Michel Henry. La fenomenologia del sentire

1. Introduzione

La ricerca fenomenologica di Henry pone come questione focale la filosofia trascendentale, indagando le condizioni di possibilità dell’apparire delle cose.Il problema della visibilità delle cose e del loro apparire davanti a noi è stato affrontato in primis da Kant, per poi impegnare altri pensatori del Novecento, quali Husserl e Heidegger, dimostrandosi il tema maggiore della filosofia. Lo studio fenomenologico proposto da Henry si fa carico delle aporie lasciate insolute tanto dal pensiero kantiano quanto da quello husserliano, avendo attribuito, sia Kant che Husserl, il ruolo originario dell’apertura della manifestazione ad un atto e ad un principio trascendentale relegato nell’ambito della non visibilità e della non manifestazione: l’io penso e l’intenzionalità.

L’io penso kantiano, forma vuota, e l’atto intenzionale di Husserl, puro «riferimento a», sono entrambi funzioni così radicate nella purezza formale da dover trarre dall’esterno la loro materia e i loro vissuti per mettersi in moto, non dimostrandosi dunque la prima sorgente della manifestazione. Il concetto di «coscienza di», a cui sono riconducibili l’io penso e l’intenzionalità, oltre a non essere il principio primo della fenomenalità, in quanto forma pura è strutturalmente impossibilitato ad essere dimora dell’affettività, sostrato originario della manifestazione, non possedendo lo statuto fenomenologico per accogliere le stimmungen, o tonalità affettive. Henry, attraverso un serrato susseguirsi di illazioni fenomenologiche, pone la materia affettiva a luogo originario della manifestazione, da una parte dimostrando che un atto privo di contenuti e vuoto di vissuti non possa vedere né far vedere nulla, dall’altra sottolineandone l’incapacità di fondare l’affettività.

Il fenomenologo francese trapianta la genesi della manifestazione, ancorata da sempre nella tradizione della filosofia occidentale nelle varie declinazioni della relazione soggetto-oggetto, nell’immanenza del vissuto patico, nel sostrato che precede e fonda ogni relazione e ogni trascendenza verso l’oggetto kantiano, il nòema husserliano e l’ente heideggeriano.1 L’immanenza della paticità, allontanandosi totalmente dalla conoscenza kantiana e husserliana, dall’apertura dell’orizzonte di Heidegger, è immediatamente nota a se stessa, in quanto primariamente provata da sé, a prescindere da qualsiasi rapporto soggetto-oggetto e atto intenzionale.

La rivoluzione fenomenologica compiuta da Henry, avendo rovesciato la fenomenologia husserliana della forma intenzionale in una fenomenologia della materia o del vissuto, approda a tre nuovi risultati rilevanti sul fronte fenomenologico-ontologico: in primis, introducendo la visibilità nel mondo e del mondo, il soggetto vede e si rappresenta la realtà mondana, avendo ricevuto la materia kantiana, la hùle husserliana e l’ente heideggeriano, solo successivamente ad un vedersi non intenzionale e immanente.

Il soggetto si vede, si sente ed è affetto da sé stesso dal momento che i suoi atti non si distanziano mai da lui, ma anzi rimangono in lui; dunque egli li riceve e li subisce in virtù del fatto di compierli. L’io riceve i propri atti da sé e, ricevendo se stesso, esiste come rivelazione di sé, dimostrandosi condizione di ogni ricezione e di ogni rivelazione estatica delle cose. In secundis, dal momento che il soggetto si costituisce nella ricezione di sé, quest’ultimo è caratterizzato da una duplice natura, quella del pensiero e dell’affettività, che con Henry si amalgamano in un unicum ontologico grazie all’auto affezione dell’io il quale garantisce l’identità di ragione e sentimento, diversamente da quanto è accaduto fino ad ora quando la sfera noetica e affettiva erano scisse. Il terzo traguardo raggiunto dal fenomenologo francese riguarda la concezione di un io rigorosamente individuale a discapito del modello coscienziale proposto da Husserl che non teneva conto dell’unicità del soggetto per salvaguardare la coscienza dal decadimento al rango di cosa e tutelarne la funzione di ultimo costituente degli oggetti.

Nella fenomenologia di Henry l’io riguadagna l’individualità smarrita, liberato da un potere ontologico impersonale, in quanto letteralmente potere di nessuno, per ottenere un potere in cui la singolarità e individualità sono salvaguardate nel momento stesso in cui il soggetto compie degli atti.

2. La sconfitta dell’intenzionalità e la vita emotiva a fondamento della manifestazione

La proposta filosofica di Michel Henry, discostandosi dall’eidetica husserliana, non ha più come oggetto di indagine la topica dei fenomeni in generale, raggruppati sulla base dell’intenzionalità, ma «il fenomeno in quanto tale, la fenomenalità, l’essenza della manifestazione, ossia ciò che è assolutamente richiesto perché una manifestazione si produca».2 Il filosofo francese inquadra sotto una nuova prospettiva il problema dell’essenza della manifestazione in quanto tale e delle condizioni di possibilità di quest’ultima, non focalizzando più l’attenzione su ciò che deve dimostrarsi come dato assoluto, ma sull’evidenza del suo modus manifestandi.

Per giungere al fenomeno stesso può essere intrapresa un’unica via: la via del vissuto patico, primigenia a qual si voglia forma di intenzionalità. Il metodo fenomenologico penetra nel singolo fenomeno considerato: scava entro di esso per farsi strada dovendolo patire, nel senso etimologico del termine, per comprenderlo. Il pàthos, fondamento ultimo della fenomenalità, fa da passepartout in quanto permette di penetrare l’essenza della manifestatività di tutti i fenomeni, considerati nella loro unicità.

