Nell’universo semiologico ove l’oggetto pop, defunzionalizzato, vive la propria crisi, sottraendosi anche percettivamente al principio di individuazione, trascinando in questa caduta anche la possibilità di oggettivazione, cosa accade al soggetto nella propria relazione con l’altro?
Nella scultura di Segal l’io è cosa tra cose, sedotto dalla malia dell’oggetto straniante, evitando il confronto immediato con l’alterità. Eppure qualcosa rimane. E questo è il residuo ultimo della corporeità, ciò che più sembra opporre resistenza all’oggetto: è l’essere corpo nella costante apertura al mondo. Cosa accade, allora, quando entra in crisi lo stesso rapporto con l’altro, assunto come oggetto? È davvero la metamorfosi dell’io in objectum l’unica ed ultima possibilità di relazione con un tu?
La fascinazione dell’oggetto pop riguarda soltanto un aspetto della più ampia questione della «mondità» dell’io. L’essere amati, il suscitare nell’altro la tensione erotica è ugualmente importante. Qual è allora l’oggetto da funzionalizzare? Sicuramente né il tu pietrificato né l’oggetto pietrificante ma, propria dell’io stesso, l’immagine «coseificata».
1. La negazione dell’alterità nel compiacimento autoreferenziale
La cultura pop, portatrice di nuovi miti borghesi volti a risolvere nel benessere materiale la crisi dei valori, è connessa all’estroversione radicale della patologia narcisistica. Un cercare il puro desiderio (come Narciso che si compiace dell’amore delle ninfe ma le rifiuta come oggetto d’amore), escludendo dal gioco erotico degli specchi l’alterità come ciò che non confluisce immediatamente nella propria immagine. In tal senso la sfortunata Eco subisce la stessa sorte: innamorata della sua bellezza, lei che è «specchio sonoro» dell’Altro, «vox tantum atque ossa supersunt: vox manet; ossa ferunt lapidi straxisse figuram».1 La crisi del rapporto soggetto-oggetto pare sempre postulare una «pietrificazione» che altro non è che l’estrema de-contestualizzazione e de-funzionalizzazione dell’oggetto. Il gioco speculare trova nella Pop una giustificazione culturale: la società dei consumi prevede una morale salutista volta alla produzione-fruizione del corpo consumabile.
Se il narcisismo è sicuramente un disturbo della personalità, cosa dire quando esso contraddistingue, come nella Pop, l’intera cultura di massa?
Il mito di Narciso entra nelle pratiche cerimoniali in virtù della sollecitazione, operata sulle componenti emozionali della massa, attraverso la funzionalizzazione pubblicitaria della bellezza. L’attenzione ossessiva per il prodotto più vendibile è anche il criterio estetico, nuovo, introdotto dalla Pop: bello è ciò che vende e che fa vendere, che è asettico e lucido come la plastica e che, soprattutto, può essere gettato via dopo essere stato utilizzato. Bello è non tanto il singolo utensile quanto il suo simbolo, ciò che più lo rappresenta: bello è il consumo.
Il narcisismo individuale è sempre connesso, per omologia o contrapposizione, a quello culturale: rispetto ad una società consumata l’individuo fugge verso la consumazione della propria immagine. Attraverso la strategia pubblicitaria, ormai diffusa a tutti i livelli della vita sociale, la scelta dell’oggetto coincide con quella della propria immagine. La proiezione narcisistica sembra aver risolto, a partire dagli anni sessanta, la paura della responsabilità della scelta. E così che tra la realtà ed il corpo (relazione in cui si attua il processo di trascendimento della natura in valore) si colloca un terzo elemento, fondamentale per la metamorfosi dell’uno nell’altro: l’immagine. In questo la crisi del rapporto soggetto-oggetto e la conversione, sublimata, della loro sintesi in ciò che appare allo specchio. Oltre non si va, perché i simulacri si tolgono orizzontalmente nella catena significante dei rimandi delle copie tra loro.
La relazione del soggetto con il proprio corpo si qualifica come quello di utilizzazione feticistica dell’oggetto: la profusione della merce rimanda a quella delle immagini. La produzione pop può essere complessivamente intesa come una serie di icone: non si riferisce ad esse alcuna essenza nascosta, è il trionfo dell’apparenza in un circuito artistico ove, così diffusa, diviene inflazionata.
