1. Calligramma di un geroglifico
Il testo letterario, soprattutto nella scrittura femminile,1 presenta già nel suo momento produttivo -prima che nella fruizione del lettore- un intimo legame con un particolare tipo di piacere, generativo e non conformativo dell’esistente, modulato tra epithymía («desiderio») e medén («nulla»). L’idea platonica del non-essere come alterità dell’essere [Sof. , 242 d], nella pratica femminile tra poiesis e aisthesis, si traduce infatti come desiderio dell’assenza quale affrancamento ornamentale dalla nozione di alterità intesa come nulla, o negazione, dell’essere determinato. L’individualità è riconosciuta nella novità della diversità mentre l’ornamento, inteso simbolicamente, ne diviene figura artistica come perenne metamorfosi del ‘testo’ entro il non-riconoscimento dell’immaginario collettivo. L’assenza del femminile dalla storia ha infatti capovolto la differenza in una delle declinazioni della ‘distinzione’ estetica: l’impossibilità di una piena fruizione entro la ricettività dell’immaginario collettivo esalterebbe la fruizione quale esperienza generativa di un nuovo ordine, o kosmos, entro il criterio del ‘difforme’. Ripensando a Jauss2 dovremmo capovolgere l’aisthesis nella poeisis, ovvero intendere quel «rivitalizzare la percezione delle cose resa neutra dall’abitudine»,3 propria dell’esperienza estetica, in un ‘sapere poetico’ che desidera l’assenza quale non conformazione a un mondo dato, alla donna, come mancanza. La «riottosa estraneità» del mondo, contro cui si articola la produzione artistica per Hegel,4 nell’estetica femminile si risolve infatti nella difformità dell’assenza quale ornamentale e discontinua compresenza di struttura e dettaglio.
La scrittura performativa femminile unifica (symballein: «mettere insieme») il superamento della polarità astrazione/sensibilità nel riconoscimento dell’arte simbolica antica, come fu già in Schelling [Filosofia da arte § 39], con l’odierno squilibrio contenuto/forma accanto, ma senza identificarvisi, alla decostruzione derridiana5 nel superamento della nostalgia del logos. Tra «presenza» e «voce», infatti, il gioco linguistico ornamentale riabilita la presenza entro l’intermittenza della voce, intesa come «corpo donato alla parola»,6 tra dislocazione e accrescimento della soggettività duale. Qui l’effimero diviene la circolazione fluida, acquatica in Klimt, del visibile nell’invisibile e dell’identità nella differenza: il flusso decorativo di andata e ritorno ritma la poiesis del ‘mettere al mondo il mondo’. Il mondo è infatti ‘messo in scena’ per la gestualità o postura del corpo: è dato nella mano intinta nel colore nelle grotte di Périgord, nell’arte parietale paleolitica, e fluidificata nell’inchiostro della scrittura a partire dal IV-III millennio a. C. Il colore, forgiatura del difforme, è già nelle prime figure piene -tra stile figurativo sintetico, analitico e classico- spruzzato con la bocca sulle pareti rocciose e a queste fissato con un materiale organico fluido quale il latte o il siero del sangue. La mano e la bocca, la presa-presenza dell’atto nella perdita-fuga della voce, tra introiezione ed espressione veicolano e istituiscono il rituale simbolico dell’essere-tra assenza e presenza. Il primo utensile decorato, prolungamento della mano nell’atto del dire-forgiare il mondo, esprime il significato originario dell’ornamentale quale individuazione nella complementarietà del maschile e del femminile come nella Dama dal corno (Dordogna, 20. 000 a. C.). Qui la donna ha una mano poggiata sul ventre, curva verso il basso, e l’altro flessa verso l’alto a sorreggere un corno di bisonte: tra alto/basso si incrocia, e oltrepassa, l’individuazione dei generi nella struttura simbolica della raffigurazione del maschile in equidi e del femminile in bovidi. La stilizzazione arcaica delle figure umane, a differenza del ritratto anatomico degli animali, evoca e non definisce il mistero, o meglio i misteri, dell’essere duale entro l’astrazione dei simboli sessuali onnipresenti come linee verticali e ricurve a torto interpretati, per molto tempo, come armi da caccia. Qui non vi è caccia, conflittualità, ma complessa complementarietà del rapporto di genere che, ora fluttuante su uno sfondo-mondo vuoto (in gestazione nell’ampio ventre del Femminino) ora adattato -non deformato- a un supporto (come nell’arte mobiliare), transita tra l’esserci al mondo e l’inaugurarlo a partire dalla sua decorazione dinamica. Tra i primi ritratti femminili del Paleolitico superiore vi è la Dama di Brassempouy (Landes, 23. 000 a. C.), una testa scolpita in avorio che ‘individua’ una donna oltre la stereotipia delle veneri coeve per l’espressione degli occhi, per la linea ben definita del naso e per l’ornamentale acconciatura del capo (forse una reticella per fermare i lunghi capelli). Il particolare è il decorativo che non altera ma individua la struttura tra ripetizione e differenza; il ‘trucco’ compare come rituale o cosmetica del cosmo cui è dovuto rispetto e decoro, custodito in vaschette riccamente decorate e forgiate proprio come negli arredi sacri. Ma tale ritmicità -è il ritmo l’essenza dell’ornamento- è stato spesso frainteso riducendo il flusso dinamico, tra femminile e maschile e tra mondo dato/mondo concepito (nella gestazione simbolica e sessuale), come un sovrappiù della struttura. Un fraintendimento nel concepimento della bellezza che è pure distorsione cosmogonica perché è dall’incanto dell’essere-tra, entro l’ordine bello del mondo, che per noi si è generato il mondo.7
È l’ornatum che adorna il kosmos spogliandolo del frivolo per ricondurlo all’essenziale e al necessario: tra decus e -inaspettatamente- grazia, ciò che è ‘opportuno’ -decet- è l’elemento sensibile quale compresenza di essenziale e accidentale. La grazia, che per Winckelmann inerisce alla «particolare relazione tra persona agente e azione»,8 rientra nella scrittura ornamentale femminile come posizione e gesto, ornamento e veste di una donna che, mutuandone ma cambiandone qui l’identità di genere, «ispira rispetto e ne può esigere, e che si presenta al cospetto di uomini saggi».9 Il riferimento non appaia forzato: mentre il ‘drappeggio pesante’ -contrapposto alla grazia- è metafora di un immaginario collettivo in cui la donna patisce se stessa come ‘peso’ di una mancanza, la leggerezza dell’assenza -seppure anch’essa patita- si traduce in attenzione e fruizione secondo semplicità, ovvero nel silenzio e nell’assenza proprie dell’essenzialità. L’ornamento è una pratica efficace per agire simbolicamente entro la struttura, per ri-creare il cosmo entro il suo continuo farsi per disfarsi nella discontinuità performativa della produzione artistica. L’ornamento del cosmo è, in tal senso, condizione della sua possibilità d’essere.
L’ornatum, che include ma non si esaurisce nel decorum, rinvia al kosmos quale sottrazione e inaugurazione di ‘ordine’ e ‘bellezza’ dal chaos. In esso ritroviamo la semplicità degli elementi contro l’accezione di abbellimento come sovrappiù della bellezza di quanto, seppure fondamentale come la ‘struttura’, ne risulterebbe così assurdamente priva (la bellezza non necessita di abbellimento). A livello simbolico nell’ornatum vi è la grotta-terra, l’acqua-nascita materna, l’aria (che è ‘ritmo’ quale primo respiro e prima-scissione dal simbiotico materno) e infine il fuoco-legno femminino che infiamma le tempie nella passione della e per la scrittura. Di fronte, e accanto, alla nascita acquatica anche il fuoco nell’accezione eraclitea-maschile (sole/luna) non ha potere assoluto poiché la ‘creatività’ ne sovrasta la forza distruttiva e purificatrice: così l’acqua spegne il fuoco col suo movimento verso il basso quale cifra di nascita entro il grembo-grotta. La prima ferita dell’aria-respiro, ritradotta in una dolorosa maternità quale dicotomia cielo/terra, torna all’origine in un movimento ascendente/discendente che trae forza dal fuoco e dalla terra: è il profumo di questa, delle sue resine arboree che salgono al cielo e da qui si riannodano alle radici sotterranee. La prima ferita è nel primo desiderio di esserci come essere individuato e la sua simbolica rappresentazione è nella linea curva in movimento, nel moto ondulatorio che unisce e non confonde la struttura con il dettaglio. La difformità dell’assenza è infatti sostenuta da un ritmo che articola il presente nel tempo del suo farsi e che rinvia a una materia, primordiale e ‘sonora’ (su cui ci soffermeremo nel secondo paragrafo), non contrapposta alla forma. Nello studio di Buci-Glucksmann, Filosofia dell’ornamento,10 tale ritmo è dato dal moto serpentino tra disparità (maschile) e dissonanza (femminile), dalla non subordinazione del decorativo all’arte ‘nobile’, dal reciproco mutarsi della grazia in forza e del lineare in curvilineo.