Per comprendere la fenomenalità è necessario esperire ciascun singolo fenomeno primariamente a livello patico poiché l’affettività precede e fonda l’instaurarsi di una relazione intenzionale e, precedendola, rende quest’ultima possibile:

Ogni proprietà reale del vissuto reale si rivela originariamente a se stessa, portando così in sé il sapere iniziale di ciò che è: è sullo sfondo di un tale sapere e presupponendolo che può nascere uno sguardo che getta davanti a sé il contenuto di questo sapere, l’immanenza, il pàthos, la loro determinazione secondo la modalità propria di questo vissuto, al fine di coglierli davanti a lui come altrettanti carattere irreali componenti l’essenza noematica di questa cogitatio.3

La fenomenalità, o essenza della manifestazione, benché fondi la dimensione del visibile, si rivela nella sua immanenza patica e rimane confinata nel regno dell’invisibile, decisa a non emergere nel dehors accessibile allo sguardo. Da quanto detto, ne deriva che l’elemento trascendentale della soggettività non si identifichi più con l’intenzionalità, ma con la dimensione affettiva che rimane segregata e secretata nella dimensione invisibile dell’immanenza. Dal momento che l’essenza della manifestazione è invisibile, l’atto intenzionale non la dona nella sua veracità, ma ne presenta un sostituto noematico «per il fatto che si limita al suo guardare e vuole guardare e si dirige verso ciò che guarda, deve dunque sostituire alla cogitatio invisibile che l’abita un equivalente oggettivo, la sua essenza noematica di cui il metodo produce laboriosamente la costituzione come sua propria condizione di possibilità».4

Lo sguardo ci fornisce una rappresentazione della fenomenalità, rendendola presente dinanzi a noi e mettendola in scena grazie a una luce esterna ad essa che ne tradisce l’immanenza assoluta. Henry analizza l’impianto teoretico husserliano, evidenziando come all’interno di quest’ultimo convivano due fenomenologie: l’una intenzionale e formale, l’altra materiale e relativa ai contenuti o vissuti. Tuttavia nel pensiero di Husserl queste ultime non rivestono un ruolo paritetico, ma il primato fenomenologico spetta alla forma dell’intenzionalità, la quale assume il compito di manifestare ciò che è reale, a prescindere dal suo intreccio con gli erlebnisse.

L’errore commesso da Husserl consiste nell’individuare l’intenzionalità, il vedere puro, come unico canale attraverso cui possa avvenire il mostrarsi e il darsi. Nel § 24 di Idee I Husserl esprime chiaramente il postulato da cui la fenomenologia classica muove i primi passi, stabilendo che l’indagine filosofica parta da ciò che si mostra esclusivamente attraverso l’intuizione o visione: «ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire, in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà».5 Henry individua nel presupposto husserliano dell’unica forma possibile di manifestazione la causa della paralisi dell’iter fenomenologico, impossibilitato a procedere verso l’auto-donarsi del vissuto.

Permeare l’essenza della coscienza o della soggettività trascendentale è l’obiettivo primario di Husserl il quale, al fine di raggiungerlo, considera l’intenzionalità o «la coscienza di» come la sola proprietà essenziale della soggettività, estromettendo e cancellando il ruolo dell’affettività, principio che in vero fonda originariamente ogni oggetto del pensiero. Il vissuto, sorgente prima della coscienza trascendentale, non riempiendo l’orizzonte del visibile e non assurgendo alla fenomenalità, è irraggiungibile dalla forma intenzionale; dunque esso è soppiantato dall’impalcatura generale della coscienza, ovvero dalla forma a priori che la caratterizza a livello universale: l’intenzionalità. «Il soggetto non è più un soggetto, ma la soggettività, e la soggettività è il “riferirsi a… ”ossia è ciò che rende possibile ed in cui consiste l’essenza del fenomeno, l’essenza della manifestazione, l’oggetto».[^6]

Husserl da una parte assume a essenza della soggettività l’oggetto, il noema, facendo coincidere l’analisi di quest’ultimo con l’analisi della soggettività stessa, dall’altra l’oggetto non è più concepito come ente a se stante, ma solo nella sua oggettività costruita dal soggetto. Si assiste dunque ad un rimando essenziale soggetto-oggetto tale per cui essi non sono riconosciuti come autonomi, ma si conferirebbero senso l’uno all’altro: l’essenza della soggettività è l’oggettività e l’essenza dell’oggettività è la soggettività.

Per penetrare l’essenza del soggetto Husserl ricorre soltanto a ciò che si mostra, ma, paradossalmente, si appella all’intenzionalità della coscienza che non si mostra mai, non irrompe mai nella sfera del fenomenicità, non soddisfando i requisiti dell’apparire. Il principio intenzionale, struttura portante della soggettività, è antitetico all’assioma fondamentale della fenomenologia husserliana, non presentandosi mai nel modo richiesto da quest’ultima e sfuggendo all’apprensione visiva.

Henry si domanda «come può dunque essere accreditato “fenomenologicamente” l’atto intenzionale che fa giungere i suoi correlati nella condizione noematica del fenomeno puro o dell’apparire in carne ed ossa, ma non diventa mai a sua volta il noema di una noesi, l’oggetto di un atto intenzionale, non giunge mai nella condizione della manifestazione?».6 Se tutto ciò che è reale è tale in quanto si mostra, se il mostrarsi è indice di realtà, vorrà dire che anche il principio manifestante, l’intenzionalità, per essere ritenuto reale, dovrà esso stesso apparire.

È allora chiaro che la fenomenologia storica si auto corroda poiché lo sguardo intenzionale, unico principio di ogni apparire posto da Husserl, non dandosi sul piano fenomenico, è invalidato dal «principio dei principi» della fenomenologia ortodossa, «quanta apparenza, tanto essere».7

«Il principio dei principi», affermando un rapporto direttamente proporzionale tra la sfera ontologica e quella fenomenica, mette in dubbio anche la liceità dell’attività costitutiva della coscienza, l’intenzionalità, madre di tutti gli oggetti, la quale non si dà mai a vedere per se stessa, ma è sempre l’ombra di un oggetto da essa costituito, di un nòema. L’operato coscienziale non appare mai di per sé, ma traspare dall’oggetto visto o cogitatum. Lo stesso Husserl afferma ciò nel § 21 delle Meditazioni Cartesiane: «L’oggetto intenzionale che sta dalla parte del cogitatum esplica — per ragioni facili da intendersi — la funzione di guida trascendentale per la rivelazione della molteplicità tipica di cogitationes».8

Henry riscontra il paradosso della fenomenologia storica nell’intenzionalità la quale, benché sia principio di ogni apparire, esula da qualunque statuto fenomenologico in quanto non è mai intuibile. In aggiunta l’atto intenzionale, così com’è concepito da Husserl, non può portare a compimento alcuna manifestazione poiché, per mantenere la propria purezza, non è autorizzato a contaminarsi con il vissuto. È proprio la caratteristica di purezza, l’essere puro atto intenzionale, che condanna quest’ultimo all’inconsistenza della vuotezza, non potendosi mischiare alla sensazione.

L’ossessione di una purezza formale sfocia in un’impossibilità fenomenologica, nel nichilismo dell’attività stessa della coscienza intenzionale dal momento che uno sguardo puro è privo di materia, di contenuto e dunque non ha niente da mettere in scena e da dare.

