1. Nella filosofia di Karl Jaspers vi è ancora molto da pensare
Ci sono pensatori che nella loro genialità colgono l’essenziale in una frase, ma si tratta di rari momenti in cui l’espressione viene a riflettere la verità senza per questo caricarla del bagaglio concettuale, fatto di regole, significati, intesi e sottintesi di cui è gravida la ragione umana; ci sono altri pensatori invece che, privi, per natura o per decisione, dello sguardo illuminante peculiare delle eccezioni, assumono sulle proprie spalle l’immane fatica del concetto, nel tentativo di esprimere un intero mondo fatto di ricerca, di inquietudine, di risposte provvisorie e di domande ulteriori. C’è infine chi rischia (il «bel rischio» di Platone): è colui che azzarda a dire l’inoggettivabile, cosciente del fatto che, certo, il punto di avvio di ogni filosofare è l’oggetto (il mondo oggettuale), ma che se non si trascende tale mondo, se non si salta nell’inoggettivabile, se non si sospende l’univocità, se non si commettono metodicamente quei peccati mortali logici del circolo e della contraddizione… non si è veramente filosofato. A queste ultime due categorie di pensatori, coloro cioè che rischiano pur non essendo eccezioni, appartiene Karl Jaspers.
Proprio l’opera del filosofo Jaspers presenta tutti i pregi e i difetti della fatica del concetto, e su questa fatica intendo soffermarmi, anzi a partire da questa fatica intendo pensare ulteriormente. La sua riflessione è infatti uno di quei luoghi filosofici che rappresentano una stazione di transito più che di soggiorno. La sua lettura, suggestiva quanto impegnativa, richiede pazienza e continuo approfondimento, ma non delude colui che, superata la mole dei testi e la lentezza del procedere (lentezza, peraltro, rotta da illuminanti salti, lucide intuizioni e provocazioni feconde), segue la lunga via indiretta alla verità — fatta di orientazione, chiarificazione e decifrazione. L’originalità del pensiero di Jaspers risiede proprio nel non richiedere un soggiorno quanto, piuttosto, un transito. Il modo migliore di rendere merito pertanto a un filosofo della levatura di Jaspers è dialogare con il suo pensiero, perpetuando così quell’ideale simposio in cui trovano posto i grandi filosofi per realizzare quella philosophia perennis che è lo scopo ultimo di ogni ricerca. Per usare un’espressione di Luigi Pareyson — primo filosofo a introdurre in Italia il pensiero di Jaspers con la sua tesi di laurea del 1939 — la filosofia di Jaspers richiede un costante confilosofare.
Un tale atteggiamento trova pienamente senso all’interno di un sistema filosofico qual è quello del professore di Heidelberg. Sistema che non si presenta come un complesso chiuso e conclusivo, ma come un sapere che ha nell’apertura il suo punto di forza. Apertura che fa del sistema una struttura aperta (una sistematica aperta) fatta di pensieri che sono circoli, di affermazioni che sono contraddizioni e paradossi, di cifre e simboli che nel dire quel che dicono significano più di quel che dicono. Apertura, infine, che stimola ad andare oltre, come del resto il filosofare stesso non è che un continuo andare oltre, un trascendere.
La linea interpretativa secondo la quale intendo sviluppare la mia ricerca è la seguente: dialogare con il pensiero di Jaspers allo scopo di chiarire quella che ho chiamato, con una definizione provvisoria di lavoro, la via ermeneutica. È possibile parlare di una via ermeneutica in Karl Jaspers alla luce dell’eredità schleiermacheriana, per cui il problema ermeneutico, da fatto strettamente tecnico legato all’interpretazione di un testo, è passato a porre in primo piano la comprensione quale struttura costitutiva dell’esistenza. Non solo quindi un testo da tradurre in un contesto da spiegare, ma a partire dal testo e nell’orizzonte del contesto c’è un’alterità personale la cui comprensione è legata alla presa di coscienza della sua situazionalità, alla chiarificazione della sua effettività, in una parola alla lettura della sua esistenza. Si tratta certamente di una via lunga e indiretta alla verità, nella coscienza dell’impossibilità di una comprensione incondizionata della totalità. Anzi, proprio movendo dall’impraticabilità di una comprensione totale, il pensiero di Jaspers indugia presso i punti di frizione — le situazioni limite dell’esistenza — in modo da chiarire la natura esistentiva dell’esistenza, ossia la sua originaria destinazione alla trascendenza. Originaria perché imprescindibile e costitutiva, destinazione perché nessuna situazione può in alcun modo essere considerata conclusiva (ricordo che nel contesto della filosofia jaspersiana nessun termine utilizzato vuole avere valenza ontologica ma al contrario meta-fisica: il pensiero ontologico è infatti oggettivante, secondo Jaspers, e come tale perde l’essere nel momento in cui tenta di afferrarlo, mentre solo nel movimento meta-fisico dell’oltrepassamento della contrapposizione tra soggetto e oggetto l’essere trova la sua forma adeguata — ferma restando l’inadeguatezza e il naufragio del pensiero di fronte alla totalità).