Il corpo riprodotto nella propria immagine è privo della carne, è l’indumento vuoto (come nelle vestaglie di J. Dine o nella sua bombetta raffigura ed esposta, sotto cui manca il volto, in Hat del 1961). È così che il corpo diviene oggetto di un’estenuante ossessione, tale da non risolversi nel raggiungimento effettivo del piacere quanto, al contrario, in un’infinita sollecitazione-assenza di sentimenti.
Nel riflesso dell’acqua, come pure nel tra-vestimento, l’io incontra il diretto prolungamento di sé, lo stesso che lo esaurisce nell’univocità dello stesso. Narciso che si cerca nello specchio d’acqua: amarsi è morire senza raggiungersi mai, incontrare la propria ombra e non il corpo (né quello proprio né quello altrui). Così l’esclamazione «O utinam a nostro secedere corpore possem!»2 continuerà a risuonare tragicamente fino a quando, reclinato
sovra l’erbe la testa sfinita, e la morte chiuse quegli occhi che furon folli di sé per amore. Dopo che fu ricevuto per entro l’Averno, fissava gli occhi nell’onda di Stige.3
Rincorrere la propria ombra (nel duplice senso di non avere un oggetto davanti al sé e nel sottrargli la sua dimensione funzionale per sostituirla a quella straniante) è come sovrapporre l’io ideale a quello reale. L’io che si incontra è dunque l’io che muore, che nega la propria «libera potenza creatrice», il suo sogno di avere un’indefinita (e non individuata) immagine. Il desiderio che si apre all’alterità come occasione di uscita ed insieme nuova definizione del sé.
Nel mito pop c’è un vero e proprio culto del tra-vestimento, un’ossessione per l’omosessualità e per il maquillage vistoso, ove la soggettività cerca conferme al proprio essere. La ragione sta forse nella concezione univoca dell’essere che rinnega la maschera. La sensibilità ed il profondo sentire, quel «talento così unico per il soffrire», come lo definì F. Nietzsche in Die Geburt der Tragödie,4 che portò alla sublimazione del dolore nella creazione tragico-religiosa dell’Olimpo, decisamente estranea al mito ottimistico della Pop. Né esiste il peso filosofico della libertà e della singolarità dell’io (ancora presente nell’Informale): l’essere è unico e sempre identico perché si riassorbe completamente nella propria icona.
La tragedia, consumata sul viso della star truccatissima, è puro segno: il significante è occultato. Il tra-vestimento regressivo ed opposto alla liberazione della maschera è totale: di nuovo la naturalità del mito borghese occulta la storia e le sue vicissitudini.
Il confronto con lo spirito tragico greco è, ovviamente, puramente strumentale entro la riflessione sulla crisi dell’interiorità o, meglio, del suo eccessivo occultamento dietro l’estroversione del corpo in immagine. Più che nella serie degli incidenti stradali, o camere della morte, di A. Warhol (ove è esplicitato il tema della fine, funzionale al consumismo ed alla consumazione del corpo-oggetto) è negli autoritratti e negli occhi brucianti delle star che si può leggere il dramma di Narciso. La cura per la propria bellezza, la dietetica e lo sport celano l’ossessivo tormento per la morte. La moltitudine degli oggetti e, più ancora, la sollecitazione narcisistica, aiutano ad obliare la vita trasformandola in immagine (statica ed eterna). Il mito del benessere cela insieme, come una maledizione da cui non potersi liberare, la durata del consumo: la velocità dà solo in apparenza la possibilità di sperimentare l’ubiquità. Ciò che accade, in realtà, è che si creano molteplici corsi d’acqua su cui moltiplicare la nostra immagine, per rassicurarci che se realmente ci riflettiamo realmente siamo.
Tale incrinatura, la Pop, non può celarla: mille specchi nelle iterazioni di oggetti e corpi d’uso che valgono come segni; mille sponde d’acqua e, sopra a tutti, un Narciso che muore.
