1. Introduzione
Molti documenti del magistero esercitato dalla chiesa cattolica convergono nel trovare, attraverso il relativismo, il nucleo scettico e nichilista della nostra cultura. In tal modo la difesa del realismo metafisico della conoscenza rappresenta una controtendenza della filosofia capace di enfatizzare l’importanza del ritorno ad una tradizione perduta. In quest’ottica interpretativa, il pensiero teologico finisce per privilegiare un’ermeneutica antimoderna, vedendo così nel post-moderno la deriva del pensiero contemporaneo che impoverirebbe l’etica e affiderebbe all’irrazionalità la fede religiosa, negando ogni legittimità gnoseologica alla razionalità ermeneutica. Questa soluzione esige alcune chiarificazioni capaci di evidenziare gli equivoci insiti nell’assunto qui sintetizzato.
In queste pagine vogliamo compiere il tentativo di elaborare un’analisi interpretativa del fenomeno culturale indicato per ridimensionare il pericolo insito nel concetto stesso di relativismo.
A tal riguardo, è opportuno delineare, sia pure a livello puramente significativo, alcune linee caratterizzanti la cultura filosofica del Novecento successive alla conclusione delle grandi filosofie, quali la metafisica della philosophia perennis, il neoidealismo, il neokantismo, la fenomenologia, il neopositivismo e gli sviluppi ideologici delle diverse forme del marxismo post-leniniano. Infatti, dopo queste grandi filosofie, sembra concluso il tempo delle visioni del mondo e della vita sistematiche, coerenti e complete nei loro modelli di razionalità. Ciò, da un lato, conduce alle filosofie della crisi che tematizzano il negativo del male, dell’angoscia e della sofferenza, ma dall’altro, non necessariamente approdano alla crisi della filosofia come espressione della fine di ogni possibilità del pensare.
Da tale punto di vista, occorre ricordare che, in prospettiva metodologica, la proposta dialogica della filosofia contemporanea risponde alle esigenze di tre nuclei problematici che emergono nella cultura del Novecento, vale a dire: a) l’emergenza della dimensione analitica propria della collaborazione tra la filosofia e le scienze umane; b) la compresenza delle filosofie nella filosofia che realizza il superamento verso la complementarietà del conflitto delle interpretazioni che, in senso ricœuriano, dà luogo al principio per cui studiare di più è comprendere meglio; c) il primato linguistico in filosofia che apre la via alla duplice prospettiva dell’ermeneutica e delle filosofie analitiche.
Questa precisazione evidenzia, in senso heideggeriano, come in tempo di povertà del pensiero metafisico siano ancora possibili dei nuovi sentieri interrotti per il filosofare al di là di ogni conclusione scettica e di ogni deriva nell’emotivismo irrazionalistico di un’esistenza in cui debba trionfare l’anarchismo libertario di un narcisismo solipsistico della condizione umana.
In questo quadro, non va dimenticato in prospettiva strutturalista e in prospettiva liothardiana, quanto conduce alla conclusione della destrutturazione dell’ontologia e la delegittimazione delle grandi narrazioni, infatti ci troviamo nelle condizioni in cui le soluzioni realistiche, e non solo tali, della tradizione filosofica occidentale vengono poste in questione in una situazione che, del resto, trova, anche nel pensiero epistemologico, la problematizzazione tanto della geometria euclidea quanto della fisica newtoniana. Così il realismo metafisico, che sostiene le sue conclusioni sull’analogia entis sorretta dall’esperienza nella forma conoscitiva della quotidianità, trova il suo momento interrogativo nel pensiero scientifico che, attraverso gli strumenti tecnologici e mediante le concettualizzazioni del nuovo pensiero matematico, elabora la crisi dei fondamenti in un ampliamento del reale nel virtuale. In questo quadro, si producono in filosofia delle linee di pensiero diverse da quelle della modernità che, nel suo momento classico, si ispirava al modello sperimentale e matematico delle scienze della natura. Così abbiamo le nuove forme ermeneutiche del pensare, vale a dire il pensare come poetare e il pensare come riflessione narrativa.