Ora, la via indiretta alla verità, tracciata da Jaspers, si distingue dalla via diretta e scientifica, che naufraga nella pretesa dell’oggettivazione universalmente valida, in quanto passa attraverso il travaglio del nichilismo, il rischio e l’incertezza del dubbio. Ed è qui che via ermeneutica e ricerca della verità vengono ad identificarsi. Quel che ne scaturisce è una visione prospettica composta di una serie di orizzonti, non onnicomprensivi né conclusivi, che, su piani differenti e a livelli di approfondimento diversi, contribuiscono al cammino della ricerca. Il tutto però segnato da un denominatore comune che è, a mio parere, il tempo.
La lettura che intendo fare della via ermeneutica di Jaspers si compone di due momenti distinti ma complementari: ad una lettura dell’orizzonte tragico e dell’orizzonte religioso ad esso connesso, così come si prospettano nel filosofare jaspersiano, segue un approfondimento della tematica centrale, almeno dal punto di vista teoretico, dell’ermeneutica jaspersiana, ossia il nesso di comunicazione e verità. Il tutto però sullo sfondo della categoria — cara all’ermeneutica e a tutta la filosofia del Novecento in generale — del tempo.
2. L’orizzonte tragico
Non si tratta di una forma espressiva, quanto piuttosto di un’atmosfera nella quale si viene a situare l’esistenza umana e che nella sua ambiguità si fa autentico specchio della finitezza. Parlo di ambiguità poiché il tragico si presenta in una doppia valenza, scenica ed esistenziale allo stesso tempo, nella quale l’una può consentire la lettura della verità dell’altra ed entrambe concorrono alla lettura dell’esistenza. Il tragico è infatti, per Jaspers, una presentazione esemplare e paradigmatica della situazionalità dell’umano.
Proprio la lettura del tragico presenta, agli occhi di Jaspers, il tempo nella sua infedeltà come immagine della situazione limite dell’uomo. La tragedia, infatti, è la tragedia del tempo in cui l’uomo vede riflessa la sua sconnessione o, meglio, in essa l’uomo si specchia nel tempo e scopre che la sconnessione di questo è sua. Nel tempo l’uomo è sbilanciato, non perché il tempo è sconnesso, ma questo è sconnesso perché è immagine della sproporzione e della situazione limite in cui si trova l’uomo. La soluzione mitica però non è più pensabile. Edipo poteva dire: «Apóllon tad’én, Apóllon, fíloi» perché nella tragedia greca l’ultimo era la conciliazione (come afferma Hegel). Ma a partire dalla modernità la sconnessione del tempo è metafora, specchio straniante, cifra della zoppia dell’uomo costantemente sul limite di due mondi — finito e infinito, temporalità ed eternità, mero esserci e trascendenza. La situazione limite, quindi, oltre ad essere luogo di rivelazione della destinazione alla trascendenza dell’uomo, in Jaspers è anche la situazione naturale propria dell’uomo stesso, sito dell’umano.
Ma se, da un lato, Edipo e Amleto, con le dovute differenze, rappresentano la coscienza della sconnessione del tempo, di un tempo infedele e misurabile solo nel dolore, come cifra della sconnessione umana (è ormai un topos l’esclamazione in Hamlet I, V vv. 189-190: «The time is out of joint: o cursed spite, that ever I was born to set it right!»); dall’altro l’esistenza che non si limiti a un mero esserci diviene dramma filosofico nella coscienza della sconnessione del tempo: l’esperienza del tempo, quindi, diviene esperienza concreta della finitezza (quale esempio tragico dell’esperienza del tempo, penso a Dietrich Bonhoeffer, al suo saggio sul L’esperienza del tempo come esperienza della separazione, andato perduto nel carcere di Tegel).
Proprio come mostra l’esperienza e la riflessione di Bonhoeffer (per quel che ne sappiamo), dal paradosso del tempo si può uscire per diverse vie, o in esso si può decidere di rimanere, ma, ancora, in molti modi. Il filosofo è comunque chiamato a rispondere all’appello del tragico con la propria scelta (come Amleto stesso è chiamato a rimettere in sesto il tempo). Tale scelta che, nel tempo, prende in mano il tempo è il trascendimento che, come tale, dispiega un nuovo orizzonte: il religioso, o meglio la possibilità del religioso.
