1. Premessa
Il logos della croce come «intelligenza filosofica del Cristo»1 è l’atto fondamentale con cui l’essere dell’uomo, nella nudità pro-vocata dalla Presenza, è sconvolta (e quindi liberata) nella/dalla propria autoreferenzialità. Atto, come incarnazione del logos, capace di trafiggere la corporeità della creatura nell’esperienza radicale del passaggio dall’avere un corpo all’essere come vocazione alla/della corporeità. Chiamata ad essere un corpo offerto per l’altro, come ’adamah, luogo di grazia ove la fenditura nella carne è la delimitazione finita, incarnata appunto, della terra da cui nascere.
Entro il pensiero femminile, a partire dalla sapienza oracolare fino alla crisi della filosofia, credo che la corporeità, contro l’accezione tradizionale di «solitudine dell’io nell’isolamento dal tu», si qualifichi, invece, come un paradigma filosofico profondamente innovativo. Per questo lavoro ho privilegiato gli scritti in forma epistolare e diaristica, emblematicamente riflettenti sia quell’intimo colloquio con se stessi, che è il pensiero, sia l’apertura della soggettività verso l’altro. Ed ho «raccolto» soltanto la parola divenuta atto, come l’offerta di sé quale «Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso» di S. Teresa di Lisieux, congiunto alla sete delle anime che la spinge ad immolarsi anche per i peccatori; il «testamento spirituale» di Edith Stein (S. Benedetta della Croce) per la sofferenza del proprio popolo; il dono della vita di Raissa Maritain, per la fine della guerra; la condivisione radicale della miseria con il «popolo dei sofferenti» in Simone Weil, (entro un annichilimento che ricorda la mistica di Margherita Porete); il «nomadismo» assunto eticamente in Hannah Arendt; la propria corporeità vissuta oblativamente come «campo di battaglia» in Etty Hillesum… Donne in dia-logo con il mondo che oltrepassarono la dimensione etica del rispetto per assumere, nell’amore, l’olocausto del mondo: una filosofia illuminata dalla metafisica della croce.
2. Phonè e logos nel «paradigma della corporeità»
La trasformazione del concetto di verità, nel passaggio dalla mantica al logos, è come raffigurata entro il «paradigma della corporeità» nella Melanippe di Euripide. Nell’invasamento profetico (e Melanippe è figlia di una profetessa) l’amore per la sapienza non si sviluppa nel dinamismo (eros) della ricerca razionale ma nell’atto con cui la Pizia, nel corpo offerto alla divinità (come agli uomini, quale ponte tra cielo e terra, luce e buio) accoglie la verità intesa come dono.
«Non al Dio appartengono infatti la voce, la pronuncia e il metro, bensì alla donna», ricorda Plutarco ne Gli oracoli della Pizia, sottolineando come il corpo femminile, nell’unione mistica e verginale con la fonte della sapienza (attraverso rituali che riguardano la corporeità della sacerdotessa) si offra come vaso o scrigno della verità. Nel prestare il proprio corpo alla divinità, il suono della voce perché sia ascoltata la parola (fino all’invasamento di Cassandra nell’Ifigenia in Aulide o alle metamorfosi animali delle Baccanti) la donna non ha alcun merito nel processo di conoscenza proprio perché, di fatto, la verità non è il risultato di un processo ma la gratuità di un dono. Il carattere «concreto» della filosofia femminile, tanto sottolineato nel nostro secolo, con la sua costante attenzione alle sollecitudini esistenziali e come disinteressato al pensiero astratto (dis-in-carnato), ha proprio nel corpo offerto il luogo (la terra) da cui nascere. In realtà la concretezza del sapere appartiene, prima che alle donne (che ne erano custodi), alla sapienza oracolare, ovvero alla stessa sapienza divina che vuole incontrare gli uomini nelle vicende quotidiane della vita, nelle difficoltà e nelle perplessità non risolvibili con il puro raziocinio. Nell’offerta della voce come luogo da abitare è in atto un dinamismo, o nomadismo, verso l’uscita da sé per incontrare l’alterità dispensatrice di senso.
Nel dramma di Euripide, testimoniato da frammenti,2 Melanippe segna il passaggio dalla custodia del sapere divino alla ricerca filosofica del vero: figlia di una profetessa è pure filosofa, ispirandosi alla cosmologia di Anassagora per spiegare le differenze tra i livelli di esistenza (dall’unicità del cosmo alla formazione della specie vegetale, animale ed umana). È dunque figura del processo di trasformazione da una concezione della verità intesa come dono (che necessita di per sé di un luogo, il corpo, per essere accolto) a quella propriamente logocentrica che può smarrire tale luogo (e la sua gratuità, espressa nel dono) spostandone il centro dalla voce alla parola (umana).
Il «paradigma della corporeità» determina innanzitutto la distinzione tra il logos, come parola che domina sulla realtà, dalla voce che veicola il senso della-nella realtà stessa. Soltanto quest’ultimo si incarna nell’esperienza (da cui il carattere «pragmatico» della filosofia femminile), qualificando l’ascolto come il luogo per eccellenza della verità, ove ciò che è «svelato» (ascoltato) responsabilizza verso l’agire morale. In quanto senso veicolato attraverso la voce, la verità che riposa nell’offerta del corpo (il suono) e nell’accoglienza della parola (il dono gratuito) presuppone l’essere-corpo della persona. Perché la voce si predisponga ad essere tempio che accoglie e custodisce la parola, infatti, è necessario superare il dualismo cartesiano per approdare alla dimensione incarnata del linguaggio.
Nella Lettre à un religieux,3 S. Weil insiste sulla carità quale parola donata da Dio nel vuoto che l’individuo ha saputo creare in sé. Il corpo, come significante, vive nell’apertura-ascolto del trascendente per offrirsi, poi, come risposta (in un dire che è atto di oblazione) verso il prossimo. Ne segue una riformulazione del linguaggio, capace di superarne sia la distinzione (affermazione) rispetto alla realtà, sia, nell’annichilimento dell’io di S. Weil, l’immaginaria autosufficienza della persona. Di più, nell’abbandono dell’immaginazione è superata quella «tentazione della vita interiore» che è l’autoreferenzialità, chiusura dell’io su se stesso. Nell’apertura alla Parola, al contrario, il soggetto, come corpo, è attraversato dalla trascendenza. E lo stesso volto ne riporta la traccia, impressa nella propria immagine:
Una donna molto bella che guarda la sua immagine allo specchio può credere facilmente di essere ciò che vede. Una donna brutta sa di non essere questo.4
Il corpo, come necessità, è nel proprio limite significante dell’urgenza dell’oltrepassamento nella Parola: qui si realizza, per Weil, la «de-creazione» umana spinta fino ad essere un nulla in-abitato da Dio. Etty Hillesum, senza giungere fino a tale autoannichilimento (che ricorda la mistica passiva della beghina Margherita Porete), «annichilisce il linguaggio», decentrandolo nell’amorosa accoglienza dell’Altro. Le parole vengono svestite del potere di oggettivazione (come l’io si è svuotato della propria volontà) per risuonare limpide tra pause di silenzio, come preghiera e poesia insieme.
