Nell’affrontare il testo di Gregory Vlastos, Socrates: Ironist and Moral Philosopher (tr. it., Socrate, il filosofo dell’ironia complessa, 1998, La Nuova Italia Editrice), pubblicato nel 1991 a Cambridge come risultato di un uniforme accorpamento di lectures o readings tenute dall’autore negli ultimi dieci anni della sua vita presso le più prestigiose sedi universitarie americane ed europee, si ha la chiara sensazione di un impianto metodologico preciso e ragionato in ognuna delle tesi trattate. Ogni capitolo, ovvero ogni ipotesi dimostrata, presenta una regolarità che si presenta con l’annunciazione di ciò che si vuole dimostrare seguita dalla dimostrazione stessa, più o meno lunga, più o meno articolata, come due maglie consequenziali che vanno a formare, in continuità, una catena epistemologica. Tant’è che lo schema metodologico si configura in questo libro non solo come tentativo di dare credibilità a ciò che viene ipotizzato, bensì anche come un vero e proprio discorso sul sapere e sul come esso può essere affrontato e carpito.
Nell’attacco introduttivo scritto appositamente per la pubblicazione della raccolta dei vari saggi, Vlastos descrive le due facce del metodo (facce di una medesima medaglia) rispettivamente come «erudizione» (metodologia) e «umanesimo» (epistemologia). Giustifica negativamente il fare prettamente erudito così come lo si vive negli ambienti accademici: l’erudizione è inevitabile, dei precetti di impostazione del lavoro necessitano tanto quanto il lavoro stesso, ed è appunto questo lo scarto. Il lavoro è risolvibile in sé? Certo lo è, in parte. Il lavoro in se stesso, ovvero l’azione nel momento del suo compiersi, è solo una delle costituenti di ciò che si potrebbe definire come «fare». Le altre due fette sono occupate dall’intento, dalla volontà di fare (o dalla necessità) che presuppone una griglia logica dei movimenti d’operazione; e dal risultato del fare, dalla finalità ultima, o meglio dalle finalità perché a loro volta possono essere molteplici e diversificate. La griglia logica che precede il lavoro non potrà mai scoprirsi di non essere erudizione, perché lo è già in sé, nel suo darsi, ma, dice Vlastos, non dovrebbe nemmeno dimenticare di umanizzarsi, ossia di farsi scopo al di là di ciò che esso è. Il metodo non può limitarsi a servire se stesso altrimenti si cadrebbe nella follia di una stanza chiusa e nella banalità del rincorrersi e del ripetersi. La propensione a trascendersi è oltremodo la linfa vitale per il sostentamento del metodo stesso, quindi per la continuità del lavoro in toto, che in quanto continuità si definirebbe necessariamente entro i confini dell’eterno, dell’esistente al di sopra dello scibile. E, a ritroso, «se non esistesse nulla di eterno, è impossibile che ci sia anche la generazione»,1 ovvero non sussisterebbe il lavoro come sequenza centrale della tripartizione suddetta, come azione atta a legare il passato al presente cronologicamente e spazialmente intesi.
Per «umanesimo» Vlastos vuol significare «uno strenuo sforzo per essere umano»,2 nella qual definizione rientra la sfida di penetrare le proprie capacità sapienziali. «È davvero possibile fare della ricerca erudita e quel tipo di «umanesimo», entrambi allo stesso tempo?»,3 si domanda l’autore rispondendosi di non esserne certo ma ugualmente intenzionato a non lasciar perdere questa convinzione teorica. Da dove giungono queste tenacità e temerarietà? Si respira tra le pagine di Vlastos l’alito pressante di quel personaggio al quale egli ha dedicato tutta una vita, si intravede il «monito» di Socrate sostenuto dall’impianto epistemologico che Platone ha intessuto attorno alla figura del suo maestro. Anche se nel testo viene spesso ripetuto che Socrate sia privo di epistéme, come Socrate stesso argomenta negli scritti platonici, non è mai inteso in senso assoluto, o meglio, mai in senso metafisico; ciò non toglie che vi sia ugualmente una forma di conoscenza che sottostà e va oltre il metodo, lo trascende servendosene. Questa forma di conoscenza si presenta sotto fattezze del tutto terrene, a differenza dello scopo che si prefisse Platone con l’intenzione di giungere a chiarire cosa sia la conoscenza stessa. Socrate, invece, si interessa di un sapere che non può essere se non umanizzato in quanto è un tipo di conoscenza che si rifà direttamente all’ambito dell’êthos. In questo senso Socrate si poteva permettere di dichiarare «mi glorierei anch’io ed inorgoglirei, se sapessi; ma io non so, Ateniesi».4 È il sapere che sovrasta l’uomo e che dovrebbe giustificare il perché di esso, che Socrate ammette coscienziosamente di non detenere. Degli dei egli è servo autonomo e non mercante asservito. Per questo fine ultimo non può che guardare ai propri simili che egli spera anch’essi servi coscienziosi mossi dalle rette motivazioni del ben servire. E in quanto unitariamente unici nel loro scopo, tutti gli uomini dovrebbero reggersi a delle leggi che non sono né giuridiche né divine se non sono prima morali.
