Il prodigioso medicamento. Simboli e riti per la cura della comunità

In memoria di David Graeber

Premessa. L’antica via degli empi

Girard, nel suo testo, mette in primo piano il racconto atavico del Giobbe pre-biblico – il Giobbe orientale che è alla base della narrazione orale di ogni comunità, prima di diventare il paziente devoto idealtipico della tradizione scritta del popolo di Israele -. Questa radicale restituzione è posta come condizione per un’analisi del principio primo di ogni comunità umana e dell’ordine in un qualsivoglia spazio: la violenza fondativa. Il senso profondo del concetto di autorità si mostra nella relazione fra il singolo uomo e tutto ciò che lo trascende, nella sua condizione di sudditanza alla realtà delle regole della esistenza mondana. Girard nel primo capitolo del testo pone un’ipoteca su tutta la riflessione antropologico-simbolica del suo lavoro, quando comprende che esiste una differenza importante fra il prologo e il dialogo. Il primo, un testo in prosa scritto, probabilmente, molti secoli dopo la parte dialogica, è tutto incentrato sulle pesanti disgrazie che Satana infligge a Giobbe per sfidare la sua fede in Dio. Nel dialogo, invece, il protagonista non accenna mai a Satana e riferisce il suo dramma a una «causa non divina, né stanca, né materiale, ma umana, solamente umana».1

Girard identifica nel dialogo la Sapienza originaria contenuta nelle narrazioni orali delle comunità precedenti all’avvento della scrittura, prima che la Bibbia diventasse strumento per una Sapienza con cui fare i conti per comprendere la genesi della Città di Dio in terra.2 In pratica il Giobbe del dialogo è la metafora del duplice rapporto fra l’individuo e la comunità: da genio ammirato e osannato a reietto, pharmakos che raccoglie l’ira e la violenza di tutti i suoi fratelli uniti contro di lui.

1. Giobbe da Genio a Pharmakos: il pendolo eterno della condizione umana.

"Come mai Giobbe è diventato la bestia nera della sua comunità?": nel suo libro, La via degli empi, Girard cercherà di rispondere a questa domanda, illustrando il meccanismo del passaggio di un capo-popolo, adorato e imitato, a reietto e rifiuto della comunità. Tutto il dialogo è un incessante processo alla parabola umana che Giobbe interpreta e che rende la collettività due volte unite: prima nell’adorazione del successo di Giobbe e poi nella virulenta persecuzione dell’idolo caduto. Secondo Girard, il Giobbe caduto del prologo non può essere lo stesso uomo del dialogo. Nel prologo il protagonista è un individuo che perde la sua fortuna, una fortuna materiale3 e personale, ad opera di un Dio malvagio e sadico che premia e punisce con il solo scopo di mostrare la sua potenza al mondo, di nutrire la propria vanità contro un Satana frustrato dagli innumerevoli tentativi falliti di far cadere la fede del povero Giobbe. Un protagonista adatto a una società dove il lusso e il benessere dipendono dalla ricchezza e dalla persistenza in una morale di obbedienza alle regole del patriarcato, dove per essere padrone degli uomini, dei figli, delle donne e delle bestie, è necessario sottomettersi all’eterna potenza del Creatore, e farsi interprete della grammatica dell’autorità adatta alla comunità retta da una gerarchia verticale.

Il Giobbe che ci restituisce Girard è l’autentico collettore dell’energia spirituale della comunità umana, fatta di rigidi meccanismi rituali in grado di rigenerare e rinvigorire in eterno la famiglia umana riproponendo, ogni volta che occorre, l’atto fondativo originario – assumendosi così l’onere della tradizione. Per questo l’operazione filologica dello studioso francese è inscrivibile all’interno di un percorso finemente antropologico, dove il Libro sacro viene analizzato quale «Totem», o «pietra angolare» di tutta l’umanità. Quello che noi dobbiamo allo studio di Girard è la possibilità di analizzare la Modernità senza perdere di vista gli elementi di continuità nei suoi meccanismi collettivi ed atavici. Possiamo riconsiderare le crisi, le rotture e i cambiamenti della storia senza perdere di vista la ricchezza assiologica dell’umano che ha nel mito e nei riti le radici che nutrono anche la nostra epoca. In questo modo l’avvento del cristianesimo, così come la rivoluzione culturale dell’illuminismo e la rivoluzione politica dell’89 francese, possono essere lette quali segni di un movimento di ritualizzazioni politiche riconducibile in qualche modo a uno stesso fondamento originario. Ogni volta che un uomo è innalzato e poi gettato nella polvere, e tutto intorno a lui una folla eccitata mette in atto il rituale della violenza collettiva, si decostruisce il vecchio sistema e dalle sue rovine si genera il nuovo ordine culturale. Questo «meccanismo», che sia spontaneo o ritualizzato, si mostra come costante in tutte le epoche e culture. Girard è in grado, con la sua antropologia, di mostrare le strutture presenti al fondamento di ogni cultura umana. In questo modo trova una coerenza nell’idea di comunità che permette di superare ogni divisione fra le culture. Miti e riti restano dunque aspetti costitutivi della società umana e la frattura tra individuo e comunità, che è la caratteristica rivelante la condizione della modernità,4 può essere studiata senza evocare invenzioni o salti antropologici avvenuti nella storia. In questo modo possiamo cominciare a ipotizzare, con Girard, che la comunità si generi nella eterna oscillazione fra la ritualizzazione della violenza e la costituzione di una sacralità regale. Questo «pendolo» simbolico oscilla fra la solitudine del pharmakos e l’assolutismo del genio, i due poli estremi di un movimento dentro il quale si può leggere la storia umana.

