1. Introduzione
Il percorso che qui si presenta verrà scandito sostanzialmente in due tappe di cui si vuole, a modo di introduzione, indicare il contenuto e la struttura.
Esso cerca di prendere in carico, pur senza assumerlo come tale, quanto è detto nel titolo datoci come guida per la riflessione: «Linguaggio della metafisica e linguaggio delle scienze. Per un rinnovamento dell’interpretazione del reale». Più che come sintesi di una trattazione possibile, infatti, questo titolo dovrebbe essere preso come la designazione di un campo di ricerca nel quale muoversi, l’orizzonte all’interno del quale le analisi che seguono vogliono delineare solo un percorso, possibile accanto ad altri che abbiano un diverso punto di partenza, adottino una differente prospettiva filosofica e giungano ad altri esiti. È proprio per preservare in qualche modo questa pluralità, che il titolo che si prende in carico non è assunto come titolo: in esso è compresa una alterità irriducibile, fondata sulla pluralità, ben più radicale, del reale e dell’essere, che lo costituisce come campo, non totalizzabile attraverso una analisi assoluta (ed assoluta nel senso dello «Spirito assoluto» di Hegel).
Nella prima tappa si partirà con il mettere in luce i problemi ed i nuclei teorici attorno a cui il campo si organizza, quasi ad effettuarne una rilevazione topografica. Ma, come ogni rilevazione topografica è solo una tra le altre possibili (a seconda degli scopi e degli elementi che si scelgono di considerare), così anche la descrizione che noi faremo in questa fase dell’indagine sarà solo una descrizione possibile, che non pretende di dire tutto ciò che c’è da dire sul nostro campo di indagine, e ciò in perfetta congruenza con la pluralità essenziale che si è già nominata.
Nella seconda tappa, rilevati che siano i punti salienti e le articolazioni del nostro campo, si cercherà di vedere come essi possano essere pensati e che significato assumano ponendosi alla scuola di un pensatore determinato — Paul Ricœur — ed esaminando un caso specifico del rapporto tra «linguaggio della metafisica e linguaggio delle scienze», ossia il dialogo che Ricœur ha sostenuto con Jean-Pierre Changeux in La nature et la règle del 1998.1 La scelta di Ricœur per ora rimane semplicemente una scelta, come tale del tutto arbitraria. Sarà compito dell’esposizione mostrare in che misura essa sia, se non necessaria, almeno opportuna, e fornirne quindi una sorta di deduzione di legittimità.
A dire il vero, svolgendo le nostre analisi il campo in qualche modo muterà il proprio aspetto, cessando di essere quello del rapporto tra «linguaggio della metafisica e linguaggio delle scienze» per divenire quello del rapporto tra «linguaggio della filosofia» e, a seconda dei casi, «linguaggio delle scienze umane» o «della neuroscienza».
Questo mutamento non è uno slittamento incontrollato, ma risponde alla natura stessa del percorso ed in qualche modo a quella del campo stesso. La seconda tappa parla del medesimo della prima («linguaggio della metafisica e linguaggio delle scienze») e si presenta come una sua ripetizione. Ma in questa ricorsività qualcosa comunque accade: con essa, infatti, si ottiene una specificazione della ricerca ed un approfondimento dell’analisi (che è anche un approfondimento dei singoli termini in questione), e questo secondo un modo di procedere che ci è insegnato proprio da Ricœur.2 Di pari passo all’approfondimento, però, si avrà una limitazione della problematica in esame, di modo che profondità ed estensione stiano in un rapporto di proporzionalità inversa.
È per questo che le due tappe dicono sempre il medesimo, e tuttavia non l’identico, ed è in questo scarto tra medesimo ed identico che si legittima la trasformazione progressiva del campo che si indaga e la singolarizzazione della pluralità a cui si accennava sopra.
2. Metafisiche e scienze in dialogo
Il primo compito che ci siamo dati è essenzialmente descrittivo: rintracciare le strutture concettuali attorno a cui si organizza il nostro campo di indagine. Esso è individuato dall’espressione: «Linguaggio della metafisica e linguaggio delle scienze. Per un rinnovamento dell’interpretazione del reale».
(a) Nella prima parte di questa espressione vengono nominati «la metafisica» e «le scienze», giustapposte da una congiunzione che chiede di pensarne il rapporto. Questo è il compito — pensare il rapporto tra metafisica e scienze —, anche se ancora rimane impregiudicato l’oggetto di questo rapporto.
Nominare gli elementi che costituiscono il nostro campo, però, non è sufficiente: bisogna chiedersi cosa essi indichino.
Intanto le scienze: ponendoci ad un livello semplicemente formale e prescindendo dai contenuti, per scienza intendiamo una branca della conoscenza umana, istituzionalizzata come disciplina distinta, dotata di un discorso rigoroso (e rigoroso secondo criteri che variano a seconda dell’oggetto indagato), di procedure di ricerca e di verifica (protocolli) che ne garantiscono la scientificità venendo codificate e condivise da una comunità scientifica. Gli elementi elencati qui dalla parte del definiens non sono certo sufficienti per una individuazione esaustiva del definiendum, ma ai nostri scopi non è necessario procedere oltre.
Matematica, fisica, chimica, biologia, storia — queste ed altre ancora sono scienze, e lo sono tutte perché corrispondono alla definizione (formale) di scienza che si è data.3 Esse tuttavia non formano una scienza unica, perché rispondono alle richieste ed ai canoni della scientificità in modo eterogeneo ed ampiamente autonomo:4 il rigore della storia non è quello della chimica, ed i procedimenti di verifica della matematica non sono quelli della fisica (o almeno non quelli della fisica sperimentale).
Questa pluralità, primo segno della pluralità costitutiva del nostro campo di ricerca, viene solitamente spiegata attraverso due strategie differenti: da una parte, la si considera come l’espressione fenomenica della diversità numerica degli oggetti indagati dalle scienze, di modo che ciascuna di esse si occuperebbe di qualcosa di radicalmente diverso dalle altre; dall’altra, essa sembra essere piuttosto fondata nella pluralità qualitativa di un unico oggetto di indagine comune (il reale), del quale le scienze indagherebbero soltanto aspetti diversi, a seconda del punto di vista teorico adottato.5 Accettiamo per ora queste indicazioni senza discuterle, salvo (1) tornare in seguito sull’oscillazione tra pluralità numerica e pluralità qualitativa dell’oggetto delle scienze quale causa della loro differenziazione6 e (2) problematizzare il rapporto stesso tra scienze e loro oggetto.
In secondo luogo, la metafisica. Qui le cose si complicano: ci si aspetterebbe che i due termini che definiscono il nostro campo siano in qualche modo omogenei, o che almeno si situino ad uno stesso livello. Al contrario, tra «la metafisica» e «le scienze» esistono almeno due disparità essenziali, alle quali è necessario porre attenzione.
Prima disparità. Le scienze, si è detto, non sono parti di una scienza unica, a meno di situarsi al livello del discorso polemico nel quale si suole contrapporre la «scienza» alla «non-scienza», dando al singolare «scienza» un significato generico e tutto sommato vuoto. Le scienze hanno sì in comune una stessa struttura, e perciò possono anche configurarsi come specie di un solo genus, ma questo non autorizza a pensarle come parti di un’unica disciplina: esse hanno delle articolazioni interne, ma non sono a loro volta delle articolazioni di un tutto più comprensivo.7
Al contrario, la metafisica si configura proprio come una parte, e precisamente come una parte della filosofia.8 Essa, la metafisica, si pone quindi ad un livello di generalità differente da quello delle scienze, ciascuna delle quali rappresenta un tutto autonomo.
Ci si deve allora chiedere: perché si parla qui di «metafisica» e non di «filosofia»? A mio parere, benché nella seconda tappa del nostro percorso si sostituirà proprio «filosofia» a «metafisica», la scelta non è arbitraria, ed essa trova la sua ragione nella natura dell’oggetto del rapporto (ontologico) intorno al quale si costituisce il campo di indagine nel quale ci muoviamo. Lo vedremo tra poco.
Seconda disparità. Noi diciamo «la metafisica» e «le scienze», e con ciò ci troviamo a mettere in relazione un termine caratterizzato da una pluralità essenziale (le scienze) con un termine sostanzialmente unitario (la metafisica). Prima di andare avanti ci si deve quindi chiedere: perché la metafisica, e non le metafisiche?
Il singolare che si usa qui è un sintomo di una particolare situazione culturale. «Metafisica», nel corso del pensiero occidentale non meno che nella contemporaneità, si dice in molti modi;9 essa nutre al suo interno una essenziale polisemia, tanto diacronica quanto sincronica. Parlare di metafisica al singolare, a mio parere, significa pagare le conseguenze della negazione della metafisica, iniziata con Kant e proseguita, per vie diverse, in Heidegger e nella filosofia analitica prima maniera: è di fronte a questa negazione che le svariate formulazioni metafisiche si riuniscono e si appiattiscono per costituire la metafisica, un po’ come è di fronte alla negazione totale della morte che la vita si costituisce per la prima volta come un tutto.10 Parlare ancora di metafisica al singolare, fosse anche per affermarne la possibilità, significa quindi riconoscersi all’interno di questa polemica e pronunciare una affermazione che si rivela al fondo solo come una negazione della negazione in cui, si noti, la doppia negatività è incapace di trasformarsi nel suo inverso operando una autentica Aufhebung.
Ci pare quindi opportuno proporre di pluralizzare anche il significato di metafisica, onde rendere giustizia all’ampiezza del nostro stesso campo di indagine: quello che studieremo è allora il rapporto tra «le scienze» e «le metafisiche», e ciò per premunirci da ogni semplificazione prematura.
Questa decisione, ovviamente, complica ulteriormente il tentativo di analisi che si sta compiendo. Nondimeno, è possibile sospettare una fondamentale omologia strutturale dei rapporti tra le varie scienze e le varie metafisiche grazie alla quale è possibile arginare la polisemia che, in prima istanza, si deve riconoscere in tutta la sua ampiezza: nel nostro contributo noi non ci interessiamo dei rapporti tra un singolo pensiero filosofico e una singola disciplina scientifica; il nostro scopo, al contrario, è quello di elaborare un modello di integrazione tra metafisiche e scienze che si basi sugli elementi invarianti rintracciabili nelle più svariate manifestazioni storiche di questi due modelli di razionalità. È solo per questo, nella misura in cui ci soffermeremo solo su tali invarianti, che nel seguito delle nostre argomentazioni potremo prendere come esemplare un singolo rapporto (quello tra la filosofia ricœuriana e il suo altro), e con ciò rendere praticabile l’analisi.
(b) Si sono visti i«termini» del rapporto; rimane da interrogarsi sul suo oggetto. Ebbene, se per lo sviluppo delle considerazioni precedenti ci si è occupati solo della prima parte dell’espressione «Linguaggio della metafisica e linguaggio delle scienze. Per un rinnovamento dell’interpretazione del reale», ora si tratta di considerarla nella sua interezza.
Nella prima metà della nostra espressione si parla del «linguaggio», nella seconda del «reale». È quindi evidente che il piano sul quale si vuole instaurare il confronto tra le metafisiche e le scienze è quello del rapporto tra il loro linguaggio ed il reale che esse indagano: il problema è un problema ontologico.11
Si capisce dunque perché nell’enunciato che stiamo esaminando si parli di metafisica e non di filosofia tout court, e con ciò si risponde all’interrogativo lasciato in sospeso poco sopra: è perché la metafisica nutre una innegabile e primaria vocazione ontologica che essa si presenta come il secondo termine del confronto che è oggetto della nostra indagine.12 Nondimeno, pur accettando di mantenere «metafisica» come espressione appropriata per definire il nostro campo di ricerca, in essa bisogna sforzarsi di preservare tutta l’ampiezza del termine «filosofia», cercando di considerarla come una sorta di sinonimo per «filosofia del reale».
Ma anche qui, come è già accaduto per «metafisica» e «scienze», nominare «linguaggio» e «reale» non è sufficiente.
Come va inteso il linguaggio? È corretto parlare di linguaggio piuttosto che di linguaggi? Non solo le varie scienze e le varie metafisiche parlano linguaggi differenti, ma anche il linguaggio come tale può essere caratterizzato secondo prospettive disparate.
Lo stesso per il reale. Parlando di reale si nomina immediatamente pure l’essere, o ci si limita allo sperimentabile, al fattuale, all’oggettivo? E, quale che sia la risposta, si tratta di un reale unico a più dimensioni o si può addirittura parlare di più reali?
Il carattere descrittivo di queste prime considerazioni ci permette di aggiornare le risposte, benché la pluralità che si è riconosciuta al nostro campo di indagine sin dall’inizio ci faccia supporre che essa interessi anche i due termini qui in questione.13
Allo stato attuale ci è sufficiente, ed era il nostro scopo, aver indicato i nuclei teorici ed i nodi problematici attorno ai quali si organizza il nostro campo di indagine: sarà nel prossimo paragrafo che si tenterà di fornire delle risposte, ritornando su queste questioni alla luce del pensiero di Paul Ricœur.
Volendo riassumere le considerazioni che si sono fatte fin ora, si potrebbe affermare che il nostro campo di ricerca è quello del «linguaggio delle scienze e delle metafisiche del reale».
Quello che va messo in questione è il carattere dei due genitivi: il primo nomina la dimensione linguistica dei due termini che si pongono il rapporto, il secondo il loro riferimento al reale.
La nostra analisi ha quindi un duplice piano, linguistico ed ontologico, all’interno dei quali a muovere l’interrogazione sono una volta le scienze ed una volta le metafisiche, per quanto le une come le altre finiscano per lasciarsi interrogare a loro volta.
Sul piano linguistico ci pare che si tratti in prima istanza di accettare la sfida che le scienze pongono alle metafisiche: il linguaggio delle metafisiche parla di qualcosa, ha un significato, o si perde nell’insignificanza, nel mistico e nell’emozionale? Parafrasando, si potrebbe chiedere: il linguaggio delle metafisiche è un linguaggio scientifico?
Queste domande, formulate dal Circolo di Vienna e dai neopositivisti logici con un rigore ed una radicalità mai più superati, rimangono aperte e costituiscono un punto imprescindibile delle nostre analisi.
Se è vero che la prima parola tocca qui alle scienze (o alla filosofia della scienza), ciò accade perché la domanda trae la sua forza interlocutoria dal presupposto che l’unico linguaggio che parla di qualcosa sia quello scientifico.
Nondimeno le scienze, nel porre la loro sfida, debbono a loro volta lasciarsi istruire dalla filosofia, poiché solo in questo modo, attraverso le analisi e le riflessioni sul linguaggio che vengono svolte da quest’ultima, l’interrogazione sul linguaggio metafisico assume un senso definito. È sintomatico che questa sfida, di cui affermiamo la paternità scientifica, sia stata formulata, nei fatti, da determinate correnti filosofiche (si nominava prima il neopositivismo logico). Ciò significa proprio che, pur se la domanda trova la sua origine nella scienza, essa non può essere formulata se non da una scienza che si lascia istruire dalla filosofia.
Sul piano ontologico, di contro, si tratterà di accettare la sfida che le metafisiche pongono alle scienze: le scienze si rapportano effettivamente al reale, hanno un ancoraggio nell’essere, oppure esse, a misura del loro perfezionamento e del loro abbandono del piano macroscopicamente fenomenologico per l’indagine del microscopico ed addirittura del propriamente inosservabile, sono afflitte da una sorta di «perdita del reale»?
Fin quando, per esempio, la fisica rimane la fisica newtoniano-galileana, non vi sono dubbi (né al livello dell’opinione comune, né a quello dell’autocomprensione epistemica della fisica, né, in fondo, a quello della riflessione filosofica) che, quando osserva e studia la caduta di un grave, essa è alle prese con il reale. Ma, arrivando alla fisica quantistica e alla moderna teoria della materia, con i suoi quark, le sue particelle e le sue antiparticelle, questa certezza elementare e tutto sommato ingenua comincia a vacillare.14
È in questa congiuntura che le metafisiche pongono il problema del fondamento ontologico delle scienze, ma, con una movenza parallela a quella che si è ricordata sul piano linguistico, le metafisiche non possono porre la loro domanda senza farsi prima istruire dalle scienze stesse e da quanto esse scoprono di nuovo con i loro esperimenti, le loro ricerche e le loro teorie: in caso contrario, esse (le metafisiche) non potrebbero interrogare affatto le scienze, dovendo parlare di questioni che non conoscono.