2. La mediazione dell’immagine nella conversione del corpo in feticcio
La mercificazione del corpo non è in sé atta a strutturare la «società dello spettacolo»:5 solo a partire dall’imago riflessa nello sguardo dell’altro, ovvero dallo specchio riprodotto in mille altri, uguali, di Narciso, è possibile cogliere l’ossessione pubblicitaria dell’esteriorità. Questa si presenta come una successione infinita di copie all’interno di un sistema mutuante, ove le attribuzioni valgono più delle realizzazioni. Un’infinita serie di maschere indossate dall’attore-persona attraverso l’ossessiva conformità estetico-comportamentale ai modelli vincenti.
A caratterizzare la cultura di massa è soprattutto il riciclaggio culturale ed il riaggiornamento degli oggetti e delle relative immagini. L’esasperazione dell’attuale diventa il criterio fondamentale attraverso cui la realtà è esperita, mentre il presente, come riciclaggio del passato, si configura come il cardine del fenomeno della moda. La consumazione dei prodotti, e la loro fabbricazione in vista di una rapida usura, rientrano nell’esasperazione di quel valore di scambio dell’oggetto entro cui si articola il sistema del consumo e del valore magico del dono.
Ricordato come, negli anni Sessanta, la mercificazione dell’opera d’arte avvenga ad un primo stadio, ovvero a quello interno ad un mercato libero che solo apparentemente coincide con la democraticizzazione della cultura, quale apparve a P. Restany:6
abbandonando il vecchio concetto dell’oggetto unico, del «prodotto di lusso» per uso individuale, l’artista sta inventando un nuovo linguaggio per la comunicazione fra gli uomini.
Nella società consumistica non c’è alcun livellamento sociale nel tenore di vita, quanto, piuttosto, un’accentuazione, sottilmente occultata, delle stratificazioni economiche. La fruizione dei beni materiali da parte dell’intera società, che per il funzionalismo americano riscatta l’individuo nella soddisfazione privatistica dei bisogni,7 è soltanto illusoria poiché soltanto i prodotti standard-package riescono a raggiungerla. Bisogna distinguere un sistema gerarchico che provvede alla diffusione-soddisfazione dei bisogni attraverso il passaggio da un selected-package ad uno standard package. Anche il segno della moda, alla stregua degli altri segni del consumo, non è creato dalla moltitudine dei consumatori ma, come precisa R. Barthes in Système de la mode, esso è strutturalmente «arbitrario […] elaborato ogni anno, non dalla massa degli utenti […], ma da una istanza ristretta, che è il fashion-group».8
La Pop Art, entro la congiuntura di arte-economia, omogenea essa stessa alla cultura liberale borghese, si pone come moda essa stessa, indissolubilmente connessa alla provvisorietà del nuovo entro la circolazione degli oggetti artistici. Essa prova un’attrazione, che J. Baudrillard definisce di tipo «contemplativo»,9 per la morte o «distruzione totale delle forme». Un oblio, questo, che nasce dalla consapevolezza della precarietà dell’esistenza e dal desiderio, inversamente proporzionale, di godere in anticipo del mondo.
La vertigine della moda (nell’ostentazione della levigatezza della superficie e nell’esasperazione dell’attuale), è la stessa dell’immagine dell’oggetto pop, «messo in scena» nelle serigrafie di A. Warhol o nei fumetti di R. Lichtenstein. Il valore estetico di queste opere non risiede nella propria struttura interna quanto, decretato dall’usuale fruitore-consumatore dei feticci artistici, dalla possibilità della fruizione estetica della merce.
Nella contrapposizione di vita-morte (la dimensione balneare di R. Lichtenstein e la tragedia sublimata di A. Warhol) si ritrova la pulsione della moda verso la morte dei segni entro il circuito significante. La moda pop non conosce alcun dualismo interno (autenticità) / esterno (apparenza): la realtà è sulla pelle, essa è insieme parte del corpo e superficie totale. Nessuna identità da custodire o da esprimere: l’aura è confusa con la tecnologia industriale, con il ready made o scambio vertiginoso dei segni della bella-forma (cioè della confezione vendibile).