In questo quadro poliedrico e indubbiamente polisemantico per la problematica in esame, dobbiamo partire dall’idea che una forma estrema di relativismo, che coinvolge tanto l’ontologia quanto l’etica, è reperibile a partire dallo storicismo; si pensi alla posizione di O. Spengler nella sua opera Il tramonto dell’Occidente. Perciò nel XX secolo, soprattutto ad opera del pragmatismo analitico ed epistemologico, si produce un “relativismo concettuale” che supera le implicazioni del trascendentalismo kantiano in merito alla distinzione tra la conoscenza fenomenica e quella della cosa in sé. Pertanto il relativismo stesso abbandona la possibilità di una conoscenza proiettata all’ulteriorità di una cosa in sé rispetto al fenomeno strutturato nelle esperienze: di conseguenza, ogni conoscenza viene ricondotta alla provvisorietà dei fenomeni empirici.
2. Il relativismo interpella la nostra cultura
Dato quanto premesso, risulta che il problema del relativismo deve essere approfondito innanzitutto da un punto di vista semantico, per poterne evidenziare i corollari di ordine teoretico; ciò in quanto tale concetto non è univoco e rappresenta una serie di posizioni diverse, nonché tal volta fra loro semanticamente incommensurabili. Così, se da un lato non è vero che esso sia il male filosofico del nostro tempo, dall’altro tuttavia non possiamo negare che tale concetto finisca per essere un passaggio obbligato per il pensiero, capace di interpellare la cultura filosofica contemporanea non solo in quella che potremmo definire come lo stato dell’arte della repubblica dei filosofi, ma soprattutto nel senso di individuare gli elementi teleologici che costituiscono il destino del filosofare medesimo.
In una prima approssimazione, possiamo dire che il pensiero cattolico ha le sue ragioni quando evidenzia la deriva negativa del relativismo stesso; ciò in quanto, in termini teoretici, tale soluzione speculativa indica indubbiamente una provocazione polemica nei confronti dell’intera tradizione ontologica del pensiero occidentale; infatti il relativismo rappresenta un’espressione scettica del pensiero debole. In ogni caso, se ciò appare come l’elemento più evidente di tale fenomeno speculativo, se analizziamo meglio la questione, possiamo dire che tale fenomeno di pensiero risulta molto ridimensionato. Per essere più precisi, possiamo riconoscere che il relativismo nelle filosofie del Novecento, con tutte le sue implicazioni che coinvolgono anche la relatività dei costumi nell’incontro tra culture diverse, si traduce in due forme: una forte e una debole. Queste forme sono sintetizzabili nel modo seguente: «In senso forte, il relativismo indica la dottrina secondo cui non esistono affermazioni conoscitive, etiche, estetiche, ecc, assolute. . .; in senso debole, il relativismo indica la dottrina secondo cui ogni affermazione conoscitiva, etica, estetica, ecc., pur dipendendo da determinati contesti. . ., non è totalmente dipendente da essi».1
Tale definizione, indubbiamente approssimativa e rispondente soltanto ad istanze classificatorie, ci permette di renderci conto della notevole complessità insita in questo nodo problematico della filosofia odierna.
La distinzione riferita assume però un significato che non si esaurisce nel solo concetto di relativismo, in quanto ciò può essere proposto tenendo conto altresì di un’ulteriore elaborazione concettuale riferibile alle due istanze del relativo e della finitezza. Pertanto occorre riproporre integrandola la distinzione in questa forma ulteriore: anche il relativismo concettuale si presenta in due forme quella forte e quella debole. La prima che rappresenta una posizione estrema, la seconda invece una posizione moderata tendente a restringere la conoscenza ai limiti della finitezza umana senza ulteriori pretese capaci di realizzare delle affermazioni relative ad una possibile eccedenza trascendente della conoscenza medesima. Per comprendere in modo ancora più approfondito il senso della distinzione indicata è bene sottolineare che il relativismo forte è una forma estrema che è destinata a risolversi o, perlomeno a rischiare di risolversi, nel solipsismo dell’etica, della conoscenza o delle culture. Ciò accade enfatizzando il concetto di incommensurabilità tra le diverse visioni prospettiche. È facile constatare che la questione si riferisce ad una serie di significati non univoci. Infatti, se collochiamo tale questione teoretica nel contesto della storia della filosofia contemporanea, troviamo che nel XX secolo, soprattutto ad opera del pragmatismo analitico ed epistemologico, si produce un relativismo concettuale che supera le implicazioni del trascendentalismo kantiano, in merito alla distinzione tra la conoscenza fenomenica e quella della cosa in sé. Per cui il relativismo stesso abbandona la possibilità di una conoscenza proiettata all’ulteriorità di una cosa in sé rispetto al fenomeno strutturato nelle esperienze; ne consegue che ogni conoscenza viene ricondotta alla provvisorietà dei fenomeni empirici.