2. Il libro di Giobbe tra simbolico e immaginario

Il cardinal Gianfranco Ravasi, nel suo Il libro di Giobbe,5 afferma che Giobbe «è una presenza continua – nella teologia, nell’esegesi, nell’arte, nella letteratura, nel pensiero – che ha segnato un numero enorme di personalità della cultura», e pur ignorando, nella sua ampia analisi, il testo girardiano, ci conferma attraverso le parole di Alphonse de Lamartine che «Giobbe non è un uomo, è l’umanità. Una razza che può sentire, pensare, esprimersi con questo accento è veramente degna di scambiare la sua parola con la parola soprannaturale e di conversare con il suo creatore».6 Queste affermazioni rafforzano l’idea di fondo che la critica al testo biblico in generale, e l’ermeneutica di Girard sul libro di Giobbe in modo particolare, possano assumere valore di scientificità nel campo di indagine che riguarda il rapporto atavico fra l’uomo e la comunità, nel momento in cui l’antropologo rilegge il Dialogo alla luce della sua teoria sul fondamento del religioso e sulla genesi della cultura a partire dal «linciaggio fondatore». La Bibbia è la trasposizione della Sapienza tradizionale dell’umanità che è giunta fino a noi irrorando tutte le culture successive: una narrazione che catalizza il patrimonio delle culture orali precedenti e le rende disponibili per la civiltà umana che si è evoluta come civiltà della scrittura. Per questo quando Girard afferma, all’inizio del IV capitolo, che «le scienze umane cercano di tracciare il ritratto del capo tipico, escogitando nozioni come quella di carisma […] come se [il carisma] costituisse un tratto della personalità individuale del capo […]. Se ciò fosse vero, il carisma del capo non si trasformerebbe tanto facilmente nel contro-carisma del capro espiatorio»,7 sta dichiarando che quello che accade a Giobbe non riguarda semplicemente l’individuo del racconto ma è la narrazione del mito fondatore di tutte le comunità. La violenza di tutti contro uno, della comunità contro il reietto, è atto che attiene al sacro, al momento in cui l’espulsione del pharmakos diviene unità spontanea che trascende ogni singolarità ed è in grado di creare in un sol colpo un corpo collettivo. Affermare che un atto violento, nel trascendere l’individualità, crea un corpo collettivo, vuol dire affermare l’esistenza di un meccanismo in grado di produrre una condizione di ordine culturale a partire da una tensione, un dis-ordine, rappresentato dal momento della crisi in cui la comunità oscilla tra l’adorazione del modello invidiato al momento in cui la violenza collettiva si concentra compatta contro il soggetto unico, il reietto, l’escluso. Giobbe rappresenta per Girard il mito della presenza del trascendente nell’esperienza umana, non nel semplice immaginario collettivo delle culture semitiche, ma in quanto simbolo imperituro dell’ordine culturale in qualunque comunità umana. Giobbe in quest’ottica diviene il mito fondativo dell’ordine culturale e così anche simbolo della possibilità dell’ordine in uno spazio pubblico. Questo perché dobbiamo tenere distinto il significato di «immaginario» dal significato di «simbolico».8 Il primo attiene al pensiero, a come gli uomini si formino dei concetti desumendoli dalle esperienze, dalla vita, dalle relazioni e anche dalla storia. Un processo intellettuale, singolare o collettivo che procede dal vissuto reale all’immaginario codificato. Una costruzione mentale che è immagine della realtà. Il simbolico è l’insieme dei processi grazie ai quali realtà ideali si incarnano in oggetti materiali o in pratiche che ne garantiscano una forma reale di esistenza pratica, sociale e collettiva. Un processo che va dalla forma di un’idea alla concreta oggettivazione di questa in un manufatto o in un agire comune. Tale distinzione è fondamentale per comprendere come sia certamente impensabile che, da una parte, un singolo uomo possa razionalizzare la vicenda dell’atto fondativo della violenza collettiva, che probabilmente non esperirà mai; da un altro punto di vista è invece evidente come il racconto biblico di Giobbe, nel passaggio dalla narrazione orale quale ideal-tipo del racconto della civiltà atavica orientale alla codificazione del Dialogo come scrittura sul testo sacro della nascente comunità ebraica, rappresenti l’incarnazione nell’uomo Giobbe dell’idea generale di uomo che si confronta con la trascendenza di Dio e della comunità.

Stabilito che si tratta di un simbolo universale e primigenio, seguiamo Girard nella sua idea che il Pharmakos si trasformi in Pharmakon – nel senso che la vittima della violenza collettiva funge da prodigioso medicamento e riesce a creare contro di sé l’unità della comunità. Nel tempo in cui Giobbe era il modello da invidiare, l’unità era tenuta insieme dal desiderio di emulazione. Ma solo nello scatenarsi della violenza contro il Giobbe caduto nasce il meccanismo che crea l’unità perfetta del tutto contro uno. Il Pharmakos crea il sentimento di comunità che si depura dalle differenze, che trova il senso comune: «maledire tutti insieme Giobbe significa compiere un’opera divina, perché equivale a consolidare l’armonia del gruppo, ad applicare un balsamo supremo alle piaghe della comunità».9

3. L’ispirazione rituale

Nel paragrafo L’orfano estratto a sorte Girard focalizza la sua attenzione sul sentimento di invidia che unisce i tre amici di Giobbe in dialogo con lui. Riguardo tale sentimento – che «c’è», e «spiega certe cose, ma non tutto» – l’autore asserisce che esso è il primo collante a unire il gruppo di amici intorno a Giobbe. È il primo istintivo meccanismo che crea una cesura fra l’individuo invidiato e il novero degli invidiosi, che non è ancora però l’accensione della violenza collettiva che genererà l’unità della comunità contro il Pharmakos.

L’invidia è presente anche nel passaggio dall’amor di sé all’amor proprio di Rousseau, e spiega il mutamento che avviene nell’uomo di natura una volta entrato in relazione con altri nella società civile. Qui il meccanismo è la riflessione che il singolo compie su se stesso nel momento in cui confronta le proprie qualità con quelle dell’altro uomo. Ne nasce una mutazione del naturale sentimento dell’amore di sé in una riflessione che genera la distorsione su cui poggia il meccanismo dell’agire umano nella società moderna. Ma è un meccanismo che non genera unione e non chiude i conti con la violenza collettiva: crea invece antagonismo tra i soggetti e tiene la società moderna in uno stadio di perenne frizione fra l’individuo e la comunità. Invece Girard sostiene che questo meccanismo si manifesti nel dialogo del Libro di Giobbe come «un risentimento personale che non si oppone più al legame sociale ma lo rafforza»,10 facendo sparire ogni opposizione fra individuo e comunità. Per Girard è l’invidia che assale gli amici ad unirli in un unico fervore, e questa energia, focalizzata su un medesimo soggetto, trascende il gruppo e rende incomparabile il valore del meccanismo vittimario, dal momento che genera questo legame collettivo. La riflessione sull’invidia è l’essenza stessa del concetto di meccanismo, e mostra come il dialogo sia all’altezza della sua fama di narrazione universale. La distruzione della vittima designata porta non solo l’unità temporanea del gruppo, ma la pacificazione della comunità, una volta che il Pharmakos sia stato sacrificato e si sia dunque trasformato nel Pharmakon della società. «La comunità ha quindi un gran bisogno di uomini di fiducia che non cerchino di soffocare la violenza sul nascere come si farebbe oggi, ma che le impediscano di diffonderla a caso nella comunità, canalizzandola verso la vittima migliore, più idonea a suscitare l’unità verso di sé – la vittima forse già indicata agli invidiosi […] la vittima già segnata dalla collera divina».11 Il dialogo non è semplicemente la trascrizione della Sapienza orale orientale, ma è più precisamente la messa per iscritto della ritualità che discende dal meccanismo. Girard lo dice chiaramente quando afferma che «dietro l’atteggiamento degli amici, e soprattutto di Elifaz, si avverte la volontà di assecondare il fenomeno, di imitare tutti quei comportamenti che in passato hanno portato a una felice conclusione».12