Nell’atto di offerta come dimora per la Parola (dove l’Essere «svelato» è originaria unità di azione e parola) si realizza al contempo il silenzio dell’io ed il suo prendere posizione, ovvero il suo espor-si. Nel primo senso, infatti, la corporeità deve abbandonare la tentazione di possedere la realtà attraverso l’uso del linguaggio, poiché qui è la non-utilizzabilità che rende prossima la verità della parola. La prossimità ricorda la «carezza» che in E. Levinas sta per «modo d’essere del soggetto», depotenziato dall’antica pretesa di oggettivazione dell’altro da sé, perché «ciò che è accarezzato non è, a ragion di termini, toccato».5 La «carezza» rimanda alla radicale «assenza» dell’Altro, all’impossibilità di fonder-si in lui perché si presenta come
un gioco con qualcosa che si sottrae, e un gioco assolutamente senza progetto né piano, non con ciò che può diventare nostro e identificarsi con noi, ma con qualcosa d’altro, sempre altro, sempre inaccesibile, sempre a venire. La carezza è l’attesa di questo avvenire puro, senza contenuto. Essa è fatta di questa fame crescente, di promesse sempre più ricche, che dischiudono prospettive nuove sull’inafferabile. Essa si alimenta di una fame che rinasce all’infinito.6
La «carezza» tende verso il senso che è accolto nella fenditura (o ferita) del corpo, offerto come terra per la nascita. Il senso che emerge nello «scarto» tra realtà e poesia. Quando, infatti, è nella parola che abita il linguaggio, persino nel campo di Westerbork, nella brughiera recintata dal campo spinato, Hillesum può sorprendersi davanti all’imponente bellezza della verità:
Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno là così principeschi e così pacifici, su quella cassa si sono sedute a chiaccherare due vecchiette, il sole splende sulla mia faccia e sotto i nostri occhi accade una strage, è tutto così incomprensibile. Io sto bene.7
La consapevolezza, comune ad Hannah Arendt, che nell’accoglienza della parola risieda la possibilità ultima di riscattare il mondo dal proprio isolamento, la porta ben lontano dal bisogno di scrivere per de-scrivere la brutalità esercitata e sofferta nei campi di sterminio. Il bene (nell’identificazione estetica della contemplazione della bellezza del mondo come «bontà» della vita) chiede d’essere accolto e veicolato per il suono della voce (come scrittura nella poesia) perché sia questo (e non la sua caduta ontologica) a non essere dimenticato. Prima di guardare alla modalità con cui l’io, dall’ascolto, venga interpellato ad espor-si, ancora una «parola» sulla preghiera. Perché qui si realizza quel colloquio originario che fonda la persona nell’unione con Dio. Persona, per H.U. von Balthasar, che è la stessa «parola creata di Dio»:
Se infatti l’uomo è intimamente dotato di parola perché egli stesso è parola — «pronunciato» da Dio come sua creazione originale e come tale interpellato e invitato alla risposta — l’uomo stesso, come sintesi del mondo, possiede ultimamente la sua apertura ad ogni realtà e a Dio soltanto nel suo essere stato scelto e nel rispondere a tale scelta: dunque come parola espressa che si esprime a sua volta egli trova la salvezza soltanto a quell’altezza suprema.8
La preghiera, come colloquio interiore, in prospettiva linguistica si configura come l’atto originario dell’accoglienza della parola Dio, atto che realizza la vita dello spirito e fonda la persona. Questo carattere verbale, e non semplicemente pre-verbale, si ritrova in R. Guardini come costitutivo del pensiero, originario dispiegarsi della domanda e della risposta tra Dio e l’uomo. L’apertura alla Parola, come offerta della persona all’incontro con l’Essere, orienta la volontà individuale verso la verità e responsabilizza la sua relazione interpersonale. A partire dal nome Dio (che nutre la preghiera come linguaggio originario) si attua la vera «realizzazione del rapporto io-tu. Perciò la lingua è la pre-struttura obiettiva per la realizzazione dell’incontro personale».9
Entro la «vita filosofica» di Edith Stein e di Etty Hillesum si realizza la costituzione della persona a partire-da (con-versione) l’incontro mistico con Cristo. Di più, dalla consapevolezza che tale fondazione (che poi è morte e ri-nascita) sia di per sé un dono, piena gratuità che rimanda ad un’infinità di senso e d’amore che chiamiamo grazia. Per questo, nella preghiera come parola ascoltata ed espressa, anche il logos è «guarito» dalla tentazione dell’autoreferenzialità, approdando alla sorgente che è sempre «oltre» (come interiorità ed insieme de-centramento nell’Altro). Morendo a se stessi si ri-nasce soggettività nuova, «aperta», potremmo dire, costituzionalmente, alla trascendenza. Perché si riceve l’essere solo nella sua continua accoglienza ed abbandono, senza che mai possa giacere in sé ma sempre in-tensione-verso. Nell’unio mystica sperimentata da Hillesum, la preghiera è
la parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio.10
Solo il nome Dio è parola che salva veicolando l’essere oltre la morte, quando, in modo misterioso, l’attraversa nell’incarnazione assunta ed offerta:
Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. […] A volte vorrei incidere delle piccole massime e storie appassionate, ma mi ritrovo prontamente con una parola sola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose.11
Entro lo stesso «campo di smistamento» (quello di Westerbork), Hillesum e Stein si incontrano senza avere il tempo di conoscersi, protese verso il male per accoglierlo, in-crociarlo, nel proprio destino intessuto di dia-logo amoroso con Dio. Dalla baracca n. 36, l’ex-allieva di Husserl chiede che le vengano spediti una croce ed un rosario (per la sorella Rosa) ed il volume successivo del breviario, dal momento che «finora ho potuto pregare meravigliosamente»!12
La spoliazione della volontà soggettiva e l’amore per il corpo crocifisso di Cristo, quel Monte Carmelo su cui si incammina, ferita ma ancora più fiduciosamente abbandonata, abbracciando un destino collettivo che sacrifica il sé per l’apertura alla trascendenza assoluta dell’Altro, la ritroviamo come verità nuda e crocifissa, nella lettera da Echt del 17.11.1940:
Non si può desiderare la liberazione dalla croce quando si è particolarmente prescelti per la croce…13
ed in quella redatta alla fine del 1941:
Si giunge a possedere una scientia crucis solo quando si sperimenta fino in fondo la croce. Di questo ero convinta fin dal primo istante, perciò ho detto di cuore: ave, crux, spes unica!.14
Possiamo ora chiederci quale sia la parola che, a partire dal nome Dio, veicoli il senso nella relazione intersoggettiva. Quale la modalità dell’espor-si della persona, come risposta all’ascolto. Non un silenzio, questa volta non più, né una descrizione fenomenologica del proprio colloquio interiore, ma, come «parola incarnata», l’atto dell’offerta di sé in sostituzione dell’altro.
Hannah Arendt non giunge fino a questa radicalizzazione, rivendicando nel pensiero, inteso come abitudine a condurre fra sé e sé un «dialogo silenzioso», la forza etica dell’agire politico. E agire significa qui intessere relazioni fondate sul linguaggio. Quando, infatti, un uomo «racconta» la propria storia ad un altro uomo, rivela la propria soggettività, il chi è, che altrimenti sfuggirebbe alla stessa autocomprensione. In questa dimensione la «cittadinanza» (politeia) è la forma politica e sociale della lexis o dialogo entro cui i cittadini abitano lo stesso luogo. Anche qui il «principio di pluralità» è costitutivo dell’essere e dell’agire umano, rivendicandone l’eticità della responsabilità verso l’altro: «Noi non siamo l’uomo, siamo gli uomini!». La persona è entro la comunicazione intersoggettiva:
Per sua essenza l’esistenza non è mai isolata; essa è solo nella comunicazione e nel sapere concernente le altre esistenze. Il prossimo (Mitmenschen) non è (come in Heidegger) un elemento, certo strutturalmente necessario, ma necessariamente molesto nei confronti dell’esser se stessi; al contrario, l’esistenza si può sviluppare solo nella vita comune degli uomini, nel mondo comune dato.15
Il linguaggio diviene un movimento «inaspettato» (perché inaspettata è l’originarietà dell’individuo), capace di instaurare un circuito vivace di azione e reazione. Entro la libertà dell’atto morale vive la necessità dell’altro: se non esistesse un tu non potrebbe esistere neanche un io.
Il pensiero, inteso come discorso, in H. Arendt salva il mondo dall’opacità del male, dalla neutralità del Dasein ribaltando l’essere-per-la-morte in un «essere-come-agire-per la nascita». Eppure la responsabilità etica verso l’altro si radicalizza «oltre» la dimensione politica solo quando, come in S. Weil, l’uomo che ha accolto la Parola «prima si disincarna» offrendosi come phonè eppoi si «incarna» nell’oblazione del proprio corpo come vittima. A partire dal «paradigma della corporeità» il linguaggio diviene comportamento, «amore per il male» perché, queto, sia neutralizzato nella docilità dell’accoglienza e nella forza bruciante della carità.
