1. Introduzione
Ci proponiamo di mettere a confronto le riflessioni di Theodor Adorno e Yves Michaud sulle caratteristiche dell’industria del turismo e del turismo di massa e, scendendo più nel particolare, sul tipo di fruizione estetica che coinvolge il turista contemporaneo. Un tema affrontato da entrambi in maniera ovviamente molto diversa ma con tratti comuni tali da rendere possibile un tentativo di confronto, se non di reciproca integrazione.
Si utilizzeranno a tal scopo alcune pagine della Teoria Estetica (1970, TE) di Theodor Adorno e L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica (2003, AsG) di Yves Michaud. Il primo dei testi elencati, Teoria Estetica, è, come è ovvio, legato a doppio filo col periodo storico che ne ha visto la gestazione. Nel decennio della sua pubblicazione infatti si andavano appena delineando più marcatamente le caratteristiche del turismo di massa come oggi lo intendiamo. Ciò non impedisce ad Adorno di vedere il turismo come momento in cui lo spirito affranto di chi può concedersi il lusso del viaggio può tentare una riconciliazione con la natura o con l’ambiente circostante; un tentativo ovviamente fallimentare. Infatti il turismo non può affrancarsi dal suo essere una specie del genere più ampio dell’Industria culturale. Un’esperienza estetica per pochi, almeno ancora allora lo era, ma dalle medesime caratteristiche alienati e omologanti della musica di genere o delle altre specie dell’Industria culturale.
Laddove Adorno era convinto di scrivere le sue riflessioni a ridosso dell’epoca del ritorno della barbarie, un’epoca oscura dove alla Grande Arte si è sostituita la produzione dozzinale di prodotti kitsch, Michaud invece si dice convinto di scrivere nell’epoca del trionfo dell’estetica, dove l’arte, «desostanzializzata», s’è trasformata in una sorta di un gas, un profumo che si lega ad ogni cosa in maniera tale che che tutto il mondo ne sembra pervaso. Sembra, perché non è il mondo ad essersi fatto improvvisamente bello, ma in quanto il nostro occhio è stato portato, educato a vedere il bello dappertutto. Siamo ai cancelli del regno in cui l’estetica vince su tutto.
Due prospettive dunque fortemente diverse; cercheremo di comprendere in generale le ragioni dei due autori, confrontandone le posizioni limitatamente al tema dell’industria del turismo e cercando di instaurare tra loro un dialogo quanto più possibile proficuo su questo tema.
2. Estetica e schemi percettivi dell’industria culturale. Theodor Adorno
Theodor Adorno scrive la sua Teoria Estetica circa quaranta anni prima del testo di Michaud che prenderemo in esame. Ciò che li distanzia non è solo il quadro teorico di riferimento ma anche la coscienza della portata effettiva del fenomeno preso qui in esame, il turismo di massa. Michaud scrive già quando quest’ultimo è diventato la prima industria mondiale per fatturato annuo. Adorno ai suoi albori, quando il carattere di massa non era che prevedibile, ma tutt’altro che in atto. Tuttavia le caratteristiche essenziali dell’industria del turismo e del tipo di esperienza che al turista è richiesta sono analizzate da Adorno in maniera tale da poterci suggerire ancora qualche chiave di lettura. Vediamo in che senso.
Già ne L’industria culturale, capitolo scritto a quattro mani con Horkeimer e contenuto in La dialettica dell’illuminismo, Adorno traccia le idee di fondo che saranno poi meglio elaborate nell’opera più grande dedicata all’estetica pubblicata postuma nel ’70; si tratta della convinzione che l’industria culturale miri privare l’arte della sua autonomia, facendola rientrare a pieno titolo nel processo di produzione di merci tipico del sistema produttivo di un’economia di mercato. Questo processo è finalizzato per Adorno all’addomesticamento e alla formazione delle coscienze, una delle tesi più note del filosofo di Francoforte. Tolta via la portata critico-utopica della grande arte, tale solo in quanto capace di caricare nella propria concrezione la testimonianza del non-identico, non resta che il semplice amusement della produzione culturale di genere, la piacevolezza uniformata e uniformante delle sensazioni fugaci indotte nel consumatore dallo schematismo della produzione, realizzato massimamente nell’eterno ritorno di clichés bell’e pronti. Immerso in questo schema preconfezionato, alienato dalle proprie capacità critico-riflessive, incanalato all’interno di un consumo culturale prestabilito, al soggetto contemporaneo non rimane che dotarsi di un buon carrello della spesa e caricarlo della più ampia varietà di prodotti, che in sostanza sono sempre i medesimi. Il turista è anche e soprattutto questo soggetto, e l’industria del turismo è notoriamente un corridoio molto fornito di questo ipermercato della cultura. Nella Teoria Estetica Adorno dedica qualche pagina alla fruizione estetica del turista, in particolare nel paragrafo in cui ha trattato della «deformazione storica» dell’esperienza del bello naturale. Ovviamente Adorno, a differenza del contemporaneo Michaud, non poteva confrontarsi con le più recenti caratterizzazioni del turismo di massa; non poteva conoscere ad esempio il pacchetto all-inclusive né poteva dedicare delle riflessioni al fenomeno dello scambio culturale e della rivendicazione identitaria, come vedremo più avanti farà Michaud. Ma nelle pagine che prenderemo in esame delinea delle caratteristiche del turismo e del turista che possono suggerirci qualche idea per comprendere più a fondo tale fenomeno.