Così, mentre nel prologo gli amici vengono segnalati quali consolatori o interlocutori, nel dialogo è chiaro che essi sono i sacerdoti di un rituale con precisi compiti, con determinate assunzioni di ruolo. Elifaz è senz’altro un sacerdote e tutto il dialogo può essere letto in virtù di uno schema rituale con la configurazione di ripetitività tipica di un’antica cerimonia che non riguarda tanto il soggetto di cui si parla, ma è indubbiamente costruita per definire un processo che ha fondamenti atavici in cui ognuno recita un ruolo senza saperlo: vediamo quindi come si svolge il dialogo nella sua forma trascritta.

4. La struttura del dialogo e le considerazioni di Girard

I tre amici di Giobbe, Elifaz di Teman, Bildad di Suac e Zofar di Naama, venuti a conoscenza delle sue disgrazie, si recano dall’infelice per confortarlo. I tre rimangono senza parole davanti al male terribile che ha colpito Giobbe. Non parlano per sette giorni e sette notti: "Rimasero seduti per terra, presso di lui, sette giorni e sette notti; nessuno di loro gli disse parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande" (2:13). Restano attorno allo sventurato senza dire una parola. Infine è Giobbe ad aprire bocca, dando così origine al dialogo con gli amici: "Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita" (3:1). Il silenzio iniziale (sette giorni e sette notti) viene enfatizzato come fosse un tempo esorcizzante, una modalità di comunione fra il dolore del singolo e la capacità della comunità di parteciparne. Il fatto che tutti gli interlocutori tacciano per «sette giorni e sette notti», rimanda idealmente alla fase della Creazione divina. Gli amici assumono un atteggiamento contemplativo, di raccoglimento quasi in attesa di un evento eclatante, come la calma prima della tempesta. Il dialogo procede poi secondo uno schema ritmico diviso in modo rigoroso.

Dopo la fase iniziale di silenzio, il monologo di Giobbe rappresenta la solitudine del Pharmakos, il riconoscimento della condizione del singolo che è di profonda differenza rispetto agli "amici". Il monologo comincia con Giobbe che, maledicendo la propria nascita, si autodenuncia come il perfetto maledetto: una rappresentazione della caduta dell’uomo da una condizione di beatitudine. Una sorta di maledizione della condizione umana, del singolo che dall’armonia del cosmo viene tratto al caos della vita mondana. Quest’uomo dispera della propria condizione di individuo senza più un passato (distruzione di tutto ciò che aveva costruito), senza proiezione per il futuro (morte dei figli), di reietto (discredito dalla moglie e dai servi): Giobbe è il simbolo della disperazione, dell’uomo rimasto senza trascendenza (senza Dio e senza comunità). Dopo il monologo in cui Giobbe si lamenta dei suoi malanni, si susseguono le tre serie di discorsi dei tre amici, confutati volta per volta dallo stesso Giobbe. Qui notiamo come l’attacco a Giobbe renda gli amici uniti: una comunità vera che si riconosce nell’avversione violenta al diverso, al malato, al reietto. Lo schema del dialogo riporta una sua ritualità, incedendo in una ripetitività precisa:

Prima serie (4:1-14:22): parla Elifaz il temanita (capp. 4 e 5); Giobbe risponde (capp. 6 e 7). Parla Bildad il subita (cap. 8); Giobbe risponde (capp. 9 e 10). Parla Zofar il naamatita (cap. 11); Giobbe risponde (capp. 12-14).

Seconda serie (15:1-21:34): parla Eilfaz (cap. 15); risposta di Giobbe (capp. 16 e 17). Parla Bildad (cap.18); risposta di Giobbe (cap.19). Parla Zofar (cap.20) risposta di Giobbe (cap. 21).

Terza serie (22:1- 27:23) parla Elifaz (cap.22); Giobbe risponde (capp. 23 e 24). Parla Bildad

(cap.25); Giobbe risponde (capp. 26 e 27).

Manca, in questa ultima serie il terzo discorso di Zofar, forse reperibile in alcune frasi di Giobbe (24:18-24 e 27:13-23). Infatti, se in queste due sezioni fosse davvero Giobbe a parlare, questi aderirebbe molto stranamente alla tesi dei suoi amici che lo accusano di meritare il castigo per aver peccato. Più logico quindi riferire tali brani al discorso mancante di Zofar.

Lo schema rituale è tale che il riconoscimento del diverso quale peccatore che si discosta dalla via della rettitudine consente di compattare la comunità, il collettivo dei giusti riuniti contro di lui. L’argomento degli "amici" è valido solo in senso generico: il male proviene dal peccato umano. Se tutte le persone vivessero come dovrebbero, la comunità sarebbe in salute.13 Ecco che Giobbe diviene il «simbolo» della condizione umana: un’idea di giustizia che si incarna nel singolo Giobbe. Solo l’uomo pio che segue la strada della correttezza e della devozione alla trascendenza è felice, chi si discosta soffre. Che la lettura del dialogo vada fatta solo in senso generale, e sia dunque da considerare come un simbolismo rituale, è espressamente detto da Girard, quando sostiene che il sacrificio di Giobbe è visto dagli «amici» in senso di una «terapia sociale».14 Girard considera questo dialogo esemplificativo di ogni rituale comunitario, nel senso che questo ci mostra la violenza originaria divenire rituale nell’opera di trascrizione dialogica. La violenza originaria è comprensibile solo come idea, un’idea simbolica che si può esprimere nella sua dimensione rituale. Ecco che il dialogo diventa la trascrizione rituale di un’idea originaria di cui Giobbe è il simbolo universale. Girard insiste molto sul fatto che il dialogo non sia già il rituale, ma una ritualizzazione della violenza originaria. Infatti nel paragrafo Origine e ripetizione lo sforzo dell’antropologo francese è tutto profuso nel mostrare come l’agire di Giobbe e degli amici rispetti il meccanismo originario senza risolverlo in una cerimonia codificata. Il dialogo non mostra l’uniformità dei ruoli singoli come ci si aspetterebbe da un rituale classico, ma l’intento di chi ha voluto trascrivere il dialogo è di trasferire la vicenda sapienziale per dare forma rituale a un’idea che è ormai coscienza collettiva.