Tali prospettive spingono Socrate a crearsi una linea metodologica ben calibrata che si ripete in quasi tutti i dialoghi platonici, o per lo meno in quelli giovanili nei quali pare che l’anziano maestro venga meno inquinato dall’indirizzo ideologico dell’adepto. Si può notare che all’inizio di ogni dialogo Socrate pone al suo, o ai suoi, interlocutore/i una questione cardine che traccia la trama dell’intero dialogo, il quale proseguirà svolgendosi per una serie più o meno nutrita di questioni subordinate atte a dimostrare la validità (o l’invalidità) della principale. Ad esempio, nell’Eutifrone Socrate incontra il suo interlocutore all’entrare del palazzo del Re, entrambi chiamati a giudizio per cause diverse e con compiti differenti, chi a deporre contro e chi a difesa. Ci si approfitta di un frangente di tempo per imbastire un dialogo sul come comportarsi di fronte ad una situazione limite quale quella della deposizione in giudizio. Socrate, interrogativo, s’accanisce sul parere del suo interlocutore non tanto per avere una risposta esaustiva alle sue domande, bensì tanto perché vuole essere sicuro di agire nel giusto, di non sbagliare come uomo. Ci si accanisce proprio perché sa che potrebbe sbagliare, egli e non solo, sa che potrebbe sbagliare Eutifrone, nonostante la sua convinzione, e sa che può sbagliare l’uomo. Questo è il suo fine ultimo (télos), capire dove risiede il giusto. Per giungere a risolvere l’enigma, Socrate pone inizialmente la questione cardine che andrà a segnare l’intero dialogo, protratto nella ricerca di una plausibile risposta ad essa. Nel caso dell’Eutifrone è che cosa sia pio, che cosa santo, e di contro cosa sia empio. In verità, non si discute mai su cosa sia santo, ma su cosa sia un’azione pia, distinta da quella empia, ossia quale sia il retto agire. La domanda cardine la si trova all’inizio del dialogo, non appena vi si addentra, dopo le premesse, in quello che è il tema principale (appunto, la santità scissa dall’empietà), ed è una domanda che ha tutto il gusto di una asserzione che voglia trovare sostentamento nel compagno di scambio. Dice Socrate: «Ma ora insegnami, per amor di Giove, quel che tu dicevi dianzi, conoscere così a fondo, cioè, che cosa è il santo e che cosa è l’empio, in rispetto all’omicidio o ad altro che sia: perché il santo non è sempre il medesimo in ogni cosa?».5 Questo interrogativo non fa altro che cercare giustificazione nell’altro interrogativo-risposta che Socrate pone a conclusione di ciò che si è argomentato: «Ti ricordi che a principio il santo e ciò ch’è caro agl’Iddii non ci parvero medesimi, ma diversi?»,6 ovvero il santo non aderisce alla logica del dare e avere secondo l’interpretazione popolare del rapporto con la divinità, e in ultimo il santo è un pensiero razionale che sta e pulsa in sé, è un concetto logico che vive di sé.