Strutturato in questi termini e su questi piani, il nostro campo si presenta come il campo del «dialogo tra metafisiche e scienze», e dialogo nel senso forte del termine: dialogo perché ci sono due interlocutori, dialogo perché questi due interlocutori hanno una propria razionalità e delle proprie esigenze da far rispettare, dia-logo perché esso si costituisce come scambio di domande e di risposte, nel quale, in qualche modo, le risposte retroagiscono sul domandare stesso. Secondo le indicazioni di Ricœur, che in La natura e la regola pensa il proprio confronto con le scienze proprio in termini di dialogo, esso sarà determinato dal desiderio «se non di risolvere le controversie legate alla […] differenza iniziale di punti di vista, almeno di elevarle a un livello di argomentazione tale che le ragioni dell’uno siano considerate plausibili dall’altro, ovvero degni di essere difese in uno scambio posto sotto il segno di un’etica della discussione».15
3. Ricœur e la configurazione del rapporto tra metafisiche e scienze
È arrivato quindi il momento di ripetere il percorso già fatto, mettendosi all’ascolto di un pensatore determinato: Paul Ricœur.
Della scelta di questo autore, come si annunciava, si vuole mostrare innanzitutto la legittimità. Essa consiste nel fatto che, nel percorso di Ricœur, il confronto tra il pensiero filosofico e le scienze, benché non sempre tematizzato in quanto tale e nelle sue condizioni di possibilità, è un elemento costante e sempre ulteriormente sviluppato attraverso l’infoltimento progressivo degli interlocutori.
Questo confronto ha una ragione profonda nel pensiero del filosofo francese e nel suo modo di intendere il pensiero filosofico, ragione che può essere riassunta nella dialettica imprescindibile di «filosofia» e «non-filosofia».16 Detto in breve, questa endiadi vuole significare che la filosofia non trae mai da se stessa il proprio punto di partenza, ma lo trova sempre nell’ascolto del suo altro, ovvero del mito, dei simboli, del racconto, e della scienza.17
Il dialogo di Ricœur con le scienze, più attuato che riflesso, ha inizio sin dalla prima grande opera del filosofo francese, Il volontario e l’involontario, nella quale egli, elaborando una fenomenologia della volontà e delle sue strutture eidetiche,18 si trova costretto ad affrontare il problema del rapporto tra le proprie analisi e quelle condotte con i metodi di descrizione oggettiva e scientifica.19 Il confronto poi, portando a maturazione le direttive già presenti ne Il volontario e l’involontario, si estende e diviene prima discussione della e con la psicanalisi,20 in seguito con lo strutturalismo;21 da ultimo, esso si amplia fino a trovare i propri interlocutori nella retorica (e più in generale nelle scienze del linguaggio), nella narratologia e nelle scienze storiche,22 senza trascurare in pari tempo l’epistemologia, presa nel suo versante più scientifico.23
Sono, questi, casi particolari del problema generale costituito dal rapporto tra «spiegare» e «comprendere», la cui soluzione è indicata dalla nota espressione: «Expliquer plus, c’est comprendre mieux».24 Ricœur, partendo dall’opposizione diltheiana tra i procedimenti di spiegazione delle scienze naturali e quelli di comprensione delle scienze umane e della filosofia (ermeneutica), elabora un modello di comprensione che prevede come suo momento essenziale l’integrazione dei processi di spiegazione oggettiva: «la spiegazione è ormai il cammino obbligato della comprensione»;25 «l’attività di analisi», tipica della scienza, è «un semplice segmento su di un arco interpretativo che va dalla comprensione ingenua alla comprensione scientifica attraverso la spiegazione».26 In questo modo si rintraccia uno schema compiuto dei rapporti tra filosofia e scienze, e ciò è un ulteriore elemento a favore della nostra scelta di occuparci di Ricœur in questo contributo.
Tutto ciò dovrebbe essere una dimostrazione sufficiente circa la legittimità di un’analisi del pensiero di Ricœur come mezzo per proseguire la nostra analisi. Ma vi sono almeno due altri elementi da prendere in considerazione.
Primo: le scienze con le quali Ricœur si confronta sono in prima istanza e per lo più quelle che Dilthey definiva Geisteswissenschaften (scienze dello spirito) e che oggi vengono comunemente intese come «scienze umane», una classe a cui in qualche modo appartiene la stessa filosofia. Di conseguenza, sembrerebbe che il confronto attuato dal Nostro non sia affatto un caso del dialogo con le scienze di cui ci occupiamo nel nostro contributo, essendo le Naturwissenschaften (le scienze della natura) gli interlocutori adeguati per tale dialogo.
Secondo: Ricœur non definisce, ed effettivamente è difficile definire, la sua filosofia come una «metafisica»; quindi anche il suo pensiero non sarebbe un rappresentante legittimo di quelle «metafisiche» che vengono nominate nel nostro contributo. A ciò bisogna poi aggiungere che la filosofia del pensatore francese non ha neppure il pregio di essere particolarmente vicina alle argomentazioni delle scienze con cui si vorrebbe confrontare, non configurandosi essa né come una epistemologia in senso stretto, né come una filosofia delle scienze.
Alla prima delle due difficoltà si risponde ricordando che, benché il cammino di ricerca in cui questo contribuito si inserisce abbia preso a propri interlocutori privilegiati la matematica e la fisica,27 noi abbiamo definito prima le scienze in base ad una peculiare struttura formale, condivisa tanto dalle scienze della natura quanto dalle scienze umane (come è dimostrato, per esempio, dall’applicazione nelle une come nelle altre degli stessi strumenti di computazione e formalizzazione informatica): quello che ci interessa nella nostra analisi è il confronto con un particolare modello di razionalità, quella scientifica, di cui psicanalisi, strutturalismo e linguistica sono rappresentanti allo stesso titolo della chimica o della biologia.28
Alla seconda difficoltà, poi, si sfugge facilmente tornando a ripetere quanto si è messo in chiaro nel paragrafo precedente: «metafisica», nel nostro studio, va preso come sinonimo di una filosofia che intenzioni e si interroghi sullo statuto dell’essere e del reale. In questo senso specifico, il pensiero di Ricœur è, nonostante tutte le sue reticenze a proposito dell’ontologia, una metafisica, avendo essa tra i propri obiettivi principali la determinazione e lo studio del reale (non solo del reale del soggetto, del mito, del racconto e della storia, ma, come mostrano gli studi conclusivi de La metafora viva e di Sé come un altro, del reale senza altre specificazioni); ce ne si convincerà quando si prenderà in esame più direttamente il modo in cui il Nostro definisce la propria filosofia e quello in cui egli concepisce il linguaggio.
Che poi la filosofia di Ricœur non sia una epistemologia o una filosofia della scienza, è fatto tutt’altro che negativo: prendendola come esempio per la nostra ricerca si ha la possibilità di mantenere i due termini in questione (metafisica e scienza) perfettamente distinti, compito di cui non sempre epistemologia e filosofia della scienze sono all’altezza, essendo esse frequentemente appiattite sulle singole scienze, a titolo di loro momento riflessivo di autocomprensione (exempli gratia, è il caso della filosofia della matematica).
4. I Grundworten della ricerca
Legittimata che sia la nostra scelta e mostrato il suo valore esemplare rispetto al campo di indagine di cui ci occupiamo, si tratta di esaminare come i termini che si sono messi in chiaro nel paragrafo precedente si debbano pensare alla luce dell’insegnamento del nostro autore, per vedere infine cosa esso abbia da dire sui due livelli di indagine (linguistico ed ontologico) rintracciati.
Abbiamo detto che il nostro campo si definisce attraverso due termini («metafisiche» — o filosofie — e «scienze») e che esso verte sul rapporto di «linguaggio» e «reale». Vediamo in sintesi cosa rappresentano queste espressioni per Ricœur.
- La filosofia. Non è facile definire in modo unitario la filosofia di Paul Ricœur, esposta come essa è ad influenze disparate e ai confronti più inaspettati (da Heidegger a Marcel, da Husserl a Nabert, per non parlare della filosofia di scuola analitica e del bagaglio di autori classici costantemente tenuti presenti).29
Nondimeno, essa potrebbe essere definita come una «fenomenologia ermeneutica»,30 cioè come una filosofia risultante da quell’«innesto del problema ermeneutico sul metodo fenomenologico»31 che il Nostro non ha cessato di proporre a partire dagli anni ’60. Si tratta insomma di una filosofia che, come afferma Ricœur, è posta «nel solco di una filosofia riflessiva», che «resta nella prospettiva della fenomenologia husserliana» e che «vuol essere una variante ermeneutica di questa fenomenologia».32
Ora, ciò che Ricœur valorizza in modo predominante nella fenomenologia è l’intenzionalità, ovvero l’apertura essenziale della coscienza e del linguaggio sul reale;33 parallelamente, quello che la tradizione ermeneutica lo spinge a pensare, sulla scorta di Heidegger, è il problema ontologico, benché esso sia affrontato (ed in ciò è la distanza dall’autore di Sein und Zeit) con un’attenzione alle problematiche metodologiche ed epistemologiche che l’ermeneutica ontologica non conosce.34
Entrambe le tradizioni a cui Ricœur si riferisce, e la sua «fenomenologia ermeneutica» come tale, nutrono dunque degli interessi chiarissimi per la problematica ontologica (quindi, per il reale) e li nutrono in modo tale da permettere e richiedere un dialogo con le scienze.
Infatti, se è vero che «l’ermeneutica ha potuto innestarsi sulla fenomenologia»,35 ciò è stato possibile solo al prezzo di un «rovesciamento» della fenomenologia, che ne è in pari tempo la «realizzazione».36 Tale rovesciamento ha una «conseguenza epistemologica» estremamente importante ai nostri fini: «non si dà comprensione di sé che non sia mediata attraverso segni, simboli, testi».37 Quello che qui viene detto della comprensione di sé vale per la filosofia nella sua interezza e si ricollega a quelle «analisi miranti ad articolare l’una sull’altra la comprensione e la spiegazione»38 che si sono già ricordate: Ricœur rifiuta «un irrazionalismo della comprensione immediata» (che ricorda il modo heideggeriano di intendere il Verstehen), ma rifiuta con la stessa forza «un razionalismo della spiegazione» che sarebbe quello di una scienza assunta a valore assoluto;39 il processo conoscitivo deve integrare il momento di comprensione con le procedure di spiegazione oggettiva, e vivere quindi di un fecondo dialogo tra le scienze e la filosofia.40
La filosofia di Ricœur è una filosofia che interpreta il reale, e lo fa in un costitutivo rapporto con le scienze oggettive.41
- La scienza. Se definire cosa sia la filosofia di Ricœur è difficile per eccesso di determinazioni, definire cosa sia la scienza secondo questo autore lo è per difetto.
Non trovandosi delle trattazioni specifiche dell’argomento, siamo costretti ad estrapolarle da quanto si è già detto. In sostanza, possiamo definire la scienza come quel processo conoscitivo che si preoccupa di «spiegare» il reale, e di spiegarlo nel senso che questo termine assume all’interno della più volte nominata dialettica dello spiegare e del comprendere.
«Spiegare», afferma Ricœur all’inizio della sua carriera, «è sempre ricondurre il complesso al semplice»:42 «per la spiegazione il semplice è la ragione del complesso»,43 e questa è la regola «che costituisce la forza delle scienze della natura».44 È attraverso questa regola che la scienza può «rispondere alla domanda “perché?” attraverso una pluralità di impieghi del connettore “perché”»45 (e con ciò si è citata un’altra definizione di «spiegare», complementare a quella degli anni ’50).
Quelle che si attua nelle scienze è una sorta di riduzione della complessità del reale,46 a cui corrisponde la costituzione di una specifica «oggettività», la quale «sembra essere la sola oggettività pensabile, cioè l’oggettività dei fatti naturali connessi da leggi di tipo induttivo»:47 «la regione della natura», vista nella prospettiva della spiegazione scientifica, «è quella degli oggetti […] che, a partire da Galileo, sono sottoposti al processo di matematizzazione e, a partire da John Stuart Mill, ai canoni della logica induttiva».48
Ma, oltre alla riduzione della totalità del reale a somma di elementi semplici, c’è anche una seconda riduzione, anch’essa caratteristica delle scienze:49 con essa il reale cessa di essere un reale per un soggetto che lo vive, lo interpreta e lo conosce, un reale come corrispettivo noematico dell’attività noetica da cui il soggetto non è estromissibile;50 la realtà diviene una realtà di fatti, nella cui conoscenza il rapporto al soggetto non è costituivo.51
- Il linguaggio. L’interesse per il linguaggio è forse quello più persistente all’interno della filosofia di Paul Ricœur. Esso scaturisce, ben prima del personale linguistic turn del nostro autore avvenuto a contatto con la filosofia analitica,52 dalla sostanziale struttura linguistica che guida le analisi fenomenologiche e che fa della fenomenologia in genere, e della fenomenologia della volontà di Ricœur in particolare, una sorta di analisi linguistica in nuce.53 Questa attenzione alla dimensione del linguaggio viene in seguito catalizzata dalla problematica del mito e del simbolo, dal problema del testo e dal fenomeno della creatività che si esprime nelle metafore e nei racconti.
Si tratta di un interesse che muove dalla coscienza acuta della frammentazione del linguaggio, particolarmente importante ai nostri scopi:
Noi oggi siamo alla ricerca di una grande filosofia del linguaggio che renda conto delle molteplici funzioni del significare umano e delle loro relazioni reciproche. In che modo il linguaggio è capace di usi così diversi come la matematica e il mito, la fisica e l’arte? Non è un caso se è proprio oggi che ci poniamo questa domanda. […] in effetti, il progresso stesso di discipline così disparate come quelle che noi abbiamo appena nominato ha contemporaneamente reso manifesta ed aggravata la dislocazione di questo discorso; l’unità del parlare umano forma oggi un problema.54
Queste considerazioni ci riportano ad un interrogativo lasciato aperto nel paragrafo precedente, allorquando ci si chiedeva se fosse corretto parlare di linguaggio al singolare o se non fosse piuttosto necessario pluralizzare anche questa espressione. Ebbene, ora è possibile rispondere che esistono molteplici linguaggi della metafisica e delle scienze, linguaggi che, è sempre Ricœur ad indicarcelo, nutrono tra essi un rapporto conflittuale (causa e sintomo del conflitto delle interpretazioni) che richiede di essere mediato ed arbitrato.
Si vedrà tra poco cosa questa questione significhi per le nostre analisi e come essa, attraverso il tema della traduzione, porti a pensare il rapporto tra le metafisiche e le scienze.
Rimane però da fare una precisazione importante, che fa emergere degli altri elementi significativi: nel caso di Ricœur, più che di «linguaggio», è necessario parlare di «discorso» (e ciò sulla scorta dei Problèmes de linguistique générale di Émile Benveniste55). In tal modo il Nostro vuole svincolarsi dall’impostazione strutturalista a lungo dominante in Francia, impostazione che vede nel linguaggio solamente un sistema chiuso, virtuale, costituito da termini differenziali: esso è senza tempo, senza soggetto e senza un mondo a cui riferirsi. Il discorso, al contrario, è una effettuazione aperta del sistema, appartiene all’ordine dell’evento ed è costituito da frasi che hanno un referente extralinguistico (e non da segni che rimandano solo ad altri segni interni al sistema, in una sorta di vocabolario senza esterno): esso avviene nel tempo, chiama in causa un soggetto che comunica con altri soggetti e si riferisce ad un mondo.56
Detto in sintesi, il discorso va definito come «l’atto attraverso cui qualcuno dice qualcosa su qualcosa a qualcun altro».57
Questa formula riassuntiva, ricordata da Ricœur anche in La natura e la regola a testimonianza della sua pertinenza sul piano problematico in cui si muovono le nostre argomentazioni,58 ci permette di fare almeno due considerazioni.
In primo luogo, il linguaggio-discorso è un atto fatto da qualcuno: in esso il riferimento al soggetto è ineliminabile.