Dunque è la trascrizione di questo dialogo nella Bibbia che di fatto ritualizza la violenza originaria del racconto di Giobbe – che è Sapienza comunitaria appartenente alla civiltà orale. La trascrizione, come dice Girard, non è un nuovo inizio, perché «non ci troviamo all’alba di una nuova cultura sacrificale. Siamo nella piena decadenza dell’antica, siamo in piena crisi sacrificale».15 Dunque Girard considera il caso Giobbe una «similitudine» della violenza originaria, e il Libro di Giobbe un tentativo di far precipitare un simbolismo nella pratica rituale della cultura semitica.

Giobbe è simbolo della condizione dell’uomo idolatrato e invidiato, che viene poi rigettato come reietto dalla violenza di quegli invidiosi che si coalizzano contro di lui. Un pendolo che muove fra gli estremi in cui l’ab-solutus, l’uomo di natura rousseauiano, l’isolato, l’individuo, l’orfano o il re si trovano a coesistere nell’oscillazione della stessa persona, presa come Pharmakon necessario alla cura della comunità. Il precipitare del simbolo, di un’idea originaria che si materializza in un uomo o in un’istituzione, tenderà a ritualizzare alcuni aspetti che nel tempo si mostreranno confacenti a situazioni contingenti, come la individuazione di un orfano estratto a sorte che faccia le veci del Phamakos, o di un uomo carismatico che funga da Re sacro. Nel meccanismo vittimario abbiamo un simbolo che funge da catalizzatore universale, nel rituale abbiamo l’attribuzione ad un singolo della proiezione dell’immaginario collettivo, del popolo che cerca un colpevole a cui attribuire i mali della comunità, o un dux da seguire e da adorare.

5. L’individuo tra orfano e Re della comunità.

Nei due paragrafi conclusivi, l’antropologo francese ci mostra l’evoluzione dei riti a partire dall’approfondimento del caso del Re sacro. Quando la crisi dell’era sacrificale viene indirizzata verso una ritualità che sostituisca il meccanismo vittimario, si ottiene un modello di comunità che pone, come avviene nella modernità, la frattura definitiva fra universale e particolare. Il re o l’orfano diventano lo strumento per l’affermazione di una cesura, e non il meccanismo di una composizione spontanea.

Girard, nel Re sacro, dimostra come la storia di Giobbe sia sovrapponibile a molti tipi di riti, e che non sia pensabile ridurre la ricchezza del dialogo a una monarchia in particolare nella storia antica. Al contrario, possiamo capire i riti monarchici se osserviamo i fenomeni della folla che gli amici mettono in scena. La teoria mimetico-vittimaria è visibile in ogni rituale – che non è che la copia delle forme del meccanismo spontaneo creatosi intorno a Giobbe. I rituali, come sappiamo, non conservano nulla della spontaneità e della virulenza del meccanismo vittimario, ma sono utili alla comunità per disinnescare la violenza originaria. Nei rituali si esige un andamento prestabilito e preciso, che richiami il modello vittimario in modo così da favorire l’immaginario collettivo verso «l’idolatria delirante» del Pharmakos che diventerà re, della vittima che si trasformerà in oppressore dei suoi carnefici. Si tratta dunque di un rituale tale che possa mantenere il Re nella sua posizione dominante, dopo che tutte le empietà gli siano state attribuite come percorso di caduta e risalita nella considerazione della comunità.

La fase in cui il singolo uomo è osannato, ancora fortunato e ammirato da tutti (la "prima fase" di Giobbe), è quella ritualità che viene a innalzare il Re. La seconda fase, nel rituale monarchico, esiste ma è sfumata: passata sotto tono e messa in sordina per dare una luce diversa al re sacro, quale vero Pharmakos che è vittima-strumento del rinnovamento spirituale della comunità – che si ritrova, in quanto collettivo/essere generale, in opposizione alla vittima. Girard insomma focalizza la sua riflessione sulla trasformazione degli atti empi spontanei in forme di ritualizzazioni che si sono stratificate nel tempo nelle cerimonie di intronizzazione dei re nelle società arcaiche. Un modo per far vivere ritualmente alla comunità quell’esperienza minima per sentirsi tutti uniti nella devozione al Re sacro, una sorta di azione concentrata quale esperienza per sviluppare, nel tempo e attraverso la pratica costante, l’immaginario collettivo, in cui la proiezione della trascendenza collettiva si realizzi nella figura del «capo». L’invidia collettiva si disinnesca e si tramuta in adorazione, gli atti empi del singolo diventano manifestazioni di potenza del Re. La regalità è l’affermazione del potere assoluto del sovrano: la prima fase del meccanismo vittimario si afferma nella pratica rituale comunitaria, e cristallizza nel singolo invidiato la forma di trascendenza che pone l’uno, l’individuo singolare, al di sopra della comunità. Non avvenendo la trasformazione dell’ammirato nel Pharmakos, la comunità non ritrova una sua unità orizzontale e si stabilizza nella sua forma di società monarchica. Anche quando, come ricorda Girard, a Babilonia si espletavano rituali in cui, formalmente, la folla oltraggiava il Re sacro in un rituale ripetuto una volta all’anno, non si faceva che esorcizzare la violenza e stabilizzare la devozione verso il singolo capo. «A mano a mano che la monarchia si allontana dal modello che imita, diventa sempre più monarchia e sempre meno sacrificio».16 Girard ci offre un’ipotesi suggestiva circa l’evoluzione del meccanismo vittimario mano a mano che la violenza collettiva si inscrive in forme ritualizzate sempre più distanti dalla forma originaria. Un modo per definire un modello universale della nascita delle forme politiche che non avrebbero, dunque, nessuna origine mitica; ma che, al contrario, sarebbero tutte comunque delle forme mistificate e abusive di un modello di comportamento umano spontaneo. Mentre i miti sarebbero simboli della originaria costruzione del sacro, una specie di momentanea liberazione dai mali della comunità adatti a curare ogni frattura tra gli uomini, i riti, che ne discendono, sono una formula per giustificare l’ordine culturale vigente e perpetrarlo il più a lungo possibile.

La teoria girardiana ha il grande merito di averci mostrato i passaggi originari e costanti delle culture orali che resistono come miti all’interno delle culture moderne: le crisi di indifferenziazione, i segni vittimari, l’espulsione del Pharmakos, il ritorno e la costituzione dell’ordine culturale, tutte istanze che possono essere ritrovate in ogni forma di cultura umana. Forme generatrici di civiltà che si sono poi riversate in rituali sociali sempre più distanti dai fondamenti, grazie ai quali la comunità umana manteneva la propria unità identitaria.