Nel sistema della moda, che secondo R. Barthes riesce a rendere significante l’universo dell’insignificanza, assistiamo ad una sorta di sublimazione della mercificazione, ad un’esasperazione del circuito autoreferenziale dei segni. Rispetto all’economia politica, infatti, la moda si presenta come un sistema ancora più formale ove questi si scambiano attraverso il codice della moda stessa, assunta come forma dell’equivalenza generale. La loro vertiginosa fluttuazione veicola i desideri sociali; soffermandosi eccessivamente su questo aspetto molti psicologi americani hanno, però, trascurato che questi circolano entro la stessa moda. Nella passione collettiva per il puro sembrare, modalità del puro essere, rintracciamo quell’autocompiacimento estetico, o posa dandy e giovanile, che si ritrova nella ritrattistica e nello Zeitgeist pop. L’asocialità, il narcisismo e l’utilizzazione esibizionistica fanno interamente parte dell’atteggiamento dei giovani artisti newyorkesi: gli happenings, soprattutto intorno A. Kaprow, si realizzano entro una vita privata che tale, però, non è affatto.
Allo stesso modo è importante riportare la questione entro un ambito, in certo qual modo, semiologico. Qui la moda giovane è di per sé segno di una cultura popolare che vive nella dilatazione del presente. L’abbigliamento e le acconciature sono obbligatoriamente sempre nuovi, sempre moderni nel senso di una riabilitazione inversa del passato, sempre segno di una giovinezza assunta ad idea fondamentale della performance. Persino il senso della vista e dell’olfatto ne risultano modificati, percettivamente esasperati nel culto dell’immagine e nella predilezione per i profumi forti:
dei cinque sensi, l’olfatto è quello che più è legato al potere pieno del passato. L’odore è realmente rapimento. Vedere, udire, toccare, gustare non sono potenti come annusare, se si vuole tornare completamente a qualcosa per un secondo […] solo per un secondo. La cosa buona di una memoria olfattiva è che la sensazione del rapimento smette quando si smette di annusare, così non ci sono effetti secondari. È un modo pulito della reminiscenza.10
A. Warhol sta restringendo al presente l’atto percettivo: non crea né dispiega verità che non siano già consumate dallo sguardo, o dall’olfatto del pubblico: mette in circolazione solo ciò che rientra già nella circuito moda. È così che J. Baudrillard, ricollegandosi esplicitamente a R. Barthes, individua nella moda (quale aspetto festivo e giovanile della vita) l’aspetto magico della merce ed insieme della simulazione. Il segno reale dell’abito, dell’atteggiamento, altro non è che il frutto di un iperrealismo facilmente smascherabile: non è l’ovvio il naturale, ma ciò che l’ovvio naturalizza nel segno culturale e ciò che il mito borghese cela accuratamente.
Dalla congiuntura di fama (l’a-temporalalità) ed impiego narcisistico di strutture in voga (l’inattualità della moda ed il suo essere sempre costantemente superata dal nuovo o, per dirla con G. Dorfles, nella «moda della moda»), la Pop si offre alla consumazione come una moda artistica. La brevità della sua «durata» ne è il suo segno estremo: il ritorno all’arte oggettuale degli anni Ottanta è un ulteriore riaggiornamento-rifacimento di un modello passato. L’inattualità come segno del moderno è pure segno della moda.
3. Iconoclastia ed ostentazione dell’immagine: il segno della modernità
La linea scarna ed essenziale del Temple of Apollo (1964) di R. Licthenstein, la semplice allusione alla scanalatura delle colonne, la decontestualizzazione del monumento sembrano voler esprimere l’immagine, quasi turistica, comprensibile anche da chi in Grecia non è mai stato. Ma cosa è messo in scena: la realtà o la sua immagine?
In realtà sono presenti entrambe, solamente che l’immagine dell’oggetto viene eclissato entro l’oggetto medesimo. Come precisa J.P. Keller, in Pop Art et évidence du quotidien,11 «la réalité suxiste donc pour l’artiste pop: c’est l’image». All’interno dell’immagine resta comunque una sorta d’ambiguità: se dal ritratto di Liz Taylor di A. Warhol (Liz, 1965) noi percepiamo, come afferma lo stesso semiologo, il semplice ritratto, allora il suo supporto, l’immagine, funzionerà come significante. Percependola come opera d’arte, l’immagine si converte in significato (è questa ambiguità a realizzare la messa in opera dell’idea: le due possibilità hanno uguale validità).