Se quindi, per parlare di «linguaggio della scienza», si adotta questa concezione del linguaggio, è possibile porre rimedio alla riduzione della soggettività caratteristica delle scienze. Tale reintroduzione della soggettività, a dispetto e a ragione della critica del cogito autoponentesi costantemente perseguita dal Nostro in funzione di una filosofia che «si situa ad uguale distanza e dall’apologia del Cogito e dalla sua distruzione»,59 permette di pensare in modo determinato quel «riferimento soggettivo alla persona» che, accanto al «riferimento oggettivo alla realtà», costituisce «un comune punto di riferimento iniziale e un punto di verifica costante sulla base del quale si possono incontrare con pertinenza, e nel rispetto della rispettive autonomie metodologiche, le diverse discipline».60
Inoltre, questa considerazione del soggetto quale soggetto del discorso permette di pensarlo in base ad una antropologia, quella dell’homme capable, che si rivelerà particolarmente utile nel confronto tra metafisiche e scienze:61 il soggetto è il soggetto capace di discorso, e capace allo stesso titolo per cui esso è capace della scienza ed è capace della metafisica.
In secondo luogo, il linguaggio-discorso è un dire qualcosa su qualcosa: «l’atto stesso del discorso, per il suo carattere di riferimento a qualcosa su cui si parla, presuppone una realtà extralinguistica»,62 realtà che si configura immediatamente come un «mondo».63
Quello che qui si nomina è un «postulato ontologico del linguaggio»64 che, radicalizzato nella forma della «veemenza ontologica»65 di cui parla La metafora viva nel concetto di «denotazione di secondo livello»66 e Tempo e racconto in quello di «rifigurazione del mondo»,67 sarà particolarmente importante non appena ci si occuperà del linguaggio della metafisica e della sfida che esso subisce da parte della scienza. Esso, poi, sarà rilevante anche nel momento in cui si cercherà di comprendere la relazione che le scienze intrattengono con la realtà.
- Il reale. Con il termine «reale» si entra in un campo problematico rispetto al quale Ricœur si mostra sempre estremamente prudente: quello dell’ontologia. Ai nostri scopi è sufficiente affermare che il reale è l’«essere», in quanto esso costituisce un «mondo». Vediamo più in particolare cosa vuol dire tutto ciò.
Riguardo al problema dell’essere, il Nostro si ricollega costantemente alla polisemia che è stata messa in luce per la prima volta da Aristotele nella sua Metafisica e che fornisce «la trama di una discorsività principiale che è il discorso stesso dell’ontologia»;68 non alla piccola polisemia delle categorie, ma a quella che Ricœur definisce «la grande polisemia dell’essere», enunciata dallo Stagirita in Metafisica, E 2, quando dice: «L’essere, inteso in generale, ha molteplici significati: (1) uno di questi — si è detto innanzi — è l’essere accidentale; (2) un secondo è l’essere come vero e il non essere come falso; (3) inoltre ci sono le figure delle categorie (per esempio l’essenza, la qualità, la quantità, il dove, il quando e tutte le restanti); e ancora, oltre a tutti questi, (4) c’è l’essere come potenza e atto».69
Ricœur è quindi cosciente che «l’essere si dice in molti modi», ovvero che esso presenta una pluridimensionalità intrinseca la quale, si è detto, costituisce la garanzia e la legittimazione dei differenti approcci disciplinari:70 l’essere è sempre colto in una situazione di conflitto tra i diversi modi del sapere71 e questo è uno degli elementi che rende indispensabile l’intervento della filosofia, la quale deve quindi «svolgere il suo più alto compito», cioè «un vero e proprio arbitrato tra le pretese totalitarie di ciascuna interpretazione».72
Tra le diverse accezioni indicate dal passo aristotelico, il Nostro privilegia quella dell’essere come atto e potenza, e ciò perché, tra l’altro, essa è la base più adeguata per formulare l’ontologia del soggetto (agente) a cui egli è interessato.73
Questa scelta, però, non è valida solo per fornire una risposta alla domanda sull’essere del «sé», ma ha chiaramente una valenza generale, e può costituire una determinazione dell’essere in quanto tale, sulla cui base è possibile pensare anche il dialogo con le scienze della natura.
È in Sé come un altro che Ricœur lo afferma esplicitamente:
Mi spiego: se l’enérgeia — dýnamis non fosse che un’altra maniera di dire praxis (o peggio, di estrapolare metafisicamente un qualche modello artigianale dell’azione), la lezione di ontologia sarebbe priva di efficacia; la sua fecondità si manifesta piuttosto nella misura in cui l’enérgeia — dýnamis irriga altri campi di applicazione che non l’agire umano. […] L’essenziale è il decentramento stesso — verso il basso e verso l’alto, in Aristotele — grazie a cui l’enérgeia — dýnamis indica un fondo di essere, ad un tempo potente ed effettivo, sul quale si staglia l’agire umano. In altri termini, appare ugualmente importante che l’agire umano sia il luogo di leggibilità per eccellenza di questa accezione dell’essere in quanto distinta da tutte le altre (ivi comprese quelle che la sostanza porta con sé) e che l’essere come atto e come potenza abbia altri campi di applicazione che non l’agire umano.74
Da quanto letto appare evidente che, parlando dell’essere come atto e potenza, non ci si riferisce soltanto al soggetto e alla sua capacità di azione, ma si mette in causa un carattere essenziale dell’essere che è riscontrabile anche nella natura studiata dalla scienza.
In pratica, accentuando i concetti di atto e potenza a scapito dell’interpretazione sostanzialistica del reale, Ricœur ne mette in luce la dimensione dinamica, il suo costituirsi come possibilità imprevedibile, il suo essere sempre di nuovo ristrutturabile, in una parola, il suo essere un «mondo».
È vero che «mondo» è un termine che il Nostro, sotto l’influenza del saggio heideggeriano «L’origine dell’opera d’arte»,75 utilizza soprattutto a proposito del testo, essendo esso più in particolare la «cosa del testo».76 Nondimeno, nella misura in cui è il «mondo» ciò su cui il linguaggio è aperto, ed ancora, nella misura in cui nel concetto ricœuriano di «mondo» risuonano innegabilmente l’in-der-Welt-Sein di Heidegger e la Lebenswelt di Husserl,77 non si può negare che esso abbia una propria rilevanza anche a proposito del dialogo con la scienza: è nel «mondo», inteso Ricœurianamente, che la scienza si muove per ricavare il proprio mondo di fatti oggettivabili e matematizzabili, ed è a tale mondo che, secondo l’insegnamento de La crisi delle scienze europee di Husserl, bisogna ritornare per comprendere il rapporto delle scienze con il reale.
In La natura e la regola Ricœur è chiarissimo a questo proposito: «il mondo non è solo l’ambiente circostante, è l’orizzonte di una esperienza totale».78 Detto altrimenti, il mondo non è fatto di realtà che si definiscono «con i termini della fisica, della chimica e della biologia»: in questo caso, infatti, «si tratta già di un mondo scientificamente organizzato».79
Per quanto esso venga dichiarato «privo di senso e di intenzione» e per quanto la scienza protesti «con vigore contro la concezione, cara ai matematici, di un mondo platonico, pullulante di forme e di idee prestabilite, di un illusorio cielo stellato decorato di proposizioni vere, di ritmi armonici o di massime di buona condotta»,80 il mondo della scienza rimane un mondo già implicitamente «etichettato», ossia ridotto e formato in funzione della sua leggibilità scientifica.
Al contrario, il «mondo», nel senso che diamo qui al termine, è ciò a partire da cui l’universo della scienza viene classificato, il suo fondamento: «un mondo in cui l’essere vivente si orienta, sceglie i segnali per lui significativi, dispiega le sue anticipazioni per farne un mondo relativamente praticabile e, per farla breve, abitabile. In questo senso, è molto più di un universo di “rappresentabili” che andrebbe elevato al rango di “conoscibile”»:81 «bisogna risalire a monte di questa situazione in cui l’esperienza parte da una realtà già costituita […]. L’agente umano non si limita a informarsi sull’ambiente circostante per eventualmente modificarlo ma fin da subito lo interpreta e lo modella, o meglio — secondo l’espressione forte di Husserl, l’Husserl degli ultimi inediti —, lo costituisce come proprio mondo ambiente proiettandovi i suoi piani d’azione e le sue esigenze di significato».82
Si vedrà tra poco come tutto ciò sia un aspetto fondamentale per comprendere il ruolo che la filosofia può avere di fronte alle scienze.
5. Il piano linguistico
Conclusa questa ricognizione del significato dei Grundworten della nostra analisi nel pensiero di Ricœur, siamo ora in condizione di affrontare i due livelli problematici (linguistico ed ontologico) che si sono evidenziati nel paragrafo precedente.
Sul piano linguistico, si diceva, la questione è quella di rispondere alla contestazione mossa dalle scienze alle metafisiche circa la capacità del loro linguaggio di avere un’autentica portata cognitiva: le metafisiche, e la filosofia nel suo complesso, sarebbero più dal lato della poesia e dell’arte che non da quello della scienza e si esaurirebbero in una riflessione esistenzialistica (nel senso più deleterio del termine), in un esame dei sentimenti e della condizione umana che niente avrebbe a che fare con il reale di cui, sole, si occupano le scienze.
Questa è la contestazione. Il pensiero di Paul Ricœur ci insegna che tale tesi è due volte erronea, una prima perché essa non comprende veramente cosa la poesia e l’arte dicono (di modo che l’accusa di vicinanza alla poesia non è una vera accusa); una seconda perché essa apparenta troppo in fretta filosofia e poesia, senza comprendere la specificità del compito che è svolto dalla prima delle due e che è rilevante anche per il lavoro delle scienze (di modo che l’accusa di vicinanza è una accusa che non coglie nel segno).
Affermare che la filosofia non ha alcuna portata cognitiva, significa mantenersi in una visione troppo stretta del reale: l’«opposizione tra valori cognitivi e valori emozionali del discorso», infatti, non è altro che il risultato «di un pregiudizio positivista in forza del quale solo il discorso scientifico è capace di dire la realtà».83
Se veramente si vuole riflettere sullo statuto del linguaggio delle metafisiche, bisogna sfuggire a questo pregiudizio: è necessario che cessiamo di identificare «realtà e realtà empirica o, in altri termini, che smettiamo di identificare esperienza ed esperienza empirica».84 Ebbene, ciò è possibile proprio grazie al discorso poetico, in quanto esso «è quello per il quale l’epochê della referenza ordinaria è la condizione negativa per l’apertura di una referenza di secondo grado».85
L’accostamento delle metafisiche alle opere d’arte trova la propria vis polemica nell’idea che in queste ultime la referenza del discorso venga abolita e che, di conseguenza, esse non raggiungano il reale. Ma, in funzione del postulato ontologico del discorso e della «veemenza ontologica» che esso esprime,86 il linguaggio poetico intenziona «un campo di referenza per il quale non esiste caratterizzazione diretta, per il quale, per conseguenza, non è possibile procedere ad una descrizione capace di identificarlo per mezzo di predicati appropriati»;87 esso «ricava il suo valore dalla sua capacità di portare al linguaggio degli aspetti di ciò che Husserl indicava come Lebenswelt e Heidegger In-der-Welt-Sein. In tal esige che rimettiamo in discussione anche il nostro concetto convenzionale di verità, cioè che smettiamo di limitarlo alla coerenza logica e alla verificazione empirica».88
È quindi evidente che voler togliere ogni portata veritativa alle metafisiche accostandole alla poesia e rinchiudendole nella sfera dei sentimenti, è una mossa teorica che non coglie nel segno, e ciò proprio in funzione di quell’estensione del concetto del «reale» che si è vista essere caratteristica del pensiero del Nostro: «il sentimento non è meno ontologico della rappresentazione».89 Anzi, è proprio pensando in verità la poesia ed il suo rapporto al reale che le metafisiche possono rivendicare una fondamentale «istanza critica, rivolta contro il nostro concetto convenzionale di realtà»:90 «bisogna […] spezzare il regno dell’oggetto, perché possa esistere e possa dirsi la nostra primordiale appartenenza ad un mondo che noi abitiamo, vale a dire un mondo che, ad un tempo, ci precede e riceve l’impronta delle nostre opere. In una parola, bisogna restituire al bel termine “inventare” il suo senso, a sua volta, sdoppiato, che vuol dire, ad un tempo, scoprire e creare».91
Il linguaggio delle metafisiche è un linguaggio che «dice qualcosa», e che lo dice secondo una modalità molto determinata. Infatti, esso non si limita a riprendere in modo vago l’indicazione contenuta nel discorso poetico circa l’appartenenza del soggetto ad un mondo più ampio e più fondamentale di quello delle scienze; al contrario, il discorso metafisico articola «l’abbozzo semantico, privo di determinazione concettuale» che è formulato dal discorso poetico,92 e lo trasporta in un discorso rigoroso e “scientifico”, in cui la teoria della referenza sdoppiata trova il proprio quadro di riferimento concettuale. È così che Ricœur, seguendo la lezione di Aristotele, può affermare che «l’intenzione semantica dell’enunciazione metaforica», pensata dalla filosofia, «mette in gioco l’essere come atto e come potenza».93
Il linguaggio delle metafisiche, quindi, non solo si rapporta al reale, ma si rapporta al significato che, si è visto, è il significato fondamentale del reale: l’essere come atto e potenza, l’essere come dinamicità autonoma,94 l’essere come «sbocciare» e come «apparire»95 (e questo secondo l’insegnamento di Heidegger a proposito del significato della phýsis96).
Il discorso metafisico, lo si ripete ancora una volta, sfugge alla sfida mossagli dalle scienze, poiché esso coglie un reale più reale di quello indagato da queste ultime,97 un reale che è, lo si è visto a proposito del concetto di «mondo», il loro fondamento.
Ma, si è detto, la contestazione mossa dalle scienze è erronea non solo perché, basandosi su un concetto troppo limitato del reale, non comprende cosa il linguaggio poetico dice; essa è in errore anche perché non comprende la specificità del discorso metafisico-filosofico, e con ciò si preclude anche un proficuo rapporto con esso.
Una indicazione a questo proposito la si è già data poco sopra, mostrando come la teoria della «referenza sdoppiata» venga assunta da un discorso autonomo, quello della filosofia, che ci porta a pensare l’essere come atto e potenza. Ora si è in grado di nominare esplicitamente questo discorso e di indagarne il rapporto con il linguaggio poetico e, per estensione, con quello scientifico.
Il discorso in cui la metafisica riesce a pensare in modo radicale il reale aperto dalla metafora è il «discorso speculativo»;98 si tratta di un discorso «che stabilisce le nozioni prime, i principi che articolano, a titolo originario, lo spazio del concetto»; ancora, esso «è la condizione di possibilità del concettuale», poiché «ne esprime, in un discorso di secondo grado, la sistematicità». Si tratta insomma di un discorso che, seppur «seguendo l’ordine della scoperta, risulta un discorso secondo», è «discorso primo nell’ordine della fondazione»:99 esso è, anticipando, il discorso in cui si esercita quella «funzione meta- del pensiero»100 su cui si dovrà rivenire tra poco a proposito delle sollecitazioni che il pensiero metafisico propone alle scienze.
Ora, tale discorso, in cui si dice il fondamento, non è affatto omogeneo al discorso poetico e ciò a dimostrare l’inconsistenza della contestazione che gli muovono le scienze: è per questo che, nell’ultimo studio de La metafora viva, Ricœur si impegna in «una difesa della discontinuità tra discorso speculativo e discorso poetico e una presa di posizione nei confronti di alcuni tentativi, a nostro avviso erronei, di cogliere il rapporto di implicazione tra discorso metaforico e discorso speculativo».101 Ciò non toglie però che, «a partire da questa differenza nel discorso», «si possano elaborare modalità di interazione, o meglio, di interanimazione tra modi di discorso».102
Il rapporto tra discorso poetico e metafisiche è quindi dialettico: «il discorso speculativo ha la sua condizione di possibilità nel dinamismo semantico dell’enunciazione metaforica, ma […] può rispondere alle virtualità semantiche di quest’ultima solo offrendogli le risorse dello spazio di articolazione che gli deriva dalla propria costituzione».103 Ma in tale dialettica non è possibile trovare nulla a sfavore della portata cognitiva delle metafisiche, anche perché il «dinamismo semantico dell’enunciazione metaforica» intenziona la struttura più profonda del reale e si pone alla base della costituzione di ogni campo semantico, anche di quelli del linguaggio ordinario e del linguaggio scientifico.104
Queste riflessioni di Ricœur si basano su «una presa di posizione generale riguardante l’unità d’insieme dei modi di discorso, intendendo per modi di discorso usi del tipo: discorso poetico, discorso scientifico, discorso speculativo, ecc.».
