Speranza, responsabilità e utopia

1. Introduzione

In questo breve saggio si cercherà di cogliere alcuni aspetti della relazione tra Il principio speranza1 e Il principio responsabilità,2 due dei più compiuti tentativi di costruire un’etica universalistica nello scorso secolo. Lo si farà partendo in primo luogo dal contatto polemico (problematico e tuttavia rivelatore) tra i due che significativamente Hans Jonas include nel proprio capolavoro, a riconoscere in Ernst Bloch un interlocutore che pone questioni da affrontare e risolvere. Il capitolo VI de Il principio responsabilità è quasi interamente dedicato a rispondere alle argomentazioni blochiane, situate chiaramente nell’emisfero opposto, politicamente quanto perfino lessicalmente. Si vedrà come tali obiezioni, espresse in un linguaggio piano e diretto, a tratti quasi accorato, siano più o meno felici e lo si farà partendo da quello che è forse il problema principale: la libertà dell’uomo nell’utopia. Si può capire come tale questione, soprattutto alla luce delle vicende storiche del XX secolo, abbia un’importanza capitale nel determinare quanto oggi sia possibile un’adesione parziale o totale alle istanze propugnate dai due filosofi. Alcune delle risonanze che questo tema ha sollecitato in pensatori di diversa provenienza saranno brevemente accennate, in relazione alle proposte dei due filosofi che si mettono qui a confronto.

2. La «Funzione utopica» blochiana e la critica di Jonas

Si parta dunque dalla critica jonasiana al concetto di utopia, così come delineato da Bloch. Se Jonas non può accettare che a guidare le azioni umane in prospettiva futura sia una supposta «funzione utopica», è in definitiva a causa di ciò che in ultima analisi si può ridurre all’undicesima tesi su Feuerbach di Karl Marx. L’abbandono della contemplazione, della mera spiegazione, salutato da Bloch come portato inestimabile della filosofia marxista, trasforma la filosofia in scienza dell’accadere, della trasformazione mediante l’azione. A detta di Bloch la conoscenza, nella filosofia precedente Marx, era tuffo nel passato (si veda, nella critica blochiana, la figura chiave dell’anamnesi, da Platone a Hegel). Ebbene, proprio in questo passaggio dalla teoria alla prassi, che si traduce in un ingresso dell’utopia nella storia, risiede il pericolo maggiore di una filosofia che vuole dare cittadinanza alla speranza nel «bancone del macellaio» che è la storia.

Certamente Bloch, se avesse conosciuto l’opera e la figura di Emil Cioran, sarebbe inorridito nel vedere accostare il proprio pensiero a quello dell’eretico romeno. Eppure, proprio Cioran ci ha lasciato alcune riflessioni sul pensiero utopico che restano illuminanti e che rivelano addirittura sorprendenti punti di contatto, pur conducendo ad esiti decisamente opposti. Quando Cioran afferma: «agire significa ancorarsi in un futuro prossimo, così prossimo da diventare quasi tangibile»3 sembra di riconoscere l’anelito verso il futuro così importante nell’antropologia blochiana. E ancora: «perfino il movimento come tale contiene un elemento utopistico».4

Queste frasi esemplificano almeno un labile contatto tra Cioran e Bloch: se pure Cioran non arriva a teorizzare una «funzione utopica», è chiaro che vede nella tensione verso il futuro un elemento chiave della natura umana quand’essa precipita nei gorghi della vita. La valutazione che ne dà è del tutto negativa, e qui si arriva al punto cruciale per la presente trattazione. Se Bloch non può essere tacciato di «ossessione di definitivo […] impazienza di instaurare il paradiso al più presto […], sorta di durata stazionaria, di Possibile immobilizzato, contraffazione dell’eterno presente»,5 vi è comunque nel pensiero utopico un quid di violenza che esplode nel momento in cui l’ideale entra nelle dinamiche storiche per pretendere di guidarle. Ecco come ciò suona nel linguaggio cioraniano, devastante per la sua capacità di penetrazione: «Idolatri per istinto, noi convertiamo in Incondizionato gli oggetti dei nostri sogni e dei nostri interessi. La storia non è che una sfilata di falsi Assoluti, una successione di templi innalzati a dei pretesti, un avvilimento dello spirito dinanzi all’Improbabile»6