6. Excursus sulla riflessione moderna intorno a comunità e individuo (Reinhart Koselleck, Mario Reale, Roberto Esposito).

Sarebbe qui impossibile dare conto in modo esaustivo del dibattito e degli studi circa il rapporto fra individuo e comunità in ambito moderno. Per questo abbiamo scelto di dedicarci a un excursus in grado di evidenziare alcuni punti critici sulla questione, partendo dalla constatazione che la modernità è caratterizzata da questa frattura – ma lo è nel senso di un immaginario collettivo che ha creato questa idea di separazione a partire dall’acuirsi di stratificazioni storico-politiche. L’abbandono del simbolismo, dopo l’avvento della ritualizzazione del Re sacro, è avvenuto, come vedremo, con l’avvento della rivoluzione cristiana e delle sue forme di approdo nella cultura illuminista. Nella modernità, la rottura dell’unità nella comunità e il suo rovesciamento nei tentativi di ricostituzione volontaristica in una nuova forma – la società contrattualistica – comincia con la riflessione giusnaturalista e il tentativo filosofico di rispondere alla domanda fondamentale: chi sia l’uomo in natura.

John Locke aveva disegnato il prototipo di uomo di natura trasferendo l’immaginario del cittadino della borghesia commerciale inglese in una ipotetica comunità originaria. Lo Stato moderno veniva così concepito quale proiezione del modello di uomo della società civile. Anche Hobbes aveva compiuto lo stesso processo, nel momento in cui proiettava la brutalità delle guerre di religione nella vita degli uomini di natura. Per i due pensatori inglese, gli uomini contemporanei diventavano l’immagine dell’uomo di natura tout court. Solo Rousseau si era probabilmente reso conto di come l’individuo in natura dovesse essere concepito eliminando ogni forma di riferimento all’uomo del proprio tempo, pensandolo quindi nell’isolamento naturale, prima di ogni relazione sociale.

Ecco che l’analisi di Mario Reale in Le ragioni della politica (1983) ci aiuta a fare chiarezza su una questione essenziale per il nostro ragionamento; intorno alla possibilità che lo studio di Girard sul libro di Giobbe ci porti a una visione dell’esistenza di meccanismo atavico e fondativo per la comunità umana, prima ancora di ogni cultura. Nella modernità ogni simbolismo è perso – o reinventato, come vedremo nei tentativi di riscrittura del lessico sociale da parte dei rivoluzionari francesi –, e Rousseau resta il filosofo che meglio ha cercato di comprendere tale frattura all’interno della società. Reale osserva che

Rousseau «suppone» gli uomini giunti al punto in cui la resistenza degli ostacoli vince sulle forze individuali. Allora l’«état primitif» non può più sussistere e il genere umano perirebbe «s’il ne changoit sa maniere d’etre». Il problema, si ricorderà, è ora quello di dar vita a una «somme de forces» che, agendo di concerto, assicuri la conservazione. Ma ecco che a questo bisogno di unità, a questa spinta non solo positiva, ma altresì necessaria e improrogabile – sotto pena di morte – all’associazione politica, si unisce ora un problema […] l’esigenza dell’homme indípendent, che non può ignorare la propria «costituzione particolare».17

Reale vede dunque bene la radicale opposizione fra la necessità di tale unione collettiva e l’individuo. Ancora più magistralmente nota come l’alternativa si riduca all’eliminazione del singolo o alla dissoluzione della comunità. Certo Rousseau non giunge così all’indietro – come invece Girard –, alla teoria della violenza collettiva: pur avendo intuito, nella teoria dell’amor proprio, il problema delle relazione umane nella nascita della comunità originaria. Questa mancanza del ginevrino è tipica del pensiero volontaristico moderno, eppure la Rivoluzione francese mostrerà come certi meccanismi vittimari siano ancora presenti nelle pieghe della storia.

Sullo stesso piano di indagine storico-antropologico Koselleck, come Reale, cerca di mostrare un punto di frattura preciso, in cui l’opposizione tra individuo e comunità si rende evidente. Se il filosofo romano ha individuato nel pensiero di Rousseau il punto critico della modernità, lo studioso di Gorlitz individua nella Pace di Augusta (1555) un momento in cui l’esperienza storica diventa immaginario collettivo. Attraverso la famosa formula Cuius regio eius religio, la fine della violenza delle guerre di religione si ottiene parallelamente alla nascita dell’assolutismo regio. Le comunità in un determinato territorio erano costrette ad aderire alla religione del proprio re. Questa fu la soluzione partorita nel momento della crisi della coscienza europea, risolvendo la frattura fra individuo e comunità a favore di un ab-solutus, un uomo che nella sua individualità sanava ogni conflitto sottomettendo il tutto alla parte.

Confrontando Reale e Koselleck abbiamo visto il pendolo della modernità oscillare tra il singolo che rinuncia al sé particolare in favore del tutto collettivo, e il genio ab-solutus che si erge sulla collettività e ne pacifica le istanze sovrapponendo la propria volontà a quella della maggioranza. Ma questo pendolo, che muove nelle due direzioni delle possibili soluzioni alla frattura moderna tra particolare e universale, non mostra di avere un fondamento certo per la pacificazione della comunità. Il volontarismo moderno mostra tutta la tensione irrisolta nelle pieghe della storia. Le guerre, le lacerazioni politiche, le differenze sociali ed economiche che la modernità porterà alle estreme conseguenze non determinano meccanismi che pongano i conflitti come premesse di un prodigioso medicamento, e non sono il viatico per ritrovare un’unità a partire dalle differenze. Sembra invece che da tutto questo nasca sempre una nuova occasione di divisione e di sofferenza. Roberto Esposito in Communitas. Origine e destino della comunità18 muove una critica al significato che il concetto di comunità ha assunto nella riflessione filosofica moderna, specialmente nella filosofia politica. Lo studioso napoletano critica l’assunto che la filosofia politica tenda a pensare la comunità come un modo di intendere una «soggettività più vasta». Esposito pensa a un vero e proprio rigonfiamento del «sé nella figura ipertrofica dell’unità dell’unità»,19 una sorta di proprietà dei soggetti che accomuna questi stessi. In qualche modo, l’autore cerca, nel testo, di prendere le distanze da tale idea alla base di molte teorie sulla comunità, attraverso uno studio genealogico del termine: uno studio etimologico del lemma Communitas.

