La trascendenza dell’altro in Emmanuel Levinas

1. Trascendenza e soggettività

In un passo di Altrimenti che essere Emmanuel Levinas chiama in causa la trascendenza, addirittura la trascendenza di un Dio: «Il problema della trascendenza di Dio e il problema della soggettività irriducibile all’essenza, irriducibile all’immanenza essenziale, procedono insieme»1.

Si darebbe dunque una trascendenza, questa trascendenza nominerebbe un Dio. Essa resterebbe però incompresa o travisata, sarebbe forse una trascendenza semplicemente trascendente o una trascendenza semplicemente immanente, se non procedesse, se non fosse, in qualche modo, correlativa, di una certa esperienza del soggetto. Levinas rimanda a un soggetto o a una soggettività irriducibile all’essenza. Irriducibile alla tradizione del pensiero che coimplica essere ed essenza o l’essenza come evento della manifestatività dell’essere. Così, non vi sarebbe trascendenza senza questa irriducibilità, non vi sarebbe questa irriducibilità senza una trascendenza che possa nominarsi in un dio. I due momenti «procedono insieme».

Nonostante ci separino ormai diversi anni dalla pubblicazione delle principali opere di Levinas e nonostante la bibliografia che riguarda il suo lavoro non smetta di crescere e svilupparsi i suoi temi non cessano di deflagrare e sorprendere luoghi consolidati e molto presidiati di lunghe e collaudate tradizioni di concetti speculativi. Alcune sue pagine restano però ancora inesplorate e persino poco comprese o ereditate senza quella radicalità che esse meriterebbero. Tra queste vi sono sicuramente le pagine o i paragrafi dedicati a questa irriducibilità del soggetto. Ha sicuramente pesato il giudizio o il pregiudizio che per questa via si potrebbero reintrodurre stereotipi tipici del soggetto moderno; quel soggetto che un tenace lavoro decostruttivo ritiene debba appartenere al dispositivo per eccellenza del moderno.

Forse ci troviamo oggi in condizioni più favorevoli per controllare meglio alcuni pregiudizi e tentare un commento più aderente alla forza creativa della sua proposta.

Il primo passo da fare è stabilire intanto alcune linee di coerenza e il rimando interno di alcune nozioni importanti: il soggetto di Levinas, questo soggetto che procede insieme con una certa trascendenza di dio viene presentato come un «al di fuori dell’assoluto che non si dice più in termini di essere»2. Sappiamo quanto sia fragile e rischiosa questa evocazione quasi topologica di un fuori. Come se una strana dialettica di dentro e di fuori potesse segnalarci l’irriducibilità di questa soggettività. Questo al di fuori non è un generico rimando ad una ulteriorità o a un al di là di un limite. Il fuori qui segnala ciò che non si dice più in termini di essere. Occorre stare attenti a non sottovalutare la complicazione di questo enunciato, a non trascurare questa implicazione tra un dire e un fuori. Un assoluto, mostrandosi o dicendosi come essere, nasconde o cela qualcosa di essenziale sul fuori e su un dire in coimmanenza (verrebbe da dire così) con esso.

Quando la questione dell’essere, dell’essere dell’ente, afferma il suo statuto, potremmo anche dire, parafrasando un po’, quando l’ente si dice nel rinvio al suo essere, nell’orizzonte dell’essere, si afferma un soggetto in cui il rimando tra il fuori e un certo dire viene precluso. Tanto più l’essere diventa il problema eminente della filosofia, quindi tanto più si impone lo statuto della domanda ontologica, che domanda l’essere dell’ente, tanto più il dire della filosofia, il dire in cui la filosofia impegna la sua esperienza dell’ente, resta estraneo a quel fuori, quel fuori senza il quale il dire nasconde qualcosa di decisivo della sua stessa apertura.