La critica di Jonas non si muove certo su toni così visionari e febbrili. Ma il quid di violenza è comunque riconosciuto: il portato dell’undicesima tesi su Feuerbach è il grande, criminale fraintendimento del Ventesimo secolo. L’accorato appello a «la moderazione negli obiettivi contro l’immodestia dell’utopia»7 è un atto di accusa all’hybris di chi cerca di imporre l’utopia come unico esito della storia. Jonas individua il novum del pensiero marxista e ne riconosce la pericolosità: «Essi [i marxisti] vogliono realizzare sul serio la loro utopia che, grazie alla storia, può diventare ora oggetto di speranza e di prassi reale, pur non essendolo mai stata prima».8 E il processo di trasformazione, in cui per la prima volta l’uomo ha un ruolo da protagonista nel trasformare la scienza in prassi (anzi nell’eliminare la distinzione tra le due), è cosa talmente decisiva per il destino dell’umanità tutta che «è evidente, ma non vincolante per il nostro giudizio, il fatto che l’utopismo non stimi in considerazione dei vantaggi ricavati un prezzo troppo elevato rinunciare alla libertà individuale, arrivando a dichiarare pia illusione («pregiudizio borghese») l’oggetto del sacrificio».9 Il riconoscimento di questo problema nella dimensione utopica, tuttavia, conduce ad un interessante chiasmo se non altro nelle intenzioni di Bloch e Jonas. Indicativo è, nell’ultima citazione proposta, l’inciso «ma non vincolante per il nostro giudizio». Nei capitoli immediatamente precedenti infatti Jonas aveva avanzato un timido elogio dei vantaggi pratici che deriverebbero da un accentramento autoritario del potere. Anzi, con un sorprendente quanto machiavellico ragionamento Bloch ipotizza un possibile esito dell’ideologia comunista: quello cioè di trasformarsi in vera e propria «falsa coscienza» per contrabbandare la cautela e l’euristica della paura nell’afflato della speranza che gli è tipico. Insomma il comunismo è l’unica ideologia in grado oggi di propugnare presso le masse un ideale ascetico e renderlo accettabile: «sarebbe una colossale ironia del destino se il marxismo, che aveva messo così in primo piano la critica dell’»ideologia», fosse destinato a sua volta a porsi con una «falsa coscienza» al servizio di un fine cambiato — questa volta però coscientemente, a differenza dell’ideologia dominante che era piuttosto un prodotto inconscio degli interessi. In questo caso, però, una falsa coscienza sorretta da una coscienza giusta! Non inorridisco dinanzi all’idea».10 Qui si va ben oltre il riconoscimento della praticità dei sistemi autoritari, con la serie di vantaggi sulle democrazie liberali (rapidità nelle decisioni, controllo del dissenso ecc.). Jonas si dichiara «non inorridito» di fronte all’idea di un inganno universale motivato da un fine nobile come la salvezza del pianeta e dell’umanità stessa. Quest’affermazione ha un peso specifico notevolissimo, che si può facilmente tradurre in una dichiarazione di impotenza: l’euristica della paura che dovrebbe suscitare la responsabilità verso il «dover essere» dell’umanità futura non è sufficiente a muovere la volontà delle masse. La paura, passione determinata dalla domanda: «che cosa accadrà a quell’essere se io non mi prendo cura di lui?»11 e che dovrebbe determinare la nascita della responsabilità, non ha la forza della speranza. Si può aggiudicare per questo quantomeno un round a Bloch? Si può tacciare di spirito reazionario Jonas per questa presa di posizione così ambigua nei confronti di un eventuale regime autoritario che persegua gli interessi dell’umanità in generale? La questione è in realtà più complessa di quanto possa apparire. A prima vista (e quasi esplicitamente, dato che è Jonas stesso a creare il legame in nota al passaggio appena citato) si presta il fianco alla critica che Bloch aveva già mosso all’utopia Platoniana, repubblica autoritaria e reazionaria. Dall’altro lato invece Bloch non sembra volere rinunciare in alcun modo al valore della libertà individuale. Per completare il chiasmo al quale si accennava sopra, è Bloch che del «socialismo reale» degli anni un cui le opere qui in discussione vedono la luce critica la burocratizzazione e un eccesso di spirito oggettivante che si traduce in un «meccanicismo economistico che finisce con l’escludere l’altrettanto importante fattore della volontà umana, del soggetto della rivoluzione sociale».12 Insomma, l’arma in più che Jonas riconosce appartenere al blocco socialista è da Bloch (giustamente, viene da dire) avvertita come rischio mortale del marxismo. Bloch non smette mai di ricordare che «la priorità è economica, il primato umanistico».13 Nella critica all’«utopia dell’ordine» di Campanella, Bloch rivendica questo primato al marxismo: di essere l’unica prospettiva in cui convivano senza contraddizione lo spirito d’ordine e la libertà individuale. «Libertà e ordine, duramente contrapposte nelle utopie astratte [si parla qui di Moro e Campanella], nella dialettica materialistica trapassano così l’una nell’altra, si aiutano vicendevolmente. La libertà concreta è l’ordine del campo suo proprio, l’ordine concreto è la libertà, del suo unico contenuto.»14 Tuttavia, come si diceva, quest’assunto può non essere così convincente come sembra. È infatti tipico delle utopie non fare compromessi («per temperamento l’utopia non è invece per nulla incline al compromesso e all’imperfezione intrinseca, quindi alle mezze misure e all’instabilità»)15: non ci si può dunque aspettare che proprio sul tema della libertà Bloch sia disposto a trattare al ribasso. Purtroppo la posizione di Jonas non offre appigli così solidi, lasciandolo in balia di soluzioni provvisorie e di compromesso.