La commercializzazione dell’opera riprodotta va intesa come l’applicazione dello stile impersonale e tecnologico della commercializzazione stessa; l’anti-sensibilità diviene la nuova sensibilità ottica dell’immagine. È sempre quest’ultima ad essere celebrata: il messaggio sociale svanisce nella superficie delle linee e dei colori.
Lichtenstein è sicuramente l’artista pop che più ha utilizzato il rapporto oggetto-immagine quale fecondo campo d’analisi percettivo di tipo gestaltico; la sua ossessiva attenzione per l’immagine della moderna città nasce dalla fumettistica pubblicitaria:
la pubblicità ha costruito intorno a noi un nuovo paesaggio: cartelloni e insegne al neon, stampati, televisione, eccetera. Così quasi tutto l’ambiente che ci circonda sembra un paesaggio creato almeno in parte per vendere di più. È proprio questo paesaggio che mi interessa rappresentare. Non sono il solo ad avere quest’interesse. Lo stesso paesaggio commerciale ha interessato altri.12
Nella città consumata dei grandi magazzini e delle grandi reti stradali, dei grandi palazzi e dei grandi monumenti, la percezione visiva impera su tutti gli altri sensi, l’immagine diviene il criterio rappresentativo ed ermeneutico della realtà, frapponendosi tra soggetto ed oggetto. La realtà riflessa nell’immagine derealizza la realtà stessa a favore della simulazione, aprendo ed occultando al tempo stesso il nuovo ambito oggettuale.
Per comprendere quest’operazione di ribaltamento ottico dei corpi proviamo a pensare all’avventura felice di Alice che attraversa l’immagine oltrepassando lo specchio. Quale realtà incontra? Non il simulacro della precedente, ma, al contrario, il suo doppio modificato in modo da non essere più riconoscibile strutturalmente. Come afferma G. Deleuze, nel suo Logique du sens:13
Qui vi sono come due lati dello specchio, in cui però ciò che è da un lato non somiglia a ciò che è dall’altro («tutto il resto era così diverso che di più non sarebbe stato possibile…»). Passare dall’altro lato dello specchio è passare dal rapporto di designazione al rapporto di espressione senza fermarsi agli intermediari, manifestazione, significazione. È arrivare in una regione in cui il linguaggio non ha più rapporto con i designati, ma soltanto con «espressi», e cioè con il senso.
Nel gioco speculare della Pop, al contrario, si offre narcisisticamente a chi guarda la possibilità di guardarsi simultaneamente. Più precisamente, il soggetto che si specchia nell’immagine dell’oggetto (attraverso il sistema persuasivo della pubblicità e della moda) è guardato dall’oggetto medesimo, attratto dal suo potere seduttivo che coseifica il corpo. Nella seduzione esercitata dall’oggetto non esiste più alcuna possibilità di rappresentazione poiché, come afferma J. Baudrillard in De la Séduction,14 ormai «Chino sulla fonte Narciso si disseta: la sua immagine non è più “altra”, ma è la sua stessa superficie che lo assorbe, lo seduce».
Mentre la seduzione si realizza nell’autocompiacimento per l’essere sedotti, lo specchio, e l’immagine riflessa, si ritrova come «assenza di profondità, come abisso superficiale»,15 come promessa che «sedurre è morire come realtà e prodursi come gioco illusionistico».16 Se essa si configura come il «gioco illusionistico» dell’oggetto, cosa ne è dell’immagine-oggetto? Il suo continuo rimando, nella pop, (in Hat di J. Dine del 1961, ad esempio, la bombetta è sia rappresentata sia appoggiata sul piano sottostante la tela) giustifica una riflessione sul rapporto apparire-essere in seno alla feticizzazione dell’opera d’arte.