Nella drammaticità delle situazioni esistenziali il trascendimento assume, infatti, i caratteri del salto nel religioso (e chiarirò più avanti il motivo del mio ricorso al termine religioso piuttosto che sacro o altro). Il paradosso del tempo letto nel tragico, come metafora e cifra dell’umano, apre all’esperienza religiosa, come possibilità del salto. Ebbene, Jaspers si confronta costantemente con la religione e tenta una chiarificazione del paradosso del tempo, senza peraltro volerne uscire definitivamente (ché significherebbe perdere l’umano): un salto quindi dal penultimo all’ultimo senza perdere il primo.
Del resto, se la religione è rapporto alla trascendenza, esperienza della trascendenza, e il filosofare è, come dice Jaspers, il trascendere, la religione non risulta solo un’esigenza dell’uomo ma, in quanto trascendere, è il più proprio della filosofia stessa. Una filosofia ancella delle scienze del resto non trascende, ma si limita a fornire il metodo. Una filosofia autentica, invece, vive al limite, conosce il naufragio e rischia il salto nel religioso. Nessuna riflessione profonda può pertanto eludere il rischio della religione, e d’altro canto della religione non può esserci che interpretazione. Per questo Jaspers esprime il suo modo di intendere il filosofare con il termine di fede filosofica.
In essa il filosofo si presenta come colui che indugia nella perplessità di fronte alla possibilità del salto nel religioso. Infatti, la passione dominante della ragione di fronte (termine fondamentale in Jaspers) al paradosso del tempo, è l’incertezza (mi piace pensare a Pirandello: uno strappo nel cielo di carta del teatrino rende Oreste Amleto…). La via ermeneutica che indaga il tempo, leggendo il tempo detto nel tragico, scopre proprio l’incertezza come sua possibilità connaturata. Incertezza di fronte al mostro incomprensibile che l’uomo è, incertezza che apre la possibilità del salto verso il tempo ultimo. Compito della ricerca filosofica (quale ricerca ermeneutica) è, del resto, dimorare nell’incertezza e indugiare prima del salto, anche di diffidare del salto stesso, ma in quanto proprio la possibilità del salto è lo spazio di dispiegamento del filosofare. Dimorare pertanto nell’incertezza per attingerne la fecondità.
La soluzione jaspersiana è quindi una non-soluzione: rimanere nella sospensione della fede e interiorizzare (termine hegeliano) il rischio del salto nella dialettica (altro termine hegeliano) della religione, ovvero nella dialettica del religare. Se la religione lega l’uomo alla trascendenza come Achille è religatum al carro di Ettore (vedi Cicerone) allora essa non si distingue in nulla dalla scienza che persegue l’universale validità e l’oggettività che vale in ogni tempo e che, come tale, non ha la libertà come suo fine ultimo; se invece la religione, in quanto fede, àncora l’uomo alla trascendenza come Cesare fa ad terram religare le sue navi, ecco che abbiamo colto il senso autentico della fede filosofica jaspersiana: non cristallizzazione ideologica, ma nella sospensione ancoramento alla trascendenza.
3. L’idea di una fede filosofica
Ora, per meglio comprendere il senso del ricorso alla fede filosofica di Jaspers è necessario intraprendere un cammino che apparentemente distoglie l’attenzione da quanto fin qui detto, ma che in realtà conduce proprio al cuore del filosofare jaspersiano: l’esistenza vive nel tempo e nel tempo la verità è comunicazione. Quanto fin qui mostrato non avrebbe senso in Jaspers, se non trovasse una realizzazione concreta per l’esistenza del singolo. Il nodo centrale della via ermeneutica di Jaspers — via che come detto, muove dal tragico per giungere alla possibilità del religioso per poi attraccare a una fede filosofica — è la comunicazione e, mediante questa, la verità.
Esistenza e tempo, verità e comunicazione. Intorno a questi termini si snoda l’ermeneutica jaspersiana. Il tempo è infatti condizione mobile dell’esistenza (anzi di ogni modo dell’essere che noi siamo) e l’esistenza è autenticamente se stessa, cioè realizza quell’ex-sistere che la costituisce e che la distingue dal semplice esser-ci, solo nell’atto comunicativo che, nel tempo, tenta la dizione della verità, a partire dalla prospettiva che le è fornita dalla situazione concreta.