Tale presupposto, che si ricollega direttamente al riconoscimento della frammentazione del linguaggio di cui si è detto sopra, afferma «la necessità di un relativo pluralismo delle forme e dei livelli di discorso. Senza arrivare fino alla concezione proposta da Wittgenstein di una radicale eterogeneità dei giochi linguistici, eterogeneità che renderebbe impossibili i casi di intersezione […], bisogna riconoscere, in via di principio, la discontinuità che assicura al discorso speculativo la sua autonomia».105
È importante sottolineare qui che il rapporto instaurato tra il discorso speculativo della metafisica e quello poetico è lo stesso che il primo intrattiene con il discorso scientifico: se è vero che tutti questi discorsi parlano del reale, e se è vero che tra essi possono essere scoperte delle «modalità di interanimazione», è altrettanto vero che tali discorsi si muovono in uno specifico regime di separazione e discontinuità.
Tale separazione è indicata e difesa con vigore da Ricœur nel suo dialogo del 1998 con Changeux, al punto che essa ne costituisce il filo conduttore.
In quella sede la questione è limitata al rapporto tra neuroscienze e fenomenologia a proposito dello studio della soggettività, ma la posizione che Ricœur assume ha sicuramente un valore più ampio. Essa consiste nel riconoscimento di «un dualismo semantico, che esprime una dualità di prospettive»:106 «La mia tesi iniziale», afferma il Nostro, «è che i discorsi tenuti da entrambe le parti dipendono da due prospettive eterogenee, cioè non riducibili l’una all’altra e non derivabili l’una dall’altra».107
A questa «tesi iniziale», poi, corrisponde una «ipotesi di partenza» che Ricœur esprime in modo lapidario: «non vedo passaggi da un ordine di discorso all’altro».108
Pensata in questo modo, la discontinuità tra il discorso filosofico e quello scientifico sembrerebbe assoluta.109 Nondimeno, è lo stesso Ricœur a riconoscere che «questo dualismo semantico, nel quale si esprime un vero ascetismo del pensiero riflessivo, può essere solo un punto di partenza. L’esperienza molteplice, ampia e completa, è fatta in modo che i due discorsi non smettono di essere correlati da molteplici punti di intersezione».110
Alla luce di ciò, quindi, potremmo ben affermare che nel confronto tra metafisiche e scienze ci sembra presentarsi uno specifico problema di traduzione: se i due discorsi sono distinti, e tuttavia esistono dei punti di contatto che rendono praticabile il passaggio dall’uno all’altro, è evidente che una traduzione che passi dal linguaggio della metafisica a quello della scienza (e viceversa) non è da escludere completamente.
È interessante che Ricœur si sia occupato nei suoi ultimi lavori proprio di questo problema della traduzione.111 Certamente, egli lo intende in relazione alla «pluralità» e alla «diversità della lingue»,112 riferendosi così esclusivamente alle questioni di traduzione che nascono dalla eterogeneità delle lingue naturali; nondimeno è possibile ritenere che tale «diversità delle lingue», un «fatto che è nello stesso tempo un enigma»,113 stia alla base della frammentarietà delle sfere di discorso che ci interessa qui e risulti ad un tempo ampliata da tale frammentarietà.
È come «enigma» che questa diversità ha dato origine a svariate speculazioni, «inizialmente al livello del mito, poi a quello della filosofia del linguaggio, quando essa si interroga sull’origine della dispersione-confusione».114
In modo del tutto consequenziale al rapporto tematizzato dal Nostro tra filosofia e non-filosofia, egli elabora i punti principali della propria teoria della traduzione prendendo in esame il mito biblico di Babele. In esso, Ricœur nota subito che «la dispersione-confusione è […] percepita come una catastrofe linguistica irrimediabile»,115 ma si affretta pure a precisare che «si può leggere questo mito, come d’altronde tutti gli altri miti di cominciamento che prendono in conto delle situazioni irreversibili, come la constatazione senza condanna di una separazione originaria».116
Detto altrimenti, ciò significa che la frammentazione del discorso è un dato di fatto, un irrazionale non razionalizzabile, che testimonia della condizione umana e che richiede uno specifico lavoro di traduzione, destinato a rimanere comunque e sempre imperfetto. A conferma di ciò, Ricœur, dopo aver riportato il passo biblico in cui è narrato l’episodio di Babele (Gen. 11, 1-9), commenta: «Avete inteso: non c’è alcuna recriminazione, alcuna deplorazione, alcuna accusa: “Yaveh li disperse di là sulla faccia di tutta la terra. Essi cessano di costruire”. Cessano di costruire! Un modo di dire: “è così. Vedi, vedi, è così”, come amava dire Benjamin. A partire da questa realtà della vita, traduciamo!».117 Proprio perché la frammentazione linguistica è un fatto insuperabile, nel lavoro della traduzione bisogna accontentarsi di traduzioni «senza criterio assoluto»,118 ossia bisogna rinunciare «all’ideale stesso della traduzione perfetta»:119 questa, secondo una espressione che il Nostro mutua dalla Condizione umana di Hannah Arendt, è «la cosa da fare affinché l’azione umana possa semplicemente continuare».120
Tutto ciò è estremamente importante per il nostro confronto tra linguaggio delle scienze e linguaggio delle metafisiche: pur avendo dimostrato il valore cognitivo del discorso speculativo e la sua completa legittimità di fronte a quello scientifico, rimane che questi due discorsi sono diversi e richiedono un lavoro di traduzione. Ma tale traduzione sarà imperfetta, ed essa dovrà essere condotta «perché l’azione umana possa semplicemente continuare». In altri termini, a motivare qui una traduzione, «teoreticamente inconcepibile, ma effettivamente praticabile»,121 può esserci solo (1) un’esigenza etica (traduciamo perché si deve tradurre) e (2) il comune riferimento dei vari discorsi al soggetto agente e capace: è perché metafisica e scienza, secondo l’insegnamento dell’ultimo Husserl, sono entrambe attitudini pratiche di uno stesso soggetto,122 è per questo che il dialogo tra esse deve essere possibile; solo così il reale potrà essere il campo d’azione adeguato in cui esplicitare in pieno le potenzialità dell’homme capable.
Di conseguenza, nel confronto tra discorso metafisico e discorso scientifico, l’atteggiamento da preservare è quello di una «hospitalité langagière»,123 che si muove nell’«alternativa pratica […], nata dall’esercizio stesso della traduzione, l’alternativa fedeltà versus tradimento».124 Non vi è alcuna garanzia che un discorso sia trasportabile nell’altro (è per questo che bisogna uscire dall’«alternativa teorica: traducibile versus intraducibile»): riprendendo un’espressione che Ricœur impiega negli anni ’50, si tratta di sperare nell’«unità del vero», affidandosi così ad una idea regolatrice di stampo kantiano; di questa unità non si può avere conoscenza, ma essa deve essere pensata per rendere praticabile il lavoro concreto della ricerca.125
6. Il piano ontologico
Sul piano ontologico, il dialogo tra metafisiche e scienze si configura come interrogazione, mossa dal discorso filosofico, circa il rapporto delle scienze al reale.
Che questa questione meriti di chiamarsi «ontologica» è lo stesso Ricœur ad affermarlo, allorquando egli nota che «la scienza stessa genera sempre di nuovo l’interrogazione ontologica», precisando di seguito che «non è in modo metafisico, ma al contrario fisico, che la scienza incontra la questione dell’essere. Con ciò intendiamo: la questione dell’essere, per la scienza, è la questione di sapere ciò che, per essa, è ritenuto reale, nel senso di non convenzionale, non prodotto dall’attività teorica e pratica dello scienziato».126
Questa «problematica di carattere ontologico» che va «disimplicata» dall’epistemologia (e a farlo, si noti, non è la scienza stessa, ma il pensiero filosofico), si suddivide in prima istanza in «due problemi […] collegati, due problemi che concernono due significati differenti della parola “reale”: il referente del discorso scientifico, i livelli o i gradi di realtà».127
La prima di queste due sotto-questioni, attraverso cui si mette a tema quella «perdita del reale» di cui si diceva nel paragrafo precedente, può essere considerata come una riformulazione del problema con cui si apre il Trattato aristotelico delle categorie, ossia quello della sostanza: «in linguaggio moderno, questa antica questione si enuncerebbe così: questa entità, di cui la scienza fa la teoria, appartiene alla “popolazione” delle entità il cui insieme costituisce il mondo?».128
La seconda prende in carico l’interrogativo che si formulava sempre nel paragrafo precedente, quando, da un lato, ci si chiedeva se gli oggetti delle scienze fossero numericamente o qualitativamente plurali e, dall’altro, se il reale sia unico o se esso sia intrinsecamente plurale. Con le parole di Ricœur, «questa è la questione di sapere se [la scienza] pone una sola sorta di realtà — la “materia” o realtà fisica — a cui tutte le altre realtà — vita, coscienza o spirito — sarebbero riconducibili, o se, al contrario, la scienza deve postulare una pluralità di livelli di realtà, irriducibili gli uni agli altri».129
Le due sotto-questioni, a ben guardare, non sono sullo stesso piano: benché Ricœur in «Ontologie» si limiti a giustapporle, la prima, quella che riguarda la «realtà delle entità teoriche di cui parla la scienza», è un problema che si colloca in una ontologia di primo grado, mentre l’altra, circa la realtà stessa (considerata in quanto tale) ed i suoi livelli, è una domanda che sorge nel campo di una ontologia di secondo grado.
La scansione dell’ontologia in primo e secondo grado è pensata da Ricœur a partire dall’opera di Platone, nella quale il filosofo francese nota un dislivello tra l’interrogazione di primo grado sull’essere delle cose (ossia sugli enti plurali) condotta nei primi dialoghi e sfociante nella teoria delle idee,130 e la questione dell’essere in quanto essere, del «significato dell’essere preso assolutamente», ovvero dell’essere delle idee,131 questione che può ben essere definita di secondo grado, rappresentando essa un ritorno successivo ed una problematizzazione dei risultati già assodati.
Questa scansione, fatta propria dal Nostro ed applicata alla propria riflessione,132 è qui del tutto pertinente, visto che la riflessione sul referente del discorso scientifico è proprio una riflessione sul rapporto dei vari enti all’essere, mentre quella sui livelli di realtà si pone come una interrogazione sull’essere in quanto tale.
Al livello dell’ontologia di primo grado, la riflessione condotta dal discorso filosofico costringe la scienza a superare il realismo ingenuo messo in scacco dagli sviluppi della scienza moderna ed in particolare della fisica quantistica in cui, nota il Nostro, «questa questione ha preso una forma critica acuta».133
Grazie a questo lavoro di pensiero, che trova il suo campo di esplicitazione nel dominio della riflessione filosofica, il rapporto delle scienze al reale può essere pensato in base ad un «realismo critico»: «se le entità costruite hanno qualche riferimento nella realtà, non è nella misura in cui esse si riducono o si collegano a degli osservabili, che soli raggiungerebbero qualche cosa della realtà; è nella misura stessa in cui sono entità costruite che esse pretendono di spiegare la realtà».134
Tutto ciò porta a prendere in carico un vero e proprio «paradosso del teorico» di cui le scienze, a meno di farsi interrogare dal pensiero filosofico, non danno ragione: «ciò che è il più lontano dall’esperienza è, in ultima analisi, il più reale»; in altre parole, ciò significa che «la funzione esplicativa di una teoria risiede nel suo valore di rappresentazione riguardo ad un segmento della realtà, senza tuttavia che nessuno dei concetti messi in gioco abbia un valore fenomenale».135 Non vi è alcuna corrispondenza punto per punto tra i concetti scientifici e gli enti del mondo, il che significa che la scienza non raggiunge direttamente il reale, ma perviene ad esso solo attraverso il filtro delle teorie, le quali operano in anticipo sull’osservazione, selezionando gli aspetti rilevanti e contribuendo in qualche modo a creare il reale stesso.
Della validità e della fecondità teorica di questa posizione circa il rapporto tra scienza e realtà è ampia testimonianza la teoria dei «modelli» di cui Ricœur si occupa ne La metafora viva.136 La questione è nota e non richiede una particolare attenzione.
Quello che ci preme piuttosto sottolineare è che l’interrogazione di primo livello di cui si parla qui (basandosi sull’«idea di una costruzione [teorica] che sia nello stesso tempo una descrizione della realtà»137) implica un cambiamento nel concetto stesso del «reale»: esso non è più un insieme compiuto e stabile di fatti di fronte al quale la conoscenza in genere, e la scienza in particolare, si porrebbero nell’atteggiamento dello spettatore disinteressato; al contrario, il mondo è qui il mondo dell’uomo, ovvero il mondo in cui l’uomo interviene, che egli modifica e forma, in cui egli abita dandogli senso.
Tutto ciò, prendendo in considerazione anche il processo di fissazione del discorso in un testo per il tramite della scrittura e le sue conseguenze,138 consente uno spostamento nell’interpretazione del problema del referente del discorso scientifico che è forse il contributo più importante dell’interrogazione posta a questo primo livello dal pensiero filosofico alle scienze.
Se è vero che «il mondo è l’insieme delle referenze spalancate da tutti i diversi testi descrittivi e poetici che ho letto, interpretato e amato» e se, ancora, è vero che «comprendere questi testi vuol dire interpolare tra i predicati della nostra situazione tutti i significati che di un semplice ambiente (Umwelt) fanno un mondo (Welt)»,139 è a questo livello che il problema della referenza va pensato.
In effetti, fin quando la fisica quantistica, per fare un esempio, si mantiene al livello di teoria e formalismo matematico, essa funziona perfettamente e non pone alcun problema ontologico: a questo stadio, chiedersi se una tale o tal’altra formula descrive una particella reale è fuori luogo, o addirittura controproducente.
Il problema ontologico nasce quando gli scienziati interpretano e spiegano i loro formalismi matematici, quando impiegano termini del linguaggio ordinario per parlarne e, ai livelli più vari, fanno opera di divulgazione.140 È solo a questo livello, quando la scienza diviene discorso che condivide gli stessi caratteri di ogni altro discorso, che si pone il problema ontologico.141
Ora, la suggestione che si può cogliere, e che in questo studio è destinata a rimanere tale, è che il potere referenziale dei testi scientifici vada pensato nello stesso modo in cui si pensa quello dei testi letterari: è perché «un testo dispiega un mondo, in un certo senso, dinanzi a sé», è perché esso è «la proposizione di un mondo che io potrei abitare e nel quale potrei progettare i miei poteri più propri»,142 è solo per questo che un testo si riferisce alla realtà.
Il discorso scientifico si riferisce al reale, parla del reale e spiega il reale solo nella misura in cui esso contribuisce a rendere il mondo un mondo per l’uomo, nella misura in cui apre nel mondo delle nuove possibilità per agire, nella misura in cui esso contribuisce affinché «l’azione umana possa semplicemente continuare»: come afferma Piergiorgio Picozza, «la validità della meccanica quantistica come legge fondamentale della natura poggia […] sul fatto che essa governa i processi di fissione e di fusione nucleare, il funzionamento dei semiconduttori e dei superconduttori, del microscopio ad effetto tunnel, di molti degli oggetti che ci sono familiari. Essa condiziona la vita quotidiana dell’uomo moderno. Questa è la sua ‘realtà’».143 È perché la scienza, quale una sorta di «racconto sul reale», contribuisce a ri-descrivere ed a ri-figurare il mondo nel quale l’uomo vive ed in cui egli trova le proprie possibilità, è per questo che essa ha una portata referenziale e raggiunge in qualche modo la realtà. Non è quindi un caso che Ricœur, nel suo confronto con le neuroscienze, si ponga a più riprese il problema del contributo che la conoscenza scientifica dà per la vita dell’uomo: «Come integrare il sapere oggettivo alla comprensione quotidiana?».144 È solo nella misura in cui «le nuove conoscenze che abbiamo sulla corteccia cerebrale aumentano ciò che già so attraverso la pratica del corpo»145 che il problema ontologico della referenza acquista una rilevanza specifica. Comprendere ciò, non solo significa rivedere il significato stesso che si attribuisce ai termini «reale» e «mondo», ma significa anche accettare un concezione dinamica dell’essere ed impegnarsi in una precisa ontologia.
Tale è il contributo che, in un’interrogazione di primo grado, il pensiero filosofico apporta nel suo dialogo con le scienze. Rimarrebbe da chiedersi se, sulla scorta di queste considerazioni, l’ontologia in quanto tale non vada pensata come un «racconto sull’essere», racconto da ascoltarsi prima ancora di pronunciarlo.