Nella liturgia del «sacrificio» anche E. Levinas ritrova quel movimento «a senso unico» (ovvero senza la reciprocità della «gratitudine» dell’Altro) che pone l’Identico nell’«essere-per l’al-di-là-della propria-morte». Nella visitazione del volto, l’Altro (Autrui) è la prima «parola», il «primo discorso» che sconvolge in virtù della propria nudità, «apertura nell’apertura», assenza di immagine perché «estraneità assoluta». È visitazione e trascendenza che rimandano ad un «infinito» in cui si realizza quell’essere immagine di Dio, quel «trovarsi sulla sua traccia»:
Andare verso di Lui non significa seguire quella traccia che non è un segno, ma piuttosto andare verso gli Altri che si inscrivono nella traccia.16
L’offerta del proprio corpo come luogo (dimora in cui l’essere, generato, è pure custodito) rinvia ad un pensiero radicato nell’identità di esistenza e vocazione (intesa come «vocazione della corporeità»). L’obbedienza (ob-audire) alla propria chiamata, nata dall’ascolto di un Altro da cui sgorga la propria domanda come risposta ad un già-detto, (ove il grido umano, la parola, si ri-ascolta come eco della kenosi del Crocifisso), si incarna nella volontà di aderire anche al destino dell’altro. L’assunzione della sua sofferenza entro la propria vita (e qui l’altro è sia l’oppresso che il suo oppressore, «sepolto vivo» nello stesso spazio di terra delimitato dallo stesso filo spinato), guarda all’Eucarestia come il discepolo al Maestro. Qui si realizza compiutamente la «vocazione della corporeità», partendo da un pensare/dire in-carnato nell’ascolto e nell’agire morale quale risposta per il mondo. La filosofia che l’assume come proprio paradigma non è, ovviamente, la Parola che dona la vita ma, fondamentalmente, parola che non giustifica ma assume il dolore quale centro di dignità, irradiantesi sia su chi lo patisce (e non vorrebbe) sia su chi se ne fa carico (volendolo per amore). Così scrive Hillesum al termine del proprio Diario, dopo aver vissuto volontariamente dal 1942 al 1943 nel campo di Westerbork, poco prima di essere trasferita ad Auschwitz, dove morirà a ventinove anni:
Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo… Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.17
3. Il corpo femminile come «luogo dell’offerta» ed «offerta del luogo»
Il «paradigma della corporeità» sviluppa, in questa forma di autocomprensione filosofica femminile, l’idea di un rapporto immediato della donna con il proprio corpo, inteso come l’al di là dell’esperienza maschile rispetto al proprio Leib. Parafrasando Bloch, possiamo affermare che la «dimora» presso cui va ad abitare l’uomo sembra ora essere offerta, come luogo, dal corpo della donna. In prospettiva ontologica ciò significa che il «dono» di un luogo e la «gestazione» che tale luogo significa (come terra da cui nascere) diviene l’oltre (o la radicalizzazione della responsabilità etica verso l’altro) perché il senso dell’Esserci possa risiedere nell’essere-per-la-nascita. Nell’assunzione del male entro il proprio corpo, infatti, per generare in questo la vita, il corpo femminile si offre come «campo di battaglia» tra morte e vita, assurdo e grazia. Se l’offerta sembra implicare già un rito propiziatorio, un prendere parte attiva a favore del bene (nel senso che ne permette il suo essere in atto), il poter generare (l’essere terra feconda) è già intrinseco alla gratuità del dono, senza la quale tale possibilità generativa non si tradurrebbe nell’offerta di sé come «vittima» in sostituzione dell’altro.
Se in prospettiva filosofica l’idea di «luogo» non implica necessariamente quella di «offerta», tale connessione si impone, invece, per il concetto di «identità» entro la «logica della differenza». Qui l’io è decentrato nell’altro, nell’incontro non strumentale con il tu (e rilevante è il contributo teoretico femminile, quale voce in-dialogo). Il termine offerta, infatti, possiede un’ulteriorità rispetto al mero riconoscimento della differenza, radicalizzandosi in una soggettività che, nell’alterità, riposa in modo che ne va della propria esistenza. È questo un darsi «in sostituzione» dell’altro, un «agire» che antepone radicalmente l’esistenza all’essenza. È un incontrare il pensiero filosofico femminile che da sempre ha intrecciato, nella responsabilità etica del soggetto, il pensiero con la prassi del quotidiano vivere. È, infine, un agire come parola (o pensiero) che precede il discorso (annullando la parola disincarnata del Dasein heideggeriano) ma procede dall’ascolto. Quell’ascolto che resta, entro la decadenza del post-moderno, la condizione ultima di possibilità della responsabilità etica (soprattutto in Rosenzweig ed in Levinas). E non a caso molte filosofe del Novecento furono donne ebree.
Prima di guardare alla terra (il corpo) come dimora dell’essere, volgiamoci verso quell’infinita gratuità che la sostiene. Il «paradigma della corporeità» deve allora precisarsi come «vocazione alla/della corporeità». Intendo, con ciò, quel movimento dell’io verso l’uscita da sé tale che il corpo dell’altro, pure se assunto entro il proprio destino, resta liberamente e radicalmente altro da sé. L’offrirsi come «dimora» non è, infatti, un trattenere l’altro come ostaggio quanto, piuttosto, un dar-si in ostaggio per l’altro. Ecco dunque una pluralità di corpi che si rimandano reciprocamente: l’io si svuota per essere ponte dal non-essere all’essere dell’altro (secondo il paradigma dell’annichilimento del sé); l’altro si innesta nella fenditura della terra per divenire un essere che fruttifica per un altro, che non coincide con il primo uomo, cui deve la propria dimora. Ovvero si realizza nella forma di un’individualità il cui centro, riposando nell’alterità, non può che rimandare ad un altro luogo che è appunto l’altro-da-sé: la vocazione di un corpo provoca la vocazione degli altri corpi, perché si realizzino nell’essere a loro volta, come per Hillesum, quel «balsamo» donato per tutti gli uomini. La pluralità delle persone e la loro assoluta e reciproca trascendenza protegge l’apertura dal «rischio» della gratitudine che, per Levinas, comporta un «ritorno del movimento alla sua origine»18
L’offerta è l’uscita da sé per assumere il nomadismo quale forma propria dell’essere dell’uomo, ove il verbo assumere è da sostituirsi con quello di tendere-a, volgere- verso «suo malgrado» (ovvero in modo che ne va della propria esistenza). La meta finale è un’ulteriorità sempre e radicalmente altra:
L’azione a senso unico è possibile solamente nella pazienza, che, spinta a fondo, significa per colui che agisce rinunciare ad essere il contemporaneo del proprio risultato, agire senza entrare nella terra promessa. […]
Rinunciare ad essere il contemporaneo del trionfo della propria opera significa che questo trionfo avrà luogo in un tempo senza di me, significa tendere a questo mondo senza di me, tendere ad un tempo oltre l’orizzonte del mio tempo. Escatologia senza speranza per sé…19
La «vocazione della corporeità» interpella tanto la persona fino a sospingerla ad offrirsi come «dimora» dell’essere, al tempo del suo esilio (ovvero dell’alienazione del male) e nel modo del proprio esilio (come uscita da sé in vista dell’essere). Si tratta di un duplice movimento che in-crocia il nomadismo di Abramo con l’umilissima Incarnazione: il dono della terra promessa è offerto dall’annichilimento della regalità divina. Contemplando questo mistero «ad occhi chiusi», il corpo che si offre per l’altro è lo stesso che si offre al dono dell’inabitazione di Dio entro la propria corporeità: «la parte più profonda di me, scrive Hillesum, che per comodità io chiamo Dio».20
Nella dimora si offre un luogo per la difesa e la cura dell’essere, ove accogliere tutte le sofferenze umane che si consumano nei drammi storici. È questo un dono che si realizza solo entro ed a partire dal limite della corporeità, tale da non de-privare ma costituire l’esperienza fondamentale dell’io riguardo al proprio essere-corpo. Quando, infatti, questo è ormai ridotto, come in Hillesum, ad un «ricettacolo di molti dolori», la lucida consapevolezza di non poter sopravvivere all’asprezza del campo di concentramento trasforma l’essere in una lode a Dio. La bellezza del creato, come la bontà della vita, riluce come verità nell’esperienza della radicale umiltà, propria dell’essere della creatura. «Il mondo sorride con molte cose che hanno bellezza» esulta Sant’Agostino (Discorso 158, 7) mentre S. Teresa di Lisieux ricorda l’infinita cura del Giardiniere per l’umile pratolina, completamente appagata dall’intero suo bene.
L’umiltà (offerta nell’esperienza del limite della corporeità), congiunta all’Amore, sospinge verso una radicalizzazione della responsabilità etica verso l’altro, fino alla costituzione di una coscienza collettiva e storica in cui la morte dell’io cede il posto all’esistenza dell’altro.