La comunicazione, come eros, è sinolo di ricchezza e povertà, frantumazione e raccoglimento, e in una tale tensione vive la coscienza (la coscienza di Amleto) che nel raccoglimento assume e salva il tempo dalla frantumazione e lo rimette in sesto (to set it right), rivelandone l’essenziale intimità all’io ma, allo stesso tempo, riproponendo il dramma della frantumazione a un’ulteriore livello: quello appunto dell’Io.
In quanto condizione dell’esistenza, la temporalità ne è allo stesso tempo il limite che la condanna al naufragio. Naufragio che, a sua volta, non è fallimento ma salto, possibilità del salto. Nel momento stesso in cui la comunicazione naufraga a causa del supporto temporale infedele, essa si manifesta come verità in divenire, ardente desiderio che nasce nel tempo a causa della temporalità — laddove temporale è ciò la cui essenza supera la propria realtà (definizione di Schelling) — e che ha come punto d’arrivo (come nella tragedia) il silenzio ma non la conciliazione (come invece avviene nella tragedia). La trascendenza, infatti, come termine ultimo di riferimento di tutto ciò che è temporale, dal canto suo non ha tempo, non ha pensiero, non ha verità (se per verità s’intende l’esser-vero di un’affermazione): è l’eterno silenzio del «tutto senza divisioni», è il «silenzio dell’essere della verità nella trascendenza». Ebbene al silenzio dell’essere nella trascendenza fa riscontro, nel tempo, il silenzio del pensiero che naufraga. Nesso fra questi due silenzi è un linguaggio senza parole, il linguaggio delle cifre.
La teoria jaspersiana delle cifre è nota: nonostante l’inafferrabilità della trascendenza (che come tale è l’abbraccainte, o il ritraente) per il pensiero che ricerca nel mondo vi sono manoscritti leggibili di quest’intima alterità: le cifre, decifrabili solo esistentivamente. Ma la lettura delle cifre, cui il pensiero metafisico si dedica, non è l’apertura di un senso fondante e pacificante, quasi fosse una soluzione della ricerca filosofica, quanto l’ulteriore sfondamento di una prospettiva che nel tempo, in cui non c’è pace, si scopre doppiamente fallibile: da un lato la trasparenza del significante — o sarebbe meglio dire l’opacità dell’indicante — è il fallimento dell’oggettività dell’oggetto-cifra, poiché l’oggetto colto non è ciò che si vorrebbe cogliere, e dall’altro il fallimento della significanza del significante-cifra, in quanto il significato non è in alcun modo oggettivabile. Nella constatazione di questo doppio naufragio la metafisica rimane pertanto sospesa, salvo poi recuperare un senso positivo grazie alla dialettica dell’implicanza di matrice barthiana per la quale, come accade nella lingua tedesca, due negazioni affermano, e quindi, proprio in questa doppia fallibilità, trovare infine il senso nella propria positività: alla fine il tempo tace e il resto è silenzio. Siamo nel silenzio della verità dell’essere nella trascendenza, quell’essere che non è noi e che in fondo, a rigor di logica, non è (un essere che fosse sarebbe qualcosa e il qualcosa è già una determinazione). Quindi il percorso è il seguente: l’esistenza è formata, strutturata, supportata dalla temporalità la quale segna ogni sua manifestazione, anzi è la sua manifestazione; allo stesso modo la temporalità segna quale ambito anche la verità per cui non si dà verità assoluta ma verità nella comunicazione, ma la comunicazione, a sua volta, fallisce nella volontà d’infinito e si sospende nel silenzio; per contro la trascendenza, come limite contro cui urta ogni tentativo del pensiero, non Grenze invalicabile oltre cui guardare ma Schranke flessibile contro cui franare, non ha tempo, non ha verità non ha tensione né ricerca né pensiero… in essa il pensiero, come il tempo, tace. Le celebri parole di Jaspers (Ragione ed esistenza) che seguono sintetizzano paradigmaticamente tale situazione: «Il silenzio dell’essere della verità nella trascendenza […] ecco il limite nel quale per qualche istante può risplendere ciò che è il tutto senza divisioni; ma nel mondo esso scompare, per quanto influisca decisamente sull’essenza dell’uomo, ed è incomunicabile, perché la comunicazione lo attirerebbe nei modi dell’essere omnicomprensivo nei quali sarebbe frainteso. La sua esperienza è assolutamente storica: nel tempo eppure al di là del tempo. È per esso che si può parlare, ma non si può parlare di esso. Per il pensiero come per la comunicazione il punto d’arrivo è il silenzio».
La metafisica è pertanto il luogo di decifrazione del linguaggio delle cifre in cui nel tempo si abbatte il tempo, nel silenzio del naufragio si ascolta il silenzio dell’essere nella trascendenza. È pertanto felice, a mio parere, l’espressione che Jaspers usa in questo caso: «il tempo tace».