Ci fermiamo alla soglia di questa domanda che, per la sua radicalità, richiederebbe ben altra trattazione. Rimane invece da esaminare cosa ne è dell’interrogazione ontologica di secondo grado posta dal filosofo allo scienziato.
Alla fine degli anni ’70 Ricœur, seguendo la ripartizione classica del sapere filosofico, ha dato un nome preciso a questo genere di ricerca ed ha utilizzato per essa l’espressione «filosofia della natura»: «c’è una “filosofia della natura” allorquando si pone la questione di sapere come i caratteri di essere di cui si è trattato [ovvero i caratteri ontici degli enti naturali] si ricollegano all’intelligibilità dell’essere in quanto tale, di cui si ammette che costituisca il tema distinto dell’ontologia».146 In questo «rapporto alla tradizione dell’ontologia», secondo il Nostro, si trova «ciò che […] specifica la filosofia della natura nei confronti della filosofia della scienza»: «la questione sarà in effetti di sapere come le entità e le categorie della realtà secondo la scienza moderna si collegano a questo discorso dell’essere e delle sue significazioni multiple».147
Conformemente a quanto si diceva sopra a proposito del significato del «reale» nell’opera di Ricœur, anche qui egli ricollega l’interrogazione ontologica di secondo grado rappresentata dalla «filosofia della natura» all’«idea della polisemia dell’essere»148 ed in particolare alla «distinzione di essere secondo l’atto e secondo la potenza».149
È proprio ricorrendo a questa coppia di concetti e alla loro funzione nel pensiero aristotelico che è possibile trovare una risposta al problema dei livelli della realtà. Il Nostro afferma: «Da un lato, la nozione di potenza rendeva intelligibile il movimento e in generale il cambiamento, il divenire, che cessava così di essere un simulacro o un’ombra. Dall’altro, la nozione di atto, cioè di essere compiuto, di essere in entelechia, introduceva un principio di gerarchizzazione degli esseri, dagli esseri comportanti potenza — le sostanze sensibili— fino agli esseri privi di potenza, le intelligenze celesti e il pensiero in quanto atto puro».150 Ebbene, è proprio facendo ricorso alla «teoria gerarchizzata dei gradi di emergenza, secondo il principio della subordinazione progressiva di potenza e atto», che è possibile «rendere conto della distinzioni di principio tra i livelli dell’essere — essere fisico, essere vivente, essere psichico, essere spirituale —, al contrario della riduzione empirista e materialista all’essere di grado fisico».151
La realtà è intrinsecamente plurivoca, e questo è uno degli acquisti specifici dell’interrogazione di secondo grado che il pensiero filosofico pone alle scienze: è solo riconoscendo che l’essere è in prima istanza enérgeia e dýnamis che è possibile porre rimedio alla riduzione del mondo al fattuale che costituisce in larga parte l’impresa scientifica.
La soluzione che qui si rintraccia è sicuramente molto più avanzata rispetto alle dichiarazioni che Ricœur è solitamente disposto a fare, e va quindi presa con prudenza.
In La natura e la regola, per esempio, il problema dei livelli di realtà viene affrontato in modo indiretto, come corollario del dualismo tra anima e corpo iniziato con Cartesio. In questa sede, il Nostro riconosce apertamente il carattere ontologico della questione: «Questo antagonismo si situa a livello delle entità ultime, irriducibili, primitive (o come si vorrà definirle), che costituiscono ciò che i filosofi analitici amano chiamare l’arredo del mondo. Il livello è quello dell’ontologia fondamentale».152 Nondimeno, altrettanto netto è il suo rifiuto ad entrare in questo genere di trattazione: «Non è sul piano di quest’ontologia, le cui basi sono state scosse da Kant nella “Dialettica trascendentale” della prima Critica, che mi situerò. Resterò, modestamente ma fermamente, al livello di una semantica dei discorsi tenuti da una parte sul corpo e il cervello, dall’altra su ciò che, per farla breve, chiamerò il mentale».153
Al livello di questa semantica, si è visto, la posizione di Ricœur è quella di un «dualismo» molto forte, il quale è già una indicazione a favore della pluralità ed eterogeneità dei livelli del reale. Ma perché questa indicazione divenga una vera e propria dimostrazione, sarebbe necessario passare dalla sfera linguistica a quella ontologica. Ebbene, «ciò che inclina a passare da un dualismo di discorsi a un dualismo delle sostanze è che ogni campo di studi tende a definirsi in rapporto a ciò che si può chiamare un referente ultimo, cioè qualcosa a cui ci si riferisce in ultima istanza in quel campo. Ma quel referente è ultimo solo in quel campo e la sua definizione è simultanea a quella del campo. Bisogna, dunque, vietarsi di trasformare un dualismo di referenti in un dualismo di sostanze».154
La difficoltà è reale: non si può operare nessuna «estrapolazione dal semantico all’ontologico»155 prendendo come base la diversità dei referenti dei discorsi che studiano il reale, e ciò in virtù delle osservazioni già fatte a proposito del «realismo critico».
Se nella definizione dell’oggetto delle scienze interviene in modo molto forte la teoria stessa che dovrebbe studiarlo, ossia, se è vero che non esiste nessuna osservazione della realtà in cui non intervenga in modo pregiudiziale una dimensione teorico-interpretativa ineludibile,156 il rapporto delle scienze all’essere è estremamente mediato ed un accesso alla problematica ontologica attraverso di esse non è praticabile.
Nondimeno, rimane aperta la possibilità di dare una risposta alla questione dei livelli di realtà passando dall’ontologia di primo grado (nella quale si mantiene la questione risolta dal Nostro attraverso la teoria del dualismo semantico) a quella di secondo grado.
È quello che abbiamo fatto prima, ricorrendo alla nozione di essere come atto e potenza, e, di conseguenza, le conclusioni a cui si è giunti sfuggono all’interdetto ricœuriano appena esaminato e si rivelano perfettamente legittime.
Ma l’interrogazione ontologica di secondo grado non si esaurisce in questa dimostrazione della pluralità; essa, nota Ricœur in «Philosophie de la nature», ha anche un secondo fine, non meno importante: «apprendere l’unità generica della natura, al contrario della parcellizzazione dei saperi scientifici».157 Accanto al molteplice, l’uno.
Anche in questo caso, le metafisiche svolgono un compito essenziale: di fronte alla crescente specializzazione, tecnicizzazione e separazione dei domini di ricerca, esse ricordano che il reale è pur sempre uno e, focalizzando i caratteri dell’essere in quanto essere che sono comuni a tutti gli enti studiati, forniscono la base per una integrazione ed una collaborazione tra le più svariate discipline scientifiche che, altrimenti, rimarrebbero irrelate.158
A far problema oggi non è solo il dialogo tra metafisiche e scienze, ma anche quello tra le singole scienze;159 solo il discorso filosofico è in grado di rintracciare per esso una base concettuale sufficiente. Con ciò, si rintraccia un altro luogo in cui il dialogo di cui si occupa questo nostro studio è particolarmente fecondo.
Non siamo però ancora giunti al termine: nella riflessione ontologica di secondo grado c’è ancora dell’altro.
Il doppio fine che essa persegue, la pluralità e l’unità del reale pensate in funzione dell’essere in quanto tale, è l’espressione di una movenza peculiare del «discorso speculativo» già ricordata sopra. Si tratta di quella che, a partire dagli anni ’90, Ricœur chiama la «funzione meta- del pensiero». Questa funzione prende in carico l’«ampiezza del ventaglio delle accezioni positive del termine metafisica» e costituisce in pari tempo «l’orizzonte comune di riferimento per imprese differenti, che fanno esse stesse appello alla metafisica»;160 di conseguenza, essa è un ottimo punto di riferimento per pensare il rapporto tra metafisiche e scienze, a prescindere dalle differenze specifiche che fanno la polisemia di ciascuno dei due termini.
Ricœur definisce tale funzione servendosi «di due strategie distinte e complementari, l’una di gerarchizzazione, l’altra di pluralizzazione dei principi presunti o assunti da pensatori di diversa obbedienza».161
Ora, è sicuramente vero che la «nozione di essere in quanto atto […] contiene di fatto le due strategie della gerarchizzazione e della differenziazione dei principi»;162 di conseguenza essa costituisce la base migliore per pensare quell’unità plurale del reale che sembra essere l’interesse principale della riflessione ontologica di secondo grado. Ma ci sembra corretto affermare che la «funzione meta», principalmente nella sua dimensione di «gerarchizzazione», può esercitarsi anche in un’altra direzione.
Fin ora essa è stata pensata sulla linea di una intelligibilità crescente, di modo che tale funzione porta a pensare il fondamento ontologico delle scienze in direzione di concetti di secondo grado, frutto di un processo di riflessione che mira a rintracciare le strutture razionali dell’essere.
Tuttavia l’ontologia di secondo grado, oltre che per super-struzione, può venire elaborata anche per sub-struzione: cercare ciò che, gerarchicamente, è il più fondamentale non significa necessariamente andare verso l’alto, ma può significare anche una discesa verso il basso, verso quanto di opaco c’è alla radice della scienza e del pensiero,163 e ciò secondo un senso del meta- che, pur frequentemente obliato, rimane tuttavia legittimo: non vi è nulla che costringa a pensare l’«al di là» della metafisica come marcia verso la trasparenza del senso, piuttosto che come ritorno ad un fondo di senso originario.
A dimostrazione di ciò ci sono le affermazioni che Ricœur fa in La natura e la regola circa la natura del «discorso terzo» in cui sarebbe possibile esprimere l’identità ontologica di ciò di cui parlano scienza e filosofia ed alla cui costruzione presiede senza dubbio proprio la «funzione meta- del pensiero» che si è appena ricordata.
Ebbene, tale discorso, «che va al di là tanto della filosofia fenomenologica quanto della scienza», è «sia il discorso poetico della creazione nel senso biblico, sia il discorso speculativo portato ai suoi vertici da Spinoza».164 Questi due discorsi «parlano della stessa unità fondamentale», ma non vanno posti sullo stesso piano: «l’uno appartiene al registro del mito, che non è più il nostro […], ma che può ancora dar da pensare in un registro speculativo libero in cui si dispiegherebbe il fondo di saggezza dissimulato sotto la narrazione di un racconto delle origini. L’altro appartiene a un registro speculativo che, dopo Kant, ci è probabilmente divenuto inaccessibile […]».165 Detto altrimenti, pur avendo entrambi di mira lo stesso discorso ontologico, l’uno opera per sub-struzione, il secondo per super-struzione.
Queste osservazioni del Nostro, non solo rendono plausibile una esplicazione regressiva della «funzione meta-», ma in qualche modo sembrano indicare che essa è più feconda rispetto a quella progressiva: la prima «può ancora dar da pensare», mentre l’altra «ci è probabilmente divenuta inaccessibile».
Ricœur, in «Philosophie de la nature», accenna alla questione della sub-struzione interrogandosi sulla «statuto della conoscenza pre-scientifica». Certo, ammette il Nostro, se per conoscenza pre-scientifica si intende «la forma di sapere che precede storicamente la scienza, bisogna ben confessare che questa conoscenza è la raccolta di tutti i pregiudizi e che la scienza non può rapportasi ad essa che in maniera critica e riduttrice». Ma parlando di tale conoscenza non si nomina semplicemente la preistoria della scienza: «c’è anche un senso non storico, non genetico, da dare all’espressione pre-scientifico, che designerebbe il carattere di una esperienza primordiale che non è mai abolita e dalla quale la conoscenza scientifica stessa prende in prestito il suo senso della realtà».166
Se è vero che «l’uomo, in effetti, ha sempre compreso qualcosa della natura, attraverso la frequentazione familiare delle cose, attraverso il mito e la poesia, attraverso l’affinità tra il suo corpo e i corpi», allora, parafrasando l’espressione di Ricœur, il sapere di cui si parla qui più che pre-scientifico sarebbe meta-scientifico.167
Si nomina qui una «esperienza della natura che svilupperebbe una apprensione dell’essere immediatamente congiunta con la percezione» e che «designerebbe in tratti impliciti l’intelligibilità che il discorso di Aristotele aveva articolato sotto il titolo di scienza dell’essere in quanto essere»; tale conoscenza costituisce un accesso alla realtà alternativo e fondativo rispetto a quello della scienza, al quale è necessario prestare attenzione per comprendere in che modo quest’ultima si rapporta al reale: «non c’è scienza che non metta in gioco delle presupposizioni tacite, che non sono né delle escrescenze della percezione, né delle anticipazioni della conoscenza oggettiva, ma che mettono in gioco una concezione filosofica della natura, dell’esperienza umana e della situazione dell’uomo nel mondo. Queste presupposizioni non sono solamente degli “ostacoli epistemologici”, ma degli “indimostrabili” che esercitano il ruolo di principi a priori di carattere regolatore».168
Ebbene, uno dei compiti principali che è necessario assolvere al livello ontologico del dialogo tra metafisiche e scienze è proprio quello di mettere a tema questi «principi a priori di carattere regolativo». Detto altrimenti, il ministero delle metafisiche è quello di ricordare alle scienze che «noi siamo già volti verso la realtà e collegati ad essa attraverso legami che il discorso viene solamente a portare al linguaggio».169
Siamo così ricondotti a quel «postulato ontologico» del discorso che abbiamo già ricordato più volte e che struttura ai livelli più diversi il rapporto tra il linguaggio delle metafisiche e quello delle scienze.
Alla fine del nostro percorso, si deve nuovamente riconoscere che il problema rimane quello di tematizzare tale postulato e di giustificare il passaggio dal linguistico al non-linguistico: solo in questo modo può essere garantita la posta in gioco di tutto il percorso, ovvero il rapporto tra «reale» e «linguaggio».
Ricœur confessa: «Questo passaggio non si compie senza difficoltà: è ancora nel linguaggio che si sente parlare di ciò che precede il linguaggio; disponiamo di un tale linguaggio?».170 Com’è possibile rintracciare un «linguaggio che dice l’anteriore del linguaggio»?
È sulla risposta a questa domanda che vogliamo concludere:
Questo linguaggio è sempre esistito: è quello che si forma nell’ontologia dei presocratici e nell’opera poetica dei pensatori fondamentali; l’uomo non è mai stato sfornito di un linguaggio che dica la nostra iscrizione nell’essere e la cancellazione del linguaggio stesso davanti a ciò che è.171
Perché si possa comprendere fino in fondo il rapporto delle scienze e delle metafisiche al reale, è necessario intraprendere un cammino di pensiero vero l’arcaico, in cui viene alla parola per la prima volta quel «movimento previo e più originario che parte dall’esperienza d’essere nel mondo e nel tempo e procede da tale condizione ontologica verso la sua espressione nel linguaggio».172
La soluzione potrebbe sembrare apertamente heideggeriana, ed effettivamente le congruenze con le riflessioni del pensatore tedesco successive alla Kehre sono innegabili.
L’originalità della proposta ricœuriana circa questa questione consiste nel mantenere ferme le esigenze metodiche di questo arcaismo: ad esso non si accede con un «salto» (l’heideggeriano Sprung) che superi ogni considerazione epistemologica ed ogni validazione metodica; solo elaborando una struttura di accoglienza, che si rifaccia all’analisi dei miti e dei racconti, è possibile pensare questo arcaismo senza cadere nell’irrazionale.
Di questa struttura di accoglienza qui non diciamo nulla: per parlarne sarebbe necessario prendere in esame i lavori sui miti e sui simboli, integrando queste riflessioni con l’idea di un kantismo post-hegeliano che, a nostro parere, può essere portata ben oltre gli sviluppi che il Nostro effettivamente le dà.
Ma tutto ciò costituisce l’inizio di una nuova ricerca alla cui soglia ci fermiamo.
Questo testo era stato preparato in occasione di un seminario di studi dal titolo «Lingugaggio della metafisica e linguaggio delle scienze. Per un rinnovamento dell’interpretazione del reale», tenuto nel quadro delle attività dell’area di ricerca Sefir (Scienza e Fede sull’interpretazione del reale) della CEI. Ringrazio Gennaro Cicchese per l’attenta lettura che ha dedicato al testo e per i consigli che mi ha dato, nonché Pierluigi Valenza per il confronto intellettuale e la sua opera puntuale che, anche in questa occasione, tanta parte hanno avuto nello svolgimento del mio lavoro.
