Roberto Mancini, Il dono del senso. Filosofia come ermeneutica, Cittadella Editrice, Assisi 1999.
La filosofia è interpretazione e l’interpretazione è esperienza d’amore gratuito. Questo è il nucleo del messaggio del volume di Roberto Mancini, docente di Ermeneutica filosofica dell’Università di Macerata. Nel testo convergono i lavori dell’autore dal 1992 al 1999 sui temi dell’ermeneutica, del dialogo, del dono e dell’alterità che s’intrecciano in un discorso unitario teso ad evidenziare il valore insieme esistenziale ed epistemologico dell’ermeneutica e che prospetta un possibile esito della filosofia ermeneutica in chiave didattico-educativa, della conoscenza di sé e della ri-conoscenza dell’alterità.
I momenti in cui si articola il discorso sono quattro. Nel primo (Per una ricomprensione della filosofia) l’autore, dopo essersi cimentato in una breve ricostruzione della storia dell’ermeneutica (che va da Herder, a von Humboldt, a Scheiermacher, Dilthey, Peirce, Royce, Betti e poi Husserl, Heidegger, Gadamer per concludere infine con Ricœur e Pareyson) allo scopo di chiarirne la coessenzialità con la ricerca filosofica, nota come questa si comprenda adeguatamente come logica del dono, logica della gratuità, nell’orizzonte del dialogo (non tanto sulla verità ma con la verità stessa), del cammino educativo (in quanto l’ermeneutica, dice Mancini a pagina 48, «è, in radice, un’esperienza d’amore, un prendersi cura, una dedizione»), e quindi nell’orizzonte di un’antropologia della condivisione (la quale coglie nel soggetto umano un centro vivente di relazioni). Queste prospettive, adeguatamente sviluppate, convergono in un’ontologia della gratuità in cui l’essere si connota originariamente come dono e l’uomo destinatario e interprete di questo dono è naturalmente libero: «solo esseri liberi, afferma infatti l’autore, interpretano, cioè ascoltano, parlano, agiscono e danno poeticamente forma alla loro esistenza» (p. 50).
Nel secondo (L’ermeneutica come cammino educativo) l’interpretazione è presentata come un esistere in quanto esseri che testimoniano con la propria vita la loro relazione con la verità, una sorta di «sapere testimoniale» che si realizza come corrispondenza al dono del senso. Dono che è il primum di ogni filosofare. Le grandi filosofie del passato, i testi, le opere d’arte ma anche i pensieri di ogni giorno, afferma Mancini, sono altrettanti doni di senso che costituiscono una feconda eredità per chi, come l’ermeneuta moderno, è attento a coglierne le possibilità e la ricchezza. Ricchezza che ha il suo valore nella possibile comunicazione educativa. Educare è per l’autore un «entrare con amore in una rete di relazioni dialogiche ove ciascuno, da oggetto sommerso dall’ambiente dato e dall’eventuale dominio di altri, possa divenire soggetto emerso, riconosciuto, riconoscente, a sua volta capace di amare e di aprirsi al mondo» (p. 91).
L’analisi della filosofia dell’educazione nelle prospettive critico-sociale, dialogico-esistenziale ed etico-comunicativo aprono quindi alla possibilità di un approfondimento del valore quotidiano dell’ermeneutica nella conoscenza di sé (La conoscenza di se stessi). L’ermeneutica filosofica, dice Mancini, «in quanto prassi di interpretazione del senso si configura come quel cammino educativo in cui chi compie questo viaggio può sperare di giungere, nell’interazione formativa con gli altri e con la verità stessa, a riconoscersi» (p. 134).
Segue l’analisi di alcuni modelli della conoscenza di sé: quello autoriflessivo (lungo la linea Descartes, Kant, Hegel), quello analitico-esistenziale (con evidente riferimento al modello heideggeriano) e quello antropologico-relazionale (modello questo che dalle sue origini in Pascal e Kierkegaard ha trovato nel Novecento un terreno assai fertile — basti citare le riflessioni di Paul Ricœur).
Lo svolgimento del discorso porta Roberto Mancini, una volta guadagnata la concezione della finitezza non come «un’isola nel mare del nulla, quanto come la condizione di chi anzitutto esiste ricevendo» (p. 170), allo studio delle questioni — ancora una volta — del dono e della libertà. Interessanti in questo contesto sono le vive pagine finali sul tempo e la morte: «Imparare a partire, si legge in queste pagine, ospitando il mistero della morte, conferisce allora alla libertà quell’interezza che, insieme, sa lasciar-essere e approssimarsi. […] Del resto, la nostra libertà, una volta divenuta intera nell’imparare a partire e a lasciar partire, è la sola a consentirci di andare incontro all’altro, se egli vorrà, con una tenerezza che sa prendersi cura del suo vivere ferito dal tempo» (p. 209).
Infine, il quarto momento (Riconoscere l’altro) è un’analisi dell’apertura all’alterità propria dell’amore. È infatti l’amore, già da sempre presente nella definizione di filosofia, l’altro polo della ragione, spesso svalutato, che invece a parere dell’autore ne evidenzia il senso più proprio nella prospettiva di una «saggezza dell’amore» (più che dell’amore della saggezza). «La ricerca dell’interpretazione, conclude l’autore, benché illimitata, giunge allora ad una perfezione. Quella della pace in cui si è nell’essere grati appunto per la verità e per l’amore: sia per averli ricevuti, sia per il dono di averli potuti comunicare a nostra volta. Non conosco forma più compiuta di saggezza che la gratitudine» (p. 263, corsivo mio).