A questo punto, è bene riportare alcuni riferimenti filosofici paradigmatici relativamente ad autori emergenti nella cultura odierna. Sul piano epistemologico, K. Popper si oppone già ne La società aperta ai suoi nemici, al relativismo considerandolo come la massima sventura della società moderna, frutto dell’irrazionalismo della nostra cultura. Egli infatti, contro il soggettivismo difende l’oggettività critica, quindi razionale, della conoscenza scientifica nelle sue forme che, sia pure falsificabili in linea di principio, tendono ad una verità alla quale l’uomo si avvicina costantemente attraverso successive e più precise approssimazioni dell’atto conoscitivo.
Inoltre in una prospettiva contrapposta molto significativa è la posizione di P.K. Feyerabend, il quale fra l’altro dichiara quanto segue: «Io ero un relativista, almeno in uno dei molti significati attribuiti a questo termine, ma ora reputo il relativismo come un’approssimazione assai utile e, soprattutto, umana ad un punto di vista migliore».2
3. L’area semantica del relativismo
Nei paragrafi precedenti abbiamo formulato l’ipotesi interpretativa del concetto di relativismo, nel senso di contrapporre alla soluzione dell’univocità teoretica e storica di tale concetto il pluralismo del concetto stesso. Ciò implica la necessità di una chiarificazione semantica del termine, non solo da un punto di vista concettuale, ma anche in una prospettiva linguistica.
La questione è importante non solo per comprendere l’essenza degli interrogativi cui tale concetto dà luogo, ma sopratutto per evitare gli equivoci interpretativi che spesso circolano nell’odierno pensiero filosofico. Ciò, da un punto di vista linguistico, ci conduce all’orizzonte etimologico nel quale va ricordato che il termine relativismo dipendente dalla latino relatus, indica ciò che è posto in relazione, quindi ciò che è relativo ad una serie di condizioni e che perciò coinvolge più componenti. Pertanto esso si oppone al termine di assoluto.
Se passiamo dall’orizzonte linguistico a quello filosofico, possiamo individuare alcune interpretazioni esemplificative di carattere emblematico, che ci permettono di chiarificare la nostra linea interpretativa del fenomeno speculativo in esame. Secondo W.V.O. Quine, in particolare, il relativismo esprime una forma specifica di fallacia insita nell’assolutismo, per cui è destinato ad essere autocontraddittorio e ad autodistruggersi. Continuando la rassegna delle posizioni, in un passaggio dall’orizzonte logico-epistemologico a quello ermeneutica, troviamo che: «Secondo K.O. Apel il relativismo ha la stessa struttura logica dello scetticismo ed è quindi assimilabile a una forma di autocontraddizione pragmatica o performativa».3
In una consueta emergenza del paradosso semantico, derivante dall’autocontraddittorietà che consegue dall’assolutizzazione di ogni concetto, si evidenzia, fra le altre, la posizione di un filosofo rappresentativo sul piano dell’analisi linguistico-concettuale, infatti: «H. Putnam […] ha insistito sul carattere autoconfutativo: se tutto è relativo è relativo anche il relativo stesso»4.
Infine occorre ribadire, in quanto ciò risponde all’interesse principale di questo lavoro, che nel pensiero cattolico il termine relativismo è posto in rapporto a quello di nichilismo, perciò sul piano filosofico viene rifiutata ogni posizione che in modo prossimo o in modo remoto trae in qualche misura ispirazione da esso. In particolare, l’opposizione del pensiero cattolico nei confronti del relativismo, che viene condannato nel duplice ambito teoretico ed etico, può essere compreso nelle sue diverse implicazioni riflettendo sul pensiero filosofico-teologico dell’ultimo pontefice Benedetto XVI, il quale si riferisce in modo ricorrente al relativismo in diversi periodi e in differenti occasioni a partire dal periodo in cui era Cardinale.