Si nota subito che da queste due serie ugualmente evidenti del «meglio di…» (la «libertà» è meglio della «mancanza di libertà» da un lato, la «stabilità» [leggi: «ordine» nel lessico blochiano] è meglio dell’»instabilità» dall’altro) non si può avere tutto insieme in egual misura, in quanto alcuni beni di una serie sono conseguibili soltanto a scapito di certi dell’altra serie, per cui la compensazione e il compromesso fra l’incompatibile (nel caso estremo) è quanto di meglio si possa realisticamente sperare.16

Insomma, Jonas non ha meno a cuore di Bloch la libertà individuale e non ha dubbi sul regime di governo preferibile per il suo sviluppo: «la nostra tesi è che i sistemi liberali sono superiori sul piano etico al loro antagonista, anche se quest’ultimo può superarli sotto alcuni aspetti in quanto a rendimento».17 Si nota dunque una dolorosa consapevolezza in Jonas, che nasce da un approccio pragmatico e cauto alla realtà del vivere sociale. Se Jonas non sembra mai voler distinguere molto l’ideologia marxista dalla sua realizzazione nel socialismo reale del secolo scorso, tale distinzione dovette essere ben chiara a Bloch, e causa di un’altra forma di dolorosa consapevolezza. L’esperienza del filosofo tedesco nei suoi anni passati nella DDR dopo il ritorno in Europa deve essere stata quantomeno una cruda immagine della distanza tra ideale marxista e sua realizzazione in uno Stato (e suoi satelliti). Accolto come celebrità intellettuale, Bloch sarebbe rimasto vittima dell’ottusità e della violenza di una classe politica che evidentemente sapeva ben scegliere tra «stabilità» e libertà individuale: un rapporto che trova per certi versi analogie nelle vicende ginevrine di Rousseau. In fondo, ciò che rende inattuale l’opera di Bloch è proprio il duro raffronto con la storia del secolo appena trascorso. Nel Principio speranza non è ancora presente una critica allo stalinismo, e le parole sulle prospettive e le dinamiche dell’Unione Sovietica ivi delineate muoverebbero al riso, se non si trattasse di pagine così tragiche nella storia dell’umanità. Il punto chiave della questione che si sta analizzando merita però di «mettere da parte» almeno per un momento la storia, o almeno di chiedersi se sia legittimo farlo, per vedere se rimane, fuori dalle complesse dinamiche storiche, un residuo di verità e dunque di praticabilità per il futuro. E il tema, lo si ripete, è la legittimità della violenza nell’imporre l’utopia. Bloch non può non credere nella rivoluzione così come prospettata da Marx, fino ad affermare che «la rivoluzione può e deve usare la violenza, in quanto il male stesso se ne serve per conservarsi; d’altra parte, al rivoluzionario deve sempre essere chiaro che la violenza rivoluzionaria non è, in sé, una funzione della rivolta, ma solo l’effetto necessario della violenza del potere e, pertanto, la vera forma della lotta contro la violenza stessa».18 La violenza dunque non appartiene alla rivoluzione, ma essa se ne appropria (deve farlo) per rovesciare la violenza con la quale il regime capitalista agisce per perpetuare se stesso. Ossia, detto in termini positivi: «in questo genere di violenza è inevitabilmente immanente la fine della violenza».19 Come si è visto, su questo punto la risposta di Jonas si rivela ambigua, o almeno tale da prestare il fianco a diverse critiche. Si è però visto che le ragioni di una tale presunta ambiguità nascono in una concezione profonda che sta agli antipodi rispetto a quella di Bloch e che si traduce in un pensiero antropologico e perfino ontologico completamente diverso. Sarà dunque il caso di percorrere il tragitto che conduce dal giudizio jonasiano su regimi liberali e totalitari fino alla radice della sua antropologia, per individuare il nocciolo della differenza tra i due pensatori.

3. Utopia e individuo

Ci si farà guidare da chi questo tragitto lo ha percorso per intero, intrecciando pensiero, produzione artistica e vita personale: Vassilij Grossman. Nessuno meglio dello scrittore russo ha saputo esprimere il disagio di un’adesione problematica ad un regime che, propugnando un’idea assoluta e generale di «bene», ha commesso i crimini più atroci. Nel suo capolavoro Vita e destino la presa di posizione è talmente netta da condannare quest’opera monumentale all’oblio fino ad anni e luoghi in cui parole così dure potessero essere liberamente pronunciate e lette.20 Il conflitto tra libertà e oppressione, tra speranza e devastazione trova in Vita e destino una propria collocazione storica e geografica: la battaglia di Stalingrado che tra 1942 e il 1943 oppose in uno scontro diretto le forze dell’Asse (sotto il diretto comando tedesco e, nelle fasi finali, di Hitler personalmente) e l’armata rossa. Il libro è in parte una celebrazione dello sforzo dell’intera Unione Sovietica per resistere all’aggressione nazionalsocialista e per passare dalla difesa alla vittoriosa controffensiva. Ma è evidente che non ci si limita a questo. Stalingrado non è solo il punto di contatto e di conflitto della libertà contro la selvaggia oppressione: diventa in modo molto più inquietante il fuoco dove i nemici si specchiano ed imparano a riconoscersi in chi hanno di fronte, leggendo come proprie l’umanità e la disumanità del nemico. Dunque, l’idea del bene può originare le stesse inumane barbarie del suo opposto. Se c’è da scegliere tra Stato e individuo, Grossman non ha il minimo dubbio: «Stalin costruisce quello che serve allo Stato, e non all’uomo. L’industria pesante serve allo Stato, e non all’uomo. […] Le esigenze dello Stato sono ad un estremo, quelle dell’uomo all’altro»,21 fa dire allo storico Mad’jarov. Ma è il personaggio di Ikonnikov, mistico visionario recluso in un lager, che muove la più severa accusa al regime sovietico come realizzatore dell’utopia:

