«Patire l’immanenza» ne L’essence de la manifestation di Michel Henry: possibilità di un ossimoro

1. Senso di una rilettura

Dire che la fenomenologia di Michel Henry è una fenomenologia del patire e dell’immanenza non dice niente di nuovo del pensiero di questo autore, essendo questi i due termini con i quali tante volte è stato definito. Tuttavia, prendendo a prestito un’espressione di Blaise Pascal, nello spirito della continua rilettura di un autore incontrato già da tempo,1 vorrei proporre la ricerca di un «abîme nouveau»,2 o forse, di nuovi abissi scavati, erosi dall’unione stessa dei due termini. Unione non accidentale né casuale, piuttosto un ossimoro che sarà indagato nella sua capacità euristica. Un ossimoro, ossia la complessione di una polarità di opposti la cui irriducibilità antinomica si scioglie in una più alta unità. Con una mira: come il sublime, nel XVIII secolo da figura retorica (così come nel trattato dello Pseudo-Longino) si è fatto sentimento filosofico, l’ossimoro — nel pensiero di Henry — esce dall’ambito linguistico-retorico per farsi modo essenziale del filosofare. Mira che, tuttavia, chiede una rilettura.

Rilettura del pensiero di Michel Henry motivata da una sfida, ossia dal tentativo di rispondere ad alcune questioni critiche che in passato avevo mosso all’opera di Henry, pur subendone una certa fascination. Nello specifico chiedevo se non pensiero come questo, ossia un pensiero dell’immanenza radicale, non finisse col perdere di vista il concreto, ad esempio la concretezza del corpo troppo radicalmente opposto alla carne; e se tale pensiero, contrapponendo mondo e Vita, non finisse col perdere proprio quel mondo in cui comunque ogni singola vita vive, giungendo ad una vaga indistinzione. Così, alla drastica separazione di vita e mondo, si può facilmente obiettare che invece la vita si vive nel mondo. Obiezione in senso diverso formulata anche da Renaud Barbaras che ha definito la vita pensata da Henry soltanto metaforica e non concreta e reale. Lo iato e la differenza della manifestazione tra Vita e mondo probabilmente legittima ancora tali questioni, ma forse le legittima soltanto in avanti, ossia quando la questione è diretta verso il mondo, verso il corpo, verso il concreto. Ma che cosa accade prima, al di qua della questione? Henry enfatizza, certo, l’immanenza della vita che non si coglie nel mondo ma soltanto in se stessa e nella propria immanenza ma lo fa partendo da un’esigenza che non possiamo non condividere, ossia allo scopo di non ridurre la vita a dato biologico e di non oggettivarla, scopo per cui essa deve potersi manifestare a partire da se stessa. Da qui, da tale questione iniziale e principiale si vorrebbe ora ripartire, rileggendo l’origine del gesto henryen come pensiero di un ossimoro nel quale l’in-differenza ha la sua radice. Ché l’incipit di quest’in-differenza collocante ogni rivelazione nell’auto-esperirsi è nel «patire l’immanenza», ma «patire l’immanenza» è, appunto, un ossimoro.

Come, infatti, è possibile patire ciò che im-mane? Non sarebbe più opportuno dire che ad essere patita è la trascendenza e ogni cosa che trascende? È possibile patire l’«in cui» si è e, soprattutto, che si è? È qui che vorrei cercare quell’«abîme nouveau» cercato da Pascal nell’infinitamente piccolo, leggendo i due termini come un ossimoro di opposti che, inscindibilmente e irriducibilmente, lasciano che l’essenza della manifestazione si riveli come una costituzione che, prima del divario, dello iato, è complessione di pathos e immanenza.

2. Dell’immanenza, del patire

Patire e immanenza, dunque, come termini di una complessione. Il che non è una novità, perché proprio nel momento iniziale della metafisica i due termini sono stati saldati. Basta scorrere il nono libro della Metafisica di Aristotele, sulla potenza e l’atto, per cogliere il nesso, semplice, nel quale sono pensati. Si tratta del libro che affronta il senso dell’essere come potenza e come atto e Aristotele scrive che c’è una «potenza di patire (pathein esti dunamis) la quale è, nel paziente medesimo, il principio del mutamento passivo ad opera di altro o di sé in quanto altro».3 Negli stessi passi, oltre alla potenza di patire, Aristotele parla della potenza opposta, che è quella di non subire mutamenti, osservando che «in tutte queste definizioni è contenuta la nozione di potenza nel senso originario». Queste potenze, poi, in un senso ulteriore sono o «a) potenze di agire o patire semplicemente, oppure b) di agire e patire in un dato modo».4

Tali potenze hanno a che fare direttamente con l’immanenza: l’agente patisce sia perché ha in sé ciò che lo fa patire (ad esempio, ciò che è comprimibile ha in sé il poter essere compresso), sia perché ha in sé ciò per cui è in grado di riscaldare, costruire. E sempre d’immanenza si tratta quando si parla di azione che ha in sé il fine, per la qual cosa Aristotele impiega il termine enupàrchein, ossia di «esistere in», essere immanente, inerente. L’immanenza, dunque, è inerenza e il patire è possibile per tale inerenza, per l’«esistere in» di una potenza passiva. Del patire Aristotele parla anche in quanto categoria, insieme all’agire, definendolo come «venir bruciato, venir tagliato»5 a differenza dell’agire che è invece «bruciare, tagliare» e rimarcando che è suscettibile «di una misura maggiore e minore».