2. Il fuori e l’ulteriorità

Si potrebbe ulteriormente variare in questo modo, cercando di rispettare la coerenza interna di questi difficili passaggi di Altrimenti che essere: quando l’essere diventa l’orizzonte dell’ente la strana inevidenza che si annuncia copre il rimando interno tra il fuori e un certo dire, meglio ancora tra il fuori e una singolare invalicabilità di una soggettività irriducibile. La trascendenza di un ente nell’orizzonte del suo essere non è la trascendenza di un ente nell’apertura di un certo fuori di cui il dire fa testimonianza.

Non comprendiamo questi passaggi, per quanto è possibile, se non separiamo questo fuori da ogni possibile variante di al di là o di ulteriorità. Fuori non significa una trascendenza che deborda l’essere verso un’alterità, verso un’alterità che la nozione di ulteriorità restituirebbe nel migliore dei modi. È piuttosto l’essere dell’ente che promuove sempre un movimento di ulteriorità. Fuori quindi è innanzi tutto il fuori da questa ulteriorità. Il suo fuori dall’essere significa quindi che alcuna traccia di ulteriorità lo contrassegna. Questo fuori è dunque del tutto convertibile con una certa invalicabilità. O detto con altre parole che più avanti riprenderemo: irriducibilità senza valico poiché data in una certa impossibilità di arretrare in un secondo piano.

In un altro passo, sempre in Altrimenti che essere, Levinas scrive:

L’ipseità non è un punto astratto, centro di rotazione, identificabile a partire dalla traiettoria tracciata da questo movimento della coscienza, ma è un punto fin d’ora identificato da fuori, non identificandosi al presente, non “declinando” la propria identità, già più vecchio del tempo della coscienza.3

Questo punto identificato da fuori sembra correggere o persino rettificare il commento precedente. Come potrebbe un fuori senza ulteriorità accadere in una identificazione da un fuori? Questo fuori non costituisce la sua ulteriorità il suo oltre? Non si dovrebbe riconoscere che sia proprio l’ulteriorità a garantire la sua provenienza? Ancora una volta si tratta di non confondere questa nozione del fuori con l’ulteriorità.

Il fuori citato in causa nell’ultimo passo è il volto dell’altro. Ma come si dovrebbe ogni volta rimarcare, il volto dell’altro è un’esperienza che viene perduta o smarrita se accadesse nel rinvio a qualcos’altro. La manifestatività del volto di Levinas, diciamo pure la sua luminosità, è tale solo nella misura in cui non rinvia a nient’altro che alla sua stessa esteriorità. Il fuori è come il contrassegno della sua datità e la sua trascendenza sta nel suo non rinvio ad altro che alla sua propria manifestazione. Se l’ipseità è fuori dell’essere è per il fuori da cui riceve una speciale identificazione. Una identificazione per la quale si trova nell’impossibilità di oltrepassarsi in altro. Nell’impossibilità cioè di arretrare. Levinas insiste su un Io come il fuori della sua coscienza. Un io che non si declina in una riflessione di sé, un io che la riflessione di sé, come autoriflessione, non potrebbe che trovare come un fuori o ritrovarsi nel suo fuori.