Da questo studio, a partire dal significato che i dizionari conferiscono al sostantivo communitas e all’aggettivo communis - ovvero un temine che assume significato in opposizione al termine "proprio", nel senso che comune è tutto ciò che non è "proprio" -, Esposito definisce

Communitas l’insieme di persone che sono unite non da una proprietà, ma appunto, da un dovere o da un debito. Non da un "più" ma da un "meno“, da una mancanza, da un limite che si configura come un onere, o addirittura come una modalità difettiva , per colui che ne è “affetto", a differenza di colui che ne è, invece, "esente" o "esentato". È qui che prende corpo l’ultima, e più caratterizzante, delle coppie oppositive che affianca e subentra alla alternativa pubblico/privato: vale a dire quella che mette in contrasto communitas e immunitas [dove] communitas è colui che è tenuto all’espletamento di un compito […] l’immunitas è [colui che viene meno, il dispensato].20

Esposito comprende dunque come la comunità sia un collettivo che si compatta nel momento di una mancanza, dell’espulsione di qualcuno che non è assimilabile. Il sacrificio del non-assimilabile rende la comunità un’unione intorno a qualcuno/qualcosa che è venuto a mancare. Un’unità che si ritrova intorno a ciò che è venuto meno: un meccanismo che fa pensare a una relazione diretta fra comunità e morte, tra un insieme che riceve in dono la salvezza dal suo opposto – che viene a mancare. Esposito in qualche modo vede nello scavo genealogico-etimologico le ragioni girardiane, e si oppone alle letture moderne degli Hobbes, Rousseau e Kant che, in modalità diverse, riconducono il significato di comunità ad un processo volontaristico razionale.

I tre studi che abbiamo considerato mettono in luce come il rapporto collettivo/individuale, generale/particolare sia sempre riconoscibile anche nella modernità; sia nelle ipotesi storico-filosofiche di Koselleck e Reale, sia nell’ipotesi genealogico-etimologico di Esposito. Quello che manca al dibattito moderno è piuttosto il meccanismo della violenza collettiva, che è stato espunto in favore della costruzione della comunità politica del diritto, che concede allo Stato moderno l’esclusiva della violenza.

7. Dall’ultimo sacrificio alla modernità irrituale.

Girard accenna appena alla regalità come esempio di ritualizzazione moderna della figura del re sacro. L’assolutismo regio, come aveva ben visto Koselleck, mette in scena la ritualizzazione del singolo ab-solutus quale genio-creatore della comunità dei sudditi. Il Re Sole, con la sua corte a Versailles, si erge a «soggetto particolare», adorato, osannato, invidiato e soprattutto temuto, rispetto al «popolo» che si genera, hobbesianamente, in quanto unità che si riconosce nell’obbedienza. Qui la comunità è sottomessa alla trascendenza di un singolo, temuto nella sua figura di soggetto efferato, portatore di tutti quei tabù che nel meccanismo vittimario lo avrebbero trasformato in Pharmakos. Nell’immaginario collettivo moderno, il Re «impersona» l’uomo capace di concentrare tutti gli aspetti necessari al Sovrano per esercitare l’autorità, che non nasce più spontanea nella comunità. Si tratta di una trascendenza «straniera», «eteronoma», che la filosofia politica codifica come necessaria alla stabilità e alla tenuta dello «Stato borghese». Questo immaginario ritualizzato nel «Re Sole-sacro» si frantumerà solo con l’avvento di una nuova metapersona: la borghesia.

La definitiva destrutturazione della violenza fondatrice è avvenuta con il Cristianesimo che, secondo la teoria di Girard e la visione filosofica di Gianni Vattimo,21 rappresenta la fine dell’equilibrio su cui si erano rette le comunità umane. Quel fattore mimetico che permetteva alla collettività di concentrare la proiezione di una coscienza collettiva sulla fortuna e sulla caduta di un solo uomo, sarebbe andato definitivamente perso con il Sacrificio di Cristo. Questo meccanismo, come abbiamo ampiamente mostrato leggendo il IV capitolo dell’Antica via degli empi, era il fondamento endogeno dell’autorità in grado di mantenere, in un asse orizzontale, il perfetto equilibrio tra tutti gli uomini della comunità, dando conto delle ragioni della politica grazie a una volontà generale spontanea e irriflessa, che saldava in un sentimento il riconoscimento collettivo.

Invece il simbolismo della croce è l’idea che il sacrifico umano debba essere superato nella prospettiva delle ragioni delle vittime, e non dalle necessità della tenuta della comunità. La salvezza è nella prospettiva del Pharmakos, della vittima, e non più della collettività. Così l’orizzontalità del meccanismo si perde nella verticalità del rapporto diretto fra il singolo e il Divino, in un patto implicito con l’ultimo sacrificio, che è stato, contemporaneamente, l’esecuzione del Re dei re da parte dell’impero romano e l’assassinio del Figlio di Dio da parte della comunità ebraica. Questa morte ha rivelato agli uomini la condizione esistenziale della vittima quale fondamento di un nuovo ordine culturale, in cui ogni escluso va integrato, ogni vittima soccorsa, ogni individuo tutelato nella propria libertà. Questo cambiamento di prospettiva ha irrorato idealmente tutta la cultura occidentale, e come ha visto Gianni Vattimo (1985; 1989; 2002; 2003) la secolarizzazione, la valorizzazione del concetto di persona, la libertà come valore fondante la società moderna non sono che elaborazioni culturali nella progressiva destrutturazione del concetto di «uomo» avviato dalla morte e dalla resurrezione dell’ultima vittima. In fondo Cristo sì muore, ma risorge e trionfa per sempre, di là dalla comunità, al di sopra di tutte le differenze.

Pierpaolo Antonello nota, infatti, che «se il meccanismo sacrificale non può più funzionare perché ne è stata rivelata l’assoluta ingiustizia e arbitrarietà, la società moderna si trova in una nuova fase sperimentale in cui la storia diventa laboratorio per trovare nuovi meccanismi di equilibrio e stabilità».22 L’uomo moderno si ritrova, secondo Antonello, a scoprire nell’ideologia dello Stato democratico il freno alla dissoluzione della comunità attraverso quelle strutture politiche ed ecclesiali che offrono un argine alla violenza collettiva. A nostro avviso la modernità è un fenomeno transtorico, nel senso che non può essere letto come una storia di progresso costante e lineare, ma che anzi ha mostrato in ogni epoca continue involuzioni e tensioni, che non permettono di codificare il «moderno» come un concetto definibile una volta per tutte – essendo questo da intendersi piuttosto come una continua crisi e ripartenza di un processo di secolarizzazione e di emancipazione dalle forma di potere arcaiche verso un modello di ipotetico Stato democratico.