Differenziandosi da questo modo di intendere la «passività» e l’«esistere in» (modo la cui formulazione concettuale non muta neppure quando l’immanenza è intesa come «immanenza alla coscienza, all’io» e quando il patire è inteso come passione dell’anima), l’ossimoro henryen scava nuovi abissi portandosi fuori dalle opposizioni a partire dalle quali può essere pensato (immanenza-trascendenza, agire-patire) perché tali opposizioni non mettono a tema adeguatamente l’incidenza di tali termini in una manifestazione nella quale, per Henry, incidono soltanto l’immanenza e il patire. Tuttavia, che l’uno (immanenza, patire) sia incidente e l’altro (trascendenza, agire) non lo sia, non esclude l’un termine favorendo l’altro; viceversa, immanenza e patire, nel loro incidere nella manifestazione, nel loro provocarla cambiano tanto i loro tratti quanto quelli dei termini inincidenti. Non si tratta, detto altrimenti, di un patire opposto all’agire o di un’immanenza opposta alla trascendenza, ma dell’ossimorica unione dei termini. Il problema, allora, non è tanto concentrarsi sulle opposizioni che postea inevitabilmente si danno (l’opposizione Vita/vita, carne/corpo) ma sta nel coglierne il punto originario e sorgivo. Così, se postea le opposizioni si danno inevitabilmente perché ciò che si manifesta lo fa nel proprio modo differente, l’antea che permette la manifestazione, l’essenza stessa, si sottrae a questa differenziazione. Il che, tuttavia, non ne fa un’essenza indistinta ma una complessione prima vivente. Complessione prima di cui si occupa una filosofia anch’essa prima: prima in quanto essenza di ogni manifestazione e dunque in ciò universale, «oggetto» di quella filosofia prima cui spetta il compito di studiare la manifestazione in quanto manifestazione.

Siamo forse di fronte ad una nuova filosofia prima, non greca? Non sappiamo se questo fosse l’intento di Henry, ma possiamo dire che la sua fenomenologia radicale possiede un tratto proprio già della «filosofia prima» aristotelica: il suo cercare l’universale perché e nella misura in cui si occupa dell’essenza. Non tuttavia un universale ontologico in quanto essenza partecipabile da ogni cosa o l’universalità astratta cui l’individuo è opposto. Siamo condotti in un altro abisso, che è giunto il momento di percorrere. Se sarà privilegiata la lettura de L’essence de la manifestation rispetto alle altre opere non è per ignorare o trascurare la decisiva riflessione sulla Vita e sulla carne, ma per seguire il combattimento inaugurato da Henry in quell’opera con la radice stessa della filosofia che lo ha portato verso la sua fenomenologia radicale. È in quest’opera, allora, che vorrei cogliere le possibilità dell’ossimoro «patire l’immanenza», cercando di verificare l’ipotesi che Henry abbia rovesciato innanzitutto la filosofia facendolo prima che la fenomenologia sia stata, come noto, rovesciata.

3. Rovesciare la filosofia per ripensare immanenza e trascendenza

Vi sono diversi modi di rovesciare: un rovesciamento può essere tematico, invertendo l’ordine dei termini, il punto di partenza di un discorso, o filosofico nel senso più stretto del termine, ossia capace di mettere in luce un rovescio ancora non visto. Henry ha messo in luce entrambi i rovesciamenti, e prima della fenomenologia ha rovesciato la filosofia occidentale cercandone la radice invisibile. Più che ripercorrere — nell’opera del 1963 — i noti termini henryens della critica al monismo o del confronto con i diversi autori, la rilettura del testo muoverà attorno alla scoperta della radice invisibile della filosofia intendendo la stessa come ossimoro, complessione di opposti saldati senza essere confusi; ricerca di una radice che condurrà poi Henry alla rilettura della Vita. Rilettura che attesterebbe che la fenomenologia della Vita non va intesa come «altra» formulazione della fenomenologia ma come punto di deiscenza della radice invisibile della filosofia.

Radice invisibile è un’espressione tautologica: ogni radice lo è, per definizione. E tuttavia, è anche l’invisibile che si fa vedere nella floridezza del visibile, ad esempio nel rigoglio del fogliame di un albero. Ciò che non è visibile si fa vedere e fa vedere il visibile, e tanto cresce e si eleva la visibilità, tanto la parte invisibile cresce nel lato opposto, inabissandosi nell’immanenza stessa. L’immagine, che fa pensare all’albero cartesiano (albero i cui rami sono le varie scienze, il cui tronco è la fisica e le radici la metafisica), rovescia innanzitutto il nome stesso della metafisica: meta ta physica, che si occupa di ciò che è primo, non è ciò sta dopo la fisica ma quello che s’inabissa e vive della contemporaneità dell’affezione. Qui il rovesciamento della filosofia operato da Henry è decisivo: il primato non appartiene alla sostanza separata e immobile e ai principi che vi fanno accedere; né il primato appartiene all’ego, inconcussum quid. Tale primato, ancora, non appartiene neppure a un primo unico ma ad un ossimoro che si ramifica così come lo fanno le radici. Non insisterò oltre su questa immagine, di cui ciò che segue vuole essere la declinazione.