Ho visto la forza incrollabile dell’idea del bene sociale, che è nata nel mio paese. L’ho vista nel periodo della collettivizzazione forzata e nel Trentasette. Ho visto uccidere nel nome di un ideale bello e umano come quello cristiano. Ho visto le campagne morire di fame, e i figli dei contadini che morivano tra le nevi della Siberia; ho visto le tradotte che da Mosca, Leningrado e altre città della Russia portavano in Siberia centinaia di migliaia di uomini e donne, i nemici della grande, luminosa idea del bene sociale. Era un’idea bella e grande e ha ucciso senza pietà, ha rovinato le vite di molti, ha separato le mogli dai mariti, i figli dai padri.22

E ancora: «Ora sul mondo incombe il grande orrore del nazismo tedesco. […] ma anche questi crimini […] sono compiuti in nome del bene.»23 Il disprezzo che Mostovskoj (comunista della prima ora finito nei campi tedeschi dopo l’occupazione) prova per queste parole è reso amarissimo dalla costatazione che è lo stesso disprezzo che l’Obersturmbannfürer Liss manifesta apertamente. La conclusione è che l’utopia, quando entra nella Storia, non può in alcun modo astenersi dalla violenza, diventando incubo. E questa, si badi bene, non è una deviazione dalla dottrina, dovuta ad una presunta malvagità degli attori coinvolti nel processo. Questa volta è Cernecov, menscevico rinchiuso nel campo tedesco, a parlare all’ortodosso Mostovskoj: «Ovviamente a lei fa comodo pensare che nel Trentasette ci sia stato giusto qualche abuso di troppo, che la collettivizzazione sia stata una «vertigine da successo» e che il suo amato grand’uomo pecchi giusto di un pizzico di crudeltà e di brama di potere. È vero il contrario, invece: è la mostruosa disumanità di Stalin che lo ha reso il successore di Lenin.»24

Il problema, se si vuole, è il rapporto tra l’enormità del fine che l’utopia si prefigge e la piccolezza dell’uomo che di fronte a questa assume volta a volta posizioni diverse: indifferenza, partecipazione attiva, opposizione. È il tema che riemerge ossessivo nell’ultimo libro di Grossman, Tutto scorre, dove chi è fedele all’utopia e dunque al partito deve affermare che non si può abbattere una foresta senza fare schegge (formula che si potrebbe tradurre con «non si fanno frittate senza rompere uova»). Ivan Grigorievitch può rispondere: «ma il male è proprio abbattere la foresta: perché abbattere la foresta?»25 L’incompatibilità tra utopia e individuo emerge tanto forte che Hannah Arendt, amica e collega di Hans Jonas, arriva ad usare la stessa immagine: «una volta che qualcuno ha deciso che non si pialla senza fare della segatura, costui diventa inaccessibile ai suoi amici perché ha ormai deciso di non averne più, li ha sacrificati tutti, non sono altro che segatura.»26 Ancora una volta, l’utopia che entra nella storia mostra quello che Pasternak definiva il «dominio inumano dell’immaginario». Ma è veramente questa l’utopia alla quale Bloch ha dedicato la propria vita? Si possono ricondurre gli orrori ricordati e condannati senza appello ad una filosofia della speranza, una filosofia così umana che mette in primo piano proprio l’uomo e il suo agire? È qui che la risposta di Jonas diventa più profonda e centrata, in accordo proprio con Hannah Arendt. Secondo la lettura di Jonas l’utopia marxista si distingue da quella classica perché promette di rifondare l’uomo stesso, di arrivare ad un uomo nuovo. Non si tratta dunque più di liberare la naturale bontà dell’uomo, come voleva un lungo filone utopico che arriva fino agli anarchici dell’800. Non è neppure più il superuomo nietzscheano che in realtà è l’orizzonte di ogni stato dell’umanità (naturalmente in Nietzsche è assente ogni orizzonte utopico così come l’idea di una condizione «definitiva» di arrivo dell’essere umano): «in breve, il «superuomo» esiste da sempre, proprio come «l’uomo»: quello futuro sarà diverso dal suo predecessore, ma anche quest’ultimo a sua volta lo era.»27 Il pathos dell’utopia marxista sta piuttosto nella promessa di una trasformazione dell’uomo più ancora che nella soppressione dell’ingiustizia sociale. Questo orizzonte necessita della fede che questo «uomo autentico» non sia mai esistito prima e che esso ci sia fondamentalmente sconosciuto. Questa lettura del pensiero di Bloch, che è la chiave della successiva critica in Jonas, è un’interpretazione legittima? Occorre tornare alle parole del Principio speranza. È senza dubbio vero che la «formula» dell’ideologia progressista in Bloch sia, come giustamente riporta Jonas, «S non è ancora P», che pone lo status ontologico di S (soggetto) come non-essente-ancora (predicato). Nel caso che interessa questa disamina si parla dunque della condizione dell’uomo in generale, che implica che l’uomo autentico deve ancora venire, mentre quello finora esistito non era ancora e non era mai stato tale, pur contenendolo in nuce secondo la teoria materialista. Ma la proposizione è valida in tutte le manifestazioni dell’umano agire? Ecco cosa dice Bloch della genialità applicata all’arte: «il grado delle doti geniali è precisato dalla pienezza del suo non-ancora-conscio, cioè dal suo mediato esser oltre e fuori di ciò che finora è stato dato come conscio, che finora nel mondo era esplicitato e configurato».28 Si può addirittura affermare che tutte le poderose rassegne storico-critiche che attraversano Il principio speranza non siano che tentativi di rilevare questo non-ancora nell’attività umana, che una volta esplicitato dà la misura di quanto di un’opera sia ancora attuale: «solo per questa ragione le grandi opere hanno qualcosa da dire a tutti i tempi».29 Se una teoria estetica così formulata lascia molto a desiderare, è nel momento in cui diventa teoria antropologica che emerge in tutto il suo pericolo. Lo scopo della rivoluzione comunista è, secondo le parole di Marx citate da Bloch, «lo sviluppo delle forze produttive umane, dunque lo sviluppo della ricchezza della natura umana come fine in sé».30 Ossia, questa volta con le parole dello stesso Bloch: «il trascendere senza alcuna trascendenza celeste ma con la comprensione di questa quale anticipo ipostatizzato dell’essere-per-sé».31 Quest’interezza dell’uomo, latente nella sua materia, attende la rivoluzione per essere scatenata. Fino ad allora, solo l’arte offre il luogo per la manifestazione di (provvisorie) interezze: «Ma l’uomo intero deve dare un suono pieno, e a quell’epoca era intero solo se poetava».32 Il pieno sviluppo dell’interezza umana può avvenire solo in un mondo che non sia più il regno della necessità, dove finalmente le parole forse più belle e ricche di pathos profetico di Marx si possono avverare: «ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni»33