Conclusioni: L’Encyclopédie, la Rivoluzione francese e nuovi meccanismi politici

Nella ricognizione sul IV libro dell’Antica via degli Empi, abbiamo focalizzato l’attenzione sull’importanza che la lezione girardiana riveste per la filosofia politica, nel momento in cui appare urgente comprendere i meccanismi collettivi che resistono anche nelle crisi che noi spesso ricordiamo come rivoluzioni politiche. Per chiudere la nostra riflessione, concordiamo con Girard che la religione non è in sé portatrice di violenza, anche se ci insegna ciò che sappiamo della violenza dell’uomo. Questo vuol dire che anche la fine del meccanismo originario, con la nascita delle ritualizzazioni religiose e civili, non ha portato alla realizzazione di quella fratellanza universale che la rivoluzione cristiana prometteva. Dopo la profonda crisi della coscienza Europea, la fine delle guerre di religione e l’instaurazione degli assolutismi, ci fu come un grande progetto teso alla realizzazione dell’ideale di emancipazione del singolo uomo quale riscatto definitivo per ogni oppresso, per ogni isolato. L’Encyclopédie è stato il grande tentativo di costruzione di un lessico critico in grado di fornire ad ogni uomo gli strumenti concettuali per l’emancipazione definitiva da ogni tipo di trascendenza e di oppressione violenta. Il Grande dizionario può essere dunque considerato, da un punto di vista simbolico, come l’anti-totem, quale portatore dell’idea di una nuova comunità costruita intorno alla parola scritta per l’edificazione della società del futuro.

La fiducia nella cultura, quale leva per l’autonomia di qualunque uomo, portò avanti gli sforzi degli autori di questo monumentale Dizionario, che intendeva offrire l’occasione per l’umanità di riunire il sapere umano, coniugando finalmente la teoria tipica delle materie speculative con la pratica tipica dei mestieri artigiani. L’intento era fornire un sapere completo, superando ogni divisione, e dando ad ognuno la possibilità di farsi un’idea della complessità della società umana. In questo senso va detto che l’ambizione dei Philosophes di ricostruire una scienza universale era destinata ad una funzione di riforma dell’ordine ideale della società. Il sapere andava riconsiderato nel rapporto diretto con le attività pratiche, i lavori, le professioni, al fine di liberare ogni uomo dalla dipendenza da autorità accademiche, religiose o da corporazioni di mestiere. La conoscenza diventava così funzionale all’indipendenza del singolo, finalmente padrone di intraprendere il proprio cammino nel mondo. Con l’ampliamento dello studio alle «arti» e ai «mestieri», l’Encyclopédie introduce una novità radicale per una società che si apriva all’era della tecnica nel mondo del lavoro, inaugurando l’idea che ogni innovazione potesse essere funzionale al benessere degli uomini e che ogni strumento fosse pensato per alleviare la fatica e rendere più dignitosa la vita del lavoratore. La scienza al servizio dell’uomo – questa la premessa all’idea politica affermata nel 1794 da Saint Just, secondo il quale l’intera società politica doveva essere pensata al servizio della felicità dei cittadini. Sapere, scienza, lavoro, industria, politica, tutto doveva concorrere a produrre autonomia di giudizio e felicità terrena: la società per l’uomo, questo è il progresso visto dalla filosofia enciclopedista.

I nostri enciclopedisti avevano immaginato che le 72000 parole, presentate secondo un ordine alfabetico ma legate da rimandi logici e connesse così da creare un percorso intellettuale critico, potessero formare l’uomo moderno secondo un’etica del mutamento, del progredire in armonia con una formazione basata sul dubbio, sull’analisi, e sulla capacità di giudizio autonomo. Questo metodo enciclopedico avrebbe aiutato l’uomo moderno a rendersi autonomo da qualunque autorità, a liberarsi dalla dipendenza dai dotti, dalle superstizioni, dando così l’opportunità ad ognuno di migliorare il proprio genio. In questo modo la parola scritta avrebbe trasformato il suddito dell’Ancien regime nel cittadino moderno. Per questi motivi possiamo dire che L’Encyclopédie rappresenta la destrutturazione del lessico dell’assolutismo, attraverso il lavoro di connotare con nuovi significati le parole che sarebbero dovute diventare il sistema della borghesia, la struttura linguistica delle democrazie liberali. Con questo nuovo bagaglio di parole si poteva criticare il passato, ragionare sul presente, facendo, della propria visione del mondo, un’opera d’arte in grado di ridisegnare il futuro dell’uomo.

Il fallimento del progetto enciclopedista di offrire un vangelo laico per il riscatto degli esclusi è presto evidente nel momento in cui la Rivoluzione francese mostra l’impossibilità di una riforma contrattualistica e razionale della comunità politica. Il giuramento della Pallacorda23 e l’avvio della violenza popolare alla Bastiglia inaugureranno un meccanismo nuovo nella storia della società umana. A guidare la folla non è più l’azione simbolica del meccanismo vittimario, ma l’immaginario collettivo di una nuova città celeste in terra. La borghesia, con le sue ragioni di esclusa, si erge a metapersona in grado di cogliere le ragioni della politica e l’aspirazione cosmologica dell’intero popolo. Il fallimento del contratto genera l’insurrezione del popolo che non lincia nessun capro espiatorio, ma violenta il corso della storia come era stata pensata dal riformismo illuminista, instaurando un nuovo ordine iconoclasta e portatore di una nuova dimensione comunitaria: la mentalità rivoluzionaria.

Come ha visto magistralmente Michel Vovelle (1985), la paura, la violenza istantanea, l’ebbrezza collettiva, la fede nella Repubblica, le feste civiche furono tutte forme codificate di un nuovo modo di agire dei singoli nel sentirsi parte integrante alla nuova comunità rivoluzionaria. Partendo dall’immaginario della folla come collettore istantaneo di una serie di sentimenti, quale la paura e la speranza, il popolo francese riaccende un meccanismo che però non ha più nulla di originario e di fondativo. Eppure, secondo Vovelle, «la Grande Paura è stata una manifestazione panica e tardiva di una società orale, in cui una notizia immaginaria può sollevare le folle»;24 questa folla che assalta i castelli e i palazzi nobiliari non uccide, non sacrifica ma si limita a distruggere i titoli di prelievo signorile. Lo sterminio e le uccisioni effettive si ebbero quando la folla si costituì secondo una coscienza di classe rivoluzionaria codificata da rituali tesi a riconoscere nell’aristocratico il nemico della nuova Patria. Solo con il Terrore si ottiene la ritualizzazione del meccanismo vittimario, non un agire spontaneo, ma anzi un sistema violento politicamente definito per creare una nuova identità di popolo. Sempre Vovelle sostiene che il «Terrore rappresenta la paura controllata, dominata e costretta nei limiti della giustizia popolare»25 e ricorda come la nuova condizione di un popolo alla difesa della libertà conquistata costruisce le ragioni della violenza a partire da immaginari collettivi e popolari. Ad esempio venne mutuato l’immaginario popolare della paura dell’orco, traslato nella dinamica della morte del re, una vera e propria iconografia pedagogica: «nel gennaio del 1793 il giornale "Révolutions de Paris" presenta il progetto illustrato da un’incisione di una statua colossale da porre sulle più alte vette lungo le frontiere; il tema rappresentato è il popolo che mangia il Re».