Ornamento e svelamento, decorazione e vuoto, less is more, more is less. L’ornamento porta con sé un paradosso originario che viene dalla musica […] come nel caso dei temi e delle variazioni, l’abbellimento investe tutto l’insieme -come in Bach-, e quindi è meglio parlare di variazione ornamentale, visto che l’ornamento non può essere isolato del tutto dal ritmo cui contribuisce […] La grazia diventa forza, ciò che è statico si traduce in movimento, le superfici piane in prospettiva, l’apparente rappresentazione (il floreale) in non figurativo e astratto. In questo modo, l’ornamento si rivela come un laboratorio d’invenzione delle forme dove gli schemi, i pattern e le costruzioni astratte condizionano la creazione, poiché, attraverso gli artefatti, la regolarità e la continuità dell’all-over, la linea diventa forza […] «astrazione diagrammatica».11
Il ribaltamento dell’identità nulla-alterità, in senso platonico, nel mutuo riconoscimento dei generi entro l’alterità, ove la partecipazione dell’essere è duale e perciò costitutiva dell’essere altro per l’altro da sé -e non del «non-essere dell’essere di ciascuno» [Sof. , 256 d] — rinvia a un’assenza e a una nostalgia. Tale assenza, che non è mancanza, è infatti congiunta a una nostalgia, che non è rimpianto, flettendo l’opera nell’ornamentale quale linea curva, o con Deleuze12 asimmetrica tessitura di una piega, ove il supplemento decorativo è già ‘opera’. Da qui la sua fruizione è piacere secondo ‘grazia’: in essa si mostra «la dignità dell’opera nel suo contegno spirituale»13 seppure, contro lo stesso Winckelman e contro il dualismo platonico, nella discontinuità della linea ornamentale. Non è infatti nella memoria del valore perduto la dignità della bellezza, piuttosto nella forza propulsiva del desiderio che dalla prima tesi di Jauss quale «predisposizione al godimento»,14 contro l’opposizione greca lavoro/godimento (otium) ,15 restituisce -terza tesi- all’aisthesis «la funzione critica e creativa della percezione estetica».16 E qui, ulteriore metamorfosi, la ‘melanconia del brutto’ e la negazione dell’alterità si tramutano, con e oltre l’esotismo di Segalen,17 in «estetica del diverso» e riconoscimento del femminile. La produzione artistica, quale desiderio di trarre da sé la «forma»,18 è infatti con-forme alla semplicità dell’ordine,19 propulsiva e generativa entro la sospensione delle forme artistiche convenzionali. La funzione comunicativa dell’arte diviene allora, a partire dal desiderio dell’assenza quale ribaltamento del platonico rimpianto per la mancanza, apertura all’altro e fondazione di una soggettività duale. Inaspettatamente Jauss nella sua quarta tesi, ricordando la funzione dell’arte nella liberazione -per l’immaginario- del fruitore dalla mera datità del mondo, pur criticando l’estetica materialista del gruppo Tel Quel nel quale opera Julia Kristeva, incrocia l’esperienza estetica femminile nella critica
al circolo vizioso che dall’esperienza dell’opera torna all’esperienza del sé, senza aprirsi all’esperienza dell’altro che da sempre si realizza nella prassi estetica attraverso le occasioni d’identificazione primaria quali l’ammirazione, lo choc, la commozione, il riso, e che soltanto una malintesa superiorità estetica può prendere per volgari.20
Inaspettatamente, perché la sua indagine estetica è ben diversa da quella femminile per la quale la donna -artista, fruitrice e pubblico- è l’autrice che legge,21 fedele a un sentire che eccede i codici di una tradizione letteraria da cui è esclusa perché mancante. Nella pittura, ad esempio, le donne ritratte nell’atto della lettura sono quasi sempre anonime, come nello studio Tabula rasa di Buttarelli,22 e dunque distanti dallo sguardo del fruitore dell’opera: lei è oltre la tela, separata da noi, assorta in un raccoglimento che segna la distanza nell’assenza del suo stesso nome. La discontinuità come assenza del nome è già -ed è in questo il riscatto- mancanza di identificazione: la distanza non può qui non capovolgere la classica articolazione dell’esperienza estetica sostituendo l’immedesimazione col desiderio, senza rimpianto, di un’assenza che procede e torna oltre ed entro le pagine della storia.
Di fronte ai testi della tradizione maschile si dispone un’autorità che ha radici e alimento altrove […] Il suo sguardo che scorre le righe, le sue mani che reggono i fogli sono di una donna con un mondo intorno scritto per la gran parte degli uomini, ma nel quale, e oltre il quale, non perde la sua libera differenza. C’è un nome per dire questo, un nome che è un’eredità lasciata da Carla Lonzi: tabula rasa.^[23]
L’identificazione primaria, cui si riferisce Jauss, è qui intesa come sentimento dell’assenza ove la fruizione converte in altro senso, entro un ulteriore dislocamento ottico, l’inabissamento e il superamento del kantiano «sentimento di dispiacere»23 entro una nuova tipologia del ‘difforme’.
Ma quale rapporto tra ornamento e assenza? e tra desiderio e mancanza, nostalgia e rimpianto?
I capovolgimenti sopra accennati, sempre fluttuanti e dinamici nell’esperienza estetica, richiedono ora una riflessione pacata e felicemente non esaustiva.
2. Ornamento e assenza, tra assenza e desiderio
L’assenza e il desiderio -al contrario del rimpianto che esclude la trascendenza del desiderio quale riconoscimento dell’assenza- si ricompongono nella fedeltà alla soggettività duale. L’assenza è infatti la negazione di ogni contrapposizione dualistica e lo smascheramento dell’illusorietà del moto ascendente -linearità verticale- dall’informe alla forma.
Già nella locuzione ebraica tohu wa-vohu («disordine») il caos è un’assenza e non una mancanza (nel senso di qualcosa posseduta e poi persa, per la quale si nutre rimpianto) la cui forza, propulsiva e generativa, è sonora ed evocativa. Nel corso della storia è stato il lavoro esegetico a scindere questa materia primordiale e sonora ferendone l’indistinta unità delle due parole; un lavoro che appunto, tra giudaismo ed ellenismo, ha modificato il suo contenuto narrativo da assenza in mancanza. La descrizione biblica («La terra era desolata e informe, sprovvista di persone e di bestie, vuota di coltivazioni e di alberi»)24 con Filone si è intrecciata alla teogonia esiodea e alla duplice interpretazione di Aristotele (il chaos quale luogo preesistente ai corpi e predisposto a riceverli) e degli stoici (l’informe come acqua o materia primordiale). Nel XII secolo, con La meditazione dell’anima dolente di Avraham bar Hiyya,25 il simbolismo originario di tohu e bohu -prima connesso all’aridità e sterilità della terra- ha infine incluso la polarità greca forma/informe entro la cosmogonia ebraica. Tale conflitto, e la sua costellazione di implicazioni etiche, si è così articolato entro la successione temporale tohu e bohu ovvero entro una continuità temporale che, opponendo l’ordine al disordine, non appartiene all’assenza ma alla mancanza.26 L’assenza è infatti discontinuità, manifestazione screziata tra esserci in modo manifesto ed esserci senza necessità di manifestarsi: si annuncia come altro dalla mancanza e da un informe che attenderebbe l’ordine quale suo superamento ed elevazione della materia. Su questa assenza, la cui forma simbolica è la flessione della linearità verticale nell’ornamentale, è ora necessario soffermarci soprattutto in riferimento a un’estetica generativa che riconosca il femminile.