Si è detto che da Henry apprendiamo che immanenza e patire solo le sole a decidere della manifestazione sebbene il contrario inincidente non sia semplicemente l’opposto ma sia ciò che ridefinisce quanto invece è incidente ai fini della manifestazione e, infine, che l’uno e l’altro termine, incidendo nella manifestazione, la provocano cambiando tanto i tratti dell’uno (incidente) quanto quelli dell’altro (inincidente). Perciò, patire l’immanenza provoca innanzitutto la ridefinizione di immanenza e trascendenza.

L’immanenza henryenne non si definisce in contrapposizione alla trascendenza. Prima che nella Fenomenologia materiale il confronto con Husserl si faccia serrato, e ciò proprio attorno alla duplice idea di immanenza e trascendenza che il fondatore della fenomenologia ha proposto ne L’idea della fenomenologia, già ne L’essence de la manifestation Henry le metteva a tema proponendone un altro senso, originale rispetto alle formulazioni classiche che giustappongono i due termini; un senso, anche, che va oltre l’ipotesi della «trascendenza nell’immanenza» (senso, anch’esso, husserliano). Volendo definire tale senso henryen dell’immanenza, originale, lo si potrebbe individuare come intensivo. Intensivo nel senso dell’intensus latino, ossia ciò che è vivo, forte, che si incrementa e, incrementandosi e pulsando, cresce. È questo intensificarsi a unire termini che la filosofia contrappone, facendolo in modo inedito.

Henry, in pagine molto note nelle quali cerca l’essenza della manifestazione e contesta che questa sia opera della trascendenza, scrive: «Non essere l’opera della trascendenza significa, per una manifestazione, sorgere e compiersi indipendentemente dal movimento col quale l’essenza si slancia e si proietta in avanti nella forma di un orizzonte; sorgere, compiersi e mantenersi indipendentemente dal processo ontologico di oggettivazione, ossia in assenza di ogni trascendenza». Ma, ed ecco l’ossimoro,

la manifestazione che si produce in assenza di ogni trascendenza è tuttavia la manifestazione della trascendenza stessa. Che una manifestazione, la manifestazione dell’essenza intesa come trascendenza, si produca in assenza di ogni trascendenza, significa quindi: l’atto originario della trascendenza si rivela indipendentemente dal movimento attraverso il quale si slancia in avanti spingendosi fuori di sé. L’atto che si rivela indipendentemente dal movimento con quale si proietta fuori di sé, si rivela in se stesso in modo tale che questo «in se stesso» significa: senza andare oltre sé, senza uscire da sé. Ciò che non va oltre se stesso, ciò che non si slancia fuori di sé ma rimane in se stesso senza abbandonare sé o uscire da sé è, nella sua essenza, immanenza. L’immanenza è il modo originario nel quale si compie la rivelazione della trascendenza, e come tale, l’essenza originale della rivelazione.6

Più che leggere il passo come rovesciamento del presupposto della rivelazione, propongo di leggerlo come rovesciamento della coppia trascendenza/immanenza che si uniscono senza confondersi, facendosi ossimoro la cui potenza è capacità della manifestazione stessa. Al di là dell’opposizione — cui la filosofia ci ha resi sensibili — dell’una e dell’altra, nell’essenza della rivelazione trascendenza e immanenza sono insieme senza essere separate o confuse; a dire che i termini si dichiarano nella loro differenza sullo sfondo della loro unione e non a prescindere da ciò che li salda. E il concetto chiave che li salda è quello della ricettività (réceptivité). Recepire è possibile perché «l’essenza della ricettività originaria che assicura la ricezione della trascendenza è l’immanenza».7 La suggestione di quanto detto non riduce però la forza di un’obiezione: sarà mai possibile pensare un’alterità irriducibile? Domanda che per certi versi anche Henry pone, chiedendo in che modo qualcosa di altro si riveli e manifesti: «Dove risiede la realtà di un contenuto ontologico puro che non sia esteriore all’essenza alla quale appartiene, in che cosa consiste la realtà ontologica di questo contenuto se essa non è separata né differente dalla realtà ontologica dell’essenza stessa? Il contenuto ontologico puro dell’essenza dell’immanenza è costituito da questa stessa».8 Obiettare che così si corra il rischio di perdere la differenza resta legittimo, certo. Ma se il problema non fosse la differenza di immanenza e trascendenza quanto piuttosto la pensabilità stessa della differenza? Se la differenza, cioè, non fosse quello che già distingue immanenza e trascendenza ma piuttosto ciò che si produce, ponendoci così al di qua di ogni pensiero che parta dalla differenza? La quale c’è, in Henry, anche nella forma di differenza tra ontico e ontologico, ma non è il punto sorgivo, non è la radice da cui il resto dell’albero si sviluppa. Radice che è l’immanenza riletta, però, a prescindere dalla localizzazione, ossia de-localizzata.

