu il tramite per la diffusione, nel Medioevo Cristiano, della definizione di assoluta Bellezza, come Platone l’aveva formulata nel Convito».45 Bellezza assoluta, che ancora si faceva vero tramite tra il divino e la dimensione terrena.
7. Bibliografia
- R. Assunto, Il microcosmo ed il macrolibro. Postille all’estetica del dodicesimo secolo, in: R. Assunto, Musica ed architettura nel pensiero medioevale, Cesarenani, Como 2004;
- R. Assunto, Ipotesi e postille sull’estetica medioevale: con alcuni rilievi su Dante teorizzatore della poesia, Marzorati, Milano 1975;
- R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medioevale, Il Saggiatore, Milano 1961;
- R. Assunto, Libertà e fondazione estetica, Bulzoni, Roma 1975;
- R. Assunto, L’immagine della civiltà e la civiltà medioevale delle immagini, in: R. Assunto, Musica ed architettura nel pensiero medioevale, Cesarenani, Como 2004;
- R. Assunto, Premessa sulla civiltà medioevale considerata come civiltà estetica, in: Atti del Convegno di studi su Musica e arte figurativa nei secoli X-XI, Accademia tudertina, Todi 1973;
- A. Baumgarten, L’estetica, Aesthetica, Palermo 2000;
- L. Bianchi — E. Randi, Le verità dissonanti: Aristotele alla fine del Medioevo, Laterza, Bari 1990;
- R. Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Bologna 1995;
- Calcidio, Commentario al Timeo di Platone, Bompiani, Milano 2003;
- B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari 1946;
- P. D’Angelo — E. Franzini — G. Scaramuzza, Estetica, Raffaello Cortina, Milano 2002;
- E. De Bruyne, Estudios de estetica medieval, version castellana de F. A. Suarez, Madrid 1958;
- Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Rusconi, Milano 1999;
- G. D’Onofrio, Storia della teologia — vol. II: l’età medievale, Piemme, Casale Monferrato 2003;
- G. Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, Einaudi, Torino 1982;
- U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Bompiani, Milano 1997;
- U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Bompiani, Milano 1970;
- M. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’estetica medievale, Il Mulino, Bologna 2002;
- A. Gessani — V. Regoli, Il poeta e il libro del mondo. Due saggi danteschi, Aracne, Roma 2006;
- H. H. Glunz, L’estetica letteraria nel Medioevo europeo, Francoforte 1963;
- R. Masiero, Estetica dell’architettura, Il Mulino, Bologna 1999;
- M. Naldini (a cura di), Omelie sull’esamerone, Fondazione Valla/Mondadori, Milano 1990;
- Platone, Timeo, Mondadori, Milano 1994.
-
In questo lavoro abbiamo fatto riferimento alla traduzione spagnola: E. De Bruyne, Estudios de estética medieval, versión castellana de F.A. Suárez, Madrid 1958. ↩︎
-
M. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’estetica medievale, Il Mulino, Bologna 2002. ↩︎
-
Giovanni Scoto Eriugena, De divisione naturae (Libro I), in: M. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’estetica medievale, Il Mulino, Bologna 2002. ↩︎
-
Cfr. vv. 133-141: «Qual è ‘l geometra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio e non ritrova, / pensando, quel principio ond’elli indige, / tal era io a quella vista nova: / veder voleva come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova; / ma non eran da ciò le proprie penne: / se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne». ↩︎
-
A. Gessani — V. Regoli, Il poeta e il libro del mondo. Due saggi danteschi, Aracne, Roma 2006. ↩︎
-
Per una panoramica più approfondita su questi temi cfr. R. Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Bologna 1995. ↩︎
-
Cfr. A. Baumgarten, L’estetica, Aesthetica, Palermo 2000: «L’estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile». Intorno al tema del pensiero di Baumgarten, abbiamo fatto fatto riferimento a: P. D’Angelo — E. Franzini — G. Scaramuzza, Estetica, Raffaello Cortina, Milano 2002. ↩︎
-
B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari 1946. ↩︎
-
R. Assunto, Premessa sulla civiltà medioevale considerata come civiltà estetica, in: Atti del Convegno di studi su Musica e arte figurativa nei secoli X-XI, Accademia tudertina, Todi 1973. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Cfr. U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Bompiani, Milano 1970. ↩︎
-