Il mondo che si para davanti al turista è, per Adorno, un mondo in prima istanza fittizio, costruito ad hoc dall’industria che lo sostanzia. Il grado di finzione nel quale è costretta l’esperienza è tale da deformarla, costringerla all’interno di canoni prestabiliti in quanto non comprende in sé le «cicatrici» che ogni apertura al mondo comporta e che solo la riflessione filosofica e la grande arte possono testimoniare. Scrive Adorno che «con l’estensione della tecnica, e in verità più ancora con l’estensione della totalità del principio dello scambio, il bello naturale diventa sempre più funzione di tale principio in qualità di contrasto, e viene integrato in quell’essenza reificata che pure combatte» (TE, 99). In ogni esperienza della natura c’è l’intera società e le sue determinazioni che per Adorno forniscono gli schemi della percezione fondando attraverso una dialettica di «somiglianza e contrasto» ciò che poi chiamiamo natura. Un’esperienza autentica della natura è dunque impossibile. Stretta dentro le morse della società industriale e della tecnica, la natura si presenta al turista come surrogato, come scenografia naturale, carica di mediatezza posticcia, laddove solo l’immediatezza dell’esperienza può rendere l’esperienza naturale autentica.
«L’esperienza immediata della natura, priva della sua natura critica e sussunta al rapporto di scambio — l’espressione “industria del turismo” ne fa testimonianza — diventò non vincolante, neutrale, apologetica: la natura diventò parco naturale e alibi» (ibidem). In questo passo si chiarisce ancora meglio quanto detto più sopra. Un ritorno all’immediatezza dell’esperienza del bello naturale e del sentimento autentico della natura è per Adorno definitivamente compromesso; altro non è che una vana volontà di ritorno alle origini tipico della civiltà borghese avanzata ma che il filosofo francofortese boccia senza appello. Altro non è, appunto, che un alibi.
Il bello naturale è in ultima istanza ideologia, è «un surrettizio spacciare il mediato per immediatezza» (ibidem). Ma su questa finzione si è costruito un intero settore industriale, molto redditizio tra l’altro; bisogna essere in malafede per credere che col turismo organizzato si possa accedere a ciò che ci si è storicamente precluso. L’esperienza esotica che viene pubblicizzata dalle agenzie turistiche è per forza di cose depauperata della sua fragranza per essere appetibile; è qualcosa di diverso dal quotidiano, ma senza che questa diversità possa risultare eccessiva in maniera tale da mettere in questione le abitudini del turista. Ma per Adorno è il costume borghese stesso a volere un tale atteggiamento di malafede; una versione grossolana del roussoiano «returnons» alla rude e parca natura senza rinunciare alla comodità del sofà e al tepore di una stanza ben arredata. Una commistione necessaria alla valorizzazione commerciale dell’esperienza che per Adorno trova terreno fertile nella «soddisfazione morale-narcisistica e al pensiero di quanto si debba essere buoni per essere capaci di gioire della natura» (99).