Tematizzare uno sguardo puro vuol dire tematizzare uno sguardo alienato, quindi inetto poiché, se esso non attecchisce al suolo esperienziale, decadendo dal suo grado di massima purezza a sguardo spurio, non sarà mai in grado di vedere e di far vedere nulla, come evidenzia Henry nelle seguenti righe:

La riduzione è il guardare puro dell’essenza della cogitatio, «riferirsi-a» questa essenza. E cosa vediamo in questo guardare puro in quanto l’essenza della cogitatio, in quanto la sua realtà? Vediamo questo «riferirsi-a» se stesso. Il cerchio è dunque perfetto. Nella riduzione il pensiero si riferisce a se stesso sullo sfondo di ciò che esso è: del «riferirsi-a». È questo cerchio — l’illusione — che, richiudendosi su se stesso, occulta ciò che gli manca e che presuppone costantemente. Cos’è che manca quando, nel cerchio riflessivo, il «riferirsi-a» si riferisce a se stesso? Niente meno che la possibilità di questo «riferirsi-a »se stesso come tale.

Questa possibilità è fenomenologica. Il «riferirsi-a» se stesso è fenomenologico. «Riferirsi-a», fenomenologicamente, significa guardare. Che il «riferirsi-a» non sia in quanto tale la sua propria possibilità fenomenologica, in modo rigoroso, vuol dire questo: il vedere non si vede. Questo vuol dire: il vedere non è un fenomeno in sé e per sé. Un vedere che non fosse che vedere sarebbe fenomenologicamente nullo, non vedrebbe niente. Non si ha vedere se non alla condizione che, in modo inavvertito, il vedere sia più che se stesso.9

Ciononostante, qualora l’intenzionalità non fosse preda di paradossi intrinseci alla fenomenologia husserliana che pone come principio dell’apparire ciò che non appare, contraddicendo l’assioma «tanto apparire, tanto essere», essa non si addirebbe alla rivelazione di una regione ontologica: la regione inerente alle tonalità affettive. Tutte le operazioni della coscienza sono caratterizzate da tonalità affettive definite, perfino le attività massimamente raziocinanti prevedono un’aurea emotiva nella quale svolgersi, non essendo possibile una condizione emotivamente asettica.

Se Henry identifica l’aspetto trascendentale della soggettività nel carattere affettivo degli atti della coscienza, la fenomenologia husserliana non ha un quadro teorico appropriato a cui riferire questa affettività trascendentale. L’affettività è esclusa dalla teoria dell’intenzionalità, assunta come unica forma donante, poiché essa non può ridursi a correlato di una percezione o a nòema di un atto intenzionale.

La Stimmung, tonalità affettiva, non può essere l’oggetto di un pensiero poiché, se così fosse, prendendo come esempio il sentimento del dolore, «noi potremmo lasciarlo lì davanti a noi, inoffensivo, constatato da noi come da uno spettatore straniero».10 Il dolore, come tutte le realtà affettive, non rientra nella cornice concettuale di una filosofia della distanza, non si piega alla noesi, dal momento che la sua essenza non è pensabile, ma patibile. La fenomenologia storica, decisa a tutelare strenuamente l’assoluta funzione manifestante dell’intenzionalità, non ha riconosciuto all’ontologia patica la sovranità sul regno della soggettività, ignorando che la sfera emozionale sia onnicomprensiva, riguardando anche le operazioni della coscienza.

Se Husserl avesse riconosciuto che il pàthos vada a inficiare la struttura degli atti della «coscienza di», avrebbe dovuto ammettere l’insufficienza di una fenomenologia della sola intenzionalità, integrando quest’ultima con una fenomenologia materiale, relativa ai contenuti o ai vissuti dell’atto intenzionale. «In questa nuova fenomenologia, l’atto di coscienza ha sempre un pàthos perché ha già, per ragioni di essenza, un vissuto fatica, esultanza, apatia, solitudine, abbandono al mondo e alla morte, anzi è quel “vissuto”, un vissuto che è l’essere stesso dell’atto cosciente».11

3. M. Henry e la fenomenologia dell’immanenza

Henry, rispettando la liceità fenomenologica, elabora un nuovo modello dell’essenza della manifestazione atto a superare le aporie sollevate da una teoria fenomenologica fondata sulla trascendenza. Il filosofo francese propone un paradigma dell’essenza della manifestazione il cui fulcro non risulti più essere la trascendenza tout court, ma l’immanenza dell’atto della trascendenza: Henry, neutralizzando il rapporto intenzionale, pone come condizione ultima dell’apparire l’assenza della distanza tra ciò che appare e ciò che permette l’apparire. Egli, dopo aver dimostrato la necessità di un pensiero dell’auto apparire, teorizza una dottrina della manifestazione basata sull’atto dell’auto manifestazione, appellandosi a principi fenomenologici che avvalorino una manifestazione immanente, opposta a quella della trascendenza. Henry, chiarendo che cosa intenda per manifestazione inestatica, spiega che

Per una manifestazione, non essere l’opera della trascendenza, significa, dunque, sorgere e realizzarsi indipendentemente dal movimento con cui l’essenza si lancia e si proietta in avanti sotto la forma di un orizzonte — sorgere, realizzarsi e mantenersi indipendentemente dal processo ontologico dell’obiettivazione, ovvero per la precisione in assenza di ogni trascendenza.12

Da quanto detto è chiaro che la proposta fenomenologica di Henry concepisca l’atto della trascendenza che dispiega l’orizzonte, conditio sine qua non del darsi degli enti, come immanenza e intrinsecamente privo di alcunché di trascendente poiché esso instaura un rapporto inestatico a sé, e come tale, rifugge ogni rapporto esteriore. Il concetto di immanenza è riconducibile alla categoria di ricettività intesa come potere originario che rende auto ricettivo l’atto che dispiega l’orizzonte, il quale si mantiene presso di sé auto ricevendosi. Dunque l’atto della trascendenza, dal momento che si riceve da sé, è in grado di pervenire al proprio contenuto senza discostarsi da sé, ovvero facendo a meno di oggettivare il proprio contenuto tematizzandolo come termine trascendente.