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Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999 [La nature et la règle. Ce qui nous fait penser, Odile Jacob, Paris 1998]. ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, «Préface de la première édition de Histoire et Vérité», in Id., Histoire et vérité, Seuil, Paris 19673, p. 10. ↩︎
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Non deve sfuggire che, se si riuscisse a sottrarsi all’egemonia e alla paradigmaticità incondizionata del modello di scientificità incarnato dal metodo sperimentale, anche filosofia e teologia potrebbero con pieno diritto rivendicare il titolo di scienza: esse, infatti, hanno uno specifico criterio di rigore argomentativo e procedure di ricerca e di verifica proprie. In questo modo la nostra ricerca si configurerebbe come confronto tra scienze diverse ed il campo di indagine nel quale ci poniamo prenderebbe un aspetto completamente differente. Nondimeno, noi scegliamo di non seguire questa strada, per altro perfettamente legittima, e ciò per tentare di pensare all’interno di una determinata situazione storico-culturale, che vuole filosofia e teologia come l’altro della scienza. In questo modo riteniamo che il nostro discorso abbia un vera e propria valenza interdisciplinare e costituisca un tentativo di rispondere all’esigenza storica di dialogo tra scienza, filosofia e teologia. Cfr. infra, p. 2, n. 7. ↩︎
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Cfr. T.M. Sierotowicz, La casa del mondo interpretato, Vatican Observatory Publications, Città del Vaticano 1995, pp. 103-104. ↩︎
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A questo proposito si legga quanto si afferma in Piero Coda, «L’interpretazione del reale», in Aa. Vv., Interpretazioni del reale. Teologia, filosofie e scienze in dialogo, a cura di Piero Coda — Roberto Presilla, Mursia, Milano 2000, p. 19: «[…] è proprio a motivo della pluridimensionalità della realtà che è utile, e persino necessario, mettere in opera una pluralità di accessi e d’interpretazioni della medesima». ↩︎
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Si tratta della domanda: le scienze studiano tutte un unico oggetto (il reale) preso sotto molti aspetti o si interessano ogni volta ad un oggetto diverso ed irriducibile agli altri? Di questa oscillazione è possibile trovare una testimonianza anche nel lavoro che ha inaugurato il cammino di ricerca nel quale questo contributo si inserisce. Piero Coda, dopo aver dichiarato che il nostro primo obiettivo deve essere «quello d’una chiarificazione del concetto di realtà cui fanno riferimento […] le differenti discipline», afferma che esso si scandisce in due sottoquestioni. «La prima di esse riguarda il particolare punto di vista che è metodicamente assunto, elaborato ed esercitato dalle singole scienze e, di conseguenza, la particolare dimensione del reale che da ciascuna di esse è scandagliata e descritta» (Piero Coda, «L’interpretazione del reale», cit., p. 21). Ebbene, parlare di «punto di vista» sottintende che le scienze abbiano un oggetto unico, studiato secondo metodologie differenti; al contrario, parlare di differenti «dimensioni del reale» significa attribuire alle scienze degli oggetti distinti, non metodologicamente, ma ontologicamente. Per tutto ciò, cfr. infra, pp. 17 sg. ↩︎
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Si noti che Ricœur è perfettamente cosciente di questa condizione del discorso scientifico contemporaneo: «Vi sono autori oggi che parlano di scienze al plurale e rifiutano la scienza, osservando che tutte le scienze sono frammentarie, parcellizzate, che siamo di forte ad un’ulteriore frammentazione e che in fondo noi esploriamo ancora il frammento, tanto in scienza che in filosofia» (Paul Ricœur, «Tra sfida etica ed impegno filosofico», in Aa. Vv., L’io dell’altro, a cura di Attilio Danese, Marietti, Genova 1993, p. 294). ↩︎
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Questa considerazione potrebbe essere contestata, affermando che la metafisica è la «filosofia prima», e quindi coincide con la filosofia stessa. Osservazione corretta, ma non pertinente: scegliendo di occuparci del rapporto tra metafisica e scienze ci si deve necessariamente tenere ad un confronto tra discipline, altrimenti l’analisi diverrebbe inattuabile. Se è vero che, perché ci sia un rapporto, i termini del rapporto debbono appartenere per qualche verso al medesimo, e se è vero che nella definizione di scienza che noi abbiamo dato interviene in modo ineludibile il concetto di disciplina, allora anche la metafisica, per poter essere confrontata con le scienze, deve essere tale. E, come disciplina, è innegabile che la metafisica sia una parte della filosofia. ↩︎
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È questo un punto su cui Ricœur ha avuto modo di insistere diverse volte e su cui ci si può ritenere completamente d’accordo. Cfr. Paul Ricœur- Gwendolyne Jarczyk, «Un entretien avec Paul Ricœur. Soi-même comme un autre», Rue Descartes, 1 (1991), nn. 1-2, p. 233; ancora cfr. Paul Ricœur, «Tra sfida etica ed impegno filosofico», in Aa. Vv., L’io dell’altro, a cura di Attilio Danese, Marietti, Genova 1993, p. 283 e p. 293; infine vedi pure Paul Ricœur, «Dalla metafisica alla morale», in Id., Riflession fatta, Jaca Book, Milano 1998, p. 104 e p. 114 [“De la métaphysique à la morale”, in Id., Réflexion faite, Esprit, Paris 1995, p. 88 e p. 98]. ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, «Vrai et fausse angoisse», in Id., Histoire et vérité, cit., p. 321. ↩︎
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Quella che qui si vuole affrontare è una versione particolare della «relazione, che rimane tuttora estremamente complessa e problematica, tra pensiero e realtà», relazione che costituisce la sintesi dei «nodi epistemologici lasciati in eredità dalla modernità» e la cui chiarificazione sarebbe il presupposto per un recupero del ruolo della filosofia nel panorama culturale attuale (Saturnino Muratore, «“Realtà” e dialogo tra i saperi», in Aa. Vv., Interpretazioni del reale, cit., p. 190). Della centralità di questa relazione dà ampia testimonianza anche Heidegger a metà degli anni ’30: «Più volte è stato da noi segnalato il decisivo predominio della distinzione di “essere e pensiero” nell’esserci dell’uomo occidentale» (Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1990, p. 125 [Einführung in die Metaphysik, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1953, p. 88]; è indicativo anche che l’autore dedichi a questa distinzione la parte più sostanziosa dell’opera: ibidem, pp. 125-200 [pp. 88-149]). Sostituire il rapporto tra «pensiero e realtà» con quello tra «linguaggio e realtà», come si fa qui, significa prendere a valore la rivoluzione intervenuta nella filosofia occidentale con quello che è stato definito linguistic turn. A questo proposito cfr. Richard Rorty, The linguistic Turn, University of Chicago Press, Chicago 1968 e Ian Hacking, Linguaggio e filosofia, Raffaello Cortina, Milano 1994. ↩︎
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La dimensione ontologica della metafisica è testimoniata sin dalle sue origini, entrando a definire la metafisica come tale: essa è epistéme he theoréi to ón é ón, una scienza, cioè, che considera l’ente in quanto ente. Cfr. Aristotele, Metafisica, a cura di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993, vol. 2, III. 1, 1003, 20-25a., p. 131. ↩︎
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Cfr. infra, pp. 17 sg. ↩︎
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Per una descrizione sommaria dello status quaestionis cfr. Piergiorgio Picozza, «La realtà della fisica», in Aa. Vv., Interpretazioni del reale, cit., pp. 51-58. Lo stesso testo è una testimonianza della possibilità di una «perdita del reale» da parte delle scienze. Non è un caso che, pur nella certezza del reale del fisico sperimentale, Picozza affermi che i dati su cui si basa la ricerca «’devono’ venire da un universo reale e […] ‘devono’ essere il mezzo per conoscere le leggi che sovrintendono quella realtà» (ibidem, p. 51). Nel «devono» c’è sicuramente meno del «sono»: a limite nel «devono» si può leggere una sorta di implicazione etica della ricerca scientifica, ma ciò supporta tutt’al più un realismo pratico, non un realismo ontologico; si tratta di una esigenza, non di una certezza. In particolare, se è vero che «le particelle sono reali in quanto rappresentano delle invarianti di osservazione» (ibidem, p. 54), allora il rischio di «correre dietro i fantasmi» e «di creare noi stessi con gli acceleratori dei fenomeni che poi andiamo a studiare» (ibidem, p. 55) diviene reale ed inquietante. «Noi scopriamo quelle particelle, e solo quelle, la cui esistenza è permessa dalle leggi della natura. Nella fisica ciò che può accadere deve accadere» (ibidem, p. 56). Ma il possibile non è forse più ampio del reale, e questo proprio perché possibile e non necessario? A proposito del problema del realismo scientifico nello studio della materia, cfr. anche la ricostruzione che Sergio Rondinara fornisce dei problemi relativi alla meccanica quantica, al principio di indeterminazione di Heisenberg e al conseguente rifiuto del realismo dogmatico nel campo della fisica (Sergio Rondinara, «Interpretazioni della meccanica quantica e realtà», in Aa. Vv., Interpretazioni del reale, cit., pp. 159-169, in particolare pp. 163 sg.). ↩︎
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Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 2 [p. 12]. ↩︎
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A questo proposito cfr. Paul Ricœur, «Préface de la première édition de Histoire et Vérité», cit., pp. 18-19; cfr. ancora Id., Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 623-634 [Finitude et culpabilité. La symbolique du male, Aubier, Paris 1960, pp. 323-332]; si veda anche Id., «Filosofare dopo Kierkegaard», in Id., Kierkegaard. La filosofia e l’«eccezione», Morcelliana, Brescia 1995, pp. 45-46 [“Philosopher après Kierkegaard”, in Id., Lectures 2. La contée des philosophes, Éditions du Seuil, Paris 1992, pp. 34-35]. Utile è infine il saggio di G. Brent Madison, «Ricœur et la non-philosophie», Laval Théologique et Philosophique, 29 (1973), pp. 227-241. ↩︎
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Tale convinzione è talmente radicata nel Nostro che egli ha avuto modo di sostenere la necessità, per ogni filosofo, di conoscere approfonditamente almeno una scienza con la quale entrare costantemente in dialogo. Cfr. Paul Ricœur, «J’attends la Renaissance», Autrement, n. 102 (1988), p. 181. ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990, p. 8 [Le volontaire et l’involontaire, Aubier Montaigne, Paris 1950, p. 8]. ↩︎
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In quest’opera la questione consiste essenzialmente nel rapporto tra il corpo-proprio studiato dalla fenomenologia ed il corpo-oggetto preso in esame dalle scienze. Ricœur si chiede: «Forse che tra il corpo in quanto mio o tuo ed il corpo come oggetto fra gli oggetti della scienza non si dà un qualche rapporto?». E la sua risposta è: «Deve pur sussistere un rapporto perché si tratta dello stesso corpo. Non si tratta però di coincidenza, ma di una correlazione diagnostica, cioè, ogni momento del Cogito può essere indicazione di un momento del corpo-oggetto. Movimento, secrezione, ecc. e ogni momento del corpo-oggetto possono essere indicazione di un momento del corpo appartenente ad un soggetto, ad esempio l’affettività globale oppure una funzione particolare. Tale rapporto non è affatto a priori, ma si forma lentamente attraverso un apprendistato dei segni. […] Ma mai si possono sommare i due punti di vista, e nemmeno considerare paralleli» (ibidem, pp. 16-17 [p. 16]). Si noti che l’idea espressa qui nel concetto di «correlazione diagnostica» rimane costante lungo tutto il percorso del Nostro, di modo che essa costituisce un primo abbozzo del rapporto tra pensiero filosofico e discorso scientifico. La si ritrova, per esempio, in La natura e la regola, nelle due categorie di «substrato» ed «indicazione» che Ricœur elabora «per indicare il rapporto tra corpo-oggetto e corpo vissuto, quindi tra il cervello e il mentale» (cfr. Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., pp. 46-47 [pp. 60-61]). Anche qui, come un cinquantennio prima, la preoccupazione principale di Ricœur è quella di pensare il rapporto tra i due diversi stili di analisi, preservandosi però da contaminazioni affrettate ed indebite: «la parola “substrato” opera in maniera critica e non dogmatica, come una messa in guardia contro la confusione che potrebbe insinuarsi in tutte le espressioni ibride […]» (ibidem, p. 47 [p. 62]; cfr. anche ibidem, p. 94 [p. 110-111]). ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, Della interpretazione. Saggio su Freud, Saggiatore, Milano 1967 [De l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, Paris 1965]; cfr. inoltre Id., Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977 [Le conflit des interprétations, Seuil, Paris 1969], in particolare la seconda parte «Ermeneutica e psicanalisi» (pp. 115-221 [pp. 101-207]). ↩︎
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Cfr. i saggi raccolti in Paul Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, cit., pp. 41-111 [pp. 31-97]. ↩︎
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Ci si può riferire all’analisi della metafora condotto in Paul Ricœur, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano 1981 [La métaphore vive, Seuil, Paris 1975], in cui il Nostro si confronta con la retorica e le scienze del linguaggio, e alla trilogia di Tempo e racconto (Jaca Book, Milano 1986-1988 [Temps et récit, Seuil, Paris 1983-1985]), in cui Ricœur definisce la propria posizione rispetto alla narratologia e alle scienze storiche. Per il confronto con la storia, si può vedere anche l’ultima opera del Nostro: La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditons du Seuil, Paris 2000. ↩︎
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Si tratta delle teorie dei modelli scientifici di Max Black e Mary Hesse, prese in esame in Paul Ricœur, La metafora viva, cit. pp. 315 sg. [p. 302 sg.]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Auto-compréhension et histoire», in Aa. Vv., Los caminos de la interpretacíon, a cura di Tomás Calvo Martínez — Remedios Avila Crespo, Anthropos, Barcelona 1991, p. 20. Subito dopo, ricordando le formule già usate in «Spiegare e comprendere» (in Id. , Dal testo all’azione. Saggio di Ermeneutica II, Jaca Book, Milano 1994, p. 174 [“Expliquer et comprendre”, in Id., Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Éditons du Seuil, Paris 1986, p. 201]), Ricœur continua: «Detto altrimenti, se la comprensione precede, accompagna ed avvolge la spiegazione, la spiegazione, di ritorno, svolge analiticamente la comprensione». A proposito della formula citata, si veda anche Paul Ricœur, Tempo e racconto 1, cit., p. 9 [p. 12]. ↩︎
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Paul Ricœur, «La funzione ermeneutica della distanziazione», in Id. , Dal testo all’azione, cit., p. 106 [“La fonction herméneutique de la distanciation”, in Id., Du texte à l’action, cit., p. 123]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Spiegare e comprendere», cit., p. 160 [p. 185]. Per questa trasformazione del circolo in arco ermeneutico, cfr. anche Id., «Che cos’è un testo?», in Id., Dal testo all’azione, cit., p. 151 [“Qu’est-ce qu’un texte?”, in Id., Du texte à l’action, cit., p. 174]. ↩︎
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Cfr. Piero Coda, «L’interpretazione del reale», cit., p. 23. ↩︎
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Se, anticipando quello che si vedrà tra poco, teniamo presente che il dominio della scienza è definito dalla procedure di «spiegazione», è possibile leggere questa affermazione di Ricœur a conferma di quanto si sta dicendo: «Infatti, nella misura in cui i procedimenti esplicativi delle scienze umane sono omogenee a quelli delle scienze della natura, la continuità delle scienze è assicurata» (Paul Ricœur, «Spiegare e comprendere», cit., p. 174 [p. 202]). ↩︎
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Per un quadro sintetico si può consultare Paul Ricœur, «Autobiografia intellettuale», in Id., Riflession fatta, cit., pp. 21-97 [pp. 11-82]. Oltre a ciò, sicuramente utili sono l’ormai classico Domenico Jervolino, Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricœur, Marietti, Genova 1993, ed il recentissimo Fabrizio Turoldo, Verità e metodo. Indagini su Paul Ricœur, Il Poligrafo, Padova 2000, quest’ultimo particolarmente significativo a proposito del pensiero ontologico dell’autore. ↩︎