Il dialogo non giunge a dare una risposta a cosa siano il santo e l’empio; giunge bensì ad infettare col dubbio l’azione umana: «se tu non conoscessi chiaro che è il santo e l’empio, per un oprante non piglieresti ad accusar reo di morte quel vecchio di tuo padre: ma avresti paura dello scoppio dell’ira degl’Iddii, al dubbio non fosse la tua una cosa scellerata, e saresti arrossito in faccia agli uomini».7 Nonostante alla fine Socrate non sia contento dell’esito del dialogo, perché il dubbio sul come si agisce nel santo rimane anche in lui, ugualmente egli è riuscito a confermare una sua idea, quella che è stata qui chiamata domanda cardine. Tale domanda ha tutto il sapore di ciò che in geometria veniva chiamata ipotesi. Vlastos sostiene che il sistema dimostrativo basato sulla conferma o la confutazione di un’ipotesi iniziale, proprio del sistema epistemologico scientifico, non può adattarsi al modello elenctico adottato da Socrate, anzi ne comporterebbe la sua destituzione, in quanto un’ipotesi esiste non solo per essere affermata ma anche per essere confutata. Le premesse socratiche alla ricerca del giusto, invece, se dovessero essere confutate trascinerebbero nel baratro la motivazione d’essere del metodo. Ma è questa la duplice proprietà che Socrate va chiedendo al suo sistema interpretativo, un sistema che presuppone come basilare il dubbio, difatti egli domanda, non asserisce, almeno nella forma. Nella sostanza, invece, si è detto che Socrate pone delle questioni che si rispondono (per tramite del ragionamento elenctico) sulle fondamenta solide di una convinzione. Tutto ciò è giustificato dalla definizione che Vlastos stila per il concetto di ironia complessa in Socrate, un’ironia che dice e non dice ciò che dice; così la domanda socratica domanda e non domanda (cioè asserisce) ciò che domanda. Dice Socrate a Menone: «e però a quelle parole sue [dell’eristica] attizzatrici di dispute non è a dar retta, perocché elle ci farebbero pigri; e sono, a sentire, dolci solo a quelli dilicati; ma l’altre parole che ti ho detto io, quelle sì fanno l’omo faticatore e cercatore; e perché le reputo vere, io vo’ cercar con te che mai sia la virtù».8 In una traduzione più recente la frase corsivata è resa con «convinto d’essere nel vero».9 Il metodo dimostrativo, che sia strutturato per ipotesi antitesi e tesi o che sia in balìa di una mareggiata opinionistica, necessita ugualmente di una ferma convinzione d’aver imboccato la strada giusta. Da questo «statuto» zampillano probabilmente le scoperte scientifiche, anche se è vero che la sensazione trainante in quest’ambito non sia che è l’uomo a fare la scienza, bensì che è la scienza a fare l’uomo. L’idea che esista qualcosa di fisso ed eterno superiore all’uomo, sede di ciò che chiamiamo verità, e che la scienza sia un dono magnifico nelle mani degli uomini atto a dipanare le nebbie attorno a certe verità, e che essa sia una disciplina precisa e spesso infallibile, non esclude che la scienza stessa e la sua storia si siano centellinate per deduzioni logiche che presuppongono una osservazione. Se ci si deve attenere a Platone tale scienza è pressoché irraggiungibile, eppure la ricerca di essa ne costituì lo scopo e la vita tout court di Platone. A spiegazione non può esservi che la convinzione del fare, a sua volta impastata di minori, brevi convinzioni.
Tornando all’Eutifrone, si diceva di questioni subordinate alla principale, all’ipotesi, intavolate da Socrate allo scopo di giustificare questa. Tali questioni sono dell’ordine: «or il santo non è la medesima cosa che l’empio, ma tutto il contrario: è vero?», «ma se disputano [dei e uomini], disputano dei fatti e Dii e uomini (se pur disputano gl’Iddii), in quanto che gli uni li giudicano giusti, gli altri iniqui. Non è così?», «il santo s’ama agli dagl’Iddii perché è santo? o è santo perché s’ama?», «perché s’è convenuto che il santo si ama per questo, perché è santo; e non già ch’è santo perché si ama. È vero?», e via dicendo. Sono domande che a loro volta sono delle piccole prese di posizione della stessa forza dell’ipotesi, domande non casuali ma ben mirate a risolvere il caso. Per mirate si intende scelte secondo una logica pertinenziale, tant’è che quando Eutifrone si allontana dal canovaccio Socrate lo riprende avvertendolo del bisogno di «raddrizzar le gambe al ragionamento».10 Certo questo non significa una mera adesione ad una rigida arbitrarietà del dialogo, bensì richiede una selezione verso un’onesta pertinenza per quella ricerca di quella verità. Quando Eutifrone svia il ragionamento, Socrate, prima di riportarlo a sé, gli dimostra l’inaccuratezza della sua conclusione sempre comunque in relazione all’ipotesi. In sé la conclusione di Eutifrone potrebbe risultare buona, buona per un’altra ipotesi, quella dettata dalla credenza popolare, che è santo ciò che è voluto dagli dei e empio ciò che è riluttato da loro. Lo scontro qui è rappresentato da due fronti opinionistici, non da un’opinione e una «verità». Ma è tutto preventivato dalla ricerca socratica: ciò a cui anela Socrate non è la scienza, come poteva essere nel caso di Platone, bensì l’opinione vera. Vlastos inquadra molto bene la battaglia delle parti distinguendo implicitamente l’interprete dal riformatore11 sulla base di una dichiarazione di Marx: gran parte della filosofia occidentale è stata agente di visione di un mondo costituito, non ha fatto altro che tirare, egregiamente, le somme di un già-dato; una parte esigua, invece, si è preoccupata di interpretare attivamente il già-dato tentando di trasformarlo in un non-già-dato. Un non-già-dato non in senso assoluto (sarebbe assurdo e pretenzioso, forse) ma relativamente all’opinione corrente. Per dirla con Socrate, questa fetta esigua di ricerca filosofica ha tentato di sostituire all’opinione popolare la vera opinione.