La filosofia dell’immanenza, detenendo il proprio atto in sé, ottiene un duplice risultato: la sua opera affiora alla fenomenalità senza implicare distanza, opponendosi all’orizzonte e agli enti che su di esso si stagliano. Il fenomenologo francese, differentemente dagli esponenti della filosofia della trascendenza, da Kant a Husserl, permette all’elemento trascendentale di guadagnare il rango di una visibilità inestatica, non dileguandosi dopo aver assolto la propria funzione come avviene per la coscienza husserliana e l’essere heideggeriano. Henry dichiara che

L’essenza della ricettività originaria che garantisce la ricezione della trascendenza stessa è l’immanenza. La determinazione dell’essenza originaria della ricettività, è, tuttavia, anche quella del suo contenuto. Il modo originario della ricettività, in quanto costituito dall’immanenza, è l’atto di raggiungere il suo contenuto senza muoversi né superarsi verso questo contenuto, in modo tale che la realtà ontologica costituita da questo contenuto puro non sia per lui in alcun modo trascendente e non si trovi affatto posta a dinnanzi ad esso come un orizzonte. Che il suo proprio contenuto non sia affatto trascendente il potere che assicura la sua ricezione, che la realtà ontologica che essa raggiunge senza superarsi verso di essa non sia come tale né esteriore né estranea all’essenza della ricettività considerata nel modo originario della sua realizzazione, tutto questo fa apparire un simile contenuto come un «contenuto immanente».[^14]

Immanente dunque è ciò che risulta essere incorporato nell’atto della trascendenza, facendo parte della sua struttura interna come elemento costitutivo e rivelandosi in esso. Henry sostiene che ogni atto della coscienza, ovvero ogni atto trascendentale, sia un atto di auto ricezione, affettato da se stesso in quanto auto affezione. Mediante l’auto ricezione la ricettività si tramuta in passività ontologica dal momento che

Ricevere un contenuto significa essere affetti da esso. In quanto il contenuto che l’essenza originaria della ricettività riceve è costituito da essa, quest’essenza è anche affetta da essa quando riceve il contenuto che le appartiene, quando riceve se stessa. Essere affetti da sé, impressionare se stessi, significa costituirsi come auto-affezione. L’auto-affezione è la struttura costitutiva dell’essenza originaria della ricettività.13

4. L’immanenza come essenza della trascendenza

Il principio fenomenologico su cui Henry erige il suo pensiero, considerabile al contempo traguardo e punto di partenza con cui è sancito il distacco da quel modello fenomenologico per cui la manifestazione è oggettivazione, rivelandosi e trascendendosi tramite la rappresentazione, consiste nel concepire la manifestazione come manifestazione dell’essenza a se stessa dal momento che, in accordo con quanto detto fino ad ora, la realtà fenomenologica dell’atto che dispiega l’orizzonte è un apparire che appare a se stesso. «La possibilità ontologica della manifestazione dell’essenza sta nel retro-riferimento dell’essenza a se stessa»;14 dunque l’auto apparire della manifestazione si rivela essere la condizione prima di ogni manifestazione in generale grazie all’auto affezione e alla ricettività che caratterizzano quest’ultima.

La proposta fenomenologica di Henry, definibile fenomenologia dell’immanenza, supera il modello della trascendenza grazie al principio dell’auto affezione che è in grado di ricevere il proprio atto poiché essa non si rappresenta un oggetto esterno all’atto della rappresentazione, ma riceve ciò che la costituisce intrinsecamente, essendole in toto immanente.

È necessario ora delucidare l’immanenza a sé dell’atto della trascendenza, illustrando i legami che quest’ultima instaura con l’immanenza dell’auto affezione. Per fare ciò è bene partire dall’analisi della trascendenza che, tanto nell’ontologia quanto nella filosofia della coscienza, è la condizione ultima della possibilità della manifestazione. Henry vuole chiarire l’essenza dell’atto della trascendenza, stabilendo quale tipo di realtà sia quella che si trascende. A questo fine il fenomenologo francese esamina l’impalcatura interna della trascendenza ontologica della coscienza, intesa come condizione di rivelazione dell’ente nell’area del trascendente, determinando la natura ultima della trascendenza stessa, ovvero di quella funzione della coscienza che si determina come trascendentale e intenzionale. La conclusione a cui Henry approda, coerente con l’iter fenomenologico intrapreso, stabilisce che l’atto del superamento non possa coincidere con un atto che si separa da sé, collocandosi nell’esteriorità, poiché si tratterebbe di un atto avente il modus essendi di un ente che è separato da un altro, non facendo accedere ad alcuna manifestazione in nome di tale separazione.

In vero il superamento coincide con l’atto della trascendenza solo se traghetta se stesso nell’atto di oltrepassarsi, ovvero solo se rimane nella propria dimensione di immanenza, ricevendosi e rimanendo fedele all’auto ricezione in quanto auto affezione per natura.

La coscienza dunque, proprio perché rimane presso di sé ricevendosi nella manifestazione inestatica, si dimostra essere a tutti gli effetti principio trascendentale. Essa è trascendenza, aborrendo qualunque separazione o distanza, poiché fornisce a se stessa una forma di fenomenalità, sebbene altra: la fenomenalità emotiva del termine dei propri atti, che rivela ciò che le sta dinnanzi come suo nòema.

La rivoluzione che compie Henry nel panorama della fenomenologia consiste nell’assumere come condizione ontologica, fondante ogni atto trascendente, l’autorivelazione immanente della coscienza. L’immanenza è l’essenza della trascendenza, dal momento che la trascendenza trapassa nel visibile non tramite se stessa, poiché rivelerebbe solo l’orizzonte del Niente, ma grazie al sostrato immanente dell’atto che dischiude l’orizzonte e si riceve in quanto atto che apre, essendo affectus ab se. Per il modello fenomenologico inaugurato da Henry

la realtà del contenuto ontologico puro dell’essenza originaria della ricettività è la realtà fenomenologica della trascendenza. Per questo l’immanenza, che costituisce la struttura interna di questo modo originario di ricettività, si rivela essere l’essenza della trascendenza, perché la rivela e la rende quindi possibile nel suo stesso essere.15

Al contrario per la fenomenologia classica invece la manifestazione è radicata nella dimensione mondana, esaurendo quest’ultima nel luogo dell’esteriorità. Il discrimine tra la filosofia husserliana e la fenomenologia eretica di Henry risiede nel venire meno in quest’ultima del concetto di intenzionalità inerente al principio di manifestazione. Se dunque, secondo la prospettiva di Husserl, la coscienza assume spessore ontologico grazie alla realtà mondana, per Henry essa esiste di per sé, in quanto il filosofo francese ammette due forme di fenomenalità: una trascendente e una immanente.