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Paul Ricœur, «Fenomenologia e ermeneutica», in Id. , Dal testo all’azione, cit., p. 52 [“Phénoménologie et herméneutique”, in Id., Du texte à l’action, cit., p. 61]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Esistenza ed ermeneutica», in Id., Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 17 [p. 7]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Dell’interpretazione», in Id., Dal testo all’azione, cit., p. 24 [Id., «De l’interprétation», in Id., Du texte à l’action, cit., p. 29]. Che questa sia la «posizione di partenza» dalla quale è possibile pensare adeguatamente il confronto del Nostro con le scienze, è testimoniato dal fatto che essa è ricordata esplicitamente nel luogo in cui questo confronto è assunto tematicamente: La natura e la regola. Qui, infatti, Ricœur afferma: «Ritengo di appartenere a una delle correnti della filosofia europea che si lascia essa stessa caratterizzare da una certa diversità di etichette: filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica, filosofia ermeneutica» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 2 [pp. 12-13]). Dei tre antecedenti a cui il Nostro si richiama, tralasceremo nelle nostre analisi l’appartenenza alla filosofia riflessiva francese ed il debito nei confronti di Jean Nabert. Esso è all’origine di quella priorità del problema del soggetto che, in La nature et la règle, porterà Ricœur a confrontarsi con la scienza proprio su tale argomento. Un primato del problema del soggetto che, comunque, non pregiudica l’interesse del Nostro per il reale e per l’essere: il problema rimane sempre quello della «comprensione di sé», ovvero dell’«essere del soggetto», di ciò che esso è, della sua realtà. ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, «Dell’interpretazione», cit., pp. 25-26 [pp. 30-31]; cfr. anche Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., pp. 2-3 [p. 13]. Che sia questo il principale interesse di Ricœur nella fenomenologia è dimostrato dalla veemenza con cui egli ha combattuto l’interpretazione idealista che lo stesso Husserl ha dato al proprio pensiero nel Nachwort a Ideen I e nelle Cartesianische Meditationen (Cfr. Paul Ricœur, «Fenomenologia e ermeneutica», cit., pp. 38 sg. [pp. 44 sg.]). ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, «Esistenza ed ermeneutica», cit., p. 20 [p. 10] e p. 24 [14]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Dell’interpretazione», cit., p. 26 [p. 31]; traduzione leggermente modificata. ↩︎
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Ibidem, p. 28 [p. 33]. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Ibidem, p. 31 [p. 37]; traduzione leggermente modificata. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Che il dialogo tra filosofia e scienza si iscriva in questa dialettica di comprensione e spiegazione, quale sua condizione di possibilità, è detto chiaramente da Ricœur nel colloquio con Changeux: in quella sede il filosofo afferma: «voglio spiegare di più per comprendere meglio» e fa notare come sia tale «coordinazione tra comprensione (vissuta) e spiegazione (oggettiva)» che «rende possibili il nostro [di Ricœur e di Changeux, ovvero di filosofia e scienza] incontro e la nostra discussione» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 126 [p. 143]). ↩︎
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Non è un caso che questo rapporto, sotto il titolo di fenomenologia, rientri a far parte della definizione stessa della fenomenologia ermeneutica. In «Esistenza e ermeneutica», infatti, il momento fenomenologico è rappresentato proprio dal passaggio attraverso le spiegazioni oggettive (leggi scientifiche); benché questa equivalenza non sia formulata esplicitamente, essa sembra essere abbastanza chiara se si considera come il frutto dell’innesto dell’ermeneutica sulla fenomenologia sia proprio l’integrazione dei procedimenti metodici all’interno della comprensione ermeneutica (cfr. Paul Ricœur, «Esistenza ed ermeneutica», cit., pp. 20-25 [pp. 10-15]). ↩︎
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Paul Ricœur, Il volontario e l’involontario, cit., p. 8 [p. 8]. ↩︎
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Ibidem, p. 9 [p. 9]. ↩︎
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Ibidem, p. 8 [p. 8]. Che questa tendenza al semplice sia costitutiva della scienza come tale, e non caratterizzi solo la biologia e le scienze della natura di cui si parla in Il volontario e l’involontario, è testimoniato dal fatto che essa, secondo il Nostro, è presente anche nelle scienze umane ispirate al modello strutturalista: pure in questo caso, è la riduzione al semplice ciò che ne costituisce la scientificità (cfr. Paul Ricœur, «Il problema del doppio senso come problema ermeneutico e come problema semantico», in Id., Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 78 [“Le problème du double-sens comme problème herméneutique et comme problème sémantique”, in Id., Le conflit des interprétation, cit., p. 65]). ↩︎
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Paul Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 231. Questa pluralità di significati dello «spiegare» è illustrata in modo molto chiaro da questo passaggio: «A questo riguardo, debbo molto a Jean Ladrière, che ha analizzato i differenti modi della spiegazione in maniera degna di nota. Egli ne distingue quatto: la spiegazione per sussunzione — mettere un fatto sotto una regola (esemplificazione del principio) — la spiegazione per riduzione — spiegare un fenomeno attraverso il livello soggiacente: in gran parte si tratta di ciò che fa la biologia umana quando individua le condizioni necessarie alla comparsa di questo o quell’organo, senza con ciò spiegare il prodursi del fenomeno attraverso la sua base — la spiegazione genetica- questo fenomeno procede da quest’altro per una serie di trasformazioni regolate — e, infine, la spiegazione ottimale- raggiungere un livello ottimale di funzionamento dei sottosistemi coordinati e convergenti» (Id., La critica e la convinzione, Jaca Book, Milano 1997, p. 112 [La critique et la conviction, Calmann-Lévy, Paris 1995, pp. 114-115]). ↩︎
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«L’essere al mondo è dapprima globale, e poi procede dal globale al singolare, mentre il modo di procedere scientifico legittimo sarà quello di passare dal semplice al complesso: da questo punto di vista non c’è isomorfismo — una corrispondenza punto per punto- tra i due piani» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 72 [p. 88]). ↩︎
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Paul Ricœur, Il volontario e l’involontario, cit., p. 12 [p. 12]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Che cos’è un testo?», cit., pp. 138-139 [p. 159]. ↩︎
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Si noti che parlando di «riduzione» non si intende affatto accusare la scienza di «riduzionismo» (un atteggiamento questo che è presente anche alla fine degli anni ’90: «Non uso la parola «riduzione» in senso peggiorativo»: Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 74 [p. 90]; cfr. anche ibidem, p. 19 e p. 65 [p. 30 e p. 79]): la «diminuzione e soppressione» evidenziate nella spiegazione sono infatti perfettamente «legittimate dal tipo di interesse rappresentato dalla costituzione della scienza empirica come sapere dei fatti» (Paul Ricœur, Il volontario e l’involontario, cit., p. 15 [p. 15]). ↩︎
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In La natura e la regola, questa riduzione implicita nei procedimenti di oggettivazione scientifica è sottolineata in modo molto chiaro: «Per oggettivazione intendo il processo attraverso cui il vissuto, che è sempre il vissuto di un soggetto che si sente essere al mondo, è trattato come un oggetto distaccato, sia dal vivente che lo considera sia dall’orizzonte del mondo che lo circonda. È così che il vissuto, che è sempre il mio, il suo, sullo sfondo del mondo, diventa un oggetto doppiamente separato e che funziona all’interno di una rete di oggetti ugualmente staccati, all’interno di un sistema» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., pp. 124-126 [p. 141-142]). ↩︎
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Questa seconda riduzione è costitutiva al punto da trovarsi anche nei casi in cui l’estromissione del soggetto dalla considerazione scientifica sembrerebbe più problematica, ovvero nella conoscenza del corpo umano, ridotto dalla scienza da corpo-proprio o carne (Leib) a corpo-oggetto (Körper). Cfr. Paul Ricœur, Il volontario e l’involontario, cit., p. 15 [pp. 14-15]. È interessante notare che la doppia riduzione di cui si parla nel testo corrisponde puntualmente a quell’idea di scienza come «scienza dei fatti» di cui Husserl ha sottolineato la crisi: «le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto»; esse escludono «proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo; i problemi del senso o non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso» (Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 35 e passim). ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, «Autobiografia intellettuale», in Id., Riflession fatta, cit., p. 53 e pp. 66-67 [p. 40 e pp. 53-54]. ↩︎
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Cfr. Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., pp. 126-128 [pp. 143-145], in cui Ricœur mostra chiaramente come l’analisi fenomenologica del noema degli atti intenzionali ricopre interamente l’analisi linguistica dei termini che indicano tale noema: per riportare l’esempio dell’autore, nell’atto intenzionale «ho paura», lo studio del noema di tale atto, lo «spaventoso», si configura come «una analisi lessicale della parola «spaventoso» senza tener conto di chi è spaventato» (ibidem, p. 127 [p. 144]; traduzione leggermente modificata). ↩︎
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Paul Ricœur, Della interpretazione, cit., pp. 15-16 [pp. 13-14]. ↩︎
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Émile Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966. ↩︎
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Cfr. per esempio Paul Ricœur, «Language and Discourse», in Id., Interpretation Theory. Discourse and the Surplus of Meaning, The Texas Christian University Press, Forth Worth 1976, pp. 1-23. ↩︎
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Paul Ricœur, «Auto-compréhension et histoire», cit., p. 19. Per il valore generale e per la rappresentatività di questa formula riguardo alla posizione di Ricœur, cfr. Id., «Autobiografia intellettuale», in Id., Riflession fatta, cit., p. 51 e p. 53 [p. 37 e p. 40]. ↩︎
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Cfr. Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 85 e p. 130 [p. 101 e pp. 147-149]. ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 79 [Soi-même comme un autre, Éditions du Seuil, Paris 1990, p. 15]. ↩︎
-
Piero Coda, «L’interpretazione del reale», cit., p. 19. ↩︎
-
Per il concetto di homme capable, quale momento di ricapitolazione del percorso filosofico del Nostro, cfr. Paul Ricœur, «Promenade au fil d’un chemin», in Fabrizio Turoldo, Verità del metodo. Indagini su Paul Ricœur, Il Poligrafo, Padova 2000, pp. 15 sg. ↩︎
-
Paul Ricœur, «Ontologie», in Encyclopaedia Universalis, Editeur à Paris, Paris 1972, vol. 12, p. 94. Si legga anche quanto segue: «Con la frase, il linguaggio viene orientato al di là di se stesso: dice qualcosa a proposito di qualche cosa. Tale apertura verso un referente del discorso è strettamente contemporanea al suo carattere di evento e al suo funzionamento dialogale. È l’altro versante dell’istanza di discorso» (Paul Ricœur, Tempo e racconto 1, cit., pp. 126-127 [p. 118]). ↩︎
-
A questo proposito si veda come Ricœur caratterizza questo «presupposto ontologico della referenza […] riflesso all’interno del linguaggio stesso come un postulato privo di giustificazione immanente»: «Il linguaggio è per se stesso dell’ordine del Medesimo, il mondo è il suo Altro. L’attestazione di tale alterità dipende dalla riflessività del linguaggio su se stesso, linguaggio che si sa nell’essere, al fine di essere a proposito dell’essere» (Paul Ricœur, Tempo e racconto 1, cit., p. 127 [pp. 118-119]). ↩︎
-
Paul Ricœur, «Ontologie», cit., p. 94. ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, «Dell’interpretazione», cit., p. 33 [p. 39], in cui si fa vedere come la «veemenza ontologica» del linguaggio sia il presupposto comune dei lavori sulla portata ontologica delle metafore e dei racconti. ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, La metafora viva, cit., p. 291 [p. 279]. ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, Tempo e racconto 1, cit., pp. 126-133 [pp. 117-124]. ↩︎
-
Paul Ricœur, «Philosophie de la nature», in Aa. Vv., Tendances principales de la recherche dans les sciences sociales et humaines, a cura di Jacques Havet, Moutan Éditeur-Unesco, Paris-LaHaye-New York 1978, parte 2, tomo II, p. 1260. ↩︎
-
Aristotele, Metafisica, cit., E 2, 1026, 33a-2b, p. 273. ↩︎
-
Ricœur è estremamente rispettoso di questa pluralità, pronto a riconoscere la legittimità e la validità di ognuno di tali approcci. Per rendersene conto è sufficiente tenere presente quanto egli afferma a proposito dell’analisi del simbolismo religioso operata dalla psicanalisi e dall’ermeneutica: l’una tende verso una archeologia, ovvero verso la spiegazione in termini di inconscio, pulsioni e rimozione, l’altra verso una teleologia, verso una interpretazione che vede il senso procedere dalla fine in direzione delle figure precedenti; l’una è una riduzione, l’altra una restaurazione amplificatrice del senso. Si tratta di approcci chiaramente concorrenti ma, nonostante questo, entrambi legittimi e validi. L’unica limitazione che Ricœur impone, illustrando così una esigenza che è rilevante anche per il dialogo tra le filosofie e le scienze, è quella dalla tendenza egemonica delle metodologie: entrambe trattano dello stesso oggetto, entrambe sono valide nel loro ambito e all’interno del rispettivo statuto epistemologico, ma entrambe sono incomplete, trascurano delle dimensioni importanti del loro oggetto di indagine e sono bisognose di integrazione metodica (cfr. Paul Ricœur, «Esistenza e ermeneutica», cit., pp. 27-28 e pp. 33-34 [p. 18 e pp. 24-24]; cfr. anche l’ultimo capitolo del Della interpretazione. Saggio su Freud, cit., intitolato «Ermeneutica: gli approcci del simbolo»). A ben guardare, qui si trova un riconoscimento di quella «complessità» che costituisce una delle figure teoriche più rilevanti della contemporaneità. Per una panoramica su questa questione, cfr. l’ormai classico Edgar Morin, Il paradigma perduto, Feltrinelli, Milano 1974, e, dello stesso, il più recente Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993. ↩︎
-
Ricœur lo afferma chiaramente: «L’ontologia qui proposta non è affatto separabile dall’interpretazione, essa rimane presa nel cerchio formato insieme dal lavoro dell’interpretazione e dall’essere interpretato; [essa] non sarebbe capace di sottrarsi al rischio dell’interpretazione, e non potrebbe nemmeno sfuggire del tutto alla guerra intestina che le ermeneutiche si fanno tra loro» (Paul Ricœur, «Esistenza e ermeneutica», cit., p. 36 [pp. 26-27]). ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, «Esistenza e ermeneutica», cit., p. 28 [pp. 18-19]. Si noti che attraverso questo ruolo di «arbitraggio» assegnato alla filosofia, essa conquista una propria valenza nel mondo odierno in cui, secondo un’espressione di Saturnino Muratore, «il rischio è l’insignificanza culturale della stessa ragione filosofica» (Saturnino Muratore, «“Realtà” e dialogo tra i saperi», cit., p. 190). Muratore, con lucidità, auspica anche: «La filosofia, poi, riprenda a funzionare con grande senso di responsabilità nel contesto generale assicurando quel luogo d’incontro, espressione della comune razionalità, che consente di sollevare problemi di fondo, problemi riguardanti l’intero, problemi e implicazioni generali che esulano dalla competenza di discipline specifiche, ma che non possono essere evitati da persone concrete che non hanno rinunciato a pensare, a sollevare domande scomode, a farsi carico dei problemi» (ibidem, p. 191). Ebbene, a mio avviso, il modo ricœuriano di intendere il lavoro filosofico permette di realizzare pienamente questo auspicio. ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, «Dalla metafisica alla morale», in Id., Riflession fatta, cit., p. 115 [p. 99]: «Si produce qui una sorta di reciproca elezione fra una ontologia dell’atto e una fenomenologia dell’agire». Si noti che l’interpretazione dell’essere come atto e potenza è un’altra costante del percorso ricœuriano: essa, infatti, compare già negli anni ’50, a proposito della problematica dell’«affermazione originaria»: cfr. Id., «Négativité et affirmation originaire», in Id., Histoire et vérité, cit. p. 357 e p. 360. ↩︎
-
Paul Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 421 [p. 357]. ↩︎
-
Cfr. Martin Heidegger, «L’origine dell’opera d’arte», in Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968. ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, «La funzione ermeneutica della distanziazione», cit., pp. 108-113 [pp. 125-131]. ↩︎