Ebbene, opinione, vera opinione e scienza si rapportano gerarchicamente tra loro; non si rapportano perché non sono raffrontabili, oppure sono la stessa cosa? Viene da rispondere che sarebbero la medesima cosa se esse non si distinguessero per fragilità e solidità temporalmente intese. Ecco la spiegazione che ne si dà nel Menone:
Menone: Oh meno! tanto che chi ha scienza coglie nel segno, ogni volta; e chi ha diritta opinione, or ci coglie, ora no.
Socrate: Come dici? Chi ha opinion diritta non ci coglie sempre, insino a che ei l’ha diritta?12
M: Di necessità, mi pare. Ond’io mi maraviglio, s’egli è così, perché la scienza sia più onorata che la diritta opinione, e perché siano reputate due cose questa e quella.
S: Sai perché ti maravigli? Te l’ho a dire?
M: Di’.
S: Perché non hai mai badato alle statue di Dedalo:13 ché non ce n’è forse da voi.
M: Perché dici tu questo?
S: Perché anche quelle, se alcun non le lega, scappan via; legate, stan lì.
M: Che vuoi dire tu?
S: Che una statua di Dedalo non è ella gran cosa possederla sciolta, ché gli è come possedere un servo fuggitore: non istà; ma se è legata, ella è di gran pregio, ché sono assai belle. E dove ho la mente, dicendo io questo? alle opinioni vere: imperciocché le opinioni vere insino a che stanno nell’anima, elle son cosa bella e operano ogni bene; ma non vogliono star lì un pezzo e scappan via; sicché non sono molto pregevoli insino a che tu non le leghi con ragionamento che metta lo perché in chiaro. Questa è la reminiscenza […]. Legate che siano elle, si mutano in iscienza, e si stabiliscono: e però scienza è pregevole più che opinione diritta; e scienza differisce da opinione diritta, per lo legamento14
«Lo legamento» è il nesso logico che la mente dispone.15 Le discipline ermeneutiche degli ultimi decenni hanno dato nome a questo nesso di pertinenza. Diciamo che la scienza ha una pertinenza più salda coi propri oggetti rispetto all’opinione coi suoi. Si deve intendere un legame sempre di tipo temporale. L’opinione ha per oggetto principalmente le «cose» umane le quali sono cagionevoli, s’ammalano, muoiono e risorgono sotto nuove fattezze, sono volubili in vita e capricciose; quindi con maggior frequenza si devono rivedere e correggere. A differenza della scienza che stipula matrimoni più duraturi con le «cose» di natura, meno soggette a cambiamenti. Questa differenza, però, non scinde irreprensibilmente l’opinione dalla scienza, bensì le si trova accomunate, appunto in quanto simili, nel metodo di ricerca. Per capire meglio l’assimilazione tra le due Socrate punta l’attenzione non sull’opinione tout court ma sull’opinione vera che, per fermezza, si avvicina a quel che solitamente si intende per scienza. Essa è sì una legge di costume ma che non guarda ai modi e gli usi contestualizzati, bensì ai quei precetti che stanno sopra il costume stesso e che fanno il costume. L’opinione vera è un concetto che trascende l’opinione, ed è quello scarto che ci permette a noi, oggi, di leggere Socrate e di intenderlo sulle basi di un costume totalmente differente ma che nelle sue linee nomotetiche è rimasto pressoché invariato. Non uguale, ma pressoché invariato. La morale greca sta all’attuale occidentale così come l’alchimia sta alla chimica. Ecco, quindi, che opinione e scienza si comparano nel loro costituirsi archetipico.