Qui risiede, a detta di Jonas, il pericoloso errore di Bloch e del marxismo, definito in titolo al capitolo «l’errore antropologico dell’utopia». In passaggi così vibranti e intensi che è difficile non riportarli per intero, Jonas afferma che il cosiddetto «uomo autentico» è «sempre esistito con tutti i suoi estremi, nella grandezza e nella meschinità, nella felicità e nel tormento, nell’innocenza e nella colpa; in breve, in tutta l’ambiguità che gli è connaturata».34 Credere che il nunc stans del momento mistico, per definizione l’attimo supremo dell’esperienza personale di «fuga in avanti» possa diventare «oggettività permanente di uno stato pubblico»35 significa ignorare i limiti della natura umana. Peraltro, Jonas si preoccupa anche di dimostrare che l’uomo utopico, se anche fosse possibile «costruirlo», non sarebbe che un homunculus sottoposto in modo umiliante ai condizionamenti della tecnologia e del benessere. Jonas spende diverse pagine nell’aggredire la profezia utopica di Bloch, dimostrando con un linguaggio straordinariamente semplice come i tratti di idealità che la ispirano non farebbero che sprofondare nell’incubo. L’accurata disamina (incentrata soprattutto sul tema del rapporto tra lavoro e ozio, necessità e libertà) mostra ancora una volta la concretezza dell’argomentazione del filosofo, costringendo l’utopia ad uscire dalla vaga aura profetica. Non è il caso qui di ripercorrere il ragionamento, tanto più che il nucleo della contrapposizione risiede altrove e cioè, come si è detto, in una diversa concezione dell’uomo e della Storia. Jonas non nega che l’individuo possa migliorare se stesso e neppure che lo possa fare la società. «Non c’è dubbio che esista progresso nella «civiltà» e in genere in tutti i tipi di capacità umane che sono di proprietà comune e suscettibili di sviluppo al di là della vita singola».36 Ciò che è fondamentale ricordare è che «ogni presente dell’umanità costituisce un fine in se stesso e lo è stato perciò in ogni epoca passata. […] Tutto è «transizione» alla luce del dopo, qualcosa è «adempimento» alla luce del prima, qualcosa anche fallimento, ma nulla è semplice prefigurazione dell’autenticità che deve ancora venire».37 L’afflato kantiano si fa qui più vivo che mai per ribadire che lo stabilire una gerarchia tra l’uomo di oggi e quello che verrà rischia di generare una svalutazione della vita umana così come la conosciamo. E lo stesso vale per le arti e le manifestazioni della cultura in generale: «Ci si dovrà quindi rassegnare anche al fatto che Isaia e Socrate, Sofocle e Shakespeare, Budda e Francesco d’Assisi, Leonardo e Rembrandt, Euclide e Newton non possono appunto essere «superati».38 Naturalmente questo è ben lontano dall’intenzione di Bloch, ma il punto è che proprio l’appiattimento della lettura del passato alla luce di un fine unico non fa che inaridire in modo insopportabile la nostra «eredità». Si capisce ora quanto fossero giustificate le preoccupazioni di Vassilj Grossman quando esprimeva il proprio orrore di fronte al «bene» in azione. Di fronte ad un fine unico, spropositato e luminoso, nessun sacrificio parrà troppo elevato. Non solo. L’eventuale fallimento o le difficoltà nella realizzazione dell’utopia ricadono necessariamente sull’uomo, sull’inadeguatezza del suo operare se confrontato alla grandiosità del progetto. Come suggerisce Alain Finkielkraut, «[L’uomo] non dispone più dell’argomento del peccato originale. Pertanto, scopre la figura decisiva dell’avversario, del nemico. Quello che una volta si imputava all’uomo peccatore, ora si imputa all’avversario»39 Si può tornare qui a ricordare Cioran, che diceva: «I veri criminali sono coloro che instaurano un’ortodossia sul piano religioso o politico, che distinguono tra il fedele e lo scismatico».40 Che questo pensiero, questa divisione dell’intera umanità in due (e non si tratta qui di sfruttatori e oppressi, ma più radicalmente, come sostiene Fienkelkraut, di «camerati» e «nemici») non sia del tutto estraneo a Bloch è testimoniato da un accenno proprio ad una potenziale «fase di transizione» prima dell’avvento della società futura: «La cosa peggiore è se un gruppo è diventato rosso a metà ma l’altra metà è piccolo borghese come prima, e quest’altra metà tramanda, educa e sviluppa tutte le nobili qualità del piccolo borghese».41 Basterà un nobile esempio a convincere degli esecrabili «ritardatari»? L’essere disposti ad una rischiosa scommessa con un premio così elevato in caso di vittoria fa dimenticare ciò su cui Jonas mette l’accento, e cioè il rischio enorme in caso di sconfitta. L’utopia come costruzione dell’umano mette la natura umana stessa nel piatto delle cose in gioco in questa scommessa ormai cosmica. Una natura sulla quale l’uomo ha diritto di intervenire attivamente, una volta entrato nel regno della libertà e della pacificazione con la natura. Il tema del rapporto tra uomo e natura è uno dei luoghi principali dello scontro tra Bloch e Jonas e non è questa la sede per ripercorrerlo per intero. Tuttavia, è indispensabile ricordare che per Bloch «la natura […] è il terreno edificabile non ancora ripulito, il materiale da costruzione non ancora adeguatamente presente per quella dimora umana non ancora adeguatamente presente» e «la natura definitivamente manifesta come la storia definitivamente manifesta è situata unicamente nell’orizzonte del futuro».42 Che rispetto si può avere della natura allo stato presente con una simile impostazione, si chiede Jonas? Se poi la natura umana stessa diventa «terreno edificabile», cosa protegge l’uomo dal commettere errori irreversibili?