-
Cfr. ibidem, p. 109 [p. 127]. ↩︎
-
Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 93 [p. 110]. ↩︎
-
Ibidem, pp. 117-118 [p. 134]. ↩︎
-
Ibidem, p. 92 [p. 109]; qui è Changeux a parlare. ↩︎
-
Ibidem, p. 118 [p. 135]. ↩︎
-
Ibidem, p. 90 [pp. 106-107]. ↩︎
-
Paul Ricœur, La metafora viva, cit., pp. 403-404 [p. 386]. Si tratta del «pregiudizio secondo il quale è reale solo il dato che può essere empiricamente osservato e scientificamente descritto» (Id., Tempo e racconto 1, cit., pp. 128-129 [p. 120]). Ricœur esplicita altrove questo «postulato» che spesso «funziona […] come un pregiudizio»: esso consiste nel ritenere che «il linguaggio che non è descrittivo — nel senso di fornire una informazione sui fatti — deve esser emozionale. Inoltre si riconosce che ciò che è “emozionale” è esclusivamente avvertito “entro” il soggetto senza che abbia alcun rapporto con qualcosa di esterno al soggetto. L’emozionale è una affezione che non ha una dimensione esteriore ma solo interiore» (Id., La metafora viva, cit., p. 298 [p. 285]). ↩︎
-
Paul Ricœur, «Dell’interpretazione», cit., p. 24 [p. 28]. ↩︎
-
Paul Ricœur, La metafora viva, cit., p. 404 [p. 386]. ↩︎
-
Cfr. ibidem, p. 396 [379]. ↩︎
-
Ibidem, p. 395 [p. 378]. ↩︎
-
Paul Ricœur, «Dell’interpretazione», cit., p. 24 [p. 28]; traduzione leggermente modificata. ↩︎
-
Paul Ricœur, La metafora viva, cit., p. 404 [p. 387]. ↩︎
-
Ibidem, p. 403 [p. 386]. ↩︎
-
Ibidem, p. 405 [pp. 387-388]. ↩︎
-
Ibidem, p. 396 [p. 379]. ↩︎
-
Ibidem, p. 407 [p. 389]. ↩︎
-
Cfr. ibidem, p. 393 [376]. ↩︎
-
Cfr. ibidem, pp. 409-410 [pp. 391-392]. ↩︎
-
Cfr. Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., pp. 24-29 [pp. 10-14]. ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, Interpretation Theory, cit., p. 42 e p. 67, in cui è detto chiaramente come la dimensione della realtà tematizzata dal discorso metafisico con l’ausilio del linguaggio poetico, grazie al carattere di «iconicità» di quest’ultimo, è «più reale che la realtà ordinaria». ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, La metafora viva, cit., pp. 406 sg. [pp. 386 sg.]. ↩︎
-
ibidem, p. 397 [p. 380]. ↩︎
-
Cfr. Paul Ricœur, «Dalla metafisica alla morale», cit., pp. 104 sg. [pp. 88 sg]. ↩︎
-
Paul Ricœur, La metafora viva, cit., p. 338 [p. 324]; questa ampia trattazione si trova alle pp. 340-396 [pp. 325-374] ed è all’origine dell’aspra polemica con Derrida che il Nostro dovette affrontare suo malgrado: cfr. Jacques Derrida, «Le retrait de la métaphore», Poétique, n. 7 (1978). ↩︎
-
Paul Ricœur, La metafora viva, cit., p. 338 [p. 324]. ↩︎
-
Ibidem, p. 339 [p. 325]. ↩︎
-
Cfr. ibidem, p. 262 [pp. 251-252]. ↩︎
-
Cfr. ibidem, p. 338. [pp. 323-324]. ↩︎
-
Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 14 [p. 25]. ↩︎
-
Idem. A conferma, si legga questa affermazione del Nostro: «Tengo davvero molto a conservare questa distinzione fra pensare sotto la categoria dell’azione, vale a dire pensare ciò che gli uomini fanno, e pensare sotto la categoria della produttività, pensare la maniera in cui i fatti vengono sussunti sotto ai principi. […] È dunque assolutamente impossibile identificare produttività della natura e autocomprensione dell’agente nella sua azione» (Paul Ricœur, La critica e la convinzione, cit., p. 113 [p. 116]). ↩︎
-
Ibidem, p. 15 [p. 26]. ↩︎
-
«O parlo del corpo, nel modo finito, che per lui [Spinoza] era quello dello spazio, o parlo il linguaggio del pensiero, nel modo finito distinto che Spinoza continuava a chiamare anima. Ebbene, parlo i due linguaggi, ma senza poterli mai confondere» (ibidem, pp. 19-20 [pp. 30-31]). In questa affermazione è interessante anche che i due discorsi, per quanto totalmente separati, siano comunque miei. Si vedrà subito come in questo loro comune riferimento al soggetto sia insita una possibilità di operare la traduzione di ciascuno dei due discorsi nell’altro. ↩︎
-
Ibidem, p. 27 [p. 39]. ↩︎
-
Ci riferiamo qui in modo particolare a Paul Ricœur, «Le paradigme de la traduction», Esprit, n. 252 (1999), pp. 8-19. ↩︎
-
Ibidem, p. 8. ↩︎
-
Idem. ↩︎
-
Ibidem, p. 9. ↩︎
-
Idem. ↩︎
-
Ibidem, p. 13. ↩︎
-
Ibidem, p. 14. ↩︎
-
Ibidem, p. 15. ↩︎
-
Ibidem, p. 16. In La natura e la regola, è proprio la necessità di questa rinuncia che spinge Ricœur ad affermare, dopo aver costatato l’esistenza del dualismo semantico tra il discorso scientifico sul cervello e quello filosofico sul mentale, e dopo aver esposto l’esigenza di un «terzo discorso» che colga l’unità dei due punti di vista: «non esito a dire che, in quanto filosofo, professo un agnosticismo spinto riguardo alla possibilità di costruire un tale discorso da un punto di vista superiore da dove vedrei l’unità profonda di ciò che mi appare a volte come sistema neuronale, a volte come vissuto mentale» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 28 [p. 39]). ↩︎
-
Paul Ricœur, «Le paradigme de la traduction», cit., p. 13. ↩︎
-
Ibidem, p. 10. ↩︎
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Cfr. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., pp. 158-160. Ricœur ha avuto modo di ricordare la questione nel suo dialogo del 1998 con Changeux, allorquando egli fa notare al suo interlocutore: «Dico solo che, una volta uscito dal suo laboratorio, Lei partecipa come tutti all’esperienza viva e immensa» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 75 [pp. 91-92]). «L’impresa scientifica», quindi, «rientra allora nel campo dell’azione: “fare la scienza”» e «la pratica teorica è la pratica di una azione che si comprende essa stessa nella ricerca di una intelligibilità: il sapere della natura […] è un’azione molto particolare, che è l’azione del voler-sapere, la quale non è affatto trasparente a se stessa» (Paul Ricœur, La critica e la convinzione, cit., p. 114 [pp. 116-117]). È interessante notare che questo carattere di «pratica», comune alla scienza e alla filosofia, non solo inaugura un ambito in cui il loro incontro diviene possibile, ma legittima l’esistenza stessa e la peculiarità del discorso filosofico di fronte a quello scientifico: «[…] quando la scienza è compresa non già attraverso i suoi oggetti, i suoi metodi o i suoi principi, ma come una pratica teorica, essa obbedisce a una intenzionalità propria che non può fare a meno di sollevare la questione del suo senso: la legittimità di una ermeneutica di questo senso è, dunque, anche in tal caso completamente fondata. All’occorrenza, si tratta di una ermeneutica della scientificità come una pratica fra le altre» (ibidem, p. 112 [p. 114]). ↩︎
-
È questa in fondo la conclusione a cui arriva il saggio di Ricœur. Sulla centralità di questa nozione, cfr. Domenico Jervolino, «Herméneutique et traduction. L’autre, l’étranger, l’hôte», Archives de Philosophie, 63 (2000), n. 1. Che questa «ospitalità linguistica» sia da applicare anche nel caso del dialogo tra discorso filosofico e discorso scientifico è detto da Ricœur in modo abbastanza chiaro durante il suo colloquio con le neuroscienze: «Raccomando una grande pazienza nei confronti del discorso misto che volta a volta gli scienziati e i filosofi professano in modo non critico» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 40 [p. 54]); ed ancora: «Per il filosofo, che sia anche un grande lettore di testi scientifici, è un dovere aggiungere la tolleranza semantica alla critica semantica; ratificare praticamente ciò che denuncia semanticamente» (ibidem, p. 41 [p. 55]). ↩︎
-
Paul Ricœur, «Le paradigme de la traduction», cit., p. 10. ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, «L’histoire de la philosophie et l’unité du vrai», in Id., Histoire et vérité, cit., pp. 45-60, in particolare pp. 58 sg. ↩︎
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Paul Ricœur, «Ontologie», cit., p. 97. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, Être, essence et substance chez Platon et Aristote, Centre de Documentation Universitaire, Paris 1960, pp. 2-4. ↩︎
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Cfr. ibidem, pp. 40-41. ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, «Dalla metafisica alla morale», cit., pp. 105 sg. [pp. 89 sg.]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Ontologie», cit., p. 97. Ricœur non manca di esplicitare la questione: «Le due “immagini” del reale — la particella e l’onda — sviluppano una contraddizione che segna l’identità stessa della cosa e fa così vacillare la sua realtà; ancora di più, non bisogna forse interpretare in termini di soggettività l’alternanza e la preferenza che si esercitano tra i due linguaggi ugualmente giustificati? E ciascuno dei due linguaggi non esprime forse una rappresentazione, più che una realtà? Inoltre, il carattere di probabilità che si collega alla nozione di posizione, non introduce un elemento di incertezza, dunque di soggettività? […] Il micro-oggetto sembra proprio privato di esistenza autonoma; se non accade niente al di fuori dell’intervento dell’osservatore, il micro-oggetto è un micro-evento situato all’incrocio dell’osservatore e della cosa osservata» (idem). ↩︎
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Idem. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Cfr. Paul Ricœur, La metafora viva, cit., pp. 315 sg. [pp. 302 sg.]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Ontologie», cit., p. 97. ↩︎
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L’attenzione alla problematica del testo è venuta progressivamente in primo piano nell’opera di Ricœur. Per una presentazione compiuta della questione si veda Paul Ricœur, «La funzione ermeneutica della distanziazione», cit., pp. 97-113 [pp. 113-131]. ↩︎
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Paul Ricœur, Tempo e racconto 1, cit., p. 130 [p. 121]. Per tutto ciò cfr. anche Id., Interpretation Theory, cit., pp. 36-37; 40-44; 80 e 88. ↩︎
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Il termine «divulgazione» non va affatto preso in senso spregiativo. Anche quando i fisici teorici scrivono un trattato in cui espongono per la prima volta una teoria, essi compiono essenzialmente opera di divulgazione. Questa operazione, infatti, è dello stesso genere di quella compiuta nell’elaborazione di testi indirizzati al grande pubblico, e se ne distingue per una differenza di grado e non di genere: in entrambi i casi si tratta di rendere intelligibile una teoria utilizzando il linguaggio ordinario. Addirittura, se si tiene presente che questo nesso col discorso ordinario è imprescindibile per la scienza in tutte le sue fasi, si potrebbe dire che la divulgazione è un momento consustanziale alla scienza stessa. A proposito dell’imprescindibile rapporto delle scienze con il linguaggio ordinario, Ricœur afferma che «una componente verbale, dichiarativa, viene immediatamente inclusa nei protocolli sperimentali», che «lo sperimentatore non può evitare di tener conto di questi rapporti» e che egli, quindi, «ricorrerà all’esperienza ordinaria» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 68 [p. 83]). Per la stessa questione, cfr. anche Sergio Rondinara, «Interpretazioni della meccanica quantica e realtà», cit., p. 160. ↩︎
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Ricœur pone il problema esplicitamente: «Ci si può domandare se non si debba cercare un fondamento più primitivo che la scienza stessa alla resistenza di un grande numero di teorici della scienza al convenzionalismo e alla tenacia della convinzione degli scienziati stessi che il discorso scientifico raggiunge la realtà, anche (e forse soprattutto) quando elabora delle entità di cui il senso è esattamente definito da una teoria nel senso forte del termine. […] L’idea che, nella scienza, la costrizione di entità teoriche sia nello stesso tempo una descrizione della realtà sembra bene un carattere che il discorso scientifico ha in comune con altri discorsi. È allora ragionevole esplorare l’ipotesi secondo la quale la posizione dell’essere sarebbe un postulato che apparterrebbe al discorso in quanto tale. È questa ipotesi che conduce ad interrogare il linguaggio stesso quanto alle sue implicazioni ontologiche» (Paul Ricœur, «Ontologie», cit., p. 98). Questo spostamento del problema del referente del discorso scientifico verso quello della portata ontologica del discorso in quanto tale, oltre ad essere un altro dei contributi del discorso filosofico al livello dell’ontologia di primo grado, è anche uno dei luoghi più importanti in cui il dialogo tra metafisiche e scienze mostra tutta la sua fecondità. ↩︎
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Paul Ricœur, Tempo e racconto 1, cit., p. 131 [p. 122]. ↩︎
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Piergiorgio Picozza, «La realtà della fisica», cit., p. 53. ↩︎
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Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, cit., p. 104 [p. 120]. ↩︎
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Ibidem, p. 16 [p. 27]. Si noti che Ricœur è abbastanza scettico a proposito di questa specifica interazione, sostenendo che la conoscenza del cervello non aumenta la conoscenza che io ho di me stesso. Ciò non toglie, tuttavia, che la rilevanza della domanda rimane in tutta la sua portata. ↩︎
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Paul Ricœur, «Philosophie de la nature», cit., p. 1260. ↩︎
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Ibidem, pp. 1260-1261. ↩︎
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Ibidem, p. 1260. ↩︎
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Ibidem, p. 1261. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 13 [p. 24]. ↩︎
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Ibidem, p. 14 [p. 25]. ↩︎
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Ibidem, pp. 14-15 [p. 25]. ↩︎
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Ibidem, p. 15 [p. 25]. ↩︎
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A questo proposito è illuminante l’avvertimento di Muratore contro la tendenza «a pensare al reale come a un oggetto, per quanto complesso, già concluso e determinato. Il reale inteso come il già-lì-fuori, che metodologie diverse aggrediscono con risultati difformi ma, forse, non del tutto incompatibili». Ebbene, «una maggiore consapevolezza critica porterebbe forse a pensare al reale come a una funzione dell’interpretare, l’orizzonte di riferimento posto dalle stesse metodologie d’approccio, il che sposterebbe decisamente il discorso sulle strutture euristiche, sulle anticipazioni, le precomprensioni, in una parola: sugli apparati categoriali e sui metodi» (Saturnino Muratore, «“Realtà” e dialogo tra i saperi», cit., p. 191). ↩︎
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Paul Ricœur, «Philosophie de la nature», cit., p. 1261. ↩︎
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Questa unità del reale è sottolineata da Ricœur anche in La natura e la regola: è per questo che il «dualismo semantico» più volte ricordato «può essere solo un punto di partenza. L’esperienza molteplice, ampia e completa, è fatta in modo che i due discorsi non smettano di essere correlati da molteplici punti di intersezione. In un certo modo — che non conosco — è lo stesso corpo ad essere vissuto e conosciuto. È la stessa mente a essere vissuta e conosciuta; è lo stesso uomo ad essere “mentale” e “corporeo”» (Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 27 [p. 39]; traduzione leggermente modificata). ↩︎
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Per questa «tendenza all’isolamento disciplinare» e per la necessità, avvertita dagli stessi scienziati, di superarlo, cfr. quanto Changeux afferma in ibidem, pp. 23-24 [p. 35]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Dalla metafisica alla morale», cit., p. 104 [p. 88]. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Ibidem, p. 109 [p. 93]. ↩︎
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A questo proposito, Ricœur ha avuto modo di parlare proprio di «sottofondazione» della filosofia, legittimando con ciò la ricerca sub-struttiva del fondamento che noi proponiamo qui: cfr. Paul Ricœur, «Filosofare dopo Kierkegaard», cit., p. 46 [p. 35]. ↩︎
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Jean-Pierre Changeux — Paul Ricœur, La natura e la regola, cit., p. 27 [p. 39]. ↩︎
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Ibidem, p. 29 [p. 41]. ↩︎
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Paul Ricœur, «Philosophie de la nature», cit., p. 1263. ↩︎
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Ricœur afferma: «Piuttosto dunque che pre-scientifico, sarebbe meglio dire meta-scientifico» (idem). Si noti che con questa affermazione il Nostro legittima implicitamente l’interpretazione regressiva della «funzione meta-» che proponiamo. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Paul Ricœur, «Ontologie», cit., p. 100. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Paul Ricœur, Tempo e racconto 1, cit., p. 127 [p. 119]. ↩︎