Il tempo tace perché parla un linguaggio altro, la «cifra che è manoscritto di qualcos’altro» dice Jaspers, leggibile e decifrabile solo esistenzialmente. Il silenzio della cifra è l’irruzione che sconnette il tempo (the time is out of joint) e che apre al silenzio come emergenza di un’ulteriorità. A questo punto si evidenzia un ulteriore momento della via ermeneutica di Jaspers: la leggibilità delle cifre.
Laddove la cifra è quella scrittura cifrata che rende possibile a Jaspers l’oltrepassamento della prospettiva scientifica, univoca, oggettivistica, universalmente valida e pertanto vincolante, superando il semplice dato da sistematizzare, a vantaggio di un’assenza a cui ogni datità rinvia. Proprio nella problematizzazione dell’oggettività il mito, il simbolo, la tragedia, il tempo stesso diventano cifre, illeggibili con i criteri dell’universale validità, ma decifrabili solo esistenzialmente, ossia «partendo dall’esperienza del mondo per giungere al limite, dove il mondo come mero esserci si dissolve, per spiccare il salto».
Qui la filosofia che filosofa con il concetto si trova a lavorare con pensieri non più logicamente vincolanti, con circoli, paradossi che naufragano nel «silenzio dell’essere della verità nella trascendenza». Il punto d’arrivo di questo cammino è quindi la fede. Ossia l’abbandono a una pienezza di significato che non presuppone più nulla ma che è presupposto di tutto, in cui la prassi della vita come le determinazioni concettuali sono superate, ma non tolte. Essa è la perpendicolare della trascendenza sull’immanenza e come tale non è religione (che dà significati nel tempo) ma, appunto, fede, eterno presente dell’essere (Jaspers parla di «philosophia perennis che in ogni tempo estingue il tempo»).
Si tratta ora di chiarire il senso del termine fede. Proprio la fede infatti — nello slittamento semantico che ha subito nel corso dei secoli (si potrebbe tracciare un percorso che va da Platone a Tommaso, da Kant a Jacobi) — in Jaspers è la certezza di qualcosa che non esibisce il proprio fondamento veritativo in quanto è oltre, ma che si annuncia per mezzo di cifre che danno da pensare, certezza che rimane sospesa in quanto fondata sul riconoscimento dei limiti della conoscenza — il naufragio intellettivo — e sulla coscienza della problematicità e del rischio di una conoscenza non dimostrativa e vincolante. Si tratta pertanto della filosofia stessa di Jaspers, del pensiero che, immerso nell’orizzonte temporale, opera il trascendimento tra pienezza estatica e silenzio espressivo: «immersa nella realtà del tempo, la filosofia conosce la presenza e la contemporaneità del vero essenziale proprio della philosophia perennis che, in ogni tempo, estingue il tempo».
Quella di Jaspers — e qui concludo — è una filosofia problematica dell’esistenza, non certo una fede religiosa. Ma solo una fede può salvare dal naufragio, solo la fede infatti ripiega nella difesa di quel minimum che è ai confini del nulla e da lì può volgere lo sguardo, senza pretese assolutistiche, verso un’ampiezza senza limiti. Solo ammaestrata dall’esperienza e dalla possibilità del nulla e della negazione di ogni fede, nonché dall’esperienza dei limiti, l’esistenza può affidarsi al salto nello spazio in cui si chiariscono per il singolo i modi dell’Essere che l’esistenza stessa è e in cui dimora. Personale come la risposta a un padre ma sconvolgente come l’abisso del nulla su cui si sporge, la fede è quella prospettiva che riesce, per Jaspers, a dare ragione del finito e del nulla, del dubbio e del pessimismo e, allo stesso tempo, è proprio il parallelo con la fede religiosa che consente il recupero finale della salvezza: «es ist genug, dass Sein ist», basta che l’essere sia.
La «fede filosofica» è quindi l’espressione della genuina volontà della ragione di assumere in sé, di assimilare (aneignen), anche quel contesto di ricerca e di provvisorietà, di rischio e di sospensione, di affidamento, di naufragio e di testimonianza, che traccia l’orizzonte di una verità fragile nel suo affidarsi al consenso o al tradimento da parte della parola dell’uomo. È la fragilità del silenzio, che non vuole però essere nulla, anche se, per essere autentico, si afferma di fronte (angesichts) e attraverso il nulla.1
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Per maggiori approfondimenti riguardo a quanto trattato in questo breve testo rimando al mio Fragilità della verità e comunicazione. La via ermeneutica di Karl Jaspers, Aracne, Roma 2003. ↩︎