3. Subjectum e intenzionalità

In passaggi forse troppo rapidi e discreti Levinas sta affermando l’esperienza di un Io che, nello stesso momento in cui resta il fuori dell’orizzonte dell’essere, resta irriducibile al quel subjectum che una parte influente della tradizione moderna vincola al pensiero. Non si tratta di un io penso. Cioè di un io che si attesta nell’atto pensante, nella immanente riflessività del pensiero che pensa. Non è il pensare o il pensarsi pensare, che restituisce l’identificazione dell’io. L’io non si riceve dall’essere del pensare, non si avverte, autoavverte laddove la è si afferma nel pensare e il pensare nell’essere. Quando Levinas insiste, seppure in modo così rapido e discreto, da non trovare molti interpreti che l’ipseità è identificata da un certo fuori, sta sottraendo l’evidenza dell’io dal cogitare. Il suo interesse non sta nell’accadere del cogitare all’io, la sua attenzione non si dirige verso quell’evento in cui il pensare può autopresentarsi come un Andenken. Come se la crisi del soggetto cartesiano potesse consistere nell’intensificazione di questa aseità di un pensiero che impone il suo arrivo e la sua memoria. Come se tra un io spettatore del pensiero e il pensiero l’elemento decisivo fosse questo movimento dell’arrivare. Per Levinas ogni volta che il pensiero ha il sopravvento si resta tra le varianti dell’ego cogito. L’ego diventa il rifrangersi o il riflettersi del cogito. Si smarrisce un altro tipo di evidenza: l’ego non si riceve nell’autoevidenza del pensare, anzi in questa autoevidenza smarrisce la sua esposizione. Si potrebbe dire che smarrisce la sua trascendenza al fuori. Solo in questa sottrazione dell’io al cogito si può davvero radicalizzare l’intenzione fenomenologica per la quale l’intenzionalità può mostrarsi come un io là fuori, Io completamente esposto al suo fuori, nel suo fuori assoluto. L’intenzionalità va come svuotata dall’esercizio stesso di un pensiero per conseguire la sua radicale trascendenza.

Scrive Levinas ancora in Altrimenti che essere:

Questa possibilità di assorbire il soggetto a cui l’essenza si affida, è il proprio dell’essenza. Tutto si racchiude in essa. La soggettività del soggetto consisterebbe sempre nel cancellarsi davanti all’essere, nel lasciarlo essere raccogliendo le strutture in significazione, in proposizione globale in un Detto, in un grande presente della sinopsi in cui l’essere brilla in tutto il suo splendore.4

Ciò che Levinas denomina come essenza chiama in causa le grandi filosofie con cui si compie il lungo ciclo della modernità filosofica. Il riferimento diretto è alla filosofia hegeliana e a tutto ciò che la logica dei circoli ermeneutici potrebbe ancora condividere o ereditare da essa.

In questa tradizione pensiero ed essere sono in una reciproca immanenza la cui logica si esprime bene nella dialettica e nell’ambiguità del doppio genitivo che anima la formula: pensiero dell’essere. Nel cuore del doppio genitivo l’io del soggetto è sempre sul punto di fare ombra all’accadere della manifestazione. Il suo fuori appare come un astratto sorvolo sull’accedere della congiunzione di essere e pensiero e il compito del metodo diventa proprio quello di diradarne e spegnerne la rilevanza. La logica del doppio genitivo impone di aderire al movimento della cosa stessa e uno sguardo testimoniale che non entra o non partecipa della congiunzione della manifestazione sarà sempre l’indizio di un metodo non all’altezza del suo compito. Il soggetto deve diradarsi in soggettività della manifestazione. L’automanifestazione non può fare a meno della soggettività della manifestazione, ma il suo accadere esige che il soggetto divenga semplice slargo in cui deve spegnersi ogni sua sporgenza sulla scena. La scena dell’accadere non deve avere testimoni. La presenza di un testimone fa da sintomo di un metodo non ancora all’altezza della doppia immanenza di pensiero ed essere. Levinas scrive dunque di assorbimento, di cancellazione, di un prendere l’iniziativa di perdere ogni iniziativa sulla congiunzione. Soggetto d’ascolto che non deve in alcun modo coprire l’intimità con cui essere e pensiero si flettono nel tempo istante della loro assegnazione. Soggetto che deve sparire nella differenza o nel differire in cui l’essenza trova la soglia istante della sua parusia. Meglio ancora deve sparire o spaziarsi nel punto stesso in cui aderisce al non disperdersi dell’essenza: «Al servizio dell’essere esso riunisce le fasi temporali in un presente attraverso la ritenzione e la protenzione, agendo così in seno al tempo che disperde»5. Il soggetto si ritrova compromesso con il punto di flessione dell’essenza, attraversa la dispersione e al contempo la raccoglie in una sorta di sintesi disgiuntiva, si trova a condividere l’ambiguità dell’istante temporale, interfaccia tra un prima e un poi, momento dialettico che l’invenzione concettuale deve proteggere dalla sua ambiguità aporetica.