I nuovi meccanismi sociali sono dunque costruzione politica che fa leva sull’immaginario collettivo per edificare una società con un lessico nuovo, ma fondato su dinamiche apparentemente ataviche e tradizionali. Si inventarono nuovi dei, nuovi nomi per le stagioni, un nuovo calendario e nuove feste collettive, tutte forme rituali per indirizzare la violenza e il Terrore secondo nuove dinamiche e nuovi obiettivi. Anche Luigi XVI, il Re sacro, sarà vittima del «Diritto» e non della violenza spontanea, che invece viene provocata ad arte per le ragioni della difesa del nuovo ordine sociale.26

Qui leggiamo, grazie a Girard, con nuovi occhi la voce Genio dell’Encyclopédie quando, in un passaggio spesso tenuto in poco conto dagli studiosi, si recita che «in certi momenti [il Genio] salva la patria, che in seguito, se conservasse il potere, manderebbe in rovina […]; l’immaginazione che svia l’uomo di Stato l’induce a far danni e a render infelici gli uomini».27 Per Saint-Lambert quel genio moderno – il singolo emancipato che per «vastità d’intelletto, forza d’immaginazione, animo fervido […] è dotato di un animo più capace»28 –, è un precursore di idee e un talento capace di innovare il pensiero e rifondare le scienze. Tanto indispensabile alla cultura e al progresso del sapere quanto pericoloso in politica, dal momento che la sua personalità può soggiogare le masse incolte di uomini senza Lumi. Come artista sarebbe sì in grado di rendere migliore ogni forma e ogni creazione, ma come guida politica esso è paragonato alla Medea della tragedia di Pierre Corneille,29 il cui profilo è il prototipo senecano – colei che si vendica dei nemici e sopprime la prole non in preda alle smanie di una gelosia erotica incontrollabile, ma in nome di un codice etico e comportamentale superiore –: integerrimo nel carattere e inflessibile nella volontà, coraggioso, sprezzante della sorte e fieramente solitario. Con questo riferimento si comprende meglio che il «genio non è sempre genio, a volte è più amabile che sublime[…]; che la forza dell’entusiasmo ispira l’espressione appropriata ed energica, spesso induce a sacrificarla a immagini ardite». L’attenzione dell’autore è da intendere come volontà di esaltare il genio nella scienza, ma è al contempo monito a temere il «carisma» di uomini così straordinari, specie in un’epoca in cui la maggioranza degli individui è ancora protesa alla credenza è avvezza a quello spirito critico che gli enciclopedisti avevano come mira per il cambiamento dello spirito umano attraverso la riforma del sapere.

I Philosophes avevano sempre inteso la rivoluzione soprattutto come una rivolta dei costumi, della mentalità degli uomini e del loro vivere. Nella voce Genio si intravede una preoccupazione per l’ipotesi che uomini di genio, iracondi, egocentrici e carismatici potessero soggiogare una massa di uomini piuttosto ignoranti, superficiali e mancanti di Lumi, in una prospettiva rivoluzionaria di mera presa del potere in nome della propria presunta diversità morale. Se pensiamo ai grandi capipopolo del Novecento, quali Mussolini, Hitler e molti altri, possiamo rileggere il Genio politico che «seduce» le masse e incarna non un simbolo atavico, ma l’immaginario collettivo del furore del cambiamento repentino radioso. Nelle loro storie di esaltazione e rabbia distruttrice i geni moderni rischiano di sacrificare i figli del proprio paese in nome della loro superiore figura di capo popolo. Possiamo capire, attraverso il IV libro dell’Antica via degli empi, come la teoria girardiana sia utile a un pensiero critico desideroso di trovare modelli coerenti di decodificazione dei sistemi autoritari contemporanei. Con la frattura fra individuo e comunità, così come noi l’abbiamo letta, non avremo più un Pharmakon per la cura della comunità, ma un individuo isolato che, sia che venga osannato come Genio, sia che venga escluso come Pharmakos, sarà unicamente il fattore disgregante dell’unità della collettività. La teoria di Girard mostra che la cesura moderna è ormai insanabile e che la comunità è stata definitivamente mutata in una società di monadi tenute insieme da interessi spesso divergenti.

Abstract

Starting from Girard’s theory on farmakos and comparing it with the voice Genio in the Encyclopédie, in this study, we will try to analyze the change of the meaning of the concept of authority: from the traditional community to the one introduced by the publicistic of modern philosophy. The reflection will be guided by the reading of the Chapter IV of L’antica via degli empi. Thanks to the reading of the text by René Girard on the book of Giobbe, we will have the oppurtunity to rethink the relationship between the individual and the community, depending on the concept of authority. The transcript of the most ancient dialogue of humanity symbolizes the sense of belonging to a common meaning of cultural order. Analyzing the study of Girard we will try to draw a comparison with modern scholars’ idea of community.

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  1. R. Girard, L’antica via degli empi (1985), Adelphi, Milano 1994, p. 15. ↩︎

  2. Su questo punto, con molta precisione Jean Lévêque nel Dizionario delle religioni, Mondadori, Milano 1984, ultima revisione 2007. Lo studioso parigino divide il libro di Giobbe in quattro composizioni risalenti a epoche diverse. La conferma dell’importanza del testo di Giobbe quale patrimonio dell’umanità è posto dallo studioso in relazione alla sua ricezione nelle varie culture e nelle tre religioni monoteiste. ↩︎

  3. René Girard, nell’opera che stiamo analizzando, a p. 25 sottolinea la preminenza nel Prologo dell’idea di felicità individuale: che «il lettore moderno adotta di buon grado la visione del prologo, perché ricorda il nostro mondo o l’idea che ce ne facciamo. La felicità consiste nel possedere quante più cose possibile e nel non ammalarsi mai, in una continua frenesia di consumistico piacere». ↩︎

  4. Su questo punto due studi sono decisivi. Mario Reale, Le ragioni della politica, edizioni dell’Ateneo, Roma, 1983 (ora disponibile anche on line qui: http://filosofiainmovimento.it/le-ragioni-della-politica/), e Reinhart Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna 1972. Se da un lato Koselleck individua nella Pace di Augusta (1555) il momento in cui si afferma la secolarizzazione della comunità cristiana, Reale analizza il tentativo antropologico, più che