Recensione a Maurizio Chiodi, Massimo Reichlin, Morale della vita. Bioetica in prospettiva filosofica e teologica

Maurizio Chiodi, Massimo Reichlin, Morale della vita. Bioetica in prospettiva filosofica e teologica, Queriniana, Brescia 2017

Maurizio Chiodi e Massimo Reichlin presentano un manuale la cui complessità di impianto è proporzionale all’originalità della sua concezione. È scritto a quattro mani da un filosofo e da un teologo con linguaggio e stili indubbiamente differenti e riferiti a tradizioni teoriche diverse. Riconoscendo esplicitamente l’insidia rappresentata dalla secolare quanto tempestosa interazione tra le due discipline, gli autori si propongono di scioglierla rilevandovi una valenza affatto terminologica o «di scuola» e consentendo che le ragioni dell’impresa stanno proprio nelle sue difficoltà. Questa può anche sembrare una «frase fatta», invece nel contesto ha il senso preciso di allontanare i fantasmi dell’autoreferenzialità che per la teologia sono «il rischio di interpretare la relazione (con la filosofia) in un’ottica strumentale-preambolare», per la filosofia di autoconfinarsi in una prospettiva del tutto razionale «assolutamente autonoma» con relativo vanto di «pretesa universale».1 Un secondo motivo per il quale è utile che filosofia e teologia interagiscano sensatamente è la necessità di superare il divorzio, molto evidente nel campo della bioetica, tra la posizione cattolica e la posizione laica nella loro ligia riconduzione ai rispettivi domini della fede e della ragione,2 con risultati spesso scadenti sotto il profilo della qualità, elusivi del confronto inter-disciplinare ed alla fine inadeguati alla gravità dei problemi in campo. Secondo gli autori il divorzio è presidiato a distanza, ma molto efficacemente, dall’inveterata comprensione in termini dualistici del rapporto ragione/fede intesi come livelli co-estensivi dell’esperienza umana. La messa in discussione del principio si attesta su un profilo fenomenologico-ermeneutico che riconosce «nella ragione il riferimento ad un’istanza di universalità che appartiene in modo costituivo al soggetto umano» e nella fede «il rimando alla singolarità per la quale la coscienza è chiamata a decidere di sé, nella sua libertà personale, unica e irriducibile».3 La vicenda stessa della bioetica in Italia è segnata negativamente dal «pregiudizio razionalista» della giustapposizione tra ragione e fede; infatti a fronte della sua eccezionale rapidità di diffusione segnatamente determinata dalla ricca tradizione teologico-morale, si rileva come, anche a causa della latitanza dei filosofi italiani nei confronti dell’etica,4 tale tradizione ha teso ad imporre sulla disciplina una sorta di riserva alimentata dall’implicita assunzione che la bioetica sia solo «un nuovo nome della morale della vita fisica». Il confronto con l’avanzare inevitabile di una riflessione bioetica che non integra, se non ignora, nei suoi fondamenti e nel suo sviluppo alcun argomento di fede ha prodotto una sorta di «guerra culturale» che si combatte sul campo «bi-polare» della sacralità della vita contra qualità della vita (e viceversa), coltivato dal presupposto secondo cui l’adozione o il rifiuto di una concezione religiosa dell’etica avrebbe conseguenze univoche sulle conclusioni normative.5 Come già si è detto, gli autori si attestano su una posizione che considera molto problematico l’imperare di una concezione dualistica di ragione e fede che surrettiziamente si sovrappone alla basilare differenza tra filosofia e teologia, disturbandone la specifica validità epistemologica ed alimentando l’estrinsecismo tra verità di ragione e verità di fede che in bioetica, come si è ricordato, porta ad oscillare tra naturalismo, intellettualismo e dogmatismo.6 Tanto la ragione quanto la fede sono forme costitutive dell’unica esperienza antropologica e vanno comprese come forme della coscienza e cioè forme del soggetto morale nella sua totalità indivisibile.7 Nel passaggio compare la parola «coscienza», logo storico per la morale e categoria strutturante nel lavoro che stiamo esaminando. Nondimeno si viene avvertiti che esso è termine altamente equivoco nella riflessione sia filosofica che teologica. Con ciò si intende prendere nettamente le distanze da qualsiasi modello teorico che riduca la coscienza ad una porzione o facoltà, di un «sé» determinato a monte dell’agire; una posizione di questo genere, si argomenta, oltre a rendere irrisolvibile il probabile conflitto tra facoltà – a quale di esse, ragione o volontà, spetta l’ultima parola? – non si mostra idonea a comprendere il nesso vitale tra ragione-volontà-affetti, disconoscendo sostanzialmente «l’immenso campo degli affetti umani» nella loro qualità intenzionale e conoscitiva, istruttiva del volere. Il punto chiede di venire colto nella disponibilità ad un ripensamento radicale dell’idea di «vita». Pronunciando questa piccola parola noi non nominiamo un «qualcosa», ma nominiamo noi stessi « e più precisamente l’esperienza per la quale riconosciamo di essere preceduti a noi stessi».8 Irriducibile ad un fatto biologico, positivamente verificabile, la vita è «prima forma del patire, nella quale è anticipata la promessa di bene. […] Non dono di qualcosa, ma riconoscimento che il sé è dato a sé stesso, essendosi ricevuto da altri. Per questo l’identità (dell’uomo vivente) dev’essere pensata come un’ipseità caratterizzata da relazioni distese nel tempo».9 È evidente in questo passaggio il punto di vista fenomenologico-ermeneutico assunto nella sua valenza di metodo che, mentre ri-pensa le parole-chiave della morale, legge, natura, coscienza, persona, provoca il riassetto teorico delle preminenti tematiche bioetiche del nascere, morire, patire. Ne diamo un accenno in rapporto ad una delle questioni portanti su cui, non certo a caso, si apre il manuale: il rapporto vita (vita distesa nel tempo) e tecnica.10 Traendo da Ricœur la magistrale lezione di «Sé come un altro» il ragionamento sulla tecnica si dispiega entro la riflessione della correlazione originaria tra attività e passività, del patire e dell’agire e della loro forma morale da comprendere, quest’ultima, non anzitutto in riferimento alla legge, bensì nel suo nesso originario alla vita buona, cioè al senso e alla verità dell’agire. È la coscienza a qualificare la forma morale dell’identità personale che è la totalità del sé affidata a sé; dunque, è la correlazione originaria tra attività e passività a mettere in guardia da qualsiasi sistematica tentazione negativa nei confronti della tecnica, per cui si afferma che «la tecnica non è il paradigma dell’arroganza di un uomo condannato ad essere mortale al di là delle sue illusioni, ma è la forma di una prassi nella quale la coscienza è chiamata a rispondere dalla totalità di sé».11 Ed è precisamente la presa in carico di questa istanza,«tecnica forma dell’agire», a non autorizzare alcuna sottovalutazione della sua costituiva valenza morale.