Nell’introduzione al testo Approfittare dell’assenza,27 il settimo della serie dei libri di Diotima, Luisa Muraro si sofferma sul conflitto ‘dipendenza/indipendenza’ e ‘appartenenza/estraneità’ vissuto dalla donna nei confronti di un retaggio culturale che, appartenendole e/ma escludendola, la lacera «tra la riconoscenza, da una parte, e la voglia di tradimento, dall’altro».28 Dallo studio, «per chi ha fatto della scuola una strada di libertà femminile», e «dal fastidio per quel trovarci combattute tra ‘starci’ e ‘non starci’»,29 il nodo si scioglie lungo la via propulsiva e generativa di un sé duale. Una via che trae origine dalla ‘fedeltà’ alla madri e che passa, ritorna e procede per il desiderio attraversato da una discontinuità che non è un venir meno, piuttosto «la manifestazione di un esserci che non ha bisogno di durare».30 L’osservazione della Muraro fa eco a quella di Carla Lonzi31 -per la quale la differenza femminile è nell’assenza dalla storia- reinterpretando tale assenza come l’occasione per «vivere l’asimmetria dei sessi non come un’ingiustizia da correggere ma come un principio di relatività»,32 ovvero costitutiva della soggettività in relazione. L’esperienza del silenzio, quale ascolto di sé, diviene la pratica performativa che interrompe la scrittura per lasciar posto alla discontinuità, per «mettere al mondo un nuovo modo di pensare» per Annarosa Buttarelli33 che, a sua volta, rilegge e traduce María Zambrano: «Giunge il tempo di qualcosa di più intimo agli esseri umani, la dis-continuità, forse una reiterata rottura… ».34
Contro la «reiterata rottura» il sempre-presente procede dall’uso-abuso dell’artificio ornamentale per la forza seduttrice della bellezza interpretando, in modo distorto, l’individuazione e la complementarietà dei generi come conflittualità e sopraffazione. La forza è divenuta sgraziata cedendo il passo al potere. La sua storia è antica quanto la necessità dell’artificio nella bellezza e quanto la necessità di un’educazione estetica; il suo racconto è scritto nei sepolcri e nella cintura di Afrodite.
A partire dal V millennio a. C. nel vicino Oriente, e dal successivo millennio in Europa, l’introduzione dei metalli (rame, bronzo e ferro) a scopo ornamentale fonda -non semplicemente riflette- la conflittualità sociale procedente dalla specializzazione del lavoro. Il decorativo, infatti, genera anche il conflitto, proprio come il potere della bellezza genera la guerra; ricordarlo è dovuto. La distinzione dei generi maschile e femminile si articola entro una polarità ribaltata del dentro/fuori: dentro, entro il riconoscimento sociale del guerriero (ad esempio la maschera rinvenuta nella necropoli di Varna) è l’uomo che accumula bestiame e metalli nello spazio ‘aperto’ della socialità; fuori è la donna che lavora ‘entro’ le abitazioni dedicandosi alla filatura e tessitura. La differente posizione sociale, di genere e intra-genere nella comunità guerriera maschile, è ipostatizzato per sempre nella posizione dei corpi inumati. Nelle necropoli di Varna il gesto del corpo è il suo significato ideologico-politico, la sua identificazione sociale: distesa e corredata d’oro è la salma-soma della persona-personaggio socialmente rilevante; in posizione flessa, con un arredo ordinario, è quella dell’uomo ritenuto ‘ordinario’. Ora disteso, ora ricurvo ora addirittura assente -come nelle tombe simboliche sontuosamente ornate- la gestualità o posizione della figura umana è il suo ruolo istituzionale: dalla mano alla bocca, nel Paleolitico, la corporeità si è ammantata di un potere socialmente generativo di conflitti. Il dictat è divenuta la traduzione del dito intinto nel colore sulla parete rocciosa; la funzione propagandistica -come nelle stele sumere del periodo Protodinastico- ha fagocitato l’incanto del suono vocalico da cui scaturì il colore, primo ornamento del mondo. A partire dalla dialettica dentro/fuori e disteso/curvo si articola l’assenza ornamentale del femminile: da curva e contratta, come un corpo inumato, a ricurva nell’inganno della mancanza, come in Hera che seduce lo sposo-fratello per l’artificio del nastro di Afrodite.35 Lei che non crede in se stessa, lei che crede di essere manchevole è e fu invece Eurinome, la «dea di tutte le cose» nel mito pelasgico della creazione [Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 496-505] prima dell’evirazione di Uranio, prima del potere di Zeus cui ora ambisce, da sconfitta, ricorrendo al potere seduttivo di un ornamento che non le appartiene.
Contro tale mancanza, che è più del patimento dell’assenza, il decorativo femminile ri-curva la linea, già ondulata, nel fuori di un’eccessiva ridondanza manieristica: se il seno di una dea non è seducente abbastanza, la bellezza è manchevole e chiede abbellimento al nastro ricamato, all’ornamentale finemente ornato. Eppure la bellezza e il decoro sono artificio e cultura; il nastro -da cui il riscatto di Eurinome-Hera- appartiene a un’altra donna che è lei eppure non è lei entro la discontinuità del femminile fondata dal mito e presente nella storia. Afrodite invade di desiderio perché invasa lei stessa dal desiderio, da quel nastro che non è il suo corpo ma che lo cinge e recinge tra il dentro/sedotto e il fuori/dell’ulteriorità seducente. Nel moto ondivago tra corpo acquatico -la dea che nasce dalle acque o che, in Eurinome, danzava sulle acque- e desiderio stellare (de-sidera: proveniente dalle stelle, da altrove) ornare è il simbolo della restaurazione culturale -artificiale- del mondo nella discontinuità generativa e artistica. In tal senso l’ornamento, nel gesto della pittura-scrittura come nel portamento del corpo nudo/vestito, declina il particolare nel tutto per il moto discendente e ascendente del desiderio (stellare e terrestre), per il suo flusso che da altrove trasmuta l’organico in inorganico come nella scultura babilonese della Dea dalle acque zampillanti (prima metà del XVIII sec. a. C.). Il Femminino qui rappresentato, nella forma simbolica raddoppiata di una donna che tiene tra le mani un vaso -archetipo del femminile per Jung e Neumann36-, è infatti ornato con una sontuosa collana a sei giri: è questo già il nastro-artificio di Afrodite che se-duce da altrove e che, pure, è contenuto (indossato) in colei che ‘contiene’ (nella forma femminile del utero-vaso)? Certo è che a essere contenuto, nel moto fluttuante e fluido dell’ornamento -flusso di acqua zampillante di prosperità e fertilità- è soltanto il ritmo, l’intervallo tra distanza e differenza, dissonanza che individua e trasmuta nell’incanto mai irretito nella definizione dei genere o/e scissa nella loro sterile polarità.
La fatica della scrittura, quando vuole esprimere le dissonanze della vita, testimonia come non sia la continuità la ‘parte migliore’ da difendere e da ostentare: contro Odìsseo -l’irato- Calypso non ha bisogno, per esserci, di possedere né di essere posseduta nel tempo della continua reiterazione. Per questo motivo sa intonare una filosofia della nostalgia senza possesso, ovvero di un desiderio senza quel rimpianto di onnipresenza che è l’ira del possesso. Lei, che alla corte dei Feaci è la prima a cadere nell’oblio, il primo rimosso nel racconto di Odìsseo, poiché è perduta è anche libera da chi -l’eroe- è da sempre sulla via del ritorno, sciolta dal sempre-presente della continuità. Per questo lei non dimenticherà l’amore donato: ricorderà senza rimpianto piangendo, nel ricordo, l’assenza di un incontro e non la mancanza di sé nel duplice -rispetto a sé e all’altro- oblio dell’altro. Lei è figura di una filosofia del desiderio custodito -Calypso: colei che nascosta nasconde- nel raccoglimento del cuore e nel dispiegamento dell’atto amoroso con cui indica la via, oltre da sé per l’oltre da sé, all’uomo amato e perciò mai posseduto. Custodire e nascondere, nell’ostentazione decorativa, è fluidificare la forma senza sovrapporsi alla struttura.
Nella scrittura performativa femminile, così la incontriamo nella letteratura, la discontinuità procede dall’assenza articolando l’informe nel ‘difforme’. Per difforme intendo lo sforzo di esserci entro le ferite dell’esistenza tra assurdo e grazia, angoscia ed estasi, morte e vita: la pratica della scrittura non istituisce qui un contro-canone estetico, piuttosto si iscrive in una esigenza interiore di fluida armonia che è tutt’altro dalla fissità del canone ‘forma’. Il creativo-generativo sacrificato alla mimesis, proprio del mondo greco, è risospinto nelle sue articolazioni più oscure e profonde ove l’imitare, come riconoscere in sé il divenire, fa dell’artista un ‘necessario’ demiurgo. La polisemia del termine «creatività», o della sua Idea con Tatarkiewicz,37 articola il passaggio dal più antico generare cosmogonico a quello moderno del «fare cose nuove».38 Ma quanto dell’impostazione greca risente l’estetica generativa femminile, oggi che la nozione di creatività si estende a ogni campo della cultura e della produzione umana? La scrittura performativa femminile non torna al chaos per contrapporvi il kosmos, piuttosto fluidifica nell’ornamentale il continuo passaggio, dalla forma al difforme, a partire dall’assenza quale ribaltamento della mancanza. Nel desiderio senza rimpianto si dischiude la distanza, da cui la fruizione estetica, che procede e ritorna all’incanto del rimosso tra-noi per custodirlo, ed espanderlo, in una sempre nuova forma plurale. La difformità tra libertà e necessità, creatività e conformazione sono infatti in lei/lui come supplizio ed estasi, oltre lo sguardo oggettivante ed entro un sentirsi difforme rispetto a un mondo la cui armonia è generata dalla dissonanza. Tale è il sentirsi nel mondo; al di là di questo non c’è né mondo né soggetto perché nulla è se non entro la relazione non omologante: l’assenza rinvia alla presenza come il logos afono della paura alla grana materica del suono che l’accoglie, tra forma e difforme, nelle sue ritmiche modulazioni e metamorfosi.