L’esperienza della natura richiede quindi immediatezza autentica mentre l’industria del turismo la presenta soltanto come immediatezza ma che in realtà cela la mediatezza dello schema percettivo che la sorregge. Ciò che accade in relazione con il bello naturale è il contrario di quanto è richiesto al turista, e più in generale al fruitore, quando entra in relazione con l’opera d’arte. Questa infatti si slega dalla pura immediatezza e richiede, accanto all’istintuale, anche l’«arbitrario» (TE, 100). L’esperienza estetica autentica vuole quindi la concentrazione della coscienza. Questo è possibile solo con l’arte in quanto prodotto culturale mentre la concentrazione dinnanzi ad un paesaggio naturale, lo sforzo mentale al suo cospetto, non fa che allontanarlo dall’esperienza reale. L’industria del turismo promuove questo genere di esperienza perché, si è detto, è commercialmente valorizzabile. Oggi, nei pacchetti in promozione nelle agenzie turistiche, sono previste visite nei musei come parte integrante del viaggio, come momento di lieve riflessione nella distensione generale della vacanza. Presumibilmente Adorno non avrebbe visto la cosa come una rivincita dell’arte, né come un suo riscatto; a maggior ragione se si considera il mutamento sostanziale che la produzione artistica ha attraversato nel XX secolo. Questo genere di esperienze prevedono una sorta di omologazione al ribasso, dove l’arte è un momento tra gli altri e alla stregua del godimento generalizzato. Tutto è uniformato nel regime dell’immediatezza fittizia, nel godimento fugace del preconfezionato. Ma a questo punto è necessario passare la parola a Michaud.
3. Il turismo nell’epoca della gassosità dell’arte. Yves Michaud
«Oggi il mondo è straordinariamente bello». Con questa frase prende avvio lo studio di Michaud sullo stato della produzione artistica e della fruizione estetica in età contemporanea. Una frase che può generare reazioni immediate delle più disparate e che racchiude in sé un po’tutto il senso del libro. É infatti il suo punto di partenza, come attestazione ineludibile di un dato di fatto, di una situazione contingente esperibile da ognuno e al contempo la conclusione a cui Michaud arriva, come è attestato dalle battute finali del testo in cui fornice al lettore, magari un po’provocatoriamente, l’immagine di un mondo in cui la bellezza s’è diffusa dappertutto come un che di fumoso, accattivante e subito percepibile, estendendo con essa la nostra capacità di coglierla spontaneamente e quindi di renderci felici. Prima di affrontare il tema del turismo è forse opportuno fare una ricognizione sui temi principali del testo di Michaud, necessaria a chiarire meglio i termini della questione.
«Cosa possiamo rimpiangere se il mondo è diventato così bello?» si chiede l’autore in conclusione. Una domanda retorica, o doppiamente retorica; o forse non lo è affatto. Si è comprensibilmente tentati di rispondere a questa domanda o facendosi critici e detrattori del contemporaneo e quindi di rinchiudersi mentalmente (o per lo meno si spera) nei musei dell’Arte Moderna, aree protette del sublime e rifugio dell’ultimo uomo, l’«Homo aestheticus», come sostiene l’autore; oppure facendosene sostenitori, anche se spesso ciechi e di per sé poco convinti (ASG, 14). Con atteggiamento volutamente descrittivo, potremmo dire da osservatore esterno, Michaud delinea le caratteristiche di questa contrapposizione tra due prospettive diverse nei confronti dell’arte contemporanea, cercando di capirle a partire da ciò che le ha generate. Egli è consapevole del paradosso tutto moderno che vuole l’arte oramai totalmente assente in un mondo che si avvicina ad un grado di estetizzazione dell’esperienza mai raggiunto prima. Consapevole del paradosso, ci gioca facendone oggetto di studio e di analisi non disdegnando toni ironici quando l’ironia è suggerita dal buon senso per descrivere ciò che gli risulta ameno. Ma per il nostro autore è da tener fermo un punto; scrive infatti: «Il mio proposito è analizzare il paradosso che ho descritto senza denunciarlo né celebrarlo» (AsG, 14). E denuncia e celebrazione, è evidente, sono nient’altro che le due possibili risposte che abbiamo dato prima alla domanda finale del testo; risposte comprensibilmente opposte come in ogni periodo storico carico di ragioni e punti di frizione. Michaud opta per una terza via, quella della semplice constatazione, facendo si dell’ironia uno strumento critico dell’analisi, ma anche procedendo con l’atteggiamento interrogativo e dubitativo di chi sa di stare scrivendo in un epoca di profonde trasformazioni (AsG, cfr p. 15).