Il punto è che per Jonas la «scommessa» in nessun modo può riguardare la natura umana. Se viene «negata esplicitamente l’idea stessa di un limite naturale all’artificialità umana», se «la società nel suo insieme diventa una tecnica ingegneristica per la determinazione della natura umana»,43 il marxismo si dimostra vittima di una hybris baconiana totalmente in linea col regime capitalistico. Il compito di un’etica non deve essere quello di cercare di fare un uomo migliore, ma più modestamente di permetterne l’esistenza. Come l’imperativo categorico kantiano si basava sulla regola logica della non contraddizione di una massima morale diventata regola universale, così ogni sforzo etico, secondo Jonas, deve avere in primo luogo il compito di «lasciare aperto l’orizzonte delle possibilità che, nel caso dell’uomo, è dato con l’esistenza stessa della specie».44 Nelle condizioni attuali questo sembra essere l’unica urgenza: ancora prima di poter dire «sì» all’uomo, occorre pronunciare un secco «no» alla sua possibilità di non essere più. Ed è chiaro che questo include ogni situazione nella quale il non essere si presenta come esito anche solo possibile, dacché nessun guadagno finale può giustificare una tale assunzione di rischio. «Non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire».45 Diventa così indispensabile «prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza»46

Questo è tanto più vero in un mondo dove, a detta di Jonas, l’homo faber ha ormai superato di molto l’homo sapiens, un mondo cioè dove diventa sempre più difficile prevedere gli esiti di ogni «fare» tecnologico: nel momento in cui si sceglie di fare il primo passo si è già schiavi di quelli successivi. Impossibile non leggere una certa corrispondenza col pensiero di Günther Anders che leggeva nell’uomo attuale una insostenibile discrepanza tra la sua capacità di distruzione e la sua possibilità di immaginare tale distruzione.47

4. Conclusione

Come si vede, le due teorie qui diventano veramente inconciliabili, basandosi su due ontologie completamente opposte: Jonas rifiuta infatti di «rischiare il nulla».48 Se si riconosce un fine, una tensione teleologica nella natura (e qui i due filosofi, in linea molto generale, possono essere considerati in accordo), si ammette che «in senso assoluto un’autoaffermazione sostanziale dell’essere si pone come migliore rispetto al non essere. In ogni scopo l’essere si dichiara a favore di se stesso e contro il nulla».49 È in primo luogo il «sì» alla vita (unitamente al «no» al non essere) che fonda l’etica con la sua propria forza normativa. Diversa è l’ontologia di Bloch. Se ad un primo livello si riscontra un monismo derivante dall’identità di essere ed esserci (pure se spostato «al futuro» dato che la substantia ottiene la sua essentia nell’atto), dall’esserci come movimento verso il futuro (secondo la categoria dell’«identità che ha da essere»), ad un livello ulteriore si arriva addirittura ad una sfumatura gnostica. Nell’esito del processo diveniente che porta all’identità di essere ed esserci il nulla non è escluso dall’orizzonte. Il nulla quindi si rivelerebbe solo alla fine del processo come vero «essere», come ultimo atto dell’esserci che perviene al suo più alto grado. «L’ontologia blochiana si rivela pertanto come una riedizione contemporanea e originale di posizioni gnostiche, per lo meno per quello che attiene ai suoi capisaldi teoretico-metafisici.»50 Nelle parole di Bloch i due aspetti della sua ontologia emergono come parti inseparabili:

dunque la via del processo consapevole della realtà è sempre più una perdita dell’essere-statico fissato, addirittura ipostatizzato, una via della percezione crescente del nulla, e naturalmente con ciò anche dell’utopia. Ora questa comprende totalmente il non-ancora come dialettizzazione del nulla nel mondo; ma altrettanto poco essa sopprime nel reale-possibile l’alternativa aperta fra nulla assoluto e tutto assoluto.51