Con questo non dobbiamo pensare frettolosamente a una ‘disarmonia’, piuttosto alla sapienza del saper sostare entro la sofferenza, nella frattura interna all’esserci, nella ferita ove restare -in distensione e lentezza- entro una ‘resa’ che trova riscatto nell’inaugurazione linguistica del mondo. Ovvero nell’inaugurazione di una nuova soggettività-in-relazione che assuma il difforme accanto alla paura, e non senza questa, della possibile disgregazione dell’esserci nel mondo. Il difforme è innanzitutto la scelta di non fuggire dal disordine entro un atto sacrificale, proprio di molte donne, atto a ristabilire velocemente l’ordine perduto. Ma il chaos, assunto nel proprio corpo, è rifuggito per Chiara Zamboni soprattutto da «quel tipo di pensiero (maschile) che evita di sostare presso la crepa39» non accogliendo il vivente entro la vita. Tale rifiuto e rimozione ci sospingono in un oltre-tempo che, negazione della discontinuità dell’assenza che alimenta il desiderio, si congiunge alla morte quale unico anelito dell’eroe. Così, per Adriana Cavarero, le parole degli eroi risuonano mute in quel rimpianto per la mancanza che è proprio del logos.
Come Achille, continuano infatti a stupirci, se non a infastidirci, per il loro innamoramento della morte. Tale enfasi -a dire il vero, assai virile- su un desiderio che mescola assieme la sfida della morte e una fama che le sopravviva, suona palesemente come un irresistibile omaggio alla tradizione patriarcale. […] L’eroe è davvero eccessivo in tutte le sue imprese. Portato a esaltarsi nell’azione, egli è capace di esaltarsi anche nell’auto-narrazione.40
Entro un ‘nuovo’ già esistente ma ancora muto, e in ciò ancora non-presente, come può essere ‘flessibile’, ovvero flettersi e curvarsi in modo ornamentale, la scrittura femminile?
La sua fluidità41 somiglia molto alle acque di Ade, apparentemente di morte, ove Euridice si inabissa per incontrare i fantasmi dell’immaginazione produttiva.42 La generazione del nuovo, quale esperienza di sé come soggetto agente e comprensione del mondo, prevede la forma e la sua dissoluzione fantasmatica. L’auto-narrazione dell’eroe e la celebrazione della morte sviliscono -per schiudersi e vitalizzarsi dal cerchio al dinamismo della spirale- su un oltre che tiene conto del prima quale simbolica assenza ove fondare la soggettività duale. L’assenza è infatti uno spazio in movimento; il suo ritmo è il tempo interrotto della presenza; la sua figura simbolica è la linea curva -volta verso l’alto/basso del cosmo e della sua genesi- del geroglifico e dell’ornamentale. È qui che dalla creatività con regole, ovvero dall’incontro di fantasia e forma, tale dissoluzione quale discesa nell’Ade per entrare nella «Scuola dei Morti» diviene, con Hélène Cixous,43 la fantasia della creatività quale inabissamento e oltrepassamento per la genesi Io-mondo. Una scuola che, come per Euridice, è una «scienza di addii» e di «ritrovamenti» (l’amato Orfeo è il fantasma e chi davvero risale alla luce è colei che pareva morta, come nel mito di Demetra-Persefone). Una scuola ove si insegna, come Epimenide col suo lungo sonno entro la cavità delle grotte cretesi, che innanzitutto è necessario morire una volta, una volta almeno, per inaugurare il nuovo quale ‘cominciamento’ di chi è come suo malgrado. Una scuola per l’oltre della morte, per il risveglio al mistero che è luce e rifrazione policroma di bellezza della nascita come perenne rinascita .
Per cominciare (a scrivere, a vivere), ci vuole la morte. Amo i morti, sono i guardiani della porta che, chiudendo su un lato, dà sull’altro.
Ci vuole la morte, ma giovane, presente, feroce, fresca, la morte del giorno, la morte d’oggi. Che arriva al nostro fianco così d’improvviso da non lasciarci il tempo d’evitarla, voglio dire d’evitare di sentirci toccare dal suo respiro.
Poiché, in seguito, la maggior parte di noi passa la vita a non vedere il quadro che rappresenta la morte di Alessandro, lì appeso in classe:
«La morte è dinanzi a noi pressappoco come, in un’aula scolastica, il quadro di una battaglia di Alessandro Magno. L’importante è di oscurare o cancellare quel quadro, ancora in questa vita, mediante le nostre azioni (Kafka, 2000, 802-803) ».
È vero che né la morte né i guardiani bastano ad aprire la porta; ci vuole anche il coraggio d’avvicinarsi, il desiderio d’andare alla porta.
Scrivere è questo sforzo per non obliterare il quadro, per non dimenticare. . .44
Una citazione nella citazione non per smarrirci in un perturbante «doppio»45 entro la scuola della scrittura, piuttosto per ritrovare l’altro -che per la Cixous qui è Kafka- quale compagno di banco, di cammino e di ascolto di quei «primi morti che sono i nostri primi maestri». Per ritrovare con l’altro il coraggio di sopportare che la porta si schiuda su altrove, comunicazione al limite del dicibile che genera la nascita nel ‘dove’ della scrittura. «La morte del morto ci dona l’essenziale esperienza primitiva, l’accesso all’altro mondo, non senza avviso o fracasso, ma anche senza la perdita del luogo di nascita».46
Lo slittamento dall’assenza alla mancanza indica qui una nuova metamorfosi. La trama della scrittura, infatti, risospinge l’assenza verso il desiderio di esserci come mancanza di ogni identificazione col mondo dato. Il desiderio ha cioè compiuto un ritorno al chaos nella metamorfosi del rimpianto in nostalgia e della mancanza in epithymía (Aristotele, De an. , II, 3, 414 b 6), fruizione e appetizione sensibile di un ‘luogo’ piacevole in cui esserci senza necessità di ‘costruirlo’. La linea curva del desiderio ha decostruito un testo mancante assumendolo in un’ermeneutica del desiderio capovolto, stravolto e dunque assente seppure, in tale distanza, ancora fruibile. L’ornamento è divenuto spogliazione ed essenzialità tra l’utopia di un ‘dove’ propulsivo di un nuovo ordine, o kosmos, e il desiderio nostalgico dell’origine quale terra natia. Spogliarsi/essere già nudi, movimento e stasi, andata e ritorno sono opposti ornamentali non antinomici che se-ducono, e flettono, la linearità verticale nel fiore sinuoso e l’organico -la mano, la bocca e la postura del corpo- nella sua astrazione geometrica.
3. Dall’assenza alla mancanza per nuovamente l’assenza
Il passaggio è qui operato dal piacere.
Abbiamo ricordato come nell’esperienza estetica la fruizione ci affranchi dalla costrizione di un mondo già dato soltanto se, a differenza del mero piacere dei sensi, è data una ‘distanza’ ovvero la distanza estetica. D’altro canto per le donne la scrittura, la pratica della scrittura, significa sostare nella distanza entro l’atto di inaugurazione linguistica del mondo: questo il nodo che unisce e disloca la discontinuità femminile alla e oltre la tradizione data. Affrancamento e inaugurazione sono infatti i due aspetti peculiari, dolorosi e piacevoli, della ‘generazione’: dalla distanza -primordiale e sonora- l’individuazione e nella distanza l’identità. Entro l’esperienza estetica femminile, fortemente generativa, il ‘dopo’ della fruizione è già nel ‘prima’ della produzione poietica come assenza o silenzio della parola. L’immaginazione vi succede come desiderio di trasformazione ornamentale, mutuante e discontinua, dell’assenza in mancanza quale riappropriazione dell’altro da sé per ri-partire da sé. In nessun modo può esservi solipsismo nella creazione artistica entro la quale, e per la quale, il soggetto femminile è affrancato da qualcosa pur senza immedesimarsi -contro l’idea aristotelica di katharsis- con l’eroe tragico della tradizione data. I vari modelli di interazione tra opera e fruitore, indicati da Jauss,47 non trovano qui un legittimo riscontro nell’esperienza estetica femminile. L’eroe, infatti, è ora la mancanza di un’assenza: da lui non può procedere alcuna commozione né indicazione morale, nessuno stupore e nessun solipsismo. Dobbiamo allora risospingere l’apologia dell’esperienza estetica di Jauss nel ‘prima’ della fruizione, ovvero nel desiderio di esserci ove il bisogno di individuazione procede da un’assenza che è un di più della distanza estetica.