Henry mette in luce la relazione intrattenuta dalle due forme di fenomenalità, stabilendo che si tratti di una relazione per la quale esse non siano sullo stesso piano ontologico, ma una risulta essere subordinata e dipendente dall’altra. La fenomenalità dell’immanenza fonda quella della trascendenza, «la fenomenalità fondata appartiene, come quella fondante alla coscienza, ma, per essere ciò che è, ossia atto di trascendenza, atto di dirigersi verso il mondo o uno dei suoi enti come proprio termine intenzionale, essa dipende in maniera trascendentale dalla prima come da una specie di onda portante».16

Dunque l’atto primigenio dell’essenza della manifestazione ha il carattere dell’immanenza e da qui è affermabile la possibilità della coscienza di esistere a prescindere dal mondo, dal presenziare nel mondo in quanto «possibilità originaria della coscienza stessa e come tale è la sua essenza».17 Henry sovverte il paradigma classico della fenomenologia fondato sulla trascendenza e sull’intenzionalità della coscienza, mostrando come l’intenzionalità, per non cadere nel non essere, necessiti di fare perno su una modalità di rivelazione più originaria e di matrice pre-intenzionale, come quella dell’immanenza.

L’opera della trascendenza si rende manifesta a se stessa non tramite il processo di distanziamento da sé, ma grazie all’identità del manifestato e dell’atto manifestante che le permette di accedere alla rivelazione del proprio essere. Henry, analizzando la struttura interna dell’essenza e determinandone la natura ontologica, sviluppa un pensiero fenomenologico innovativo i cui punti cardine sono l’immanenza dell’atto della rivelazione e la possibilità di giungere all’essenza della manifestazione nell’immediato, ovvero a prescindere del processo di oggettivazione. «La determinazione ontologica del concetto di immediato scarta la pretesa di fare dell’oggettivazione la condizione di ogni presenza e, di conseguenza, di comprendere l’oggettivazione come l’universale mediazione con cui tutto ciò che è trova il suo essere».18 L’immanenza, struttura ontologica ultima, permette alla coscienza di esistere in un luogo invisibile, a prescindere dell’estrinsecarsi da sé per mostrarsi nell’esteriorità dell’oggetto tematizzato.

5. M. Henry e la filosofia fenomenologica dell’affettività

Henry, avendo abbandonato la trascendenza come struttura ultima della coscienza, elabora una nuova concezione dell’io fondato sull’immanenza, determinazione ontologica essenziale della manifestazione e terreno in cui si radica l’auto ricezione. La soggettività si rivela nell’auto-affezione dal momento che l’affettività è «l’esperienza più semplice, quella che si intuisce prima dell’ek-stase, l’esperienza immediata di sé, il sentimento originario che la coscienza ha di se stessa».19

Con il termine affettività Henry non indica la sensibilità, ossia il potere di sentire qualcosa mediante i cinque sensi, ma si riferisce a una forma originaria di affezione che consiste nell’auto affezione, nell’essere affetti da se stessi. Tra il concetto di sensibilità e sentimento intercorre una diversità essenziale che risiede nel ruolo della trascendenza. Se la sensibilità, in quanto potere di ricezione, necessita della formazione estatica dell’orizzonte da parte della trascendenza: il sentimento non ha bisogno di mediazioni trascendenti poiché è potere di provare qualcosa e di essere affetto a prescindere dalla distanza fenomenologica.

Il sentimento non può essere colto dalla sensibilità, non essendo percepibile e sperimentabile alla stregua di un ente, dal momento che ciò che rientra nella dimensione del sentimento non si dà, per sua natura, all’esperienza sensibile. Il sentimento, potendo sentire solo se e essendo esso stesso ciò che prova e ciò che è provato, ciò che colpisce e ciò che è colpito, è denominato da Henry ipseità. Il termine ipseità definisce «ciò che si sente se stesso, in modo tale da non essere qualcosa che viene sentito, ma il fatto stesso di sentirsi così se stesso, che il suo “qualche cosa”è costituito da questo “sentirsi se stesso”, l’essere “affectus”da sè, l’essere del Sé e la sua possibilità».20 Il sentimento, concretizzandosi a livello fenomenologico nell’affettività, fonda l’identità del sé dal momento che ne costituisce l’ipseità e la rivela.

6. L’essenza del sentimento

Henry, sottoponendo al vaglio fenomenologico l’immanenza, o passività ontologica, assume quest’ultima come condizione prima della manifestazione. Attenendosi ad un discorso fenomenologico, la condizione originaria dell’essere risiede in uno stato di passività che si traduce nell’essere consegnato inevitabilmente a sé, costretto ad assumere la propria ipseità e a subire il proprio essere, più forte di ogni libertà. L’impossibilità di sfuggire da sè del sentimento non è rivelato da un atto della trascendenza, ma si identifica con lo stesso potere di sentirsi come il sé che ha un contenuto trasparente, che appare a se stesso, superato da questo stesso contenuto, benché gli sia identico.

Stando a quanto detto, Henry sconvolge il significato di alcuni concetti fenomenologici, quali l’identità, la trasparenza e il superamento, attribuendovi una nuova semantica. L’identità di cui parla il filosofo francese consiste nell’identità fenomenologica del sentimento con se stesso e col suo contenuto la cui trasparenza, lungi dall’essere quella del «vetro che lascia vedere, al di là di sé, un’altra cosa, ogni cosa, e che di se stesso ed in se stesso non lascia vedere nulla, il nèant»,[^23] consiste nel tuffarsi in sé, superandosi soltanto verso il suo contenuto.

Il superamento non riguarda il superamento della trascendenza verso l’oggetto, ma il sentimento supera se stesso attraverso la «propria profusione per la quale il sé è il superamento di sé come identico a se stesso».21 L’affettività riconosce la sua essenza nel soffrire se stessa, rivelando la sua identità nel soffrire, verso cui essa è radicale impotenza. L’impotenza del sentimento si realizza nell’impotenza verso se stesso, essendo consegnato a sé a tal punto da non poter «contestare, né rifiutare, né assumere, né accettare ciò che egli è nella sua identità con se stesso».22

Il sentimento si fonda sull’assenza di potere rispetto «a ciò che più gli importa ed è essenziale: il suo proprio essere»,23 essendo sottomesso a sé ed alla sua autoaffezione. L’affettività si rivela nell’impossibilità di porsi a distanza da sé, non potendo guadagnare una prospettiva oggettiva di sé attraverso cui possa scappare da se stessa. Dunque, benchè il «sentimento sia il dono che non può essere rifiutato, l’arrivo di ciò che non può essere tenuto lontano»,24 in questa impotenza del soffrire emerge la potenza del sentimento che è «il sentimento stesso, il sentire come tale nella sua essenza, come sentir-si se stesso, nel modo del suo compiersi».25

7. L’invisibilità della vita e l’essenza dell’affettività

L’interpretazione ontologica dell’affettività conduce ad interpretare la vita come affettività o sentimento. Henry scrive che «vivere, come già i greci avevano riconosciuto, e come, più vicino a noi avrebbero detto poi Nietzsche e Heidegger, significa essere26»; tuttavia per essere il filosofo francese non intende «quel sentimento che — in sede precritica — è uno dei modi di realizzazione della vita, ma intende la struttura stessa della vita, la struttura interna di tutto ciò che è».27