Se immanenza e trascendenza sono pensate a partire da ciò il cui movimento è in sé o fuori di sé, esse continuano a essere pensate attraverso la localizzazione «dentro-fuori», interno esterno; in luogo, cioè, di essere pensate in sé, sono pensate «in contrapposizione a». Ecco, allora, ciò cui provoca l’ossimorica unione di immanenza e trascendenza: essa è tentata per pensare l’interno di un’immanenza non separata dal suo contenuto, dove «non essere separata dal proprio contenuto per l’essenza dell’immanenza significa non porre tale contenuto davanti a sé, non riceverlo come qualcosa di altro, come qualcosa di differente».9 L’accento posto sulla ricettività porta la questione dell’immanenza al di qua della localizzazione perché non legge l’in-sistere dell’immanenza come ciò che resta in sé contro una trascendenza che esce da sé; piuttosto, la legge come un in-sistere retroverso. La ricezione (réception), cioè, non è un ricevere dentro ma è un intensificarsi in profondità dell’immanenza, un ritornare dell’in-sistere in sé nel quale si scopre la possibilità stessa che altro sia accolto e riconosciuto come effettivamente altro. Non v’è dubbio che un contenuto sia, per definizione, contenuto, ma la possibilità che sia riconosciuto come tale, come contenuto, non gli appartiene; piuttosto «ciò che l’essenza originaria della ricettività riceve è se stessa»,10 affermazione che Henry precisa subito in questo modo: «Ricevere un contenuto è essere modificati, affetti (affecté) da esso».11 Quello che chiamiamo in-sistere retroverso che scava, che erode, è forse intravisto da Henry come «retro-refenza dell’atto di apparire nei riguardi di se stesso».12

Non stupisce leggere ancora che l’essenza della trascendenza è l’immanenza, che l’immanenza della trascendenza è la sua rivelazione o che la rivelazione della trascendenza è una rivelazione immanente.13 Dove, se non nell’immanenza, qualcosa ci è dato? Ma possiamo essere certi di sapere come l’immanenza sia, e di non sapere invece soltanto che cosa sia l’aggettivo immanente con cui indichiamo un contenuto? Se restiamo in un pensiero che parte dalla differenza localizzata e localizzante il caso è, piuttosto, il secondo. Viceversa, partendo dall’ossimoro, si apre la possibilità che l’immanenza sia riletta uscendo dalla concezione localizzante della stessa verso il suo individuarsi nella progressiva erosione che la scopre come ciò in cui si in-siste; come, detto altrimenti, un in-sistere che retro-verte. Retro-vertendo, tale in-sistere scopre altro, si scopre come capace di ricevere. Questa capacità di ricevere trascende l’immanenza in cui si in-siste, è altro — e in questo è trascendente — nel medesimo per l’erodersi stesso di tale medesimo. Non, tuttavia, trascendenza versus immanenza; non, come si potrebbe pensare come esito di tale erosione, trascendenza nell’immanenza ma «trascendenza come immanenza»,14 ossia trascendenza e immanenza insieme perché la prima si scava nella seconda ma come la sua stessa possibilità di ricevere. La differenza tra trascendenza e immanenza non è, allora, prima ma si genera nel e per l’intensificarsi di ciò che riceve perché e nella misura in cui si fa capace di ricevere, capacità resa possibile dal fatto che l’in-sistere retroverso non è un’entrata o uscita dall’immanenza ma un intensificarsi. Qualcosa che si intensifica si annuncia, si svolge, si dispiega, si dilata senza domandare una differenza già pensata, senza qualcosa che la renda possibile e faccia accadere il differenziarsi stesso.

In questo senso è possibile rileggere, al di qua della lettera, lo spirito dell’esclusione della trascendenza dalla struttura dell’immanenza, che porta a muovere la facile critica che comunque v’è un’alterità irriducibile all’immanenza. La trascendenza esclusa è la trascendenza pensata a partire dalla localizzazione. L’immanenza pensata al di fuori della localizzazione è contemporaneamente de-localizzata e de-localizzante al fine di rileggere in sé quello che trascende e può ricevere come erosione interna dell’immanenza stessa. È un rileggere per ridefinire i loro stessi concetti, ché se il concetto della trascendenza «non trova il suo contenuto nell’essere-fuori-di-sé-dell’ente» allo stesso modo «il concetto di immanenza (non trova il suo contenuto) nell’ente in quanto privo, nella sua natura, della possibilità di andare oltre se stesso».15 Semmai, più che un trans-ascendere, potremmo pensare un oltrepassamento in quanto trans-discendere, uno scavare, un rovesciare per trovare altro nella struttura dell’immanenza. È un ripensare la trascendenza verso il basso, verso l’abisso e, dunque, verso quella che abbiamo indicato come radice invisibile. Radice che già nel 1963 Henry indicava come ciò che successivamente individuerà quale inizio perduto della filosofia, la vita.