Chiunque si vuole salvare deve pur sapere che se non ci va lui (incontro alla morte nel campo di sterminio), qualcun altro dovrà andare al suo posto.21
L’offerta nasce dalla consapevolezza di appartenere ad un destino storico e non privato, tale da salvare l’io dalla propria autoreferenzialità nella forma dell’essere-corpo. L’ansia di trovare un «posto giusto dove agire» (che l’accompagnerà fino alle grate del Carmelo) è innanzitutto in E. Stein la consapevolezza di appartenere ad uno Stato. L’individuo, per esistere, ha bisogno di un corpo da abitare proprio come lo Stato, per essere davvero un popolo, deve pur «possedere una propria terra».
Tutto quello che sono appartiene allo Stato […] se sopravvivo alla guerra, voglio accettare la vita come se mi fosse nuovamente donata.22
e poco prima aveva scritto:
Noi però non veniamo solo consumati, come le cellule; possiamo altresì prendere coscienza del nostro rapporto col tutto a cui apparteniamo […], e possiamo a esso liberamente subordinarci. Quanto più viva e marcata è questa presa di coscienza da parte del popolo, tanto più risulta la figura dello Stato, inteso nel senso di organizzazione. Lo Stato è un popolo cosciente che regola il suo comportamento.23
La terra da abitare è anche un luogo in cui poter nascere, perché la stessa nascita diventi la possibilità fondamentale dell’essere dell’uomo. Perché l’inospitalità della terra, che è tutta nell’«odio indifferenziato» per l’altro, si trasformi in una forma di fertilità, è necessario che si apra (come una fenditura nella terra) all’assunzione volontaria della morte, quale via per la vita. Il corpo, come ’adamah, entra in questa nuova «categoria d’infelicità»24 (S.Weil) fino a trasformarsi in un «campo di battaglia» (E. Hillesum), consumato nell’atto dell’offerta quale libero trascendimento nell’essere-per-la-nascita, annuncio e figura della vittoria finale. In tale prospettiva la filosofia si radicalizza nell’etica della responsabilità verso l’altro, nell’oblazione sostitutiva della vittima sacrificale, «mettendo in campo» il logos disincarnato in vista del suo superamento. «Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze (scrive E. Hillesum in una lettera del 1942, all’amico Oscar Kormann) ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori».25 Sono infatti queste «circostanze peggiori» che interpellano e scuotono la coscienza intellettuale, che possono e devono essere assunte nella fenditura, o ferita, della terra perché questa non sia più sterile (nel senso di inospitale). Nel suo Diario, Hillesum coscientizza questa responsabilità etica che giunge fino all’autoimmolazione:
Ho provato a guardare in faccia il «dolore» dell’umanità, coraggiosamente e onestamente, ho affrontato questo dolore o piuttosto lo ha fatto qualcosa in me stessa… Mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno alcuni problemi del nostro tempo. L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire.26
L’ospitalità è la condizione preliminare per accogliere-accedere al non-essere, affinchè questo, nella battaglia che il corpo mette in campo (come campo) si «plachi» nell’essere-per-la-nascita. Una ri-lettura dell’Antigone illustra bene questa «categoria del riscatto», poiché la sua «guerra» è vissuta entro, ed a prezzo, del proprio corpo-vivo offerto al posto del corpo-morto di Polinice. La sepoltura del fratello è richiesta da una pietas che, altra dalle leggi umane, rimanda già ad uno «scambio di vittima». È scendendo viva nella tomba, infatti, che Antigone può assumere quella morte, che non sarebbe la propria, fino ad adempiere a quell’istanza etica che la porta, nell’offerta di sé, ad «accompagnarlo» nel regno dei morti. Che pure è un luogo, una terra da abitare, altrimenti preclusa ma necessaria persino dopo la morte.
L’essere-corpo come dono di una dimora oltrepassa la stessa finitudine dell’essere-corpo votato alla fine, perché lo riscatta nel trascendimento dell’atto gratuito ed oblativo che frantuma ogni residuo di fine, offrendole una terra in cui ancora poter essere. Non finire ma essere. Come essere per l’oltre della morte. Per questo Ismene, che pure, in ultimo, avrebbe voluto farsi «compagna di viaggio» di Antigone resta invece figura inascoltata e sbiadita (l’unico personaggio che, seppure ancora vivo, scompare al termine della tragedia come avvolto nella propria ambiguità, spettatrice di un atto drammatico che non comprende e non assume). Né viva né morta, solo raccapricciata in un dolore che resta privato e chiuso, senza fenditure che possano offrirsi come dimora. Quando vorrebbe «accompagnare» Antigone a morire, morendo anche lei, in realtà ne segna l’abissale distanza. Accompagnare i vivi nel regno dei morti, infatti, è ancora un piangere un destino privato senza com-piangerlo in quello collettivo, senza assumerlo in modo che, per la propria morte, passi (è dinamico l’atto dell’essere) la vita, come in un esodo, verso la terra da abitare. In cui essere ancora. Antigone in-crocia il destino dell’altro scendendo nella terra viva perché sorgesse alla vita ciò che era morto, riassumendo nell’amore anche il non-essere, così catapultato in una vita come finalità ultima della morte: «Tu scegliesti di vivere, io di morire» (v. 555), grida ad Ismene; «Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore» (v. 523), a Creonte.
Eppure l’offerta di sé come vittima innocente non garantisce sempre la realizzazione dello «scambio». La stessa consapevolezza del valore della sofferenza può interrompere l’atto della «sostituzione»: l’assoluta trascendenza del mistero del dolore e lo sconvolgimento dato dalla presenza imponente dell’amore «mettono in ginocchio» anche la responsabilità etica. Letteralmente tolgono stabilità allo stesso agire come essere-della-corporeità e trasformano il «suono», o la «parola» accolta, in preghiera a voce bassa, con occhi socchiusi, cadendo in ginocchio in un angolino del proprio essere. La caduta è imposta dalla corporeità umiliata e sofferente dell’altro, non solo dalla sua assoluta e nuda alterità (come in Levinas) ma dalla sua impotenza come facente parte dell’ordine della «necessità del creato» (il malheur che accoglie, in S. Weil, l’incontro tra l’uomo e Dio).
Nella cella del Carmelo di Echt, prima della deportazione, E. Stein ci lascia il proprio testamento d’amore che deborda nell’ulteriorità infinita dell’Amore. È la gratitudine di essere-corpo per donar-si come vita offerta in espiazione, corpo consumato fino all’annichilimento ultimo (perché mai un martirio è subito quanto amato). Lo stesso corpo che resta, poi, nell’impotenza di eludere la croce dell’altro (nella consapevolezza della differenza tra male e sofferenza):
Dobbiamo imparare a vedere gli altri portare la loro croce senza potergliela togliere. È più difficile che portare la propria, ma non possiamo evitarlo…27
L’amata e l’amante del Crocifisso non può che amare e desiderare la stessa Croce in cui viene sposata, il «letto d’amore», l’unico guanciale su cui Cristo ha scelto di posare il capo: sostituirsi all’altro nella personale sequela è distruggerne la cerimonia nuziale, la «liturgia» senza ritorno. Solo dalla prospettiva del male si può desiderare «togliere i chiodi» al corpo offerto per amore: la «vocazione della corporeità» impone lo stare (sostare, dimorare, custodire, offrire) ai piedi della Croce, misticamente uniti nell’amore crocifisso perché dalle sue piaghe sgorghi guarigione per ogni creatura. Amare fin qui è oltre che morire, è «bruciare senza consumarsi». Come arrivare fino al Monte Carmelo? «Ad occhi chiusi», sfiorando (la «carezza» di Levinas) il corpo umiliato senza volerlo afferrare, solo amando, ed amando ancora in un’ulteriorità mai interrotta, quel rivolo di sangue che, quel Volto, l’ha tatuato d’amore.
4. Abitare l’esilio: il passaggio dall’assurdo alla grazia in S. Teresa del Volto Santo
Restare, dimorare, ai piedi della croce dell’innocente è aprirsi all’esperienza del corpo dell’Altro, sorgente di ogni sapere. La Presenza qualifica la sapienza come dimora.