Potremo ancora intenderla come ‘godimento’? certamente sì, perché sarà un lavoro congiunto al conoscere e all’agire nella predisposizione estetica fondamentale che, appunto, prende nome di Geniessen. E soprattutto, poiché è l’atto di ‘mettere al mondo il mondo’ sarà radicalmente ‘socialmente costituente’, nel senso kantiano dell’intrinseco rapporto tra giudizio estetico e consenso. Con e oltre Jauss dobbiamo cioè riconoscere un’estetica performativa femminile che non si identifica pienamente con l’estetica della negatività, che non separa la riflessione dal piacere e che pure rielabora in altro modo, ovvero nel desiderio dell’assenza quale fruizione della mancanza, la funzione comunicativa dell’arte. Riportiamo la sua ultima tesi e, da questa, volgiamoci alla sua dissonanza femminile che non segna, importante sottolinearlo, alcuna scissione dualistica.
All’esperienza estetica vengono tolte le funzioni sociali primarie proprio quando viene costretta in un quadro categoriale fatto di «emancipazione e affermazione», «innovazione e riproduzione», e la forza di contraddizione dell’opera d’arte non viene fatta transitare nell’identificazione in quanto concetto opposto alla stessa e derivante da un’estetica della ricezione.48
Identificazione e ricezione, scrive Jauss, e noi qui ci fermiamo, sostando, a riflettere. Poiché è proprio qui che si snoda l’intreccio ornamentale della scrittura femminile spostando più in là, retrocedendo o fluttuando in continue metamorfosi, quell’unità di struttura e dettaglio, lineare e curvilineo che per Focillon si realizza «sotto i nostri occhi, non per stadi separati, ma nella continuità completa delle curve, delle spire, dei fusti allacciati».49
a) Identificazione.
L’identificazione non dovrebbe implicare anche consenso e reciproco riconoscimento? ma quale riconoscimento è dato nell’assenza? Eppure un ri-conoscimento esiste, seppure in altro modo.
Nell’assenza delle donne dalla storia, liberate dal rimpianto della mancanza, il ‘consenso’ del pubblico si ritraduce come ‘perdono’ non più anelato ma liberamente elargito. Nella scrittura femminile il «principio del piacere» è infatti fortemente implicato entro la tensione verso l’oltrepassamento del buio-dissolvimento, o principio statico dell’istinto di morte, volgendosi alla bellezza quale unificazione e distinzione. L’inabissamento è rispondente all’istinto vitale come principio dinamico accompagnato da narcisismo e spostamento, ovvero da quell’impulso di bellezza che per Sachs50 si volge dalla personalità dell’artista alla sua opera. Tuttavia nella scrittura femminile tale prodotto non è parte della personalità, piuttosto costituisce la condizione di possibilità della stessa costituzione del soggetto di genere. Vi è qui un di più della freudiana «socializzazione» della fantasia individuale51 e della funzione mediatrice Io-mondo della fantasia, pur realizzando la fondamentale riappropriazione del corpo all’Io. L’approvazione sociale dell’opera non è infatti temporaneamente risolutoria del conflitto dell’artista perché, secondo la classica tesi freudiana,52 renderebbe la fantasia «non colpevolizzante». Al contrario ciò avviene perché l’artista ‘sente’ e raffigura in parole-immagini (i fantasmi dei morti, i nostri «primi maestri», incontrati nell’abisso della scrittura) l’oscurità della storia personalmente patita, fino a con-donare o per-donare nell’atto generativo della ri-scrittura di sé. Il narcisismo, quale impulso di bellezza e desiderio di essere amati, è il principio di unificazione procedente dalla distinzione, proprio come nelle cosmogonie, la cui capacità di distinguere gli oggetti prima di collegarli è un atto generativo proprio del Femminino. Nonostante Pfister,53 dobbiamo riconoscere che nella scrittura femminile tale ‘generazione’ non è soltanto una via di liberazione dalla tensione provocata da istinti opposti: essa è piuttosto il difficile parto non di un mondo irreale, e compensatorio, ma reale e screziato, articolato e ornamentale, quale sua ri-scrittura significativa intessuta nell’ordito linguistico.
b) Ricezione.
Dalla mancanza a l’assenza è l’ossessione (molto al di qua del ‘sublime’); dall’assenza alla mancanza è la piena fruizione.
Il desiderio dell’assenza non ha in sé alcuna tristezza per la mancanza di quanto desideriamo, come invece per Spinoza Ethica, III, 36 schol.], non è cioè malinconia per la mancanza ma fruizione della stessa quale atto di liberazione estetica nella distanza e nel giudizio; è la forma compiuta della «sapienza di partire da sé».54 Non dobbiamo qui confondere l’indifferenza, seppure sarebbe buona cosa possederla, col desiderio dell’assenza: l’imperturbabilità non discende affatto i gradi del dolore nel quale si inabissa la mancanza del femminile dalla storia. È la sua riconversione in assenza che, quale ‘utopia generativa’, ha in sé il piacere dell’oltrepassamento della sofferenza procurata non dalla mancanza di quanto desideriamo ma del chi siamo nella relazione col mondo dato. La mancanza nella relazione è infatti un incontro mancato, porta con sé un dolore antico: disconoscerlo indurrebbe a confondere il dolore col piacere tra masochismo e remissività. Henrik Ibsen ne L’anatra selvatica55 -opera che prelude ai più intimisti Rosmersholm (1886), La donna del mare (1888) ed Edda Gabler (1890) — fa luce su questa mancanza dolorosa: la piccola Edvige, allontanata dal suo elemento naturale (l’amore genitoriale) come la sua amata anatra costretta a vivere in soffitta, non sopravvive allo struggimento della mancanza. Ferita nel suo isolamento, confinata in un solaio -la ‘parte superiore’ della casa-mondo ovvero la testa, l’intellettualismo che disdegna l’integrità della persona- Edvige è cieca, non vede -non comprende secondo il retaggio culturale di ‘idea-visione’- e soprattutto non ‘sente’ altro che l’aspetto ferito di sé. L’anatra, la sua dimensione originaria umiliata dalla menzogna che oltraggia la verità, di cui è corpo in figura,56 è in lei come ricordo dell’assenza. Ma l’assenza, come verità di sé, è celata dietro il dolore per la mancanza: bisognerebbe attraversare questo infinito struggimento per scoprire che non è, perché non lo è, l’ultimo grado della verità. La mancanza non è infatti la verità di Edvige, la verità è altrove: nell’assenza dello spazio angusto della soffitta, nell’assenza della follia del nonno che se ne va a caccia nel solaio, nell’assenza dell’opportunismo paterno e della menzogna materna. Altrove. Se ho inteso la pratica femminile della scrittura come performativa è anche per sottolinearne lo sforzo di distanziamento e generazione: l’altrove è sì oltre il dolore ma il suo attraversamento, o la supposizione che esso possa aver termine, non è affatto scontato. Perché Edvige è soltanto una bambina? Certamente Ibsen sa bene quanto la mancanza si con-fonda con l’assenza nella prima infanzia ma, ancor più, sa che la reazione spontanea e naturale di fronte al dolore si esprime nel modello, soprattutto femminile, della colpevolizzazione e del sacrificio di sé. La donna non è infantile ma ferita e, come prima reazione, tende istintivamente a immolarsi nella nostalgia di qualcosa che crede mancante, mancante in sé per l’accusa di esserlo. La soffitta -l’altezza cerebrale del retaggio culturale maschile-, l’anatra confinata -la verità celata dell’assenza- e infine la mancanza -l’inganno che ha la forza distruttiva del dolore punitivo- chiudono e inducono Edwige a rimpiangere la mancanza, a piangere l’allontanamento paterno cadendo nell’inganno del dolore, confondendo l’apparenza con la verità. Poiché tale apparire ha il nome del dolore e del rifiuto non esiterà a sacrificare, per essere riconosciuta dal padre manchevole, l’intimo sé uccidendo per lui l’anatra e, con lei, se stessa. La delicatezza materna sarà nel seppellirla con la pistola ancora tra le mani, perché non le si faccia male nel sottrarla alle sue piccole dita… Sacrificio inutile? decisamente qualcosa di peggio.
EDVIGE (resta un istante immobile, indecisa e spaventata, mordendosi le labbra per soffocare il pianto; poi stringe convulsamente i pugni e mormora) L’anatra selvatica! (Si porta con passo furtivo presso lo scaffale e vi prende la pistola; socchiude l’uscio del solaio e vi si infila, chiudendosi la porta alle spalle).
[…]
GREGORIO: Ha voluto offrirti in sacrificio quanto di meglio possedeva al mondo. Pensava che così tu avresti ripreso a volerle bene.
[…]
RELLING: La fiamma dell’esplosione le ha bruciato il vestito. Edvige deve avere tirato con la pistola puntata contro il petto.