Infatti, che nell’essenza non vi sia nulla di estraneo ed esterno/esteriore (extérieur), significa che ciò che essa ha in sé, le appartiene in proprio; e quello che essa ha di proprio è nominato da Henry vita. Perché alla vita si giungesse internamente e non estrinsecamente era necessario un percorso interno all’essenza, e dunque una ridefinizione dell’essenza e dell’ontologia. Henry lo ha fatto ridefinendo quest’ultima con quel rovesciamento della filosofia condotto nell’interpretazione ontologica dell’essenza della trascendenza come immanenza e la possibilità interna dell’oltrepassamento, collocando la possibilità di quest’ultimo nell’immanenza che, così, trova in sé la possibilità stessa di un oltrepassamento che è comunque altro dall’insistere ma tratto fuori dall’insistere, e ciò proprio perché è oltrepassamento maturato in sé. È grazie a questa scoperta di altro nell’in-sistere immanente che Henry rovescia la filosofia verso la sua radice passiva: l’immanenza, per l’esclusione del «fuori», riposa nell’in sé, nella propria solitudine, categoria ontologica fondamentale,16 struttura stessa dell’essenza. E poiché l’essenza è la sola a poter fare esperienza di sé, «poiché soltanto l’essenza si riferisce originariamente a sé»17 come a un’alterità in sé nutrita, reciprocamente questa relazione a sé rivela l’essenza «a se stessa nella propria realtà».18 E ancora: «La rivelazione a sé dell’essenza nella sua relazione originaria con sé è la Parusia. La Parusia è l’essenza della vita. E la Parusia che è l’essenza della vita, è anche il contenuto della solitudine».19 Questa Parusia senza resto di un’essenza che non può essere fuori di sé mostra la struttura dell’essenza come non-libertà.

Tale non-libertà in quanto non-potere retro-verte l’in-sistere immanente trans-discendendo in quella struttura dell’immanenza che, appunto, si rivela come radice passiva. Passiva non in opposizione all’attività o alla libertà: passiva in sé, come l’immanenza è colta in sé. Passiva in quanto «non potere di».

4. Sui diversi modi di dire la passività e il patire

Passività e patire non sono la stessa cosa, e l’una permette il coglimento dell’altro. Nessuna potenza attiva viene evocata in opposizione a quella passiva ma, viceversa «la passività è la determinazione ontologica strutturale dell’essenza originaria della rivelazione, ossia dell’essere stesso considerato nella sua realtà interna come fondamentalmente determinato in sé dall’essenza della non-libertà».20 Si tratta, cioè, di una passività che determina il potere ontologico, ché «è a esso (ossia al concetto di passività, ndr.) e non all’alterità che esso si trova a essere sottomesso nella passività che lo determina a essere ciò che è. La passività che determina fondamentalmente il potere ontologico è, come passività dell’essere nei riguardi di sé e non di altro, una passività nell’unità».21 Il che fa porre subito la domanda: «In che modo ciò che è dato e, per ciò stesso, ricevuto, può essere anche ciò che riceve», di fatto ricevendosi? Interrogativo cui Henry risponde:

Essere ciò che si riceve e, perciò, essere essenzialmente passivi nei propri riguardi, questa è l’essenza della vita e, quando questa indica la rivelazione stessa nella sua effettività concreta, quando la passività nei riguardi di sé coincide con l’esperienza di sé, ossia la rivelazione stessa, rappresenta anche l’essenza dello spirito.22

Ritorna, per altro verso, la questione dell’alterità degli enti nei riguardi dei quali si è passivi, alterità normalmente (sostiene Henry) concepita al modo cartesiano, come estraneità nella quale ci s’imbatte e non però come alterità che è la propria e che si scopre nell’immanenza della vita che s’intensifica in una dialettica di proprio e altro. Essere sé significa riceversi e, dunque, essere passivi nei riguardi della vita. Non si tratta, però, di una passività che si definisce come il contrario dell’attività, o un patire che si definisce in opposizione all’agire; piuttosto accade, si manifesta e rivela per il rivelarsi dell’essenza di una vita che si prova e fa esperienza di sé nel suo vivente intensificarsi. Che cosa, infatti, si intensifica se non ciò che vive? Che cosa può venire a manifestazione se non un’essenza che, vivente, può farlo? Dunque è una passività carica della sua capacità di agire in quanto provoca la vita alla propria rivelazione. Un’alterità che non è estraneità estrinseca ma che si fa riconoscere nella vita stessa. Alterità che non è estraneità ma in-sistere della vita in sé, in un continuo approfondimento, fino all’inabissarsi nella passione come «esperienza dell’essere originariamente passivi nei riguardi di sé».23 Ora, «ogni passione è come tale passione dell’essere, trova in esso il suo fondamento e lo costituisce. Tuttavia l’essenza della passione sta nell’affectività. L’affectività è la rivelazione dell’essere che si rivela a se stesso nella propria passività originaria nei riguardi di sé, nella sua passione».24

L’in-sistere retroverso dell’immanenza nel quale si scopre la possibilità stessa che altro sia accolto e riconosciuto come effettivamente altro si congiunge, nell’affectività, con la passione. Se la passione rivela l’essere, ciò indica che essa ne mette in luce anche delle puissances inedite, ché patiamo ciò in cui in-sistiamo e per il fatto che vi in-sistiamo. E in-sistervi, è riceversi dalla manifestazione che si riceve facendolo come ipseità, come sé. Tale ipseità, così come la differenza, non è prima: essa emerge nell’immanenza e nella passività per quell’in-sistere retroverso e, aggiungiamo ora, pathétique, che le connota. Superamento che ci pone al di qua della critica da cui eravamo partiti, ossia che una filosofia della pura immanenza non tiene conto del concreto che si svolge nella trascendenza e nella differenza.