L’amore è la forma più compiuta di questa conoscenza, il cui oggetto, la verità, è «disvelato» nel valore redentivo della sofferenza ed il cui effetto è un agire morale radicalizzato nell’autoimmolazione. «L’assenza di ogni riparo che costituisce la sofferenza»,28 in Levinas apre ancora uno spazio («aperuit» una dimora per la vita) per l’evento del mistero. Come ricerca filosofica procede dall’ascolto, da un atto preliminare di annichilimento dell’ansia dell’io verso se stesso, dall’offrirsi come phonè affinchè il logos trovi dimora tra gli uomini. Perché l’essere-corpo dimori presso l’Altro, offrendosi come dimora, è necessario che il pensiero assuma il nomadismo dell’essere, sempre altro-da-sé nel proprio essere per-l’altro-da-sé. Nel carattere «provvisorio» di una filosofia affidata alla precarietà dell’esodo, tra un esilio iniziale ed uno finale, prima della terra promessa, l’uomo dimora ed è dimora solo entro l’affidamento alla gratuità della bontà della vita. Nella «vocazione alla/della corporeità» l’essere può abitare l’esilio.
Dimenticando il nostro esilio sulle sponde dei fiumi di Babilonia, canteremo ai tuoi orecchi le più dolci melodie. Perché tu sei la vera, l’unica patria dei nostri cuori, i nostri cantici non saranno cantati in una terra straniera.29
La missione evangelizzatrice di S. Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, (di quel Volto che ha l’amore tatuato sulla bocca, di quegli occhi abbassati perché la forza di questo amore non annienti la creatura che lo contempla, della santità di quel corpo che ha deposto le rose sull’altare, la croce, dove vuole sposarla) è l’assunzione del male dell’altro entro la fenditura del proprio corpo. A lei guarda E. Stein (ormai sr. Benedetta della Croce), quando assume la «piccola via» della confiance entro lo spirito carmelitano, affermando che nient’altro vuole più insegnare se non «come imparare a vivere con la mano nella mano del Signore»,30 ed ancora:
Le mie meditazioni non raggiungono grandi altezze spirituali, sono per lo più molto semplici e modeste. La cosa migliore che contengono è il ringraziamento per aver ricevuto in dono un posto in questa patria terrena da cui salire alla patria eterna.31
Il dono di un posto è l’offerta del corpo crocifisso (il Monte Carmelo è il corpo di Cristo), dimora per gli uomini che se ne sentono separati, ai margini del non senso e della pesantezza del male. L’eredità più alta dello spirito teresiano è nel suo «testamento spirituale», in quell’offerta all’Amore incarnato nel popolo sofferente, proprio come la «piccola» Teresa si era offerta sia all’Amore Misericordioso che alle creature. È la «parola» Volto Santo (che Teresa aggiunse al proprio nome, nella vestizione del 1889) l’icona che trasforma l’esilio in dimora per l’essere, nella sua ansia costitutiva verso l’altro, per il quale si dona in olocausto:
Allo scopo di vivere in un atto di perfetto Amore, mi offro come vittima d’olocausto al tuo Amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima le onde d’infinita tenerezza che sono racchiuse in te, così che io diventi Martire del tuo Amore, o mio Dio!32
È questo il dialogo dei semplici (la «semplicità del cristiano» in Balthasar) uniti misticamente con la Parola e con il suo mistero, un «non senso» (nel suo essere pienamente gratuito) non lontano dall’esperienza dell’assurdo dell’ateo. È questo il linguaggio della «piccola» Teresa che, seppure nella confiance d’amore assoluto del «bimbo svezzato» tra le braccia materne, dice qualcosa di paradossale. Perché con la bocca di un bambino esprime un «concetto», realizza una vocazione da gigante (entro la magnificenza che riguarda pure lo scandalo della croce): «Dio mio, abbandonami!».
Quale bambino potrebbe chiedere questo? Il passaggio dall’abbandono di Dio all’abbandono in Dio («Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito») è capovolto: dall’abbandono in Dio (Teresa aveva vissuto come a-priori la grazia della fede) al suo abbandono per immolarsi, caricando su di sé il male e l’angoscia dell’uomo più sofferente. Ovvero della creatura che si crede lontana da Dio, assolutamente lontana-da.
Nel delicato passaggio dall’assurdo alla grazia, l’esperienza di abbandono si radicalizza fino all’abbandono nell’abbandono, affidamento del pensiero alla stoltezza della croce, esperienza della grazia nel passaggio dal non senso alla pienezza dell’Essere. Il linguaggio evangelico dei piccoli è la parola suscitata dallo Spirito in tempo di crisi; quando nemmeno più l’angoscia ma il suo manierismo si è come ipostatizzato nella filosofia del novecento, Teresa è stata proclamata Dottore della Chiesa. E la Chiesa parla al mondo, ai «lontani». Come la «grata» non esiste che dalla prospettiva del mondo (e non per chi vi si offre in-vista-del mondo, ovvero per chi offre a sé il corpo, la clausura, per potersi offrire come dimora per il mondo), così l’atto oblativo realizza la persona entro la comunione con le persone. Dall’iniziale abbandono «Nelle tue mani affido il mio Spirito» alla gratuità dolorosa (il cui senso è nell’amore, charis, come «eccedenza mistica») del «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». La gratuità come assurdo si oppone e sfiora quella traboccante di significato, il Dio morto di Nietzsche rinasce nelle parole sfinite d’amore di Teresa: «Gesù dorme». L’urlo ed il silenzio si in-crociano, come destini umani, nella kenosi di Cristo crocifisso. La croce, come verità, è in S. Weil la patria da amare ed in cui approdare, perché è il luogo dell’infelicità dell’uomo e di Dio:
Il fulcro del cristianesimo non è tanto il dolore e la sofferenza, sensazioni e stati d’animo in cui è sempre possibile gustare una voluttà perversa, quanto l’infelicità. L’infelicità non è uno stato d’animo. È una polverizzazione dell’anima dovuta alla brutale meccanica delle circostanze. […] L’infelicità è ciò che s’impone ad un uomo, suo malgrado. Essa ha per essenza e per definizione l’orrore e la ribellione di tutto l’essere di colui del quale essa s’impadronisce. A tutto questo bisogna acconsentire per mezzo dell’amore soprannaturale.33
All’estrema preghiera del crocifisso si unisce sponsalmente Teresa sul legno, lacerata nel corpo e nello spirito, mentre si abbandona alla «possibilità dell’impossibilità» stringendo tra le mani una piccola croce: «Oh, l’amo… Mio Dio… io ti amo!»34
Sulla sponda dell’ateismo, sullo sguardo trafitto di chi, ai piedi di questa croce, non comprende il senso dell’ulteriorità dell’essere rispetto alla morte, giunge la «piccola via» di Teresa, Patrona delle Missioni. La via della grazia nella grande agonia del mondo. Qui la parola può incontrare l’assurdo, dimorando nella sua lacerazione che si impone, come l’angoscia heideggeriana, al di là della contingenza. A questa si oppone l’esperienza della grazia, pienezza di senso donata gratuitamente, anch’essa oltre la dimensione della contingenza.
Nell’appagamento di senso l’essere, come nel nuovo decalogo delle beatitudini in R. Guardini, sembra scivolare nel silenzio della parola, interrompendo la ricerca filosofica. In realtà questo è invece il paradigma di un pensiero che «ricerca» nella forma dell’uscita da sé, senza mai farvi ritorno, inquieto perché riposa nell’Altro disteso sulla Croce. Il momento cognitivo, nel «paradigma della corporeità», si incarna nell’apprensione del significato salvifico del dolore assunto con gioia, restando entro il mistero della sofferenza. Così E. Stein, consapevole della propria missione, scrive nel 1930: «si acuisce in me un desiderio urgente di essere holocaustum, che si definisce sempre più in: hic Rhodus, hic salta».