Il folle desiderio di Socrate è quello di fare dell’opinione una scienza salda quanto la scienza stessa. Per questo il modello elenctico si presuppone con la sofferta linearità di un ragionamento razionale che sia al contempo deduttivo ed induttivo. La lotta contro la falsa opinione è ben più cruenta di quella contro una falsa teoria scientifica, per il semplice fatto che, mentre la seconda ci si avvede dal pronunciarla e quindi dal farla una credenza propria e altrui (chi mai sosterrebbe che l’accelerazione che acquista un corpo materiale sotto l’azione della forza gravitazionale dipende dalla sua massa? L’accelerazione è la medesima indipendentemente dal peso, eppure un corpo pesante cade prima di uno leggero), per quanto riguarda i pareri è facile farsi un’idea propria dalla grezza osservazione dei fatti o sul tessuto di personali esperienze, come per esempio avviene nella disputa sugli dei in Eutifrone o sul perché della fuga dalle carceri in Critone. Ancora, nel Fedone Socrate, anticipando la metafora della caverna, stila la differenza tra «ragioni» e «immagini»,16 dove le une possono essere le opinioni vere e le altre quelle comuni. Socrate assume, per lui, la strada della ragione, sostenendo che «ogni qualvolta supponendo una ragione, quella che mi par più forte, giudico vero ciò che si concorda con essa».17 Similmente Aristotele, che si è formato nell’Accademia e che ha studiato il pensiero di Socrate, afferma in Del Bene che «non si deve manifestare la propria opinione frettolosamente, ma solo dopo aver ripetutamente esaminato la questione e […] neppure il semplice indagare le difficoltà è inutile; […] non si deve dimenticare che è un uomo non solo colui che raggiunge i suoi scopi ma anche colui che affronta una prova».18 Come si può combattere una battaglia di questo genere se non adottando una supposizione forte, sentita e reale, e affermandola, o cercando di farlo, con delle ipotesi ad essa pertinenti? Nell’atto di pertinere ad una teoria data, a sua volta pertinente ad una catena logica di osservazioni ed elucubrazioni, Aristotele individua due tipi di percorso cognitivo distinguibili nel ragionamento epagogico e nel ragionamento sillogistico. Il primo ha un procedimento induttivo, mentre il secondo deduttivo, il che significa che, rispetto all’oggetto di studio, nel primo caso ci si arriva, nel secondo ci si torna. Nelle Confutazioni sofistiche confronta altri due tipi di ragionamento che ai due suddetti si rifanno: «dialettiche [lógoi dialektikói] sono quelle che deducono, da premesse fondate sull’opinione, una conclusione contraddittoria ad una certa tesi; saggiatorie [lógoi peirastikói] quelle che partono da proposizioni, le quali sembrano accettabili a chi risponde e debbono essere necessariamente conosciute da chi pretende di possedere una scienza»,19 di modo che il dialettico utilizza solo uno dei due movimenti, quello sillogistico, comportandosi giocoforza in maniera avversativa ogni qual volta l’interlocutore svia dalle linee tracciate; mentre il peirastico si rifà principalmente alle proprietà induttive radicate dentro delle convinzioni forti. A detta di Aristotele, il metodo socratico non è completo perché si limita ad un meccanismo confutatorio esclusivamente dialettico che deduce da quello che l’avversario dice, dalle sue proprie opinioni. Il «dialettico evoluto», invece, dovrebbe adottare contemporaneamente entrambi i ragionamenti facendosi forte del doppio movimento che deduce inducendo. Questo è ciò che applica Aristotele nei suoi trattati etici.20 Ma a ben vedere, risulta assai strano tale verdetto sulla figura di Socrate, dal momento che esso pare, in questo senso, il più evoluto dei dialettici. Socrate non si blocca al dedurre se non induce. La sua fama di dialettico avversativo fu alimentata dal fatto che egli andava ripetendo il suo disconoscimento della conoscenza, ma se si rivolge l’occhio nuovamente alla lettura che ne fa Vlastos dell’ironia socratica ecco che si spiega come egli non era solo avversativo, bensì anche fortemente propositivo.