Per rispondere all’obiezione (vs Henry) che la vita che si sente in sé ha bisogno del mondo, abbiamo compiuto il movimento opposto, indietreggiando per cercare, prima dell’endurante riflessione sulla carne e sulla vita, il gesto della loro fondazione per cogliere il come la vita si sente in sé e per sé a prescindere dal mondo. In questo gesto di retroversione i temi dell’immanenza e del patire sono tenuti insieme, in un ossimoro che li unisce ma non ne cancella la differenza. Patire l’immanenza è possibile? Com’è possibile che sia patito «l’in-sistere in»? Di qui la rilettura del percorso di Henry come un percorso filosofico che rovescia la filosofia stessa inabissandosi in una radice che nutre il pensiero pur restando invisibile — ché l’essenza della manifestazione è essenzialmente invisibile. Di qui il porsi al di qua della differenza senza cedere all’in-differenza e ciò grazie al pensare per ossimori. Di qui, ancora, la capacità di pensare l’intensificarsi della Vita nel vivente senza che il suo fenomenalizzarsi sia pensato a partire dal fenomenalizzarsi per il mondo. Questo fenomenalizzarsi del vivente, che si riceve come ipseità, come sé, accade nell’originarietà del sentimento. Il che risponde all’obiezione di una Vita che (obietta Barbaras) sarebbe soltanto metaforica o all’impossibilità di ritrovare il concreto quando tra Vita e mondo si pensa uno iato irrimediabile, affidando la manifestazione a un’immanenza che esclude ogni «fuori» in cui, inevitabilmente, accade la manifestazione. Alle obiezioni, il sentimento «risponde» perché sentire non ha nulla di metaforico e, anzi, caratterizza concretamente il vivente consegnandolo a se stesso. E per questo sentirsi il mondo non è indispensabile, ché il sentimento appartiene alla Vita e al vivente. Una vita che è percepita in modo immediato ma perché ad essa si è consegnati:

Cercando di cogliere la struttura interna dell’affectività e il suo effettuarsi fenomenologico, esprimendo la passività originaria dell’essere come passività dell’essere nei riguardi di sé, il concetto di tale passività è il pensiero stesso dell’affectività, riveste il suo significato concreto: ogni sentimento è, come tale, essenzialmente passivo, passivo nei riguardi di sé in modo tale che, in questa passività assoluta nei riguardi di sé e del suo essere proprio, esso è consegnato, consegnato a se stesso irrimediabilmente per essere ciò che è. Essere consegnato a se stesso irrimediabilmente per essere ciò che si è, vuol dire e non può che voler dire fare esperienza di sé, subire il proprio essere, fare esperienza di sé in un subire più forte di ogni libertà […], sentire se stesso così come si è nell’identità assoluta del sentirsi e di ciò che si sente, nell’identità di sé col sentimento provato. È la passività originaria dell’essere nei riguardi di sé, nel sentire se stesso in quanto identico all’essenza del sentimento, è il suo essere interiore e la sua effettività fenomenologica che esprime in generale il concetto di passione.25

E come possiamo pensare tale essere consegnato a sé del sentimento se non in un intensificarsi dell’affectività della vita stessa e dell’essenza di cui è il cuore? Non è forse, questo intensificarsi, un modo privilegiato del sentimento in cui esso è consegnato a se stesso e in cui si è consegnati a se stessi?

Essere consegnati a se stessi, essere per sempre caricati del peso del proprio essere […] è dunque ciò di cui fa esperienza il sentimento quando fa esperienza di sé, quando è ciò che è. La struttura ontologica universale dell’affectività è il suo contenuto determinato, il sentimento particolare nel quale essa ogni volta si fa fenomeno. La sofferenza dell’essere risiede e si scopre nel soffrire come soffrire originario e fondamentale di se stesso, soffrire consustanziale alla propria essenza e posto da essa. L’affectività, nella sua essenza, è sofferenza.26

I passaggi sono noti e commentati, e proponiamo di leggere i termini in essi espressi come ossimoro: è giusto, tuttavia? E quali sono i termini che si uniscono senza saldarsi per spiegare un’essenza che s’intensifica nel sentimento provato? Alla questione risponde la sofferenza, la quale non dipende da un’azione essendo invece il luogo in cui «la vita diventa vivente, la realtà e l’effettività di questo divenire»27 determinandosi, per ciò, «come ciò che essa è, come la sofferenza del soffrire e come pathos».28 Così come l’angoscia kierkegaardiana (e heideggeriana) non si desta nei riguardi di qualcosa ma è tonalità affettiva, allo stesso modo la sofferenza henryenne non è provocata da alcunché di esterno ma è sentimento che «determina e pone l’essenza nell’effettività, la realtà e la particolarità di una tonalità, nella sofferenza del suo soffrire».29 Ma proprio qui affiora un nuovo ossimoro, anch’esso rivelatore: nel pathos dell’essere che si fenomenalizza nel «soffrire se stesso» in cui si realizza l’impotenza del soffrire, accade che il sentimento è «dato a se stesso, aderisce perfettamente a se stesso e in questa aderenza, l’ottenimento di sé, il divenire e sorgere in se stesso nel godimento di ciò che esso è, è il godimento stesso, è la gioia»,30 fenomenalità originaria ed effettività della Parusia. Ecco, allora, un «abîme nouveau »:

Poiché la potenza del sentimento sta nella sua impotenza e coincide con essa, ciò che sussumiamo nel concetto di questa potenza, il suo contenuto fenomenologico effettivo e concreto, la gioia del cogliersi e sentirsi, il godimento di sé dell’essere, risiede e si realizza nella sua passività originaria nei riguardi di sé, nella sofferenza del suo soffrire che gli è identica. Sofferenza e gioia insieme e indistintamente compongono e indicano ciò che si fenomenalizza originalmente nell’essere e lo costituisce, l’effettività della Parusia. […] L’unità della sofferenza e della gioia è l’unità dell’essere stesso, l’unità dell’evento ontologico uno e fondamentale nel quale ciò che, sentendo se stesso e facendo esperienza di sé nella sua passività assoluta nei riguardi di sé, e diventando come tale, in questo soffrire, l’essere, si sente e fa esperienza di sé necessariamente nella sofferenza nel godimento di questo soffrire.31

Potremmo moltiplicare i passi in cui quest’unione ossimorica di una sofferenza gioiosa e di una gioia sofferente si declina come effettività fenomenologica dell’essere. Effettività che procede, però, da un punto più originario: in questa «impuissance puissante», di nuovo, siamo oltre la semplice opposizione di agire/patire per essere introdotti a un modo dell’essere ben più profondo, a una sua radice patica capace di fenomenalizzarsi; una sorta di venuta, manifestazione, Parusia possibile per il manifestarsi, l’accadere effettivo di ciò che può soltanto sentire, patire. Ciò che è primo perché radice, radicale, è un’impotenza che essendo e sentendosi impotente, germina. Una sorta di sguardo interno all’impotenza stessa, sguardo che la scopre e nella quale l’impotenza stessa si scopre non come morta ma in quanto vivente di una vita che s’intensifica nel sentimento. L’ossimoro «patire l’immanenza» è rivelativo delle puissances stesse del sentire come modo di fenomenalizzazione dell’essere. Compiamo un passo di troppo dicendo che il fenomenalizzarsi pathétique dell’essere porta alla luce il pathos stesso della vita? Lo fa rivelando che ciò che «non può» in realtà ed effettivamente, radicalmente può. Ma in questa «impuissance puissante» ne va anche di altro.

Stringere i termini nel fenomenalizzarsi dell’essere implica che l’ossimoro metta insieme due termini che tornano reciprocamente l’uno sull’altro. Il che consegna l’ossimoro alla medesima sorte — già ricordata — del sublime che, dalla figura retorica appresa dallo Pseudo-Longino, nel XVIII secolo si è trasformato in sentimento filosofico. La trasformazione dell’ossimoro accade per il ritorno reciproco dei termini l’uno nell’altro. La puissance, cioè, non soltanto è accostata all’impuissance, né trascendenza e immanenza sono semplicemente o suggestivamente messe insieme, ma il movimento filosofico radicale che conduce questo linguaggio è espressione del cambiamento stesso dei termini. L’accostamento non è linguistico-retorico ma filosofico, provocato dall’essenza stessa della manifestazione: l’«impuissance pathétique» del sentimento si scopre e si manifesta internamente potente per l’essenza (sua radice) che la nutre ed è soltanto per questo che l’impotenza si rivela potente. Nessuna suggestione in ciò, ma soltanto un’essenza che è immanenza in quanto insistere retro-verso che si rivela in un sentimento che si sa per essa e non a prescindere da essa. In questo sentire l’immanenza, che è un «patire l’immanenza», accade reciprocamente il rivelarsi dell’immanenza e, in questo suo rivelarsi, il suo intensificarsi che ne muove internamente la deiscenza dell’essenza determinandola internamente come Vita. Deiscenza che è manifestazione, Parusia.

Ma in tale «patire l’immanenza», in quest’impotenza potente accade anche altro. Accade la possibilità di pensare la commistione di attività e passività nella forma di un’azione non-agita. Un’azione, cioè, che compiamo senza agirla fino in fondo. Vi è o vi sono, siffatte azioni, nell’esperienza umana? La risposta è affermativa, e ne è un esempio la nascita: siamo noi a nascere, evidentemente, ma nessuno di noi ha compiuto da sé quell’azione. Piuttosto, è stato messo in condizione di compierla e, a partire da ciò, di svolgere la vita che lo individua in proprio. Non a caso, inoltre, tale sintesi di passività e attività è espressa nel verbo stesso, che in greco e latino (nascor, gignomai) è espresso nella forma della diatesi media, ossia la forma passiva in un significato attivo. L’effettiva possibilità di questa e altre azioni mostra come, di fatto, «impotenza potente» non sia un gioco di parole ma la Parusia di una potenza che si scopre e rivela all’interno di un’impotenza nella quale in-siste d’un in-sistere vivente e intensificantesi, rivelando nell’intensificarsi l’attività del patire. Un’attività che non si coglie in opposizione all’agire, come le categorie aristoteliche, ma che, in questo rovesciamento della filosofia verso la radice, è attività nel patire e del patire.