La ricerca fenomenologica condotta da Henry, mossa dall’obiettivo di determinare il fondamento della realtà fenomenica, giunge a concepire l’essere, principio della manifestazione, come invisibile, come «ciò che non si lascia mai vedere in un mondo né alla maniera di un mondo».28

In Vedere l’invisibile. Saggio su Kandinskij, opera in cui Henry pone la pittura astratta a origine di ogni pittura, l’essere coincide con la vita la quale si è rivelata esclusione di ogni trascendenza, non essendole strutturalmente possibile offrirsi a oggetto di una conoscenza come correlato di un atto intenzionale. La vita, essendo invisibile, «nell’assenza di questo mondo e della sua luce, prima di sorgere in questo orizzonte di esteriorità che mette ogni cosa a distanza da noi e ce lo pro-pone a titolo di ob-jectum»,29 sfugge alla conoscenza, ovvero all’intenzionalità, la quale si fonda sulla visione. L’invisibilità della vita è data dalla sua essenza immanente e dall’auto affezione originaria di quest’ultima, in quanto

La vita sente e prova se stessa immediatamente in modo da coincidere con sé in ogni punto del suo essere e, interamente immersa in sé ed esaurendosi in questo sentimento di sé, in modo da compiersi come pathos. La «maniera» in cui l’interno si rivela a se stesso, in cui la vita vive sé stessa, in cui l’impressione immediatamente si auto-impressiona e il sentimento affetta se stesso- prima di ogni controllo e indipendentemente da esso- è l’Affettività.30

L’enigmaticità dell’essere non risiede nel suo sfuggirci o nel ritirarsi lontano da noi, ma nel toccarci. L’invisibile sta nel comprendere l’essere come affezione, «affezione originale, sua effettività prima, e essenza di ogni effettività, la fenomenalità stessa assoluta, irrecusabile, quale essa si rivela originariamente a se stessa. È l’affettività».31

Henry, al fine di rendere espliciti i concetti chiave della fenomenologia che inaugura, stabilisce la differenza semantica che intercorre tra il termine di affettività e di affezione. L’affezione, la cui condizione di possibilità sta nell’affettività, o nell’auto affezione, consiste nella modificazione che si verifica sull’io in seguito all’impatto con un ente esterno. Il presupposto per poter esser colpito da un ente esterno, accogliendo un determinato contenuto sensibile, è che esista però un potere di sentire primordiale, che abbia la forma del sé, essendo un essere che si sente in antecedenza e che è essenzialmente affettivo.

Una volta sancita la differenza semantica tra affettività e affezione e chiariti i rapporti, il filosofo francese si chiede se le affezioni fondino le tonalità affettive le quali differenziano il potere di sentire le cose da una concezione asetticamente teorica di quest’ultime date allo sguardo. La risposta è negativa poiché, sebbene il potere di sentire un ente supponga l’apertura e la ricezione dell’orizzonte in cui è posto l’ente e quindi la possibilità di un’affezione del soggetto da parte di quest’ultimo, l’orizzonte è solo l’ambito dell’apparire di un oggetto, non riguardandone l’essere provato. Le affezioni sensibili non stanno alla base delle tonalità del sentire, le quali invece affondano le loro radici nell’affettività originaria, principio ontologico e natura affettiva dell’atto di sentire l’ente che spiega il carattere affettivo della sensibilità.

Il sentire rappresenta la trascendenza o intenzionalità in quanto affettiva poiché «c’è un apparire che “non è” ma avviene e che consiste “in un lavoro segreto”, clandestino, che “si rivela” semplicemente nel sentirsi, provarsi, di là da ogni “violenta” visibilizzazione».32 L’atto della trascendenza non può essere dicotomizzato come ciò che in primis si oppone al mondo e poi si fa toccare da esso: il mondo è dato al soggetto come ciò che lo afficit, che tocca l’io nel momento stesso in cui è dischiuso l’orizzonte poiché anche la fredda osservazione è contestualizzata entro una tonalità affettiva, per l’appunto la freddezza. L’affettività è l’essenza del rapporto al mondo, rapporto che è sempre affectus da una Stimmung, da una tonalità affettiva.

Non si tratta di «conoscere» il fondamento, ma di «patirlo», perché l’antinomicità del fondamento è un dato vissuto più che saputo e il pensiero che riesce a «individuarlo», a «concepirlo» non è un pensiero «dialettico», ma, proprio perché è un’esperienza affettiva, è un pensiero, a tutti gli effetti, che prova.33

La comprensione affettiva dell’essere è la modalità di rapporto che si instaura tra il soggetto e il mondo: l’impassibilità dello sguardo o della contemplazione sono anch’esse calate in una stimmung, in una tonalità affettiva. L’affettività e il comprendere si compenetrano reciprocamente dal momento che ogni atto di comprensione è affettivo e ogni stimmung è comprendente, dispiegando l’orizzonte e colorando lo sfondo su cui si staglia l’oggetto a cui essa si riferisce secondo la tinta di una determinata tonalità affettiva.

8. L’affettività a fondamento dell’intenzionalità

Fino alla svolta fenomenologica compiuta da Henry, i sentimenti sono stati sottoposti alla struttura intenzionale, per cui essi si riferiscono sempre ad un termine esterno; di conseguenza l’intenzionalità dei sentimenti, posta sotto la giurisdizione dell’husserliana coscienza intenzionale, è stata sottomessa al paradigma fenomenologico-ontologico della trascendenza.

L’estensione del paradigma della manifestazione, come trascendenza e intenzionalità, alla sfera affettiva ha negato la possibilità di una filosofia del sentimento in cui il potere di rivelare le strutture ultime del sentimento fosse detenuto dall’affettività. Henry ha confutato il modello della trascendenza intenzionale, mostrandone l’incompatibilità ontologica con l’affettività che è immanenza, aderenza totale a se stessa e assenza di ogni distanza fenomenologica.

L’affettività come auto affezione, in ragione della sua immanenza, è condizione di possibilità dell’intenzionalità e della sua trascendenza: nell’atto della trascendenza la coscienza immanente non si separa da sé, dissolvendosi nell’oggetto da cui nulla più la distinguerebbe e rendendone impossibile la manifestazione. «La coscienza immanente trattiene e riceve, rivelandolo, l’atto intenzionale stesso che essa compie, mantenendo l’opposizione reale tra sé ed i suoi termini noematici e rendendo così effettiva la loro manifestazione».34 Henry si oppone alla tradizione fenomenologica che concepisce l’affettività come intenzionale, ritenendo che essa non abbia la struttura della trascendenza o dell’intenzionalità e che proprio grazie alla sua struttura non intenzionale possa fondare l’intenzionalità.