Michaud descrive il nuovo regime dell’arte in cui in primo luogo è l’estetica a sostituire l’arte, facendo in modo che l’esperienza dell’arte prenda il sopravvento sugli oggetti in-sé e sulle opere e che al posto delle proprietà dell’oggetto artistico subentrino le procedure e le condizioni, permettendo che sostanza dell’opera siano le relazioni che questa istituisce con il fruitore, non senza la volontà dell’artista. Ma l’opera d’arte è uscita dai musei, l’arte è ovunque. Che il mondo sia diventato bello è, di fatto, il trionfo dell’estetica; e il bello si è diffuso in ogni luogo, come un vapore, a partire dalla popolarizzazione del ready-made. (AsG, cfr p. 38). Maggiore raggiungibilità dell’oggetto artistico è, soprattutto in un economia di mercato, maggiore richiesta estetica e questo per Michaud, che in questo frangente non può non rifarsi a Walter Benjamin, è causa di un mutamento dei modi della percezione umana. Mutano i modi della percezione, muta lo stato delle arti e conseguentemente si trasformano i bisogni che la fruizione estetica è chiamata a soddisfare.
Il turismo, e l’industria che lo gestisce, ne rappresenta un esempio non di secondaria importanza a maggior ragione se si considera che, sostiene Michaud, ad oggi è la prima industria a livello mondiale per fatturato. Tanta è la richiesta ed enorme la potenzialità di ridefinizione e canalizzazione della fruizione estetica.
Ma c’è dell’altro; il motivo per cui il filosofo francese è interessato alla questione del turismo ha origine nella natura stessa dell’esperienza turistica che è, a suo avviso, genuinamente estetica, intendendo qui, nell’etimo greco, nel senso della sensibilità e della ricezione sensoriale. L’esperienza del turista è un chiedere qualcosa disinteressatamente con l’unico scopo di goderne, un piccolo assaggio di vita felice a tempo determinato dove regna la sensazione piacevole e gratificante distensione. Nel regime dell’edonismo immediato una nota dissonante, magari piacevole, è rappresentata dallo spazio dedicato all’arte a alla cultura. Un momento poco più serio che magari permetta una più completa soddisfazione nei momenti di dolce far niente. Tappe nei musei, itinerari archeologici e conferenze specialistiche accompagnano la giornata tipica del turista contemporaneo come esperienze incluse nel pacchetto del viaggio- tipico del pacchetto turistico all-inclusive. Il regime della sensazione e del sensazionale, in cui si è immersi nel quotidiano, ha un naturale proseguimento, in forma ovviamente più enfatizzata, nel momento in cui ci si spoglia dalle vesti borghesi di ogni giorno per indossare quelli del turista.
Michaud adotta lo stesso metodo utilizzato nella prima parte del testo per la descrizione della trasformazione dello statuto delle arti in età contemporanea per analizzare le caratteristiche del fenomeno del turismo di massa. Descrizione e ironia sono per il nostro autore strumenti irrinunciabili, come spesso ribadisce nel suo lavoro. Non pare esserci alcun vizio ideologico o pregiudiziale nelle sue frasi. Michaud descrive e laddove è il buon senso a suggerire una critica, magari ironica, non si tira indietro. E così il turista è dipinto secondo le sue più comuni peculiarità, quelle per intenderci che non gli hanno fatto guadagnare nel tempo la cattiva reputazione di cui ad oggi gode. É il turista che cerca l’altro, l’esotico, il diverso, senza dimenticare di portarsi con se il proprio mondo e senza rinunciare all’occasione di insegnarlo: «Vestito con abiti stravaganti si muove in gruppi rumorosi, non guarda niente, devasta tutto, fotografa qualsiasi cosa, fa osservazioni insulse davanti al Partenone e trasporta ovunque il suo modo di vivere, dalla Coca-Cola ai crauti» (AsG, 121, 122).