Nel patire, ché soffrendo s’intensifica non limitandosi al subire ma ricevendo, accogliendo, coincidendo infine con il suo contenuto del quale è caricata rivelando quell’eccesso di potenza (puissance) «che lascia esplodere e che libera quasi fosse ciò che c’è di permanente in essa proprio quando culmina nell’estremo dolore frangendosi in esso».32 Del patire, perché l’attività è propria del patire stesso che in ciò si sente e si auto-esperisce, s’auto-épreuve.

Con Henry, «patire l’immanenza» diventa ossimoro che, come già avvenuto per il sublime, esce dalla retorica stringendo la filosofia verso la sua retro-versione. La non accidentalità dell’accostamento dei termini sta nella capacità rivelativa dell’ossimoro di esprimere la coincidenza. Una coincidenza mai definitivamente coincidente, una «coincidenza in-coincidente» per quella radice essenziale che mai riduce il manifestato all’oggettività della manifestazione, sempre ridestata dall’intensificarsi dell’essenza invisibile della manifestazione. Nella rilettura della trascendenza e dell’immanenza, del patire e dell’agire ci si è collocati prima, al di qua dell’essere rovesciando la filosofia retro-vertendola. Un senso, ripreso in più luoghi, di tale retroversione è nel trans-discendere verso la radice invisibile della manifestazione stessa. Radice la cui «impotenza potente» si intensifica spingendo a una Parusia, a una rivelazione che è sentita nelle sue stesse tonalità affettive. Ma risponde, questo, all’obiezione che, posta una tale radice che si manifesta a partire da sé auto-esperendosi, e soprattutto declinando questo motivo nella direzione dell’incarnazione, vada perduta la differenza concreta?

Certo, nessun pensiero pretende di dire tutto ma dice comunque molto, e allorquando è vero insegna a pensare diversamente. Per noi, eredi dei pensieri della differenza ontologica e della différance derridéenne, l’obiezione è immediata e, al di là di ogni naïveté, rappresenta un momento critico da attraversare. Da attraversare all’indietro, tuttavia, e in questa rilettura sembra consegnarsi un tema che proprio l’ossimoro dà da pensare: la differenza non è originaria ma neppure l’identità lo è. L’ossimoro è una complessione di termini che tornano l’uno sull’altro, che s’intensificano; per ciò, piuttosto, la differenza si produce in questo ritorno intensificante in sé e su di sé e non è originaria. Per ciò, inoltre, l’identità non è compattezza ma crasi. Michel Henry, a suo modo, ha pensato e declinato in ambiti diversi quest’essenza che è complessione intensificantesi, verificandone le molteplici puissances (nella lettura di Marx, del cristianesimo, l’arte…). A noi resta, il compito di pensare a partire da qualcosa che è più di una Kehre. Alla radice spetta ancora il primato, come alla metafisica nell’albero cartesiano. Il tronco e le sue ramificazioni sono il lascito di un pensiero che, al di là delle facili critiche e delle altrettanto facili apologie, ha costretto la filosofia contemporanea a confrontarsi con la vita, suo inizio perduto ma sempre già là, a-venire perché già venuto. Di inizio in inizio, secondo inizi che non avranno mai fine.


  1. Soprattutto, il senso della rilettura concerne i giudizi espressi in La verità della carne (ovvero: per una critica della carne pura), in C. Canullo (ed.), Michel Henry: narrare il pathos, E.U.M. - Edizioni dell’Università di Macerata, Macerata 2007, pp. 215-249, e in C. Canullo, La fenomenologia rovesciata. Percorsi tentati in Jean-Luc Marion, Michel Henry e Jean-Louis Chrétien, Rosenberg & Sellier, Torino 2004. ↩︎

  2. B. Pascal, Pensées, Disproportion de l’homme, ed. Chevalier n. 84. ↩︎

  3. Aristotele, Metafisica IX, 1046a, 13-16. ↩︎

  4. Metafisica IX, 1046a, 17-19. ↩︎

  5. Aristotele, Categorie, rispettivamente 9, 11b e 4, 2a. ↩︎

  6. M. Henry, L’Essence de la manifestation, Puf, Paris 19902, pp. 279-280. La traduzione dal francese è nostra. D’ora in poi le citazioni da questa opera saranno segnalate con la sigla EM. ↩︎

  7. EM 281. ↩︎

  8. EM 287. ↩︎

  9. EM 287. ↩︎

  10. EM 287. ↩︎

  11. EM 288. ↩︎

  12. EM 289. ↩︎

  13. Cfr. EM 312-313. ↩︎

  14. EM 314. ↩︎

  15. EM 322. ↩︎

  16. EM 355. ↩︎

  17. EM 355. ↩︎

  18. EM 355. ↩︎

  19. EM 355. ↩︎

  20. EM 366. ↩︎

  21. EM 367. ↩︎

  22. EM 367. ↩︎

  23. EM 586. ↩︎

  24. EM 586. Con affectività traduciamo il francese affectivité. Preferiamo il calco linguistico all’italiano affettività per conservare la valenza del termine francese, ossia qualcosa che modifica, cambia, escludendo ogni declinazione psicologica del termine, cui rinvierebbe invece l’italiano. ↩︎

  25. EM 588. ↩︎

  26. EM 827. ↩︎

  27. EM 328. ↩︎

  28. EM 829. ↩︎

  29. EM 829. ↩︎

  30. EM 830. ↩︎

  31. EM 831-832. ↩︎

  32. EM 840. ↩︎