Henry afferma che, essendo il comprendere strutturalmente affettivo per se stesso, sia affettivo il mondo stesso nella sua interezza e nel suo orizzonte: è il mondo in quanto tale ad essere affettivo, affettivo è l’ente in quanto ente che si manifesta grazie ad un atto la cui essenza è l’affettività. È a motivo dell’affettività, struttura dell’atto che dispiega il mondo, che è affettivo il mondo e il sorgere in esso dell’ente.

Tramite le affezioni l’esistenza è modificata dall’ente esterno alla sua soggettività, ma più precisamente non è l’ente che colpisce direttamente l’io, piuttosto l’oggetto, ovvero la condizione in cui il soggetto fa apparire l’ente davanti a sé. Henry stabilisce che l’atto mediante cui l’io costituisce l’oggetto è sentimento poiché l’affettività non è determinata da ciò che appare fuori di noi, ma è l’affettività che dà forma all’oggetto secondo la modalità affettiva del proprio orizzonte. L’oggetto costituito assume una determinata forma in base a come viene sentito dal soggetto, essendo riportato al quadro delle sue tonalità affettive dominanti. Tutte le tonalità dipendono dall’affettività-immanenza, primum ontologico, che non dipende da nulla. Tuttavia il sentimento, benché vanti un’indipendenza fenomenologica assoluta, è totalmente dipendente da sé, essendo segnato, come è stato precedentemente spiegato, dall’impotenza di recidere il proprio legame con se stesso.

In base a quanto detto è ontologicamente infondato il tentativo di individuare una causa esterna alla vita affettiva, in quanto essa è radicata nella dimensione della passività,

Una dimensione che però deve essere pe(n)sata, per poter essere compresa nel suo statuto proprio, al contempo e in maniera radicale come indissolubilità-singolarità di sé a sé, liberata quindi da ogni «intenzione» «apposta-imposta», o posteriormente espressa, a e sull’affettività di fondo che «sostiene» ogni vita individuale, e disciolta, anche, da una «volontà» o «io» posti aldilà di o ponenti e op-ponentisi a ciò che li affetta.35

Il sentimento, alienato da cause esterne, deve la sua autonomia all’immanenza all’affettività originaria della vita. Esso coincide con il proprio sorgere ed è lo zampillare, a partire da sé, di ciò che ha la proprietà di colpire e di determinare l’oggetto che lo colpisce.

9. La rivelazione delle tonalità affettive e la sterilità della riflessione del lògos del pensiero

Il sentimento non è un fenomeno, ma la fenomenalità stessa, la condizione di tutti i fenomeni in quanto esso è l’essenza originaria della manifestazione che compie l’opera della rivelazione attraverso se stessa. L’affettività è auto rivelazione, in essa la rivelazione ed il rivelato sono la «fiamma della presenza pura e dell’esistenza pura, la fiamma che non illumina nient’altro che se stessa e che non consuma niente, non lascia qualcosa di oscuro a partire dal quale essa potrebbe prodursi».36 L’affettività coincide con la rivelazione del suo essere ed è per questo che essa è l’essere, quindi il modo di rivelare del sentimento non combacia con quello della trascendenza o dell’intenzionalità, ma con quello dell’immanenza dell’affettività.

Henry accusa la fenomenologia classica di aver occultato la manifestazione originaria, ponendo, pregiudizialmente, il vero conoscitivo a fondamento di tutte le possibili tonalità emotive. In quest’ottica la conoscenza dell’affettività viene opposta all’affettività stessa: il potere che rivela il sentimento non è il sentimento, poiché la sua verità è posta fuori da esso. Il suo luogo di rivelazione è oggettivo dal momento che il sentimento è conoscibile nella sua verità solo se è collocato nello spazio trascendente in cui è costituita la sua oggettività.

Alla conoscenza oggettiva dell’affettività, per cui ciò che determina la verità del dolore è il suo rapporto con la mondanità esteriore, Henry muove un’obiezione: se il rapporto con l’esteriorità è valido per l’essere vero di ogni ente e non solo per le tonalità affettive, che cosa diversifica queste ultime da un ente qualunque, benché esse non si presentino mai alla stregua di un ente, stringendo rapporti estrinseci con il mondo?

È inevitabile non riconoscere che l’essenza del sentimento non risieda nelle sue relazioni con il mondo, dal momento che quest’ultimo non si manifesta nella mondanità. L’essenza del sentimento è vivente, avendo residenza nella struttura interna della vita, non al di fuori poiché «vedo, sento, provo sensazioni, muovo le mani e gli occhi, ho fame, ho freddo, in modo tale da essere questo vedere, questo ascoltare, questo provare sensazioni, questo movimento, questa fame, in modo tale da inabissarmi nella loro pura soggettività, al punto da non potermi più distinguere da essi».37

L’essenza delle tonalità affettive sta nel loro sentirsi, nel loro provarsi tramite la passività originale del soffrire: il fondamento del sentimento è la sua rivelazione di sé come sentimento, ovvero il suo essere dato a se stesso mediante l’atto di riceversi, mediante la sua passività. L’affettività si rivela nel regno dell’invisibile, mostrando la sua diversità ontologica rispetto a ciò che si dà nel campo della visibilità. Un sentimento sfugge all’occhio ma,

Quando niente è visto e quando il potere che ci fa vedere le cose viene meno, nella notte senza interruzioni che la luce, ritirandosi, lascia dietro di sé nell’Invisibile, il sentimento è lì tutto intero, che cresce invisibile in se stesso e si nutre della propria oscurità. L’oscurità dell’invisibile che apre la dimensione ontologica in cui il sentimento trova la sua esistenza originale.38

L’affettività dispiega il suo essere nell’invisibile, luogo che si trova totalmente fuori dal mondo, dunque essa non potrà mai essere scoperta. Da qui, per non cadere in un errore fenomenologico, non è possibile affermare che la modificazione di un sentimento avvenga per opera dello sguardo dell’attenzione. È necessario chiarire la natura ontologica del sentimento per non attribuire alla riflessione il potere di causare la scomparsa o l’alterazione di quest’ultimo dal momento che un sentimento non sparisce nel mondo «per la semplice ragione che non si è mai trovato».39

Henry ritiene che la riflessione, il lògos, benché cerchi inutilmente di includere nel proprio campo d’azione l’essere del sentimento che non ricade in esso, non ha potere su ciò che non occupa mai la posizione di oggetto. L’analisi teoretica più profonda non può penetrare la dimora invisibile del sentimento; dunque l’ipotesi che l’affettività possa essere scovata dalla sua zona d’ombra per trasferirla alla luce del visibile, mediante gli spostamenti correlativi dell’attenzione, non è fenomenologicamente plausibile.