All’interno del commercio dell’immagine artistica assistiamo, per eccesso dell’immagine e per l’esiguità dell’immaginazione, alla fascinazione oltrepassante la già estremizzata dimensione estetica della seduzione. La Pop segna il trionfo dell’iconoclastia dell’arte, della perdita di significato per overdose di simulacri proprio nella «messa in immagine» della mercificazione. Le icone pop (la scatola di minestra vegetale, la lattina di Coca-Cola o l’immagine del dollaro), situando il principio estetico al di là del bello e del brutto, ovvero nell’economico, ed il principio di realtà nell’immagine, hanno trovato l’espediente per permettere alla società di continuare a credere nell’arte prescindendo dalla sua esistenza. Mentre la «dimensione estetica dello sguardo» cede alla «vertigine tattile dell’immagine»17 quello che J. Baudrillard definisce come «atto di apparenza» (look) comincia già a divenire imperante ed a sostituire la moda.
Nella trasformazione dell’immagine in oggetto ritroviamo l’esasperazione dell’estroversione del corpo in merce, con la differenza che lo sguardo di ammirazione (fondamentale nel sistema narcisistico della moda) cede il posto, ormai, ad un «effetto senza significazione» alcuna. Nelle performance di A. Warhol, ovvero nel suo stesso modo di porsi come artista all’interno della moda pop, il look si configura come la conciliazione superiore di essere ed apparire, l’esteriorizzazione quale segno della realtà del corpo. La presenza del look entro la moda pop non deve sembrarci un paradosso: la volontà di immedesimazione in una determinata immagine è già presente, seppure implicitamente, negli anni sessanta. L’anti-moda, da cui segue logicamente il fenomeno del look (decifrato espressamente negli anni Ottanta) sebbene vissuto implicitamente come opposizione alla moda, si configura come una «moda parallela», un’identificazione socio-culturale che sconfina nel modo di essere o apparire.
Warhol lancia una moda, non l’assume. L’immagine di se stesso duplicato e quindi spersonalizzato (il mito Warhol prevede un sosia, voluto dallo stesso artista, circolante negli ambienti mondani della ricca borghesia newyorkese) sfugge alla classica definizione di fenomeno narcisistico. Qui non c’è più un soggetto che si riflette nella propria immagine quanto, più drasticamente, un’immagine coseificata che assimila lo stesso corpo al segno. Il nuovo Narciso non desidera più la propria immagine: chiede invece di trasformarsi in oggetto (il desiderio di A. Warhol di trasformarsi in una macchina); di riprodursi per clonazione, ovvero al di là del corpo, in un essere artificiale. Nel sistema culturale dei segni possiamo rintracciare, al di là del riconoscimento esplicito della coscienza, quanto la stessa coscienza formula e progetta: il look nella moda come segno di un mutamento interno (il moderno della Pop che già preannuncia il Postmoderno). Non a caso A. Warhol, nella sua Philosophy of Andy Warhol,18 preannunciava un concetto singolare di bellezza, oltre il criterio del sempre-nuovo e del sempre-uguale della moda. Resistervi, anzi opporvisi restando nel look, è un modo implicito (perché non è degli anni Sessanta la decifrazione di questo fenomeno) per indicare un modo d’essere contro una moda dell’apparire. Il rapporto esistente tra il mito Warhol e, ad esempio, quello della Coca-Cola potrebbe precisarsi come quello corrente tra il consumo del segno ed il segno del consumo. Tra l’artista ed il proprio prodotto c’è un notevole dislivello: l’omogeneità della Pop diviene l’eterogeneità, in senso lato, del comportamento artistico. La qualificazione del prodotto industriale come opera d’arte è, infatti, totalmente interna al circuito economico della congiuntura mercato-gallerie mentre l’ironia dell’artista, che decide di «sacralizzare la merce come merce», è in qualche modo un’operazione di sublimazione della mercificazione stessa. Credo che le perfomances di A. Warhol siano decisamente qualcosa di più che una mera mercificazione del corpo. Mi discosto, pertanto, da quanto E. Baj afferma relativamente a tale mito, nel suo Cose dell’altro mondo:
questo processo di personificazione degli oggetti, come quando Andy afferma che si è sposato colla sua Polaroid, non è molto intelligente, né originale. Infatti, nel sistema degli oggetti che ci circondano per ogni dove, tendiamo a trasferire sulle cose una personalità, e quindi a personalizzarle.19
L’analisi dell’opera d’arte pare dover subire una deviazione per approdare alla comprensione dell’atteggiamento, in qualche modo dandy, dell’artista stesso; deve uscire dal contesto scenico della moda, per entrare in quello rituale del gesto e dell’abbigliamento. L’interesse per il banale oggetto di consumo trova una propria giustificazione culturale nel carattere scenico del mondo newyorkese. L’opposizione è solo fittizia, poiché non comporta una trasformazione (e meno che mai una rivoluzione) entro l’assetto costituito ma è antropologicamente fondamentale come segno della sua crisi. Se il sistema del consumo, «messo in scena» dalla moda pop, si configura chiaramente come una manipolazione sistematica di segni (e non dei prodotti industriali, che semmai rappresentano soltanto l’oggetto del bisogno) il rapporto umano si funzionalizza in relazione consumistica. Ciò che più si consuma, allora, è la relazione stessa.