Nell’Etica Nicomachea, Aristotele annota: «Ma, i principi, gli uni vengono scoperti per induzione, altri con la sensazione, altri attraverso un’abitudine, e altri in altre maniere. Bisogna dunque cercare di ricavarli ciascuno a seconda della sua natura e far in modo di definirli bene».21 Non è forse un ritratto dei precetti di ricerca etica di Socrate? In esso l’induzione metodologica è spesso dettata dalla sensazione, o addirittura da «un’abitudine», dall’abitudine al vivere quelle cose (le norme etiche) all’interno del vivere comune; e spesso non potrebbe essere altrimenti: come si è detto precedentemente, certe norme, a differenza degli statuti scientifici, non si riescono a fissare in quanto soggette a cambiamenti repentini. Le leggi morali costituiscono l’unico codice di leggi non scritte, eppure ci sono, le ribadiamo e le seguiamo quotidianamente senza che nessun timore giuridico ce lo imponga. La trattatistica etica s’è scervellata nei millenni nel trovare una motivazione all’impressionante continuità di questo tacito codice comune. Socrate ha dato la sua risposta intessendo la teoria della trasmigrazione delle anime. L’anima ha in sé la conoscenza sia delle cose dell’aldilà (alle quali Socrate non pone attenzione) sia di quelle di questo mondo: le une sono proiettrici delle altre, sono l’arché oppure la «cosa» (oudén), ma nell’intento socratico non sono mai importanti quanto le altre, esito di quella «cosa», ed esito morale. È stato ripetuto più volte che la ricerca di Socrate è di ambito morale, non ontologico; egli «chiede: «Cosa è la forma pietà?», «Cosa è la forma bellezza?», e così via. «Cosa è la forma?» non lo chiede mai».22 Vlastos fa notare che la «cosa» viene chiamata «ipotesi» nel Fedone quando si suppone che ci sia un bello per sé per via dell’immortalità dell’anima, ma precisa anche che è un lessico che appartiene del tutto a Platone, non a Socrate, dato dalle nuove influenze subite dal fascino crescente della geometria che proprio in quegli anni e proprio in Atene e in Sicilia andava imponendosi come una disciplina infallibile. D’altro canto, però, sembra che, se non il lessico, l’idea che ne sta alla base appartenesse già a Socrate. Ipotizzare significa attenersi ad un qualcosa di prestabilito che, nel caso suo, non può essere che un qualcosa di già appartenente all’anima che è a sua volta dentro di noi, qualcosa che affiora a noi (alla nostra coscienza) per sensazione. Questo non può che essere l’iter originario dell’intuizione. La sensazione si rivela come propellente dello schema pertinenziale al quale fa seguito la collana di supposizioni atte a confermare o meno tale sensazione. La sensazione può anche essere errata ed è per questo che necessita di un esame attento ed equilibrato, sciorinato per ipotesi pertinenziali. Attraverso l’esame, se l’ipotesi iniziale viene più volte attestata, ecco che la sensazione si rafforza e si fa veritiera sino a divenire convinzione netta e rigida. Qui si innesta l’altra ricerca dei principi indicata da Aristotele, quella «mediante una specie di abitudine»: nell’Apologia Socrate rivela di «una cotale voce [daimónion], che, sino da fanciullo, sento io dentro»,23 che chiama anche la sua «abituale divinazione».24 Questa voce invia lui dei segnali che egli, come un relè, deve saper interpretare per poi poterne fare dono agli altri ateniesi. La capacità di interpretazione non è, purtroppo, di tutti, non per impotenza congenita ed attribuzione elitaria, bensì perché richiede una prassi abituale atta allo svezzamento. L’interpretazione si deve fare abitudine, si deve fare mestiere così come nella carica del divinatore. In questo modo, la ricorrenza della voce potrà essere correttamente intesa sino a giungere a cogliere le giuste opinioni. Le opinioni comuni risultano fallaci al cospetto delle vere opinioni solo per inattività esplorativa, per inappetenza consuetudinaria. Ecco perché per Socrate «la vita senza esame è indegna di uomo».25 Senza un tale approfondimento si rischia di non raggiungere mai la rettitudine dell’agire, e in un contesto nel quale l’agire si prefigura come confluenza politica, gestionale, ciò sarebbe un grave danno.
Dunque, Socrate è un dialettico completo, infarcisce i propri dialoghi non solo su quel che l’interlocutore dice e sostiene ma anche sulla traccia da egli posta. La sua convinzione si viene a scontrare con le convinzioni altrui avendone solitamente la meglio perché è uno scontro tra verità e falsità, o meglio tra giusto e fallace. E in questa contrapposizione risulta perdente chi ammette le ragioni dell’altro. È raro che Socrate risponda alle supposizioni altrui con epiteti del tipo «dici bene», «è vero», «è così», «è come dici tu», ecc.; il più delle volte contrappone degli ulteriori punti di vista. Viceversa, i suoi interlocutori sono soliti al farlo. È un modo di tirar l’acqua al proprio mulino come spesso è stato rilevato, anche dallo stesso Aristotele, oppure è il fascino della correttezza a smentire e ad attrarre? Questo sembra rimanga un mistero per lo stesso Socrate, ma ciò che gli è chiaro è che il modo di operare non sia del tutto sbagliato: come potrebbe esserlo se gli si dà ragione? Il metodo dialettico, se non conduce alla vittoria, per lo meno insinua una fastidiosa pulce nell’orecchio dei partecipanti al dibattito. Eutifrone se ne fugge alla fine del dialogo, lasciando Socrate in sospeso nei suoi dubbi, ma egli deterrà ancora la certezza del suo agire che aveva all’inizio, quando incontra l’anziano ateniese sotto il portico del palazzo del Re? I dubbi di Socrate, mossi da delle convinzioni di fondo, forse saranno spartiti dai suoi antagonisti di battuta.