Questi paragrafi di Altrimenti che essere, che meriterebbero maggiore attenzione tra gli interpreti, ci lasciano in eredità elementi importanti per una comprensione più adeguata del soggetto della modernità filosofica. Per Levinas la logica dell’essenza vincola il soggetto all’intimità di essere e pensiero. L’ipseità dell’ego trasla nel cogito e il cogito nella manifestatività del sum. La conseguenza è una certa impossibilità di giustificare un certo rapporto tra il metodo e la sua messa in opera; in altre parole una certa trascendenza del dire rispetto al detto. La logica dell’essenza, nel punto stesso in cui differisce il soggetto nel punto di flessione della manifestazione, deve oscurare nella totalità del detto il fuori in cui accade. Quel fuori di cui il dire stesso è la testimonianza. Il testo stesso in cui la filosofia si mette in opera si propone nella forma che cela il fuori che fa testimonianza della sua stessa apertura.

4. Coscienza e datità

Si tratta dunque di sottrarre il soggetto alla riflessività immanente del cogito. Io che non torna a sé dall’autoriflessione di sé. Io o ipseità che l’autoriflessione copre. Come se l’avvertenza dell’io nella sua trascendenza fosse di tutt’altra natura rispetto all’autovvertenza autoriflessiva. Come se Levinas fosse nella linea di rinnovare interesse verso un’appercezione che non si limita a costituire un punto di fuga dell’accadere fenomenale. Levinas chiama in causa l’evidenza di una certa impossibilità di arretrare in secondo piano. Il fuori dell’io resistente al cogito sarebbe nell’impossibilità di trascendersi, poiché già sempre trasceso nel suo fuori. Trasceso nel suo fuori significa trasceso nel dato. Potremmo forse dire trasceso nel reale del dato. L’io a questo punto sarebbe il nome per una intenzionalità condotta alla sua coerenza più estrema. Un’intenzionalità svuotata di ogni idealismo. Un’intenzionalità in cui il fuori dell’io si avverte non riflessivamente nel fuori del dato. La non immanenza del dato al suo flusso di coscienza fa da correlazione al fuori dell’io. La trascendenza dell’intenzionalità non sarebbe possibile se il fuori non restituisse anche una singolare esteriorità del dato, diciamo pure un certo realismo del dato. Del resto in Totalità e Infinito troviamo un’opzione molto chiara verso il primo realismo delle Ricerche logiche. Scrive Levinas:

L’oggetto della rappresentazione si distingue dalla rappresentazione – è questa l’affermazione fondamentale e più feconda della fenomenologia husserliana a cui si cerca subito di dare una portata realistica.6

La prima grande intuizione della fenomenologia quindi sottrae l’oggetto alla rappresentazione. La sua dirompenza sta nel realismo del dato. Non si aderisce al mostrarsi della cosa stessa se una rappresentazione copre la datità con la sua immagine, se il dato risulta nel rinvio di un simulacro rappresentativo. Non si aderisce all’evidenza della cosa stessa se si smarrisce il fuori o una certa esteriorità del dato. Come si sa, Levinas contesterà alla fenomenologia husserliana l’avere deviato da questo realismo delle origini. La correlazione tra noesi e noema copre la datità di una animazione per la quale l’esteriorità viene completamente ridotta al prospettarsi. L’intera logica intenzionale diventa un prospettarsi di cui il momento noematico impedisce di pensare l’evidenza in trascendenza al flusso di coscienza. Tra l’io e la datità una coscienza attenzionale continua a garantire il campo di evidenza del dato.