Ossessionato dalla ricerca di sensazioni sempre nuove e quantomai «vere», il turista contemporaneo si aggira per le strade del mondo mai spaesato, ciò grazie alla capillare organizzazione dell’industria del turismo che è dietro ogni suo spostamento, sempre pronto al «nuovo» quando questo gli è ben fornito e presenti un grado di novità controllabile. Un bisogno di novità che ha la stessa prassi della moda, la quale necessariamente, quasi per sua essenza, cambia e si consuma perché è sempre necessario un passo più in là, alla ricerca del nuovo, «unico punto di riferimento di una successione temporale senza altri elementi di differenziazione» (AsG, 67). Non a caso anche le mete turistiche subiscono i dettami del trend, e la volontà di spostarsi in determinati luoghi non è certo avulsa dal periodo, dal momento in cui si sceglie di spostarsi. Ci sono mete sempre in voga, altre del momento, e posti in cui nessuno si sognerebbe di andare. Nell’analisi di Michaud, i viaggi organizzati in osservanza dei dettami dell’industria del turismo hanno a ben vedere la stessa funzione che ha assunto l’arte contemporanea. «Il loro scopo è produrre direttamente esperienze singolari ed intense» (ibidem) scrive Michaud a proposito del fine assunto dalle opere d’arte che hanno oramai perso la loro portata rappresentativa e significativa. Così come il viaggio, spogliato dalle caratteristiche di imprevedibilità e di contingenza dell’esperienza, chiuso al sicuro nel ventre molle di una chiglia di una delle tante città viaggianti che solcano il mediterraneo, ha visto notevolmente ridimensionata la sua capacità simbolica, di esperienza unica e irripetibile, per assumere sempre più le caratteristiche assicurative della vita di ogni giorno.
Altro aspetto degno di menzione è la ricerca da parte del turista contemporaneo di ricercare l’altro, che Michaud vede come la volontà di scoprire «identità diverse dalla sua [del turista], perchè da questi incontri ha la sensazione di vedersi dal di fuori e di arrivare così a conoscersi meglio» (AsG, 123). A questa affermazione Michaud fa seguire una serie di argomentazioni atte a dimostrare come nell’esperienza turistica il veicolo dell’identità sono proprio le arti, la cultura e il folklore. Oggetti di scambio, di interessamento a volte reale a volte grossolano e superficiale, tramite cui si instaurano relazioni precarie, di cui il turista è protagonista assoluto. «Nell’epoca del turismo e del consumo estetico di massa, tutto o quasi tutto può essere veicolo di un incontro, anche la finzione» (AsG, 126).
Identità, arte e cultura vengono legate tra loro da Michaud in maniera tale da costituire il nucleo del turismo da un lato e, più in generale, del processo di invasione e omologazione culturale dell’occidente. La succursale del Guggenheim di New York a Bilbao ne è un esempio: una comunità, quella di Bilbao, decide di proiettarsi verso una identità da costruire, mutuando gli aspetti più suggestivi di quell’identità culturale che più simboleggia un rinnovato slancio vitale verso il rinnovamento e l’ammodernamento; ancora oggi Stati Uniti mantengono in questo l’esclusiva assoluta. L’obiettivo era ovviamente essere appetibili come destinazione dei flussi turistici, con tutto ciò che questo comporta. A spese proprie e per conto degli americani è stato costruito un tempio dell’arte americana in territorio basco. Come sostiene lo stesso Michaud, «difficilmente potevano riuscire meglio in un’impresa imperialistica e di esportazione della loro identità nazionale» (AsG, 127).
È il rovescio della medaglia dell’epoca del turismo. Al di là dell’apparente vicinanza tra culture e tradizioni, dietro l’incontro con il diverso, si cela la sua assimilazione, la cancellazione del diverso — del non-identico direbbe Adorno. La dimensione turistica dell’arte, con tutte le implicazioni di relazioni tra diverse identità e di identificazione del diverso, è, per ammissione dello stesso Michaud, ancora agli inizi. Le prospettive dello sviluppo turistico, enormi per il suo tasso di crescita, richiederanno una sempre maggiore intensità di scambi; sarà il trionfo dei musei e dell’industria culturale nell’epoca della morte dell’arte, o della sua radicale trasformazione. «L’arte sarà sempre più esposta agli effetti degli scambi e delle interazioni. Nessuno potrà restare isolato; nessuno potrò più ignorare gli sguardi degli altri e si instaurerà un rapporto di influenza reciproca tra le identità. I condizionamenti saranno molteplici, impuri, costanti. E in effetti lo sono già». (AsG, 128)
Duplice dunque è la tensione. Da un lato il turismo e lo scambio culturale tendono a omologare e appianare le diversità, dall’altro la dimensione cosmopolita dello scambio si realizza anche nella tendenza ad evidenziare e enfatizzare le particolarità locali. Meticciato e rivendicazione identitarie. Perché «nessuno va a cercare altrove quello che trova a casa propria» (AsG, 128).