Richiamare alcuni fondamenti ontologici della filosofia blochiana serve per sottolineare che il nulla non è mero strumento della dialettica, modo d’uso dell’essere per progredire, ma rischio reale in ogni momento del processo utopico. Rischio concreto che tuttavia è necessario correre. Se questo aggiunge pathos all’intera struttura dialettica dando nuovo vigore al tema del male e del nulla, altrimenti sviliti da un’applicazione meccanica delle regole della dialettica, espone l’intero essere all’esito che Jonas definisce chiaramente inaccettabile perfino come rischio.

In conclusione di questa breve disamina, sarà il caso quantomeno di accennare ad un raffronto tra i due autori che non si limiti alla logica della secca alternativa e che metta in gioco quanto di più proficuo e vivo ci sia in due filosofie per certi versi così inattuali. Si badi bene, tale potenziale riavvicinamento non potrà essere fatto a spese del rigore e nell’ottica di uno svilimento delle due posizioni di partenza: si è già visto che per certi aspetti di fondo esse sono ampiamente incompatibili ed un volgare matrimonio (che parta dalla triviale constatazione che nel «senso comune» speranza e responsabilità non sono affatto valori contrapposti) comporterebbe lo svuotamento dei contenuti più preziosi di entrambe. Tuttavia, vi sono alcune indicazioni che consentirebbero (in altra sede e con maggiore approfondimento) una lettura di Bloch che tenga conto dei rilievi di Jonas e che pertanto salvi il portato così denso e ricco di pathos della filosofia della speranza senza incorrere nelle contraddizioni che il duro raffronto con la storia ha messo in luce. Il punto di partenza è il riconoscimento che Jonas fa del marxismo come interlocutore imprescindibile di un’etica per la responsabilità: «[…] per la prima volta la responsabilità per il futuro storico nel segno della dinamica viene posta con evidenza razionale sulla mappa etica, e già per questo motivo il marxismo deve essere costantemente assunto a interlocutore dei nostri sforzi teorici di elaborare un’etica della responsabilità storica.» Se questo è vero per il marxismo in generale, è ancora più vero per Bloch che, come l’esegesi contemporanea riconosce, pone una forte responsabilità etica verso l’attimo e verso il dover essere dell’uomo: «l’ontologia del non-essere-ancora apre lo spazio etico, perché fonda la comprensione dell’esistere dell’uomo come un compito assegnato a ciascuno, affidato alla sua cosciente volontà e capacità di agire e creare.»52 La critica di Jonas perderebbe completamente senso se non si ricordasse (e sembra essere il rischio di molti commentatori di Bloch) che il problema, come ricordato sopra, risiede nel situare l’autenticità dell’uomo nel futuro, finendo dunque per asservire l’uomo presente all’idea di ciò che potrebbe essere, condannandolo ad essere antenato della parte migliore di se stesso. Anche per quanto riguarda la funzione utopica, col suo correlato categoriale di desiderio che così intensamente parla alla natura di ogni uomo, va ricordato che per Bloch l’utopia è sostanzialmente morta da Marx in poi. Da quel fondamentale spartiacque ogni immagine di utopia sarebbe solo falsa coscienza, colpevole ideologia. Dal momento in cui la prassi si impossessa dell’obiettivamente possibile, non c’è più spazio per un wishful thinking innocente:

le utopie borghesi sfociano così in scempiaggini, scompare persino la fantasia; il cosiddetto nobile futuro che a causa della sua vaghezza e ancor più per via dei suoi surrogati di socialismo borghese evita il marxismo diventa pura curiosità o epigonismo. Alla fine non restano che dilettantismo e pula; da esse il grano delle utopie sociali è scomparso insieme col marxismo.53

Se è vero che «non c’è realismo, che sia tale, se astrae da questo elemento potentissimo nella realtà, in quanto incompiuta»,54 d’altro canto l’utopia come funzione dello spirito sembra aver compiuto il suo percorso nella storia dell’uomo per arrivare al novum che nel marxismo è l’anticipazione «processuale-concreta». È possibile liberare il primo termine della tesi dal peso (anche storico, come si è visto) del secondo? Di certo Bloch non rischia di rendere il proprio sistema un sistema «chiuso». L’impetuosa corrente della speranza non sfocia nello stagnante mare del comunismo. Ciò che l’uomo autentico spererà e desidererà non è dato sapere, ma il punto problematico è piuttosto la presunzione di sapere la via per arrivare ad un uomo autentico, un errore che si rifrange, come visto, tanto nella concezione estetica quanto in quella antropologica. Come si è detto, non è questa la sede per offrire nuovi spunti ad una riflessione che peraltro negli ultimi anni sta giustamente dando nuova vita all’esegesi sull’opera blochiana.55 Ci si limita qui a suggerire sommessamente che il mondo attuale (dunque non solo la riflessione filosofica) non può fare a meno dell’opera di Bloch e Jonas. Se c’è, in definitiva, un elemento che unisce le tesi dei due autori, è proprio quello di trovarsi in una posizione estremamente debole nel contesto dell’agire umano così come lo si vede oggi: l’appello alla responsabilità si traduce al più in un ecologismo oltranzista che peraltro ottiene scarsi risultati (e che poco si cura di proteggere in primo luogo l’integrità umana), mentre dall’altro lato l’uomo sembra aver perso la capacità di immaginare o prefigurare un avvenire luminoso. La responsabilità si è ridotta a paura, la speranza è diventata egoismo per nulla attento ai doveri del non-ancora. È da questa debolezza (da questo fallimento?) che dovrebbe partire ogni tentativo di ridiscutere i due principi che, più appaiono sbiaditi, più impongono il nostro impegno.