In questa sede riporteremo solo alcuni riferimenti esemplari per comprendere questa posizione dottrinale. Innanzitutto va ricordato che, prima della sua elezione a Pontefice, il cardinale J. Ratzinger, in una sua omelia, fra l’altro così dichiara: «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo».5 In questo quadro, le responsabilità teoretiche dell’ateismo dominante vengono attribuite ad un relativismo gnoseologico e per così dire metafisico, orientato alla negazione della verità. Infatti, il Cardinal Ratzinger divenendo Papa, nella sua enciclica Spes salvi, specifica meglio la questione affermando fra l’altro quanto segue: «Se il progresso per essere progresso ha bisogno della crescita morale dell’umanità, allora la ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata mediante l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana. Diventa umana solo se è in grado di indicare la strada alla volontà, e di questo è capace solo se guarda oltre se stessa. In caso contrario, la situazione dell’uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato».6
Su questa linea interpretativa, il pontefice condanna tanto il razionalismo nella sua duplice radice illuminista e positivista, quanto il relativismo nella sua prospettiva soggettivista di ordine scettico e quindi nella sua rinuncia ad ogni forma di realismo della verità. Ciò accade in questo itinerario di riflessione in cui, fra l’altro, risulta che il relativismo, per Benedetto XVI è, una minaccia, perché quando la verità viene abbandonata si abbandona anche la libertà e si scivola verso il totalitarismo. Su questo piano è evidente che: «Il relativismo invece mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo».7 Quanto detto è possibile dal momento che il pensiero cattolico interpreta la ragione nell’orizzonte tomista, in cui essa assume il carattere di retta ragione capace di fornire delle conoscenze, secondo il realismo metafisico, e degli orientamenti etici secondo l’ontologia gerarchica del Creato, ordinata secondo le leggi della natura nella loro consistenza veritativa e nel loro ordine teleologico.
In tale orizzonte ermeneutico, la cultura contemporanea, nella sua impronta relativista e nei suoi atteggiamenti scettici, viene condannata anche in sede etico-educativa dal momento che: «L’opera educativa sembra diventata sempre più ardua perché, in una cultura che troppo spesso fa del relativismo il proprio credo, viene a mancare la luce della verità, anzi si considera pericoloso parlare di verità, instillando così il dubbio sui valori di base dell’esistenza personale e comunitaria […]; esiste un’interdipendenza tra le varie branche del sapere; ma Dio e Lui solo ha rapporto con la totalità del reale; di conseguenza eliminare Dio significa spezzare il circolo del sapere».8 È evidente come questa interpretazione, dell’attuale pontefice, sia determinata da un quadro culturale ispirato alla metafisica della philosophia perennis, sostenuta dalla gnoseologica oggettiva e realista dell’analogia entis.
4. La finitezza, il prospettivismo e la rivalutazione del relativo
Il ridimensionamento filosofico e semantico del concetto di relativismo, operata nel senso di fare spazio anche in tale concetto al pluralismo interpretativo delle posizioni, comporta il coinvolgimento della distinzione tra relativismo e relativo, nonché l’individuazione in sede di antropologia filosofica dell’importanza assunta, al di là di ogni implicazione scettica, dai concetti ricorrenti nelle filosofie esistenziali, nella fenomenologia e nell’ermeneutica della finitezza e della prospetticità. Infatti, mentre il relativismo indica, in tutte le sue espressioni, una totalizzazione sistematica, sia pure negativa, del pensiero filosofico; il concetto di relativo invece esige il ridimensionamento di tutto ciò che nella situazione del mondo naturale, nonché nella condizione umana, si iscrive ontologicamente nel limite e nel confine. Inoltre i due concetti di finitezza e di prospetticità indicano, nell’antropologia filosofica tanto esistenziale quanto fenomenologica, la determinazione dell’individualità unica, singola e irripetibile nello spazio e nel tempo, nonché nella storia e nell’attesa di un futuro possibile. Ciò in quanto l’uomo prende coscienza di se stesso, in modo ineludibile, attraverso questi quattro parametri esistenziali che abbiamo qui ricordato.