Il sentimento è la sostanza affettiva di ogni atto di coscienza e l’oscurità in cui è immerso «non è un modo di illuminazione che può essere cambiato in altro e che, attraverso una variazione continua della intensità della luce, può essere portato alla chiarezza tipica dell’evidenza; non è un modo di illuminazione contingente rispetto a ciò che esso illumina, rispetto al sentimento, esterno al sentimento, trascendente rispetto ad esso».40

L’oscurità che caratterizza e determina fenomenologicamente il sentimento non ha niente a che vedere con l’orizzonte mondano dal momento che essa è estranea alla fenomenalità del mondo ed è identica all’invisibile in cui giace il principio dell’immanenza. Henry, partendo dal presupposto che il pensiero non possa illuminare il sentimento, inaugura una filosofia che colloca quest’ultimo fuori dall’area della visibilità, opponendosi alla tradizione fenomenologica classica, per cui l’azione dello sguardo provoca una modificazione del sentimento.

Se, da un punto di vista fenomenologico, gli oggetti possono esistere solo nell’esteriorità mondana, ossia di fronte al pensiero, il sentimento ha il suo proprio essere, nell’immanenza, nell’epochè dal mondo. Il linguaggio del pensiero è muto riguardo al sentimento, non essendo adeguato a quest’ultimo poiché non riesce a descriverlo per principio. Tuttavia l’invisibilità della sfera affettiva è irriducibile solo ad una determinata forma di linguaggio, quella del lògos del pensiero. Il sentimento, non essendo riducibile al pensiero, «non si lascia nominare e non può essere detto dal lègein che lascia la presenza distendersi davanti a sè»41 dal momento che il suo linguaggio è il lògos dell’essere affettivo, definito dall’affettività, ovvero

L’essenza originale del Lògos cosicchè questo rifiuta il linguaggio del mondo, il linguaggio del pensiero, e non può mostrarsi in esso. Ma il linguaggio è l’essere. Che l’essere risieda originalmente nell’affettività è ciò che impedisce di comprenderlo — come è accaduto da Parmenide sino ai giorni nostri — a partire dal pensiero e come identico al pensiero.42

A tal proposito Henry ritiene che sia un errore cercare di cogliere il contenuto invisibile del sentimento per trasformarlo, tramite un atto intenzionale del pensiero, in noema della coscienza poiché il sentimento si esprime in un linguaggio altro, non attendendo «neppure che il pensiero si rivolga verso di lui, non attende dal pensiero nessuna risposta, è indifferente all’attenzione del pensiero, in modo tale che quello che dice non può essere né sottolineato, né ratificato, né corretto, né illuminato, né definito, né contraddetto da esso, rifiuta ogni presa di posizione del pensiero».43

Per il pensiero il sentimento è un’incognita e ogni tentativo di interpretarlo è inadeguato per principio dal momento che la struttura ontologica del sentimento vive nell’invisibile.

  1. G. Molteni, Introduzione a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, p. 135.

  2. Ibid., p. 266.

  3. Ibid., p. 590.


  1. M. Henry, L’essenza della manifestazione, Filema, Napoli 2009. ↩︎

  2. G. Molteni, Introduzione a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, p. 117. ↩︎

  3. Ibid., p. 164. ↩︎

  4. Ibid., p. 168. ↩︎

  5. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, I, tr. it. di G. Alliney, Einaudi, Torino 1965, § 24 , pp. 50-51. ↩︎

  6. Ibid., p. 126. ↩︎

  7. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane e I discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Bompiani, Milano 1960, § 46, p. 153. ↩︎

  8. Ibid. , § 21, p. 97. ↩︎

  9. M. Henry, Fenomenologia materiale, tr. it. di E. De Liguore e M. L. Iacarelli, a cura di P. D’Oriano, Guerrini e Associati, Milano 2001, pp. 148-149. ↩︎

  10. M. Henry, L’essence de la manifestation, PUF, Paris 1990, p. 780. ↩︎

  11. G. Molteni, Introduzione a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, p. 133. ↩︎

  12. Ibid., pp. 264-265. ↩︎

  13. Ibid., p. 272. ↩︎

  14. Ibid., p. 273. ↩︎

  15. Ibid., p. 291. ↩︎

  16. G. Molteni, Introduzione a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, p. 192. ↩︎

  17. M. Henry, L’essenza della manifestazione, Filema, Napoli 2009, p. 294. ↩︎

  18. Ibid., p. 320. ↩︎

  19. M. Henry, L’essence de la manifestation, PUF, Paris 1990, p. 577. ↩︎

  20. Ibid., p. 581. ↩︎

  21. Ibid., p. 191. ↩︎

  22. Ibid., p. 593. ↩︎

  23. Idem. ↩︎

  24. Idem. ↩︎

  25. Ibid., p. 594. ↩︎

  26. Ibid., p. 596. ↩︎

  27. Idem. ↩︎

  28. M. Henry, Vedere l’invisibile. Saggio su Kandinskij, tr. it. di Roberto Cossu, a cura di P. D’oriano, Guerrini e Associati, Milano, 2000, p. 15. ↩︎

  29. Ibid., p. 16. ↩︎

  30. Ibid., p. 15. ↩︎

  31. Ibid., p. 598. ↩︎

  32. F. C. Papparo, Allucinare il mondo. Note sulla filosofia di Michel Henry, in Corpus filosofie e saperi, Paparo Edizioni, Napoli, 2013, p. 59. ↩︎

  33. Idem. ↩︎

  34. G. Molteni, Introduzione a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, p. 218. ↩︎

  35. F. C. Papparo, Allucinare il mondo. Note sulla filosofia di Michel Henry, in Corpus filosofie e saperi, Paparo Edizioni, Napoli, 2013, p. 62. ↩︎

  36. M. Henry, L’essence de la manifestation, PUF, Paris 1990, p. 667. ↩︎

  37. M. Henry, Vedere l’invisibile. Saggio su Kandinskij, tr. it. di Roberto Cossu, a cura di P. D’oriano, Guerrini e Associati, Milano, 2000, p.13-14. ↩︎

  38. M. Henry, L’essence de la manifestation, PUF, Paris 1990, p. 680. ↩︎

  39. Ibid., p. 681. ↩︎

  40. Ibid., p. 683. ↩︎

  41. Ibid., p. 689. ↩︎

  42. Idem. ↩︎

  43. Idem. ↩︎