Levinas lo esprime molto chiaramente in questo passaggio:

La tesi husserliana sul primato dell’atto oggettivante […], porta alla filosofia trascendentale, all’affermazione – così sorprendente dopo i temi realisti cui sembra avvicinarsi l’idea dell’intenzionalità – che l’oggetto della coscienza, distinto dalla coscienza, è quasi un prodotto della coscienza come “senso” dato da essa, come risultato della Sinngebung.7

Si tratta dunque di preservare una distinzione. Si tratta di ripensare una distinzione dopo che la radicalità fenomenologica la smarrisce nell’animazione noematica. Levinas sa molto bene naturalmente quante complicazioni e insidie si celino in questa distinzione, tanto più che un pensiero della trascendenenza deve tutta la sua portata, la sua stessa stessa possibilità, a questa distinzione. Distinto qui deve preservare il senso di separato. Separato è il modo più adeguato per declinare questa distinzione tra coscienza e datità. La datità è ciò che resta nella separazione dalla coscienza. Se non evocassimo questa separazione la distinzione rimanderebbe a una certa dialettica: il distinto sarebbe ciò che la coscienza avverte come differente da sé, differente nel senso di non identico, differente dall’identico. Come se dicessimo B è B in quanto non è A e A è A in quanto non è B. Si può dire che questa differenza preservi una distinzione, ma in alcun modo questa distinzione si converte con una separazione. La distinzione come separazione che qui Levinas evoca può garantirsi solo se non si esaurisce in una logica per la quale un’identità può essere coimplicata in una differenza e una differenza in una identità. L’oggetto può essere distinto dalla coscienza solo se resta estraneo all’unità dialettica di identità e differenza. L’implicazione dialettica di identità e differenza promuove una sorta di trascendenza immanente, cioè una trascendenza già sempre recuperata in una immanenza in cui datità e alterità sono impossibili. Affinché il dato sia distinto nella separazione, affinché questa separazione sia all’altezza dell’evidenza fenomenologica della cosa stessa occorre che il dato nella sua stessa datità sia in altro. La lezione e l’eredità che Levinas offre alla fenomenologia è su questo punto essenziale: la separazione cioè deve nominare il suo essere dato ad altro. La separazione è il modo di esprimere l’implicazione di dato e dato a, di dato a e alterità. Affinché qualcosa sia data nel senso della separazione di un dato a occorre che qualcosa di decisivo accada nel flusso di immanenza per il quale un istante si offre sempre nel miraggio di un’interfaccia tra un prima e un poi. Il flusso di immanenza in cui un dato è sempre un objectum deve essersi deposto in un altro, deve aver trovato in un altro un’assoluta resistenza alla riduzione ad objectum affinché si predisponga in un fuori di sé.

La trascendenza del fuori coimplica dunque una deposizione del sé in un altro non appropriabile.

In un altro non appropriabile il sé trova un istante che non si flette nell’immanenza della riflessione. Per qualcosa come un istante la riflessione non si chiude nell’autoriflessione. Per qualcosa come un istante il tempo è fuori di sé, non torna a sé dal suo fuori. Per questo in Altrimenti che essere Levinas può affermare: «l’ipseità non è un punto astratto, centro di rotazione, identificabile a partire dalla traiettoria tracciata da questo movimento della coscienza»8.

Levinas evoca anche l’evidenza radicale, la strana evidenza di un sé nell’ipostasi dell’impossibilità di arretrare: «L’avvenimento in cui si mette in rilievo questa unità o questa unicità dell’ipostasi non è il brivido di sé nella coscienza; è una convocazione a rispondere senza indietreggiare, che convoca il sé come sé»9.

La critica e i commenti si focalizzano in genere sul momento della convocazione e le complicazioni che essa comporta (il suo tempo, il rischio elettivo, la sua certezza ecc.,).