Quanto detto comporta l’ulteriore presa di coscienza della complessificazione della condizione umana, nella quale ogni nostro punto di vista sul reale del mondo e dell’uomo o sulla trascendenza del mistero della vita spirituale, relativa alla sopravvivenza oltre la morte e all’esistenza di Dio, si esprime attraverso la prospetticità di una relazione che investe la conoscenza e l’apertura dell’uomo all’orizzonte della fede. Da tutto questo ragionamento dipende un punto fermo costituito dal relativo prospettico come rivalutazione della finitezza fenomenologico-esistenziale della conoscenza. Ne consegue, in termini heideggeriani, e non solo tali, il superamento della verità come corrispondenza a favore di una verità prospettica che, attraverso la finitezza del soggetto esistenziale, percorre una via dialettica che implica lo svelamento e il nascondimento. Dando spazio, come di consueto, ad alcuni esempi tratti da pensatori del passato, ricordiamo che già W. Hamilton pone in rilievo due elementi conseguenti alla finitezza prospettica del soggetto conoscente. Questi sono in particolare: «azione condizionante del soggetto sui suoi oggetti di conoscenza; azione condizionante reciproca degli oggetti di conoscenza».9
Quanto detto, nel positivismo inglese tradizionale, comporta la relatività del conoscere, l’esistenza del mistero e l’inconoscibilità dell’Assoluto da parte dell’uomo, come ad esempio accade nella posizione in H. Spencer. Inoltre il relativismo della conoscenza, inteso come prodotto moderno del XIX secolo, è anche presente in molti filosofi del pragmatismo e del neocriticismo. Tali filosofi cercano le anticipazioni di tal concetto nello scetticismo antico e nella sofistica, ma in realtà la questione è tutta interna alla filosofia della crisi tematizzata dal pensiero moderno. Di fatto, la nostra filosofia, nella sua attenzione per il momento esistenziale e nella sua impostazione metodologica di natura analitica, tende a spostarsi dal piano universale dell’essere parmenideo all’ambito storico in cui si realizza il vivere dell’uomo con tutti i problemi che inquietano la coscienza soggettiva del medesimo. Si producono perciò una serie di riflessioni tendenti ad enfatizzare la dialettica di concetti, quali precario e finito, temporalità e temporaneità. Ciò significa tematizzare, attraverso il pensare, le espressioni fenomeniche che danno spazio all’apparenza e cercano le essenze in quelle manifestazioni delle medesime, destinate nel contempo a rivelare e nascondere le essenze veritative su cui si polarizza la conoscenza finita di ciascun essere umano. Si è prodotta quindi, sul piano della conoscenza scientifica, una situazione in cui il cambiamento del paradigma epistemologico ha aperto un processo cognitivo destinato a rimanere incompiuto, perlomeno fino alla consapevolezza gnoseologica di alcune istanze insite nell’approccio relativistico. Infatti: «La rivoluzione einsteniana del 1905, teoria della relatività ristretta, e quella della relatività generale del 1916, di fatto si sono limitate all’ambito della fisica. Una relatività settoriale dunque, che invece avrebbe dovuto e potuto, per eccellenza scientifica, essere estesa, almeno tentativamente, a tutta la cultura dell’uomo».10 Ovviamente la filosofia, che ha tratto le sue origini dalle nuove istanze scientifiche, è andata oltre, fino al punto di procedere così avanti con la legittimazione del relativismo da dar luogo alla forma estrema del relativismo assoluto, che chiude il pensiero umano in un solipsismo dal quale emerge soltanto il narcisismo autoreferenziale dell’individuo.
Sul piano etico, la via aperta dalla contrapposizione tra soggettivismo e oggettivismo è destinata a cambiare strada e a spostarsi nel difficile terreno che caratterizza tutto il pensiero moderno e che approda alla contrapposizione tra tolleranza e intolleranza, criticismo e dogmatismo, nonché infine tra pluralismo e tirannia dei valori. È facile perciò vedere che la questione del relativismo è di vasta portata e coinvolge il pensiero filosofico odierno in una serie di questioni che interpellano il conoscere e l’agire dell’uomo in una situazione in cui alla chiarificazione si accompagnano i pericoli di una confusione e sovrapposizioni di piani e di significati spesso diversi e fra loro incommensurabili.
5. Il relativismo: problema aperto nel post-metafisico
Il relativismo, da quanto abbiamo tentato di illustrare nei paragrafi precedenti, costituisce un fenomeno culturale altamente poliedrico e complesso, che non esaurisce il suo significato sul piano dell’individuazione di uno dei pericoli che mettono in questione il destino della filosofia ontologica, in quanto, forse, rappresenta una via nuova da percorrere e da interpretare. A tal riguardo, non ci si può limitare ad enfatizzare il pericolo di un’etica separata dall’ontologia poiché, com’è facile ricordare, questa separazione ha delle radici remote che risalgono gia al criticismo kantiano e trova la sua espressione, attraverso la cosiddetta legge di Hume, in pensatori analitici di lingua inglese i quali non tutti decisamente appartengono alle implicazioni scettiche del filosofare.