Se ora si fa un passo indietro e si torna alla raccolta di saggi di Vlastos, ci si avvede di come la struttura dei vari scritti ricalchi l’insegnamento socratico. All’inizio di ogni capitolo, quindi di ogni tesi su un aspetto del filosofo, Vlastos attesta un’ipotesi dichiarandola apertamente, dopo di che procede con la dimostrazione (su basi testuali) che ne condurranno al compimento. Tutto ciò è costretto nelle forme della letteratura saggistica, come non potrebbe essere altrimenti oggi. Gli ambienti accademici richiedono per gli studi critici nessuna altra forma all’infuori di questa. Certo nulla vieta di esporre le proprie tesi in versi o nella luce di un copione teatrale o per immagini cinematografiche,26 comunque a scapito della credibilità o della reclusione in ordini definitorii inaccettabili negli ambienti accademici. Questo costringe Vlastos a privarsi di interlocutori diretti coi quali battagliare, in modo da affinare i vari punti di vista verso la tesi finale, figlia logica dell’ipotesi iniziale. Se egli avesse adottato un canovaccio teatrale per i suoi intenti, i propositi dialettici, memoria di quelli socratici, avrebbero avuto libero sfogo. Invece se la cava, seppur all’interno delle maglie saggistiche, con un espediente che vede continuamente chiamati in causa altri studiosi che sugli stessi temi hanno scritto e deposto. Questi sono i suoi legittimi interlocutori. Il primo grande «avversario» di Vlastos è il testo, che sia di Platone, di Aristotele, di Senofonte o di Aristofane, l’importante è che testimoni la presenza di Socrate. Il testo è lo scrigno dove è racchiusa la verità sul filosofo, e per avvicinarcisi esso va interpretato nel modo più retto possibile. I testi sono per Vlastos ciò che il daimónion è per Socrate, e in quanto tali egli non li perde mai di vista. Tutti gli altri dialoganti esistono per attestare certe verità indotte dai testi. Il nome più ricorrente è quello di Irwin, accompagnato da altri insigni studiosi quali Allen, Brickhouse, Burnet, Cornford, Dodds, Friedländer, Guthrie, Santas, e nomi aulici del passato quali Cicerone, Kierkegaard e Wiittgenstein. Quest’ultimo è l’unico che venga utilizzato come compagno d’armi, come man forte «ideologica» per la conferma di certe linee teoriche, mentre tutti gli altri sono continuamente oggetto di conferma e di confutazione. Irwin ne è l’esempio più lampante: Vlastos ne esplicita la dipendenza teorica e lo ringrazia apertamente per il suo appoggio critico, eppure non manca mai di attaccarlo ogni qual volta gli sembra che vi siano delle sviste nelle dichiarazioni del collega.
Così ogni capitolo afferma un principio, elenca le formulazioni di questo attraverso vari autori, le confuta con una serie improrogabile di dimostrazioni e giunge all’attestazione della propria interpretazione del principio. Questo non deve far pensare che Vlastos sia categorico e fermo nelle sue affermazioni. Lo è per necessità; proprio come per Socrate, si tenta una via che porta ad una soluzione, la quale, ugualmente, non elimina il dubbio, né in sé né nei suoi fruitori. Capita che concluda un capitolo scrivendo fieramente «l’ipotesi è stata dimostrata»,27 ma capita con maggior frequenza che termini un dibattito con una domanda, una questione che ribadisce, sì, la sua linea, e d’altro canto stenta a confermare, cioè getta il germe del dubbio in un discorso che si figura come potenzialmente infinito. La domanda lascia il gusto amaro della sospensione, dell’insicurezza. Se due individui si devono dare un appuntamento non è ammissibile che uno dei due concluda con «Ci vediamo alle quattro?»: come fa l’altro ad essere sicuro che a quell’ora può veramente incontrare l’amico? Certo è una domanda che contemporaneamente può affermare, ma come si fa ad esserne certi? E chi ha formulato la domanda ha la certezza che il compagno avrebbe risposto positivamente? Così, in Vlastos i dibattiti rimangono aperti come terminus post quem generatori di dubbi ai quali è chiesto ai lettori dare una protesi continuativa.