L’impossibilità di esaurire tale rapporto, come di completare la consumazione segnica dell’oggetto, risiede nel fatto che ciò su cui si basa l’intero sistema del consumo è l’assenza. Se il mito del benessere materiale occulta la crisi del soggetto, questo stesso, nella propria relazione con il prodotto artificiale, rivive appieno e sulla propria pelle il segno di tale lacerazione. Il look, che si sottrae immediatamente al codice della moda e della pubblicità funzionale al consumismo stesso, è un’onda impazzita nel mare dell’omologazione massificante e mercificante dell’individuo-massa. Quando i segni divengono troppo manifesti (come quelli degli oggetti pop-banali) significa che in essi è già in atto un processo di inflazione e di smarrimento. Allora l’avventura dei segni percorre altri sentieri: l’analisi del fenomeno del look e del suo sviluppo oltrepassa questo referente semantico. La mia analisi deve interrompersi qui.
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Ovidio, Metamorphoses, lV, 398-399. ↩︎
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Ovidio, Metamorphoses, III, 467. ↩︎
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Ibid. 505; a cura di F. Berni, Bologna, Zanichelli, 1989. ↩︎
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F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, (trad. it., La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1984, p. 33). ↩︎
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G. Debord, La société du spectacle, Buchet-Chastel, Paris 1967. ↩︎
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P. Restany, Catalogo della mostra Super’und tenutasi a Lund (Svezia) nel 1967. ↩︎
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La giustificazione del trickle-effect e del valore della performance e del comfort è approvata da L.A. Fallers, Moda, consumo e classi sociali, in Comportamento sociale e struttura di classe, a cura di R. Bendix e S.M. Lipset, Marsilio, Padova, 1971. ↩︎
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R. Barthes, Système de la mode, Paris, Seuil, 1967 (trad. it. di L. Lonzi, Sistema della moda, Torino, Einaudi, 1970). ↩︎
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Cfr. J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort, Paris, Gallimard, 1976 (trad. it. di G. Mancuso, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinerlii, 1979, p. 100). ↩︎
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A. Warhol, The philosophy of Andy Warhol (from A to B, and back again), 1975 (trad. it. di R. Ponte e F. Ferretti, La filosofia di Andy Warhol, Genova, Costa & Nolan, 1983, p. 121). ↩︎
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J.P. Keller, Pop Art et évidence du quotidien, Lausanne, l’Age d’Homme, 1979, p. 106. ↩︎
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Le dichiarazioni di R. Lichtenstein sono state tratte da una conversazione tenutasi con A. Solomon teletrasmessa a New York nel gennaio del 1966. La citazione è tratta da AA.VV., Lichtenstein, Fantazaria, 1966, p. 6. ↩︎
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G. Deleuze, Logique du sens, Paris, Minuit, 1969 (trad. it. di M. de Stefanis, Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 30-31). ↩︎
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J. Baudrillard, De la Séduction, Paris, Galilée, 1979 (trad. it. di P. Latti, Della Seduzione, Bologna, Cappelli, 1980, p. 95). ↩︎
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Ibidem, p. 96. ↩︎
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Ibidem, p. 98. ↩︎
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Cfr. J. Baudrillard, La Sparizione dell’Arte, Milano, Giancarlo Politi, 1988, p. 18. ↩︎
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A. Warhol, The Philosophy of Andy Warhol, cit. alla nt. 10. ↩︎
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E. Bai, Cose dell’altro mondo, Milano, Elèuthera, 1990, p. 140. ↩︎