GREGORIO: Non è morta invano. Lei, Relling, avrà visto come il dolore abbia liberato quel che meglio c’era in lui.
RELLING: È un fenomeno che succede molto spesso, in presenza della morte. Ma quanto tempo crede che durerà in lui questo nobile impulso?
GREGORIO: Tutta la vita, e diventerà sempre più forte.
RELLING: Fra pochi mesi la piccola Evige per lui non sarà altro che un bel tema di declamazione.
GREGORIO: E lei osa dire questo di Hjalmar Ekdal?
RELLING: Ne riparleremo quando la prima erba sarà avvizzita sulla tomba della bambina. Allora lei lo sentirà dissertare intorno al «cuore di padre affranto per la precoce dipartita della sua figlioletta». Lei lo vedrà allora abbandonarsi beato a un’onda di commozione, in un accesso di ammirazione e di compassione verso se stesso. Aspetti un poco, e vedrà!57
Aspetta un poco, e vedrai. Vedrai che il piacere di restituire la mancanza alla sua menzogna è infinito quanto il dolore di restare irretite in un dolore muto che passa per chaos, materia informe o informe del femminile. Ma se aspetti in silenzio, se resti nel silenzio quando, mutuandone l’espressione da Chiara Zamboni, il reale si crepa58 e tu lì ti opponi accogliendo la mancanza come demistificazione dell’assenza, se ascolti59 e senti, più intensamente senti il dolore con tutto il suo fracasso, in questo fracasso lo sentirai andar via nella tua caduta ribaltata dal kosmos al chaos.
Il ritmo, l’intervallo ornamentale da cui si origina il mondo nel soffio tra suono e parola si tradurrà nella «difficile gioia» dell’espressione artistica ove è il respiro spezzato, e ripreso, perché con Cixous in me è il timore: «Dio mio, io sono soltanto io, non sono che una donna, ciò che è più di me, come esprimerlo? ».60 L’ascolto dell’inaudito e la scrittura di un’identità di genere, generata e differenziata, necessitano della musica e della sua forma quale proporzionata e ordinata disposizione delle parti per risalire all’inizio perduto che, come nella scrittura per Derrida,61 rinvia all’infinità dei testi attraverso un’ermeneutica mai conclusa.
Ma cosa ne è delle fantasticherie della «donna selvaggia»62 che, in Cixous, si strugge nel desiderio di un inizio che è pure l’incipit della sua storia? un incipit che torna su se stesso non in modo irrelativo ma in quello ritmico dell’effetto-onda ornamentale? E cos’è questo inizio di una storia se non il desiderio, senza rimpianto, di una terra natia mai posseduta e per questo da sempre, nella distanza da sé, già amata? «Tutto il tempo che ho vissuto in Algeria ho sognato di giungere un giorno in Algeria».63 Se il cosmo, la terra in cui nascere e l’abitabilità del mondo, procede davvero dal desiderio quale sarà, allora, la sua forma tra assenza-utopia e informe/difforme? Se l’Algeria è la forma ordinata, il cosmo ordinato, essa si dà ancora nella forma dell’immaginazione ovvero in rappresentazioni non ancora presenti alla sensazione in atto? e ancora, tra immaginazione e sogno come è possibile abitare il mondo dato? Se infatti la intendiamo in senso kantiano, l’immaginazione «riproduttiva» ci sospinge al rimpianto di Odìsseo per la sua funzione surrogatoria; se l’assumiamo nella sua funzione trascendentale disegniamo una linea ricurva verso l’alto, un ornamentale che ci solleva per levità e subtilitas dal peso della fatticità dell’esistente.
Tutto il tempo che ho vissuto in Algeria ho sognato di giungere un giorno in Algeria.64
E dunque, nell’esperienza estetica fruitiva e generativa del cosmo sensibile, quale sarà l’irrequietezza -contrapposta da Worringer65all’ordine e chiarezza della bellezza classica- non solo della donna selvaggia ma di Tancredi nel suo sogno di essere altrove? lui che è qui e insieme dislocato nell’altro, nell’altra, che pure è già in sé? Si tratta forse di una identità-tra-generi ove il cosmo procede dal desiderio, e questo dal sogno o enýption che per Platone (Timeo, 45 e) è già ‘immaginazione’ o meglio, con Aristotele (De Somniis, 1, 459 a 15), ‘azione’ dell’immaginazione? E dunque, che ne è di Tancredi? È uno o duplice o molteplice il mistero dell’essere uomo e dell’essere donna quando l’unica armatura, e di Tancredi e di Clorinda, è l’anima che sogna, desidera e immagina e nella phantasia ritrova, ri-crea e corregge il cosmo mai avuto e da sempre custodito in una nostalgia senza rimpianto? «Tancredi abitato da Clorinda, abitata da Amenaide, abitata da Sutherland, abitata da Tancredi, abitato da Horne, abitata da Tancredi, e anch’io abitata dall’incanto? »66 Sì, nell’incanto della se-duzione il chi che a sé-duce non ha parole né sguardo: nel di più di noi ci disloca e si disloca tra noi.
4. Il tra-noi dell’incanto
È il tra-noi dell’incanto che screzia lo spazio nel frammento per espanderlo, tra organico e inorganico, nel decorativo simbolico: la verticalità maschile si flette, è curvata, nella sinuosità femminile realizzando, in tale incontro nella distanza, la prima finalità ornamentale che è l’individuazione del mondo. Per l’estetica generativa non è infatti soltanto la continuità temporale a riavvolgersi nella discontinuità dell’assenza, anche la superficie spaziale si contrae e distende nell’incontro «a corpi persi, a corpi mescolati, a corpi delimitati».67 Il ‘nomadismo ornamentale’ della Cixous, ovvero il suo amore impossibile per una terra natia nel desiderio struggente di esserci entro l’assenza, e contro il dolore della mancanza, inaugura nella sua opera Tancredi ancora una poetica dell’itinerario verso le «transfigure della differenza».68
È la storia dell’amore ad avvincermi, cioè la storia dell’altro e del suo altro. Non Rinaldo e Armida, la Coppia-Stessa. Ma gli altri, gli straripanti, Tancredi, Clorinda, gli amanti della franchezza, queste due creature singolari, più forti di se stesse, sì, capaci l’una e l’altra di andare, a costo della vita, per amore della verità, per l’amore, al di là delle proprie forze, fino all’altro -il più lontano, il più vicino. I due sempre-altri, che osano compiere l’Uscita. […] Assolutamente fedeli -al proprio segreto umano- al proprio essere più-uomo più-donna. Con coraggio non conoscono se stessi, con nobiltà non si possiedono, con umiltà non si contengono, non si rifiutano, si accordano per perdersi, fino ad avvicinarsi all’altro. Non so più se devo dire essi o esse.69
Questa storia d’amore che avvince e incanta si snoda entro la logica fluida del motivo e della connessione che sospinge, nuovamente e ancora, entro l’enigma dell’essere-duale che è pure l’enigma dell’ornamento. Come è infatti possibile, si chiede Buci-Glucksmann, che «un numero limitato di motivi ha dato vita a un’infinità di composizione e di variazioni? » e perché, se «eseguito a mano, l’ornamento non dovrebbe essere mentale, come quelle grandi composizioni di zelig realizzati a terra nel sud del Marocco? »70 Se eseguito a mano, infatti, l’ornamento realizza pienamente il flusso e riflusso di simbolico e organico schiudendosi al tatto, e al respiro, nella passione per l’altro, per la sua pelle che un è di più dell’apparenza perché è l’apparenza estrema a inabitarci come corpo e respiro. Tancredi abitato da Clorinda, abitata da Amenaide, abitata da Sutherland… Tra ornamento e astrazione, tra il tatto e il pensiero, si snoda infatti la storia mutuante del loto egizio -il decorativo vegetale- che si schiude nei racemi spiraliformi dell’arte greca nel passaggio, studiato da Riegl nel suo Stilfragen71 in riferimento e contro Jones,72 dal lineare geometrico all’araldico e infine all’organico e al floreale arabesco. Il Kunstwollen mette al centro le «questioni di stile» -è infatti per lo stile che il decorativo è simbolico-, la ‘volontà artistica’ che anima l’uomo fin dall’arte preistorica delle grotte di Dordogna e, soprattutto, l’idea di un decorativo quale intreccio di «rapporti infiniti».73 La dualità dell’arte tattile egizia e quella tattile e ottica greca, postulata da Adolf von Hildebrant e ripresa nel 1908 da Wilhelm Worringer,74 ci sospinge in un intervallo ritmico che volge lo sguardo in un «sguardo-flusso» sedotto dal dettaglio, dal particolare snodato nella forma entro il continuo mutuarsi degli stili. È questo il movimento dell’amore tra volo e caduta in Tancredi-Clorinda per Hélène Cixous, è questa la linea curva del desiderio che sospinge e orienta verso l’altro o che, con Buci-Glucksmann, permette di «sentire il diverso» in un doppio sguardo:
io nell’Altro e l’Altro in me, secondo le procedure delle inversioni-capovolgimenti stilistici. Questa doppia postura permette di elaborare un’autentica estetica ed etica, se non ontologia del diverso dove l’universale si offre attraverso le singolarità e le molteplicità. Ci vuole un’attitudine aperta, la capacità di sentire lo choc suscitato dall’altro e la costruzione di «momenti» privilegiati in cui pensiero e godimento coincidono.75
Nella piena coincidenza di pensiero e godimento (Geniessen), che ne è del transito, del tra-noi, del moto che vive nel mistero dell’essere donna-dell’essere uomo quando si è per l’altro-per l’altra, desiderando le «profondità del vero amore, dove non si sa mai quando si ama, chi si ama, nelle vesti di chi si ama. Tancredi ama Clorinda. Tancredi non sa chi in Clorinda è amata da chi in lui? Un momento fa era un uomo, un secondo prima una donna, ma era proprio così? »76 Che ne è dell’incanto e della commozione fuori dall’arte del sapersi incontrare, dall’artificio del sapersi e sentirsi entro una fruizione che procede dalla distanza e dalla differenza?