Poca attenzione invece a questa impossibilità di arretrare. Questa impossibilità di arretrare ha il medesimo rango del dire rispetto al detto. Il detto non è all’altezza di ciò che realmente vuol dire se non espone il rango di questa impossibilità di arretrare. Mentre un’enorme tradizione ha insistito sul momento del sopravvenire del pensare sull’Io e del detto sul dire, come se L’ipseità o il dire fossero l’effetto miraggio del pensare e del dettato del detto, Levinas costringe la descrizione fenomenologica alla speciale evidenza di una datità esposta, già da sempre trascesa nel suo fuori, fuori del suo fuori, in una esteriorità che rinomina la trascendenza. L’ipseità non è ciò che si avverte nel pensare, non si esaurisce nell’autoaffezione del pensarsi. Allo stesso modo il dato non si esaurisce nel suo essere objectum. Tanto più l’ipseità si mostra nella sua trascendenza non trascendibile tanto più il dato si espone irriducibile all’objectum. D’altra parte tanto più la datità è esposta in una trascendenza dall’objectum tanto più il dato accade nella trasparenza o nell’immanenza dell’altro. Si potrebbe dire come terzo dell’uno e dell’altro. Se l’objectum riceve sempre l’animazione noematica dalla prospettiva di un subjectum, la datità si correla alla relazione dell’io e dell’altro. La stessa relazione dell’io e dell’altro però smarrirebbe qualcosa di decisivo senza questa trascendenza del dato, senza questo realismo del dato. Questo realismo del dato nell’esprimere l’irriducibilità del dato a objectum marca anche la sua improprietà. Dato è ciò che ha cessato di essere proprio, ciò che accade quando una eteroaffezione non si recupera nell’autoaffezione temporale. Quando il desiderio reinveste il conatus della pulsione.

5. L’eredità di Levinas

Levinas lascia una importante eredità in questo tentativo di rinnovare l’intenzionalità fenomenologica. Una ricerca fenomenologica che non ripartisse dal suo lavoro smarrirebbe qualcosa di serio e decisivo che andrebbe però seguito fino alla coerenza più estrema. Proprio su questa convergenza di realismo e trascendenza del dato la ricerca di Levinas resta solo accennata e in una certa misura sospesa.

Dopo Levinas è diventato possibile rinominare un dio senza l’essere.

Nella sua lezione e nella sua eredità l’essere traccia una cattiva trascendenza sull’ente. Una cattiva trascendenza sulla coimplicazione di datità e alterità. Nella coerenza del lavoro teorico di Levinas la coimplicazione di datità e alterità diventa la modalità con cui la differenza ontologica è portata al suo estremo, laddove un essere non resta come semplicemente differente dall’ente.

Dio senza l’essere si nomina in un’esperienza di un ente la cui datità non deve nulla al rinvio al suo essere. Medesima congiuntura in cui un dire si trova esposto nell’impossibilità di arretrare.

Laddove il dire è il corrispettivo dell’Eccomi. «Eccomi, in nome di Dio», senza riferirmi direttamente alla sua presenza. «Eccomi. tout court!»10.

In quest’eccomi, ipseità irriducibile all’intimità dell’ego sum, «L’Infinito non è davanti al suo testimone, ma come al di fuori o “all’inverso” della presenza»11.

Torna il fuori, come qualità di una inversione di presenza che non condivide però nulla con l’assenza. Non condivide nulla con la sintassi di una teologia negativa. L’epifania accade totalmente e senza rinvio nel dire di colui che la riceve. Strano sovvenire di un ordine o chiamata che in nessun tempo è stato ascoltato. Sentita scrive Levinas, consapevole della complicazione, nell’impeto stesso della risposta, nel sovvenire dell’esporsi ad altro. Dio è dunque il nome per questa esposizione ad altro laddove l’altro però non rinvia a nient’altro. Se Dio si nomina in quest’altro è perché l’essere non lo ha compromesso con la differenza e con il differire.


  1. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1986, p. 23. ↩︎

  2. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nota 1, p. 23. ↩︎

  3. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nota 1, p. 133. ↩︎

  4. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nota 1, p. 168. ↩︎

  5. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nota 1, p. 168. ↩︎

  6. E. Levinas, Totalità e infinito, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1986, p. 124. ↩︎

  7. E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nota 6, p. 124. ↩︎

  8. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nota 1, p. 133. ↩︎

  9. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nota 1, p. 132. ↩︎

  10. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nota 1, p. 187. ↩︎

  11. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nota 1, p. 187. ↩︎