Il valore redentivo della sofferenza ci ricorda la sconvolgente esperienza mistica di S. Caterina da Genova, le cui visioni estatiche (soprattutto di Cristo ricoperto di sangue nell’atto di trasportare la croce) si alimentano nell’amore congiunto al dolore per il peccato. A dispetto dell’esaltazione rinascimentale della natura umana, scevra dall’idea della deturpazione del peccato, (e quindi della pena e del suo rimedio), il Corpus catheriniano fu un «trattato» sulla gravità ontologica della colpa. L’assoluta singolarità dell’azione redentiva di Cristo, soprattutto nella terza parte del Trittico, il Dialogo spirituale, conferma il valore dell’abbandono fiducioso alla sua misericordia quale atto, supremo, della creatura nel restituirsi interamente a Dio. L’unione mistica sarà il dono del Padre all’anima che chiede di essere riamata, fino a consumarsi nella «fiamma d’amore» che le bruciò il cuore, quale sigillo di appartenenza regale:
Mi invaderai del tuo amore puro e netto, che estinguerà in me ogni altra forma d’amore e mi annullerà in te completamente; sarò totalmente invasa da Te, che null’altro mai troverà spazio né tempo per stare con me.35
Il silenzio della mistica può chiarificare il paradigma filosofico della corporeità, quale terra donata per l’essere, offrendosi esso stesso come parola. L’ascolto, come preliminare apertura all’Essere, si configura nel dono di sé come phonè, per ricevere la Parola; il nomadismo come dimora dell’essere che si realizza nell’atto dell’essere-dimora per-l’altro. Questo è poi l’atto che deborda il limite etico, per incarnarsi in una parola che è risposta all’ascolto. Intendere la sapienza come dimora significa valorizzare l’esperienza di un Incontro (l’evento) in cui l’uomo, nel proprio esilio (uscita-da-sé) è chiamato a con-versione, verso la terra promessa, da abitare nella forma del dono. L’essere, infatti, riceve gratuitamente questa parola, che gli sottrae la pace del mondo: essa è il frutto di una grazia che passa per l’offerta di un corpo dato come dimora nel tempo dell’esilio. Nell’unio mystica di S. Teresa la meditazione sul sangue di Cristo alimenta in lei la sua stessa sete per le anime, riconoscendo in essa la bevanda, il calice, che Dio le offre:
Non era forse davanti alle piaghe di Gesù, vedendo colare il suo sangue, Divino, che la sete delle anime era entrata nel mio cuore? Volevo dar loro da bere quel sangue immacolato che avrebbe purificato le loro macchie.36
Ricordando come Pranzini avesse, prima di morire, voluto baciare le piaghe di Cristo (ravvisandone il «segno» della grazia richiesta a Dio, per la sua conversione), aggiunge:
Ah, dopo quella grazia unica, il mio desiderio di salvare le anime crebbe ogni giorno! Mi sembrava di udire Gesù che mi diceva come alla samaritana: «Dammi da bere!». Era un vero e proprio scambio d’amore: alle anime davo il sangue di Gesù, a Gesù offrivo quelle stesse anime rinfrescate dal suo sguardo Divino.37
Il segno dell’unyo mistica è nella sete crescente che S. Teresa prova mentre disseta le anime: più dona meno riposa in sé ed alimenta l’Altro con la propria sete che, a sua volta, la disseta con la propria. Dall’ascolto allo sguardo: il Volto è l’evento ultimo che attende la creatura oltre il suo essere-per-la-vita, cui si volge, per «incantare» quegli occhi divini, nella forma del nascondimento. Quando Teresa attraverserà la «notte» come da sola, mentre Gesù dorme nel piccolo guscio, per il proprio breviario preparerà l’immagine del Volto Santo, nel quale lo sposo potrà specchiarsi ritrovandosi nei lineamenti dell’amata. Come l’essere abita l’esilio (perché Dio stesso si offre come sua dimora, convertendolo a sé) così la bellezza dell’essere è, come in Sant’Agostino, quella del ritorno. «Egli si dipartì dagli occhi affinchè tornassimo al cuore, ove trovarlo» (Conf. IV, 12, 18).
Lo sguardo abbassato davanti al Volto diventa a sua volta «oggetto» (desiderata) del suo sguardo abbassato su di lui: un cono di luce lo avvolge conferendogli pienezza di senso. L’esperienza della Presenza è la «carezza» volta al corpo dell’Altro, è disegnare il Volto restando «ad occhi chiusi», percependo nel proprio essere-corpo l’essere-visti dal suo sguardo. Contro una mistica della separazione dell’anima dal corpo e dai corpi viventi (la mistica come forma di totalitarismo, nella critica di Rosenzweig), il «paradigma della corporeità» addita non solo la contemplazione ma la coscientizzazione dell’essere contemplati dal Volto della Passione. Interpellata entro la sua-propria kenosi, la persona intraprende il viaggio verso l’uscita da sé come vittima in «sostituzione» per l’altro, raggiungendo la nuova configurazione dell’essere un corpo donato a sé per gli altri. In ciò la responsabilità etica di Rosenzweig trova un «luogo» di accoglienza: la denuncia della mistica come «profondamente immorale» (nel suo svuotare l’essere del proprio «pluralismo ontologico», alla stregua dell’idealismo totalitario), rimanda a questo «criterio dell’oblazione». Entrambi, infatti, smascherano l’idealismo nella sua pretesa totalizzante di superare l’angoscia, mentre
la paura dell’uomo che trema davanti alla trafittura di quell’aculeo sconfessa ogni volta senza remissione la compassionevole menzogna della filosofia.38
La «verità dell’amore mediante la verità della sofferenza» raccoglie, offrendone dimora, l’altissimo valore della persona, come nella «Lettera Apostolica» di Giovanni Paolo II, Salvifici Doloris:
Bisogna dare testimonianza di questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche ai numerosi altri uomini, che a volte, pur senza la fede in Cristo, soffrono e danno la vita per la verità e per una giusta causa. Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità dell’uomo.39
In-dialogo con la teologia, la «vocazione della corporeità» si configura entro lo stesso corpo di Dio, dalle cui «viscere materne» (rachamim) si genera un’esistenza il cui essere si costituisce come essere-per-la-nascita. A. Sicari, in Chiamati per nome,40 intende nella spada che trafigge il cuore di Maria mentre il corpo di Cristo è spezzato per la «rovina e la resurrezione» (Lc 2, 35), l’adempimento di questa materna «vocazione della corporeità». Non un corpo sterile ma vergine diventa la terra in cui la morte è assunta nella vita, perché la stessa verginità è la tensione del corpo verso la maternità. Verginità ed Eucarestia fondano la terra ove nascere/rinascere come uomo nuovo: «Qui vult vivere, habet ubi vivat, habet unde vivat. Accedat, credat, incorporetur, ut vivificetur».41
L’autoannichilimento dell’io per l’essere-oltre-la-morte in-crocia la filosofia con il «Christus humilis» dell’esperienza mistica e del pensiero teologico. Perché la terra infeconda diventi luogo di gestazione e di nascita è necessario che, sul piano umano (ove l’esistenza ed il pensiero convivono nella reciproca pro-vocazione) avvenga il passaggio dall’assurdo alla grazia. Il movimento è dato dall’urgenza dell’amore che oltrepassa la neutralità del Dasein, incarnandosi in una filosofia che realizza la persona entro la pluralità delle persone nel dono delle reciproche differenze. Lo spostamento dalla terra all’esilio, l’abitare l’esilio resta la condizione permanente del nomadismo dell’essere:
Colui che è chiamato a seguire Gesù Cristo si trova così in una situazione paradossale: non ha più un luogo proprio (u-topia) se non la sequela: perfino il «se stesso» deve essere tenuto fuori da questo cammino («Se qualcuno vuol seguire me, rinneghi se stesso!» Mt 16, 24): seguire non è una funzione o un ruolo di chi ha già un’identità, è acquistare tutta l’identità.42
La gratuità è la dimora dell’offerta in quanto offerta, essa può comunicare con l’assurdo perché ne condivide il non-senso, anche se in modo capovolto, dell’essere degli uomini (in sé gratuuito perché donato gratuitamente). Può dunque com-patirlo ed attrarlo a sé, nella dimensione della grazia in cui l’assenza diviene pienezza di essere. Di più, pienezza che deborda e che anticipa, nel dono, le risposte alla stessa formulazione delle domande. Assunta dal pensiero femminile, entro questo «paradigma della corporeità», come criterio ermeneutico della realtà, la grazia (come gratuità dell’offerta in senso «laico») è il no filosofico alla neutralità del Dasein, alla presunta superiorità della ragione sulla prassi ed all’autosufficienza del soggetto. È così che la gratuità dell’offerta riposa in un altro luogo, quello della kenosi, nel segno che in-crocia chi soffre perché si sente abbandonato con chi soffre perché abbandona.