  1. Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005. ↩︎

  2. Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2009. ↩︎

  3. Emil Cioran, Storia e utopia, Adelphi, Milano 2008, p. 130. ↩︎

  4. Ibid., p. 132. ↩︎

  5. Ivi↩︎

  6. Emil Cioran, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano 1996, p. 13. ↩︎

  7. Hans Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 244. ↩︎

  8. Ibid., p. 222. ↩︎

  9. Ibid., p. 220. ↩︎

  10. Ibid., p. 190. ↩︎

  11. Ibid., p. 285. ↩︎

  12. Marco Cangiotti, «Di cosa è fatta la speranza», Lettura di Bloch, Quattroventi, Urbino 1985, p. 120. ↩︎

  13. Ernst Bloch, Naturrecht und menschliche Würde, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1961, p. 13, cit. in M. Cangiotti, «Di cosa è fatta la speranza», cit., p. 120. ↩︎

  14. E. Bloch, Il principio speranza, cit., p.613. ↩︎

  15. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 220. ↩︎

  16. Ivi↩︎

  17. Ibid., p. 219. ↩︎

  18. M. Cangiotti, «Di cosa è fatta la speranza», cit., p. 163. ↩︎

  19. E. Bloch, Il principio speranza, cit., p. 1048. ↩︎

  20. Per una breve storia delle peripezie del manoscritto fino alla sua pubblicazione cfr. Pietro Tosco, History of the manuscript, disponibile online alla pagina http://grossmanweb.eu/?page_id=413 ↩︎

  21. Vassilj Grossman, Vita e destino, Adelphi, Milano 2008, p 239. ↩︎

  22. Ibid., p. 353. ↩︎

  23. Ivi. ↩︎

  24. Ibid., p. 258. ↩︎

  25. Vassilij Grossman, Tutto scorre, Adelphi, Milano 2010. ↩︎

  26. Hannah Arendt, Journal de pensée, cit. in Alain Finkielkraut, Philosophie et modernité, Editions de l’école polytechnique, Paris 2009, p. 116, traduzione mia. ↩︎

  27. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 200. ↩︎

  28. E. Bloch, Il principio speranza, cit., p. 148. ↩︎

  29. Ibid., p. 149. ↩︎

  30. Ibid., p. 1487. ↩︎

  31. Ivi↩︎

  32. Ibid., p. 1137. ↩︎

  33. Karl Marx, Critica al programma di Gotha, in Marx-Engles, Opere scelte, Editori riuniti, Roma 1971, p. 962. ↩︎

  34. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 278. ↩︎

  35. Ibid., p. 279. ↩︎

  36. Ibid., p 209. ↩︎

  37. Ibid., p. 281. ↩︎

  38. Ibid., p. 282. ↩︎

  39. Alain Finkielkraut, Philosophie et modernité, Editions de l’école polytechnique, Paris 2009, p. 117, traduzione mia. ↩︎

  40. E. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 14. ↩︎

  41. E. Bloch, Il principio speranza, cit., p. 1564. ↩︎

  42. Ibid., p. 796. ↩︎

  43. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 198. ↩︎

  44. Ibid., p. 179. ↩︎

  45. Ibid., p. 47. ↩︎

  46. Ibid., p. 39. ↩︎

  47. Günter Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Per i rapporti tra il pensiero di Bloch e di Anders cfr. Arno Münster, Principio Speranza e principio disperazione, Aracne editrice, Roma 2007, che curiosamente non accenna al tema della capacità che l’uomo ha di leggere adeguatamente il futuro. ↩︎

  48. Ibid., p. 48. ↩︎

  49. Ibid., p. 102. ↩︎

  50. M. Cangiotti, «Di cosa è fatta la speranza», cit., p. 45. ↩︎

  51. E. Bloch, Il principio speranza, cit., p. 367, corsivi dell’autore. ↩︎

  52. Gerardo Cunico, La sfida dell’attimo, in Gerardo Cunico (a cura di), Attualità e prospettive del «Principio speranza», La città del sole, Napoli 1998, pp. 157-186, p. 172. ↩︎

  53. E. Bloch, Il principio speranza, cit., p. 710. ↩︎

  54. Ibid., p. 716. ↩︎

  55. Si segnala, nella direzione indicata, il profondo contributo di Giovanni Ferretti: Utopia in eredità. Attualità e inattualità dell’interpretazione della religione in Ernst Bloch, in G. Cunico (a cura di), Attualità e prospettive del «Principio speranza», cit., pp. 45-77. ↩︎