Da tale punto di vista, occorre tenere presente quanto dipende dalla tematizzazione problematica della ragione illuministica, nel passaggio dalla modernità a quel periodo successivo, diversamente definito da due linee interpretative, quella di Liothard e quella di Habermas.
Ci riferiamo, a questo punto, alla categorizzazione della cultura filosofica odierna in queste espressioni storico-ermeneutich, nelle quali tale cultura viene definita come post-modenra o come fine della modernità.
Queste due definizioni sono importanti poiché, pur ispirandosi all’emergenza del negativo, di cui il relativismo fa in ogni caso parte, sottolineano due aspetti problematici di rilievo: la prima, il momento della crisi e della fine, la seconda la possibile novità di un’eventuale periodizzazione successiva alla conclusione della periodizzazione precedente. Da questa questione interpretativa, inerente all’identità storica della più recente filosofia contemporanea, dipende la questione teoretica del destino della filosofia nella complessa e difficilmente definibile cultura dei post; si pensi ad esempio a quanto accade non solo per il postmoderno, ma anche per il post-industriale, per il post-cristiano e la cosiddetta post-histoire. Per quanto interessa l’itinerario percorso in questo lavoro, a nostro avviso, va tenuto presente che, in prospettiva filosofica, il post-metafisico si delinea nel superamento della contrapposizione tra metafisica e antimetafisica.
In tal modo, si verrebbe a costituire una nuova via di frontiera, nella quale la filosofia sarebbe chiamata all’elaborazione di modelli nuovi adatti ad interpretare le questioni epocali del nostro tempo e, quindi, radicalmente differenziati rispetto alle interpretazioni precedenti fornite dalla tradizione plurimillenaria, che si consolidata nel pensiero occidentale. Ciò implica, attraverso l’abbandono delle grandi filosofie sul piano metafisico, un’estensione culturale di quello che K. Popper, sul piano epistemologico, indica con il concetto della caduta degli assoluti terrestri.
Sul piano filosofico, comunque, la questione del relativismo conduce non solo alla problematizzazione dell’opposizione fra metafisici e antimetafisici ma, soprattutto all’interno della metafisica stessa, alla questione ontologica che oppone i pensatori che ammettono la trascendenza a quelli che la negano. In questo modo, il relativismo stesso finisce per divenire una metafisica nel senso tradizionale del termine.
6. Conclusione
Le pagine precedenti, sia pure in modo sintetico, pongono in rilievo la poliedricità del concetto di relativismo. Infatti, se da un lato questo permette di valorizzare l’originalità prospettica della finitezza esistenziale del singolo, dall’altro connota, all’interno del pensiero negativo, la duplice prospettiva dello scetticismo e del nichilismo. Prescindendo dalle posizioni estreme, dal relativismo emerge anche la positività del relativo, insieme al valore euristico del dubbio e di quello che E. Kant, sul piano metodologico, indica come scetticismo metodologico.
In effetti, se è vero che la ricerca della verità costituisce un momento irrinunciabile del pensare filosofico, è anche vero che la filosofia non è un autentico pensare nella ricerca se non valorizza il momento interrogativo del pensare medesimo. Ciò fra l’altro, da un punto di vista etico, conduce altresì alla dialogicità del pensiero, nonché al rispetto dell’interlocutore. Questo si conclude, esistenzialmente e non solo teoreticamente, nella rivalutazione della domanda che coinvolge l’interrogante al di là di ogni implicazione di ordine scettico. Quanto detto nella filosofia kantiana, nonché in quella heideggeriana, conduce, al di là di ogni forma di relativismo scettico o nichilista, ad una metafisica come scienza; in essa la domanda metafisica viene a possedere il suo valore fondamentale proprio nel recupero del senso insito nella domanda dell’essere al di là di ogni ipostasi ontoteologica, che cristallizza il domandare nel limite dell’ente circoscritto nei confini della definizione che la ragione umana è suscettibile di produrre nel processo speculativo che la caratterizza. Così si delinea un itinerario proposto attraverso i sentieri interrotti del filosofare che, mediante il dubbio, approda al metodo scettico come ricerca di una scientificità all’interno delle proposte metafisiche.