L’Indice del lavoro restituisce significativamente il profilo entro il quale sono posti i contenuti e trattate le questioni. Si tratta di una prospettiva che potremmo chiamare di «specchiamento» del teologico con il filosofico, e viceversa, in cui ciascuno dei due saperi interagisce con l’altro transitivamente in maniera feconda. Alla configurazione teorica e storico-culturale della «morale della vita» è dedicata la prima delle due sezioni in cui è suddiviso il lavoro; in essa sono posizionate le tematiche di fondo: cultura post-moderna, tecnica, medicina; morale della vita e bioetica; la questione della vita. Riguardo alla prima vengono esaminate la concezione antica e quattro tra le più rilevanti posizioni teoriche contemporanee, Ivan Illich, Han Jonas, Jürgen Habermas, Jacques Ellul. Nella seconda si considera il rapporto della filosofia e della teologia mentre nella terza parte la riflessione si concentra sulla questione della vita offrendovi il contributo delle due discipline. All’interno di questa configurazione si specchiano, filosoficamente e teologicamente, le questioni teoriche via via sollevate e l’ermeneutica biblica dei passi scritturistici sul comando «non uccidere». La sezione è conclusa con la riflessione sull’antropologia e la teologia della vita declinate come «ermeneutica della coscienza credente». Anche nella seconda sezione, che scolasticamente si sarebbe detta «morale speciale» e che si concentra sulle grandi tematiche proprie di una morale della vita, nascere, morire, soffrire, filosofico e teologico si specchiano seguendo una precisa scansione. Prima di tutto ogni tema bioetico viene posto sotto l’intitolazione «esperienza della vita – «vita» è il termine costante – e senso […] del nascere, del morire, del soffrire»; segue l’intervento del filosofo, definito come « le pratiche in discussione», riferito alle questioni eticamente cruciali (aborto, eutanasia, sperimentazione clinica ecc.) e al connesso «dibattito bioetico-filosofico». L’esposizione del dibattito bioetico-teologico conclude la trattazione di ognuna delle tre tematiche.

Come si diceva all’inizio e come ora si intuisce il manuale presenta una complessità d’impianto teorico proporzionale all’originalità della sua concezione. E proporzionale all’importanza del fenomeno rispetto al quale gli autori, per loro stessa ammissione, hanno ritenuto di «uscire» dal perimetro autoreferenziale della propria disciplina di competenza, raccogliendo la sfida del comprendere


  1. Morale della Vita, p. 214. ↩︎

  2. Op. cit., p. 144. ↩︎

  3. Op. cit., Introduzione, p. 6. ↩︎

  4. Op. cit., p. 112. ↩︎

  5. Op. cit., p.114. ↩︎

  6. Op. cit., p. 211. ↩︎

  7. Op. cit., p. 147 e p. 211. ↩︎

  8. Op. cit., p. 8. ↩︎

  9. Op. cit., p. 214. ↩︎

  10. Op. cit., pt. I, cap. 1, pp.13-80. ↩︎

  11. Op. cit., p. 25. ↩︎