Ogni creatura dell’universo / quasi fosse un libro o un dipinto / è per noi come uno specchio; / della nostra vita, della nostra morte / della nostra condizione e della nostra sorte / segno fedele. / La rosa rappresenta il nostro stato / leggiadra glossa della nostra condizione / interpretazione della nostra vita / che mentre è fiorente nel primo mattino / fiorisce, sfiorito fiore / con la vecchiaia della sera. Abbiamo riportato e tradotto solo i primi dodici versi, in quanto risultano maggiormente significativi per la nostra analisi. Rosario Assunto ha lavorato in più di una opera su questi versi; per un’analisi integrale, lo stesso Assunto, fa riferimento a De Bruyne, che egli stesso definisce il padre degli studi di estetica medievale. Per questo motivo, cfr. E. De Bruyne, Études d’esthétique Médiévale, II, L’epoque romane (4, L’allegorisme universel comme vision esthetique), vol. II, De Tempel, Brugge 1946. ↩︎
-
R. Assunto, Premessa alla civiltà medievale considerata come civiltà estetica, Todi 1973. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Bompiani, Milano 1997. ↩︎
-
Calcidio, Commentario al Timeo di Platone, Bompiani, Milano 2003. ↩︎
-
R. Assunto, Premessa alla civiltà medievale considerata come civiltà estetica, Todi 1973. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
R. Assunto, L’immagine della civiltà e la civiltà medievale delle immagini, in: R. Assunto, Musica e architettura nel pensiero medioevale, Cesarenani, Como 2004. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
R. Assunto, Premessa alla civiltà medievale considerata come civiltà estetica, Todi 1973. ↩︎
-
Su questo argomento cfr. R. Assunto, Libertà e fondazione estetica, Bulzoni, Roma 1975. ↩︎
-
R. Assunto, L’immagine della civiltà e la civiltà medievale delle immagini, in: Musica e architettura nel pensiero medievale, Cesarenani, Como 2004. ↩︎
-
Questa caratteristica dell’immagine del Cristo è molto chiara nelle cattedrali normanno-bizantine, diffuse nel sud Italia, come le cattedrali di Cefalù e Monreale, in cui il Cristo Pantocratore troneggia nel mosaico absidale e allo stesso tempo viene rappresentato nelle scene di vita nei sottostanti mosaici parietali. In questo contesto, il Cristo è presente, nelle scene in cui è uomo, e allo stesso tempo, è eterno secondo il mistero della Trinità che lo vuole coetaneo del Padre e quindi anteriore ad ogni essere umano. ↩︎
-
R. Assunto, Premessa alla civiltà medievale considerata come civiltà estetica, Todi 1973. ↩︎
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A questo proposito cfr. R. Assunto, Il microcosmo ed il macrolibro. Postille all’estetica del dodicesimo secolo, in: Musica e architettura nel pensiero medievale, Cesarenani, Como 2004. ↩︎
-
R. Assunto, Premessa alla civiltà medievale considerata come civiltà estetica, Todi 1973. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
G. D’Onofrio, Storia della Teologia - vol. II: L’età medievale, Piemme, Casale Monferrato 2003. ↩︎
-
Facciamo riferimento alla medesima traduzione utilizzata da Assunto, cfr. Mario Naldini (a cura di) Omelie dell’esamerone, Fondazione Valla/Mondadori, 1990. ↩︎
-
Cfr. Aristotele, Met., 1078a: «Le supreme forme del bello sono: l’ordine, la simmetria e il definito». ↩︎
-
U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Bompiani, Milano 1997. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medievale, Il Saggiatore, Milano 1961. ↩︎
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Guglielmo di Conches, Glossae super Platonem: La bellezza del mondo è tutto ciò che appare nei suoi elementi, come le stelle in cielo, gli uccelli nell’aria, i pesci in acqua, gli uomini sulla terra. ↩︎
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Espressione che Assunto riprende dal commento di Guglielmo di Conches al De consolatione philosophiae di Boezio. ↩︎
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R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medievale, Il Saggiatore, Milano 1961. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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H.H. Glunz, Estetica letteraria del Medioevo europeo, Francoforte 1963. ↩︎
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R. Assunto, Microcosmo e macrolibro, in Musica e architettura nel pensiero medioevale, Cesarenani, Como 2004. ↩︎