La questione affrontata nel nostro lavoro, non può ignorare il momento ermeneutica, che caratterizza ogni forma del pensare speculativo prodotto dall’uomo come soggetto finito, dal momento che, su un piano linguistico, non solo il relativo è diverso dal relativismo, ma anche il relativo stesso è differente dal relazionale; quindi l’opposizione al relativismo veritativo, etico e/o culturale, non si risolve soltanto in quanto esposto, ma prevalentemente si rivolge alla questione del rapporto tra posizioni soggettive e posizioni oggettive della conoscenza umana.
Inoltre, se problematizziamo il relativismo nelle sue implicazioni di ordine etico politico, nonché etico-religioso, ci accorgiamo facilmente che questa problematica finisce per coinvolgere un’ulteriore contrapposizione: quella tra relativismo pluralistico e totalitarismo dogmatico.
In ogni caso, quando il relativismo stesso diviene una filosofia allora esso si pone in una situazione in cui legittimamente, con tutte le conseguenze che comporta, si può affermare che: «Per relativismo assoluto ci si riferisce […] ad una visone della realtà come serie di eventi parziali, provvisori, con carattere di intrinseca discontinuità ed ai quali l’osservatore consapevole conferisce di volta in volta organicità e senso».11 In tal modo però il relativismo si converte anch’esso in una filosofia totalizzante in sé contraddittoria, poiché finisce per ammettere quanto si proponeva di escludere. Infatti: «Fanno inoltre osservare che l’affermazione del relativismo come forma universale della conoscenza finisce per rappresentare una verità assoluta in palese contraddizione col principio sul quale esso si basa».12
In tal modo, le filosofie analitiche di lingua inglese per chiarificare la situazione propongono un’ulteriore distinzione tra il relativismo assoluto dogmatico e una forma, per così dire indebolita, di ordine critico. Inoltre, è bene tenere presente che nel: «Relativismo Assoluto (o Dogmatico) non si prevede l’esistenza di alcuna realtà oggettiva. Sul piano etico, la morale diventa una questione di sentimento e non di ragione. La visione etica di nessuno è più razionale di quella di chiunque altro. Il relativismo implica il soggettivismo etico».13
Infine per quanto riguarda il: «Relativismo non-dogmatico (denominato anche Teoria critica) si tratta di una forma di relativismo che propone il principio dell’inesistenza della verità oggettiva generale poiché ogni sua espressione si colloca in un particolare ed è tale contesto che ne ispira i principi fondamentali. Tale forma di relativismo si articola in: 1) razionalismo scientifico; 2) razionalismo scientifico + fede nel trascendente; 3) pragmatismo e altre specifiche articolazioni di relativismo non dogmatico».14
È evidente come la conclusione di tutto questo discorso non possa che approdare ad una problematizzazione aperta della questione affrontata, nella quale il relativismo, pure essendo inaccettabile come visione complessiva della metafisica e dell’etica, possiede in sé delle istanze capaci di chiarificare filosificamente l’orizzonte post-metafisico del pensare umano nella cultura odierna.
-
N. Abbagnano, voce Relativismo, in Dizionario Storia della Filosofia, Gruppo editoriale l’Espresso, Bergamo 2006, vol. 12, p. 267. ↩︎
-
Ivi, p. 270. ↩︎
-
Ivi, p. 269. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
J. Ratzinger, Omelia per la Missa pro elegendo romano pontefice, 17 aprile 2005. ↩︎
-
Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007, 23. ↩︎
-
Benedetto XVI, Udienza generale Castel gandolfo, 5 agosto 2009. ↩︎
-
Benedetto XVI, Udienza alla riunione plenaria della Congregazione per l’educazione cattolica, 7 febbraio 2011. ↩︎
-
N. Abbagnano, voce Relativismo, in op. cit, p. 265. ↩︎
-
S. Avveduto, La cultura relativista, Armando editore, Roma 2010, p. 13. ↩︎
-
Ivi, 11. ↩︎
-
Ivi, p. 118. ↩︎
-
Ivi, p. 118. ↩︎
-
Ivi, 118-119. ↩︎