La fecondità di questa oblazione è proprio nel corpo che diventa «ponte», in virtù della mediazione salvifica operata dal sangue di Cristo, sparso per la salvezza delle creature. Ovviamente non si tratta di sostituire il corpo umano a quello di Cristo, ma di indicare, piuttosto, come nell’abbandono sofferto sulla croce, nella kenosi dell’utimo grido del Crocifisso, si apra una via tra cielo e terra. L’offerta di sé in sostituzione dell’altro è proprio, nel pensiero filosofico femminile, questa adesione voluta, amata e realizzata come grido differente rispetto a quello della sofferenza del mondo, nel crollo totale dei valori, in primo di quello della vita. Questo grido è una preghiera ed una parola: l’amore quale senso del dolore è assunto (oltre la distinzione heideggeriana) a «categoria» filosofica ed esistenziale insieme.
La prospettiva teologica non inficia la prospettiva filosofica entro il «paradigma della corporeità», ove i personali percorsi spirituali e secondo i gradi di grazia individuale, ri-conducono all’incontro fondamentale. A partire da questo evento originario, l’essere volto davanti al Volto, queste filosofe mistiche hanno coniato il paradigma dell’essere-corpo come offerta di un luogo per la vita. A partire dalla concretezza del proprio vissuto, che poi è la concretezza dell’incopntro con la Parola che ha preso dimora nella corporeità, elaborano una filosofia dell’olocausto che oltrepassa la sofferenza e la morte, che pure sembrerebbe caratterizzarlo. Il valore dell’oblazione di sé, dell’offerta del proprio corpo come luogo della ri-nascita, non riposa tanto, infatti, nel dolore quanto, piuttosto, nella pienezza dell’amore che deborda in gratuità. È questa la consapevolezza, comune alla mistica cateriniana, che, per riparare l’offesa (laicamente: il non senso in cui è de-caduto l’essere) nessun dolore può essere abbastanza profondo e vasto. Perché è sempre entro il limite del finito. L’amore, invece, possiede il carattere dell’infinità perché può generare, è oblativo in senso pieno. Così il Corpo di Cristo, in S. Caterina da Siena, è l’unico vero ponte che può essere attraversato da coloro che
ai piedi dell’affetto loro (che tenevano e andavano per Cristo Crocifisso, che era esso ponte) correva l’acqua di sotto; e le spine erano conculcate da loro piei: e però non lo faceva male; cioè, che nell’affetto loro non curavano le spine delle molte persecuzioni…43
5. Appendice: il paradigma dell’annichilimento e dell’essere-ponte nella filosofia mistica dei beghinaggi
Il riconoscimento weiliano dell’assunzione del male entro la propria corporeità, del Crocifisso quale «verità» nell’estrema infelicità e, nella nudità del corpo, di Dio che ama se stesso, ci riconduce alla mistica di Margherita Porete. Nello Specchio delle anime semplici annientate, (divulgato in Europa tra il Trecento ed il Quattrocento e tradotto in francese, italiano antico, inglese medio e latino), la stessa filosofia è la comprensione ultima dell’abisso di ogni povertà.
Lo «specchio», metafora paolina cara alla mistica renana-fiamminga, riflette l’unica verità anelata dall’uomo: il senso del proprio essere, indicandone la struttura ontologica e la normativa morale. Nello stile poetico dell’amore cortese e nella forma dialogica tra il Cavaliere (Dio) e la sua dama (anima), pronta a morire pur di seguirlo nella sua dimora nuziale, la visione riflessa annulla il soggetto nell’Amore Puro:
Io sono Dio, dirà l’Essenza, poiché l’Amore è Dio e Dio è Amore, e questa anima è Dio in virtù dell’amore […] la mia preziosa amica è istruita e guidata da me senza che debba fare nulla, dato che ormai si è trasformata in me.44
Poiché l’unione si realizza solo ad opera di Dio, patita dall’uomo che a lui si abbandona, vani risultano gli sforzi di castigarsi in penitenze ed esercizi di virtù: la gratuità del dono scandalizza persino la Ragione, che non comprende più il senso del proprio esserci. Il connubio Eros-Sapienza si capovolge e si radicalizza in un amore che tenta, invano, di «istruire» la ragione sulla verità del proprio paradosso. Nel processo trasformativo dell’amato in amante, operato dalla verità stessa dell’Amore Puro, muore la soggettività pensante che si riflette nello «specchio».
La filosofia weiliana dell’attesa, come «estrema umiliazione» nella volontà di non oltrepassare la soglia del trascendente, incarna, nella forma di quel «dolorismo originario», la lacerazione completa di Dio nell’atto della creazione e la brutale, meccanica, necessità della materia della creatura nientificata. Il suo pensiero, pure realizzandosi ancora nella forma originaria dell’ascolto, di una Parola che qui è sovrano Silenzio, si discosta dalla modalità esistenziale dell’essere-ponte. L’offerta della voce (phonè) come dimora del logos (la Parola), è infatti la comprensione della miseria ontologica dell’uomo entro la trascendenza, oltre la soglia dell’attesa.
Il percorso di S. Caterina da Siena, ovvero del paradigma della corporeità come essere-ponte, è il percorso inverso all’umiltà che si arresta al limite del non trascendimento. L’audacia dell’oltrepassamento della soglia si umilia, poi, come comprensione ed offerta di un sé inutile, prezioso solo entro ed in virtù dello sguardo dell’Altro. Nella conoscenza spirituale, così profondamente infiammata dalla sapienza dell’Amore, Caterina intende l’umiltà come l’impossibilità di corrispondere alla Parola con la stessa gratuità, potendo riamare soltanto con amore-di-debito (ovvero già donato, per primo, da Dio). Entro tale limite (che poi è la gloria di Dio e della lode delle creature), l’essere-ponte è il «santo desiderio» di assumere su di sé il male dell’altro, come «amore in uscita» dopo avere già abbondantemente ricevuto da Cristo. Tra le lotte trecentesche del Senese e lo Scisma d’Occidente, la sua spiritualità, come pure quella di S. Brigida di Svezia, si incarna nello zelo apostolico che è pure impegno etico-politico. Il «santo desiderio» la spinge a conoscersi, nella forma della corporeità, entro la conoscenza della misericordia divina, quale «passaggio» (ponte) dal silenzio iniziale dell’io autoreferenziale all’abbandono volontario e paradossale nel silenzio di Dio.
La libertà del soggetto di scegliere di cadere, per amore, persino «sotto la coda di Satana» (secondo la natura originaria dell’atto oblativo dell’essere-corpo nell’olocausto assunto di E. Hillesum e di E. Stein, o nell’amore per i peccatori di S. Teresa di Lisieux), ci sollecita al confronto con altre due beghine: Matilde di Magdeburgo e Beatrice di Nazareth. Entro la tradizione neoplatonica e patristica, che intende l’anima malata di nostalgia per la patria perduta ed anelata, anche Matilde concepisce la filosofia come un percorso di purificazione verso il ritorno al proprio luogo d’origine. Il viaggio esistenziale (vita filosofica) non termina, però, nella visione beatifica ancora mossa dal desiderio (come in Origene, Gregorio di Nissa o Dionigi): l’eros, motore della tensione verso Dio, cade nell’alienazione di Dio stesso. Nell’esperienza mistica dell’incontro con la natura divina l’uomo, infatti, arriva a conoscere la sua essenza quale libertà assoluta, pure di sottrarsi all’anima che ha sedotto ed attratto a sé.
Sperimentato in prima persona l’abbandono di Dio (lei che aveva avuto un’intensa vita ascetica già a sette anni, ne visse poi il silenzio assoluto negli ultimi, probabilmente i più difficili, della propria vita). Questo abbandono è accolto in una radicalità sconcertante: l’amore di Dio è amore violento che infiamma l’anima e mette in moto il desiderio di conoscenza, ma in ultimo non consola. Neppure questa considerazione, però, la induce a dubitare dell’esistenza o della bontà di Dio, solo ad affermarne l’assoluta libertà (che pertanto riguarderà anche il soggetto finito). E così lo stesso Inferno in cui l’uomo può cadere al termine del percorso ascetico-filosofico, capovolgimento e disattesa del proprio desiderio, è ancora oggetto di una libera scelta. La libertà di sottrarsi, infatti, come propria della natura divina, fonda la possibilità radicale della creatura di volerla nel proprio modo dell’assolutezza, ovvero di volere e desiderare la stessa alienazione di Dio.