Nello schema generale del pacchetto all-inclusive, c’è spazio per il turismo e tutti i suoi indotti economici, per il fascino opaco dell’esotismo e dell’alterità e per il gusto del diverso; il tutto senza abbandonare mai la certezza che nel diverso non ci si può perdere, la certezza dell’ancoraggio alla propria vita che è solo messa tra parentesi, e che quella esperienza ha necessariamente un termine, a volte desiderato, un tempo determinato scandito dai giorni di ferie concessi.
4. In conclusione, sul tema della riflessione
Non è certo compito facile tentare un’integrazione tra prospettive così distanti nel tempo, e non solo, peraltro su un fenomeno che negli oltre trent’anni che separano i due testi in esame ha cambiato decisamente proporzioni. Tuttavia dalla breve sintesi sopra esposta credo sia possibile mettere in evidenza alcuni punti.
Il testo di Michaud forse può trarre in inganno. Il suo obiettivo è sì quello di descrivere un fenomeno sotto gli occhi di tutti senza celebrare né deprecare; ma è obiettivamente difficile astenersi dal giudicare situazioni che richiamano perlomeno una critica dettata dal buon senso. L’ironia, come abbiamo detto, è l’arma utilizzata ma ciò che il francese fa oggetto di ironia Adorno lo sottopone ad aspra critica.
Entrambi legano giustamente la questione della fruizione estetica e del turismo in quanto esperienza che richiama l’aisthesis alla questione della riflessione. Nei musei d’arte contemporanea, sostiene Michaud, non c’è più spazio per la riflessione, sostituita dall’applicazione dell’estetica relazionale e della comunicazione (AsG, 130). Ma l’autore non sembra soffrirne, nelle sue descrizioni possono essere messi in luce ironicamente forse gli aspetti più grotteschi, ma in linea di massima non c’è un vero e proprio atto di denuncia, né l’annuncio di un pericolo imminente. Alla diffusione gassosa dell’estetico attorno ad un mondo circonfuso di bellezza ci si è arrivati attraverso un processo storico irreversibile e, per il nostro autore, niente affatto biasimabile. È un fatto. Il turismo non necessita un contributo della riflessione ed è per questo che le visite nei musei possono entrare a pieno titolo nei pacchetti viaggio. L’arte vaporizzata ha diffuso la sua bellezza ovunque, meno intensa, come meno intenso è lo sforzo per percepirla, ma più diffusa. Il testo pare suggerire che in realtà non ci sia neppure molto su cui riflettere in un mondo così bello.
Adorno al contrario è fortemente critico della fruizione estetica irriflessa. L’irriflessione è una conseguenza diretta dell’estendersi della ratio e della logica del dominio. Insomma, si è portati a non riflettere, indotti da meccanismi che determinano le nostre vite e le nostre coscienze. Il turista cresciuto in seno alla cultura borghese, ha in se tutte le caratteristiche di chi è immerso nello schematismo fornito dall’industria culturale, è per certi versi il fruitore più privilegiato dei suoi prodotti. Il grado di irriflessione dell’esperienza è massima perché frutto della totale artificiosità scenografica. Non c’è molto da riflettere, è vero, ma in questo non c’è nulla di positivo; con l’allontanarsi della riflessione, con la messa tra parentesi del godimento estetico che «dà da pensare», si allontana e si mette tra parentesi una facoltà tipicamente umana. È quella che Adorno chiama la ricaduta nella barbarie.
Sia Michaud che Adorno sono testimoni di una transizione, di una trasformazione dei modi della recezione dell’estetico. Michaud però pare non attribuire troppa importanza a fattori socio-politici, cosa che invece Adorno sottolinea con veemenza e denuncia fortemente. La situazione storica che fa da sfondo alle loro riflessioni è, seppur nelle differenze dovute alla velocità dei cambiamenti del nostro secolo, in fin dei conti la medesima; è l’economia di mercato a fare da motore all’evolversi delle situazioni. Di questo anche Michaud è consapevole, ma mentre per Adorno in ballo è la capacità critico-riflessiva, la possibilità stessa della critica al contingente, Michaud non pare essere preoccupato di questo. L’utopia celata dietro la concrezione della grande opera d’arte (Adorno) si è vaporizzata insieme alla bellezza, svelandosi ed estendendosi ovunque pur non essendo in alcun luogo (Michaud).
5. Riferimenti bibliografici
- Yves Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica, Idea, Roma, 2003.
- Theodor W. Adorno, Teoria Estetica, Einaudi, Torino, 1970.
- T. Adorno — M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1997.