L’impalcatura dimostrativa eretta da Vlastos si forma su un calco metodologico che è al contempo epistemologico, ossia l’erudizione che la ricerca filologica presuppone viene stemperata, o meglio si trascende in quell’umanesimo che è intento conoscitivo qualora stimola nel fruitore un accorgimento alla continuità. «Socrate non dice che la conoscenza in base alla quale lui e noi dobbiamo vivere è radicalmente diversa da ciò che chiunque ha mai inteso o perfino immaginato come conoscenza morale. Dice solo che non ha conoscenza, anche se senza di questa è dannato, e ci lascia a risolvere da soli l’enigma di cosa abbia voluto dire».28 Vlastos, come Socrate, smette di dire per condurre la riflessività nell’interlocutore. Egli, da solo (autós), deve cercare in sé la conferma o la confutazione non solo di ciò che è stato detto ma anche di ciò che non è stato detto. È una ricerca di conoscenza, intima e solitaria, che per essere completata, però, non può tralasciare l’interazione con gli altri, con altre ipotesi e con altre opinioni. Non è forse questo lo stesso che il concetto di autonomia morale29 propugnato da Socrate?
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Aristotele, Metafisica, III, 4, 999 b5-6, in Aristotele, Opere, Laterza, Bari 1973. ↩︎
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Gregory Vlastos, Socrate, il filosofo dell’ironia complessa, Firenze, 1998, La Nuova Italia Editrice, p. 4; ed. or., Socrates: Ironist and Moral Philosopher, Cambridge University Press, Cambridge 1991. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Platone, Apologia, IV, in Carena Carlo (a cura di), Platone. Dialoghi, Milano, 1990, Club degli Editori su licenza Einaudi, Torino 1970, nella versione di Francesco Acri. ↩︎
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Platone, Eutifrone, V, ed. cit. Il corsivo è arbitrario. L’edizione riporta una nota al significato di «cosa»: «in ogni atto (práxei) santo. Socrate pensa a un elemento universale». ↩︎
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Ibidem, XIX. ↩︎
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Ibidem, XX. ↩︎
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Platone, Menone, XV, ed. cit. Il corsivo è arbitrario. ↩︎
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Platone, Menone, 81e, in Platone, Opere, Laterza, Bari 1966. ↩︎
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Platone, Eutifrone, ed. cit., XI. ↩︎
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Gregory Vlastos, op. cit., introduzione al cap. VII, pp. 239-40. ↩︎
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In verità, Menone non ha sostenuto ciò; ha semplicemente constatato il maggior prestigio della scienza che comunemente si ha rispetto alla vera opinione. Socrate gli mette in bocca la conclusione del ragionamento in atto. ↩︎
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Le statue di Dedalo vennero legate perché, per eccesso di realismo, incutevano timore nella gente che esse potessero animarsi da sole. ↩︎
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Platone, Menone, ed. cit., XXXIX. ↩︎
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Nel Fedone Socrate cita Anassagora che sosteneva che «la mente è quella che fa e dispone tutte le cose […] essa è la cagione dell’universo» (XLVI). Socrate si rallegra di questa definizione in quanto egli intende che il sapere sia frutto anche di una conoscenza concettuale. Ma il limite di tale posizione che viene fatto presente è come essa prende atto dell’essere senza spiegarne le cause, il perché dell’essere e di come quell’essere si struttura. ↩︎
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Platone, Fedone, ed. cit., XLVIII. ↩︎
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Idem. Il corsivo è arbitrario. ↩︎
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Aristotele, ed. cit., Del Bene, fr. 1. ↩︎
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Aristotele, ed. cit., Confutazioni sofistiche, 165 b3-6. ↩︎
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Si veda Gregory Vlastos, op. cit., cap. III, pp. 125-26. ↩︎
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Aristotele, ed. cit., Etica Nicomachea, I, 7, 1098 a26-b6. ↩︎
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Gregory Vlastos, op. cit., p. 77. ↩︎
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Platone, Apologia, ed. cit., XIX. ↩︎
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Gregory Vlastos, op. cit., p. 227. ↩︎
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Platone, Apologia, ed. cit., XXVIII. ↩︎
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Si pensi a Dante, a Leopardi, o agli ultimi film di Godard che sono dei saggi per immagini. ↩︎
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Gregory Vlastos, op. cit., p. 140. ↩︎
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Ibidem, p. 58. ↩︎
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Si veda ibidem, cap. I. ↩︎