La radicalità (violenza) dell’amore di Dio per la creatura è radicalmente e radicale vocazione alla propria Presenza, intesa come in-abitazione. Il corpo, come luogo d’offerta per l’essere dell’altro, passa attraverso il duplice atto che accoglie la radicale Alterità e vi si offre compiutamente. Nel paradosso dell’infinita lontananza e del «fallimento umano» si realizza, in questa mistica dell’amore violento, la comprensione filosofica di ciò che l’Amato (l’Assoluto) è in sé e per sé. Correggendo i tre stadi platonici dell’anima, Matilde riconosce come sia nella natura dell’amore discorrere all’inizio nella dolcezza, poi di conoscenza ed infine di desiderare di venirne respinto.45
La filosofia mistica dell’amore violento non si oppone ma si completa nell’amore di sé per amore di Dio della beghina Beatrice di Nazareth, ispiratasi a Guglielmo di Saint-Thierry nell’esaltazione della nobiltà della natura umana. La consapevolezza del proprio limite, l’umiltà, mediante il ricorso alla ragione che investiga sulla propria natura, è insieme autocomprensione e gratitudine per i doni ricevuti. Entro lo scarto tra ciò che l’uomo è nella condizione finita, ciò che era prima della caduta e ciò che sarà nella dimensione escatologica, garantita da Dio, si situa l’amore come motore della ricerca filosofica e mistica.
Nella visione (estatica) dell’essenza divina, Beatrice comprende come l’amore umano possa unirvisi completamente, fino ad amarsi nel modo ed a causa del suo stesso amore. Amare la creatura con il creatore diviene l’atto con cui la vita, nella piena fruizione della bellezza, diviene una lode continua.
Significativamente Beatrice sottolinea come «L’amore assume sette forme procedenti dalla cima e confluenti nella sommità»: non esiste un inizio nel percorso filosofico-mistico disgiunto dall’amorer verso cui tende ed in cui si svolge. La cura di sé procede con l’approssimarsi alla cura amorosa di Dio: i «sette modi», o gradi, che tanto influenzeranno la mistica successiva, sono già integrazione con la nobiltà e la gratuità dell’amore divino. Questa gratuità, che sgomenta la ragione avvolgendola in una spirale moralistica secondo l’umano do ut des, non è soltanto il desiderio puro di servire l’Amato ma, più radicalmente, la volontà folle di Dio, pienamente gratuita e perciò definita «grazia», di servire l’uomo. Pure alternando l’altezza della consolazione estatica alla miseria della propria natura, l’uomo può contemplare, conoscere ed amare, la propria bellezza in questo dono di sé a se stesso.
L’esito di tale percorso non è né il distacco intellettuale da ciò che alletta i sensi intorpidendo la ragione, né la rinuncia al mondo: è invece la consapevolezza che tutto ciò che si ricerca e si vive sia già pregno di essere, ovvero pienamenmte significativo. Il mistero dell’Incarnazione riscatta e nobilita l’esistenza degli uomini. Il «paradigma della corporeità» non può non presupporre la fruizione della bellezza della vita, in tutta la sua pienezza.
Il pensiero femminile diviene il riflesso della capacità umana d’amare. Per Sant’Ildegarda, quando Dio creò Adamo, Adamo provò un grande amore durante il sonno che gli era stato inviato. E Dio fece una creatura, la donna, ad immagine dell’amore dell’uomo. Fu proprio quest’amore a destarlo, portandolo ad una più profonda comprensione di sé e del proprio destino. Guardando la donna, infatti, Adamo acquistò la sapienza dell’unione, quale vocazione a morire a sé per-essere amore-per-l’altro.
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Cfr. X. Tilliette, Il Cristo dei non-credenti e altri saggi di filosofia cristiana, (a cura di G. Lorizio), AVE, Roma 1994, p. 100. ↩︎
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I frammenti della Melanippe di Euripide sono raccolti in A. Nauck, Tragicorum Graecorum fragmenta, Lipsia 1889, 2ª ed. ↩︎
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S. Weil, Lettre à un religieux, Gallimard, Paris 1951. ↩︎
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Ead., Quaderni, vol. II, trad. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 175. ↩︎
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E. Levinas, Le Temps et l’Autre, trad. it. di F.P. Ciglia, Il Tempo e l’Altro, Melangolo, Genova 1987, p. 58. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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E. Hillesum, Brieven 1942-1943, 1986, trad it. di C. Passanti, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990, p. 65, lettera dell’8 giugno 1943. ↩︎
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H.U. v. Balthasar, Das Ganze im Fragment, Aspekte der Geschichts Theologie, trad. it. di L. e P. Sequeri, Il Tutto nel Frammento, Aspetti di una teologia della storia, Jaca Book, Milano 1970, p. 209. ↩︎
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R. Guardini, Welt und Person, trad. it. di G. Sommavilla, Scritti filosofici, Fabbri, Milano 1964, p. 91. ↩︎
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E. Hillesum, Diario, op. cit., pp. 201-202. ↩︎
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Ibid, pp. 253-254. ↩︎
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E. Stein, Briefauslese 1917-1942, trad. it. La scelta di Dio. Lettere (1917-1942), Città Nuova, Milano 1974, p. 134, lettera del 6 agosto 1942. ↩︎
-
Ibid., p. 124. ↩︎
-
Ibid., pp. 129-130. ↩︎
-
H. Arendt, What Is Existence Philosophy?, trad. it. di S. Maletta, Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, Jaca Book, Milano 1998, p. 78. ↩︎
-
E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris 1974, 3ªed., trad. it. di F. Ciaramelli in La Traccia dell’Altro, Pironti, Napoli 1979, p. 45. ↩︎
-
E. Hillesum, Diario, op. cit., pp. 238-239. ↩︎
-
E. Levinas, La Traccia dell’Altro, op. cit., p. 30. ↩︎
-
Ibid., p. 31. ↩︎
-
E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 176. ↩︎
-
E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 162 (il corsivo è mio). ↩︎
-
E. Stein, La scelta di Dio. Lettere (1917-1942), op. cit., p. 20. ↩︎
-
Ibid., pp. 19-20. ↩︎
-
In riferimento al «dolorismo originario» di S. Weil cfr. Xavier Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, Queriniana, Brescia 1989, pp. 434-437. ↩︎
-
E. Hillesum, Lettere 1941-42, op. cit., p. 27. ↩︎
-
Ead., Diario 1941-1943, op. cit., pp 48-49. ↩︎
-
E. Stein, La Scelta di Dio. Lettere (1917-1942), op. cit., p. 28, lettera del 12 ottobre 1927. ↩︎
-
E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 41. ↩︎
-
Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, «Consacrazione al Volto Santo», in Opere complete di s. Teresa di Gesù Bambino e del volto Santo, Città del Vaticano, 1997, p. 948. ↩︎
-
E. Stein, In der Kraft des Kreuzes, Freiburg im Breisgau 1980, trad. it. a cura di G. Baptist, La Mistica della Croce, Città Nuova, Roma 1985, p. 19. ↩︎
-
Ibid., p. 26. ↩︎
-
Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, «Atto d’offerta di me stessa come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso del Buon Dio» in Opere complete, op. cit., pp. 941-943. ↩︎
-
S. Weil, L’amore di Dio, trad. it. di G. Bissaca e A. Cattabiani, Borla, Roma 1979, p. 197. ↩︎
-
S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Ultimi colloqui in Opere complete, op. cit., p. 1153. ↩︎
-
Corpus catheriniano, (suddiviso in Vita, Dichiarazione del Purgatorio e Dialogo Spirituale), raccolta di testimonianze e dottrine compilate dai discepoli di S. Caterina e divulgato solo a partire dal 1597. ↩︎
-
S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, «Manoscritto A» in Opere complete, op. cit, p. 147. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
F. Rosenzwieg, Der Stern der Erlosung, 1981, trad. it. di G. Bonolo, La Stella della Redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985. ↩︎
-
Giovanni Paolo II, Salvifici Doloris, 1988. ↩︎
-
Cfr. A. Sicari, Chiamati per nome. La vocazione nella scrittura, Jaca Book, Milano 1979. ↩︎
-
S. Agostino, In Iohannis Evangelium tractatus. ↩︎
-
A. Sicari, op. cit., p. 87. ↩︎
-
S. Caterina da Siena, Dialogo della divina Provvidenza. ↩︎
-
Lo Specchio delle anime semplici annientate. ↩︎
-
Cfr. Matilde di Magdeburgo, La luce fluente della Divinità, VI, 20. ↩︎