Se la funzione principale dell’ornamento è l’individuazione è perché esso è legato all’artificio, al processo culturale per il quale -dalle maschere dell’Alaska ai patu mere maori negli studi di Lévi-Strauss77- il naturale è forgiato nel simbolico decorativo. Qui l’ornamento, tatuaggio o cosmetica o maschera, è il volto e precisamente un volto aperto all’altro: essi ci dice il chi è entro la relazione interpersonale del chi siamo (come rango sociale o nei riti di passaggio nell’arte caduveo). Ma quale è il volto dell’assenza, della difformità e del dis-locamento a partire dalla mancanza? Qui l’incanto non è né charm, attrattiva di ciò che sollecita i sensi, né disconoscimento sociale nella mancanza, piuttosto è la compassione nell’asimmetria dell’essere-tra che, con e oltre Meier -Anfangsgründe-, è attraversata e dislocata dalla commozione per l’assenza. Nella scrittura ornamentale possiamo ora recuperare, seppure in altro modo, i modelli di interazione opera-fruitore di Jauss78 a partire da questa commozione data dai contrasti ove l’ornamento, tra determinazione e indeterminazione, altera la struttura fluidificandone la forma. A livello simbolico l’ornamento, come principio di ogni metamorfosi, tra naturalismo e stilizzazione rinvia più alla spogliazione che alla vestizione. Il ‘trucco’ non altera ma disvela l’artificiosità della creatività, fa luce sul moto incessante dell’immaginario: manifesta e stilizza l’essenza. Seppure materiale è però incorporeo perché il suo corpo è quello dell’altro cui rinvia rispecchiandosi, raggiungendolo nella palese superficie dell’inganno che tradisce una volontà creativa che fa dell’inganno stesso un gioco, cioè un linguaggio. Un linguaggio che seduce come nel canto di Orfeo perché, con la Cixous, «chi soffre e gode in Orfeo è una voce-donna»79 ma ciò soltanto se si procede da un poeta «uomo», perché il moto ondivago dell’ornamento ha la serietà del tra-noi:
Dunque si tratta del mistero di «donna» e «uomo». Sono i nomi propri di due misteri o di uno solo? Sento la verità di questo mistero: misteriosa e vera. La sento vera ma non so dirla vera.
Invece i musicisti non hanno mai perso il senso del misterioso che è il canto della verità. Quello che canta in un «uomo» non è lui, è lei. L’hanno sempre saputo. Ma noi che parliamo, perdiamo e perdiamo, io sto perdendo.80
Cosa perdiamo nella voce? perdiamo il ritmo, il passaggio tra assenza e mancanza e con esso, con il lineare della continuità sempre-presente, la domanda e il suo ascolto. Allora il «crimine» della decorazione per Loos,81 nella polemica viennese di fine secolo82 contro l’ornamento e contro la Secessione, si convertirà nel rendere visibile l’evidenza, sempre poco compresa seppure sia proprio da questa che procede, contro ogni sogno di decadenza o di «morte ornata», ogni desiderio e seduzione di vita. Ogni ornamento è un «doppio sguardo»: l’altro è gli altri nella prossimità della distanza, nel mistero che si offre come risposta e che riposa come domanda nella relazione interpersonale.
L’amore mi ha sorpresa mentre guardavo
Due alte persone guardarsi per l’ultima volta.83
Questa Tancredi sedotta dal sogno è l’autrice che legge, che vede nel doppio sguardo il suo primo mistero entro l’assenza -le spalle ormai volte alla mancanza- del tra-noi che seduce entro-noi per l’oltre della parola, e anche della ‘parola donna’.
Che segreto! […] Per lui non sa chi è lei Non sa che lui è una donna Perché con quale differenza Lei è una donna, il cielo lo sa, Qual è la differenza? Non è semplicemente il sesso, È come ama l’amore, al di sopra delle mura, malgrado Le corazze, dopo la fine del mondo. Ma io non so dirlo. […] La parola «donna» mi tiene prigioniera. Vorrei usarla, perderla, e continuare sui passi di Colei che vive senza grossi problemi. Tanto più è amabile quanto più donna tanto più uomo quanto più donna e forse tanto più donna… Se amassi una donna la chiamerei con la voce ancora umida e salata, Tancredi Amata mia.84
Nello spazio decorato, nell’intreccio decorativo, le metamorfosi si realizzano e mai si compiono entro una tensione mossa dalla commozione per l’altro/altra; di più, è tale commozione a creare lo spazio affollato e vuoto della loro presenza e assenza. Le transfigure della differenza, avvinghiate come steli e fiori, le puoi fruire entro un’esperienza estetica al limite della distanza. Se non fossero fluttuanti, se non ci apparissero come di profilo e sempre sovrapposte nei dettagli entro l’artificio prospettico di un fondo-fondale marino, tra chiome-alghe e ondulazione dei contorni, il manierismo dell’incanto dissolverebbe la commozione in malinconia. L’apologia dell’inflessione della vita nella finzione ornamentale diviene canto della distanza; l’apologia della soggettività duale, nell’armatura fluida dell’anima, il decoro di un incontro a venire: Tancredi Amata mia.
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Per uno studio sull’esperienza estetica entro il «pensiero della differenza» rinvio soprattutto a R. Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea, La Tartaruga, Milano, 1994 e a L. Irigaray, Questo sesso che non è un sesso, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1990; Id., Etica della differenza sessuale, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1985; Id., Condividere il mondo, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 2008. ↩︎
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H.R. Jauss, Breve apologia dell’esperienza estetica, trad. it., Mimesis, Milano 2011. ↩︎
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Ibid., p. 43. ↩︎
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G.W. F. Hegel, Estetica, trad. it., Einaudi, Torino 1972, pp. 39-40. ↩︎
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J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, trad. it., Jaca Book, Milano 1968; Id., Della grammatologia, trad. it., Jaca Book, Milano 1969; Id., La Farmacia di Platone, trad. it., Jaca Book, Milano 1985; Id., Il segreto del nome, trad. it., Jaca Book, Milano 1997. Cfr. M. Ferraris, La svolta testuale, Unicopli, Milano 1986. ↩︎
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P. Bono, Scritture del corpo, in AA. VV, Scritture del corpo. Hélène Cixous variazioni su tema, Sossella Ed., Roma 2000, p. 8. ↩︎
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G. Lombardo, L’estetica antica, Il Mulino, Bologna 2002, p. 11. ↩︎
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J.J. Winckelmann approfondisce la nozione di ‘grazia’, intesa come «piacevole secondo ragione», soprattutto nel saggio Von der Gratie in Werken der Kunst (La grazia nell’arte antica) pubblicato nel 1759 insieme agli scritti Erinnerung über die Betrachtung der Werke der Kunst (Avvertenza sulla considerazione riservata alle opere d’arte), Beschreibung des Torso im Belvedere (Descrizione del Torso del Belvedere) e Anmerkungen über die Baukunst der alten Tempel zu Girgenti in Sizilien (Annotazioni sull’architettura dell’antico tempio di Agrigento in Sicilia). Nell’edizione italiana è pubblicato nella sezione Brevi studi sull’arte antica (1756-1759) in ID., Il bello nell’arte, trad. it., SE, Milano 2008, pp. 62-68. ↩︎
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Ibid., p. 63. ↩︎
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Ch. Buci-Glucksmann, Filosofia dell’ornamento, trad. it., Sellerio, Palermo 2010. ↩︎
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Ibid., pp. 22-23. ↩︎
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G. Deleuze, La piega, trad. it., Einaudi, Torino 1990. ↩︎
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J.J. Winckelmann, op. cit., p. 64. ↩︎
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H.R. Jauss, op. cit., p. 37. ↩︎
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Tale polarità è al centro dello studio di Hannah Arendt, Vita activa, trad. it., Bompiani, Milano 1964. ↩︎
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H.R. Jauss, op. cit., p. 59. ↩︎
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Per esotismo si intende un’estetica del diverso e della differenziazione. Cfr. V. Segalen, Œuvres complète, H. Bouillier (dir.), Robert Laffont, Parigi 1995, p. 750. ↩︎
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Circa la nozione di «forma» ricordo soprattutto i contributi di W. Tatarkiewicz, Storia di sei Idee, trad. it., Aesthetica, Palermo 2011, pp. 225-250; E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, trad. it., Bollati-Boringhieri, Torino 2006; G. Carchia, Il mito in pittura, Celuc Libri, Milano1987; E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano1992; R. Arnheim, Art and Visual Perception. A Psychology of the Creative Eye, Berkeley-Los Angeles 1954; A. Sheppard, An Introduction to the Philosophy of Art, Oxford-New York 1987. ↩︎
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Vedi E.H. Gombrich, The Sense of Order. A Study in the Psychology of Decorative Art, Oxford 1979. ↩︎
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H.R. Jauss, op. cit., p. 60. ↩︎
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A. Buttarelli, Tabula rasa, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, Napoli 2002, p. 143. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Entro la vasta bibliografia sull’opera di I. Kant, Critik der Urtheilskraft (1790) mi riferisco in modo particolare a G. Carchia, Kant e la verità dell’apparenza, Ananke, Torino 2006; E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1968; E. Garroni, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla «Critica del Giudizio», Unicopli, Milano 1998. ↩︎
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Targum Neofiti a Gen. 1.2. ↩︎
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Avraham bar Hiyya, Sefer hegyon ha-nefesh ha-’asuvah, E. Freimann, Leipzig 1860. ↩︎
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Tale interpretazione sarà ribaltata, verso la fine del Cinquecento, da Hayyim Vital nella sua opera ?Es hayyim -L’albero della vita-. ↩︎
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L. Muraro, Introduzione in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, Napoli 2002. ↩︎
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Ibid., p. 5. ↩︎
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Ibid. p. 3. ↩︎
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Ibid., p. 4 (corsivo nostro). ↩︎
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Per una riflessione sulla pratica femminile della scrittura, a partire dall’esperienza delle Preziose, vedi C. Lonzi, Armande sono io!, Prototipi, Milano 1992. ↩︎
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L. Muraro, op. cit., pp. 4-5. ↩︎
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A. Buttarelli, op. cit., p. 148. ↩︎
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M. Zambrano, Notas de un método, Mondadori, Madrid 1989, p. 35 (la traduzione è di Annarosa Buttarelli). ↩︎
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Iliade, XIV, 178-217. Cfr. G. Sissa - M. Detienne, La vita quotidiana degli dei greci, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 23-26. ↩︎
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C.G. Jung, Spirito e vita (1926) in Opere, vol. VIII, trad. it., Boringhieri, Torino 1976; E. Neumann, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, trad. it., Astrolabio, Roma 1981. Vedi anche E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 4 voll, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1966. ↩︎
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W. Tatarkiewicz, op. cit., pp. 251-268. ↩︎
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Cfr. P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010. ↩︎
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Ch. Zamboni, Quando il reale si crepa, in Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, p. 104. (corsivo nostro) ↩︎
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A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997, p. 45. ↩︎
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Sullo studio tra psicoanalisi e creatività fondamentale è la produzione scientifica del prestigioso Istituto di Psicoterapia Analitica di Firenze e in particolare i molti contributi di Alida Cresti. ↩︎
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Interessante è il raffronto, operato per opposizione e dislocamento, con il ‘fantasma’ -o padre ‘morto’- di Amleto nelle interpretazioni freudiane dei personaggi letterari quali casi clinici negli anni 1913-1927 (S. Freud, Shakespeare, Ibsen e Dostoevskij, trad. it., Einaudi, Torino 1967). ↩︎
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H. Cixous, Tre passi sulla scala della scrittura, trad. it., Bulzoni, Roma 2002, pp. 27-83. ↩︎
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Ibid., p. 33. ↩︎
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Sul significato del ‘doppio’ nella letteratura rinvio soprattutto agli studi di S. Freud, Il perturbante, in Id., Opere, vol. IX, Bollati-Boringhieri, Torino, 1977 e di O. Rank, Il Doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, trad. it., SugarCo, Milano 1979. ↩︎
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H. Cixous, op. cit., p. 36. ↩︎
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Jauss, op. cit., p. 66. ↩︎
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Ibid., p. 71. ↩︎
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H. Focillon, La vita delle forme, trad. it., Einaudi, Torino 1999, p. 43. ↩︎
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H. Sachs, The Delay of the Machine Age, in «Psychoanalytic Quartererly», n. 2, 1933; Id., The Creative Unconscious Studies in the Psychoanalysis of Art, Cambridge 1942. ↩︎
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S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, trad. it., Boringhieri, Torino 1972: Id., Il motto di spirito, trad. it., Boringhieri, Torino 1976. 1970; Id., Gradiva, trad. it., Boringhieri, Torino 1961; Id., Il poeta e la fantasia, trad. it. in C.L. Musatti, Freud, Boringhieri, Torino 1959. ↩︎
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Id., Introduzione alla psicoanalisi, trad. it., Boringhieri, Torino 1979. ↩︎
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O. Pfister, The Psychoanalytic Method, New York 1917. ↩︎
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Mi riferisco soprattutto a Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996. ↩︎
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H. Ibsen, trad. it., L’anatra selvatica, Rizzoli, Milano 1956. ↩︎
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Vedi Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995. ↩︎
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Ibid., pp. 141 e 154-155. ↩︎
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Ch. Zamboni, Quando il reale si crepa, in Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, pp. 98-112. ↩︎
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Entro il vasto ambito dell’estetica musicale ricordiamo soprattutto: Th. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, trad. it., Einaudi, Torino 1959; E. Fubini, Estetica della musica, Il Mulino, Bologna 1993; C. Tatasciore (a cura di), Filosofia e musica, Mondadori, Milano 2008; C. Dalhaus, L’Estetica della musica, trad. it., Astrolabio, Roma 2009; M. Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Einaudi, Torino, 1957; C. Sachs, La musica nel mondo antico, trad. it., Bompiani, Milano 2004. ↩︎
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H. Cixous, Tancredi ancora in AA. VV., Scritture del corpo, cit., p. 71. ↩︎
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J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit. ↩︎
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H. Cixous, Fantasticherie della donna selvaggia, trad. it., Bollati Boringhieri Torino 2005. Cfr. M. Fusillo, Estetica della letteratura, Il Mulino, Milano 2009; R. Ingarden, L’opera d’arte letteraria, Fondazione Centro Studi Campostrini Ed., Verona 2011. ↩︎
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H. Cixous, op. cit, p. 9. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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W. Worringer, Astrazione e Empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, trad. it., Einaudi, Torino 2008. ↩︎
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H. Cixous, Tancredi ancora, cit., p. 63. ↩︎
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Ibid., p. 57. ↩︎
-
N. Setti, Passaggi di genere. Figure e transfigure della differenza, in AA. VV, Scritture del corpo, cit., pp. 79-105. ↩︎
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H. Cixous, op. cit., pp. 57-58. ↩︎
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Ch. Buci-Glucksmann, op. cit., pp. 19-20. ↩︎
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A. Riegl, Problemi di stile, trad. it., Feltrinelli, Milano 1963. ↩︎
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O. Jones, The grammar of ornament, Quaritch, London 1910. ↩︎
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Per inciso ricordiamo lo «spazio profondo», in sostituzione del «piano illimitato» di A. Riegl, in Pierre Schneider, Petite histoire de l’infini en peinture, Hazan, Paris 2001. ↩︎
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W. Worringer, op. cit., p. 27. ↩︎
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Ch. Buci-Glucksmann, op. cit., p. 51. ↩︎
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H. Cixous, op. cit., pp. 59-60. ↩︎
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C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 1978; ID., Tristi tropici, trad. it., Il Saggiatore, Milano 2008. ↩︎
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H.R. Jauss, op. cit., p. 66. ↩︎
-
H. Cixous, op. cit., p. 61. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
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A. Loos, Parole nel vuoto, trad. it., Adelphi, Milano 1992. ↩︎
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Vedi soprattutto C. E. Schorske, Vienne fin de siècle. Politique et culture, Le Seuil, Paris 1983. ↩︎
-
H. Cixous, op. cit., p. 71. ↩︎
-
Ibid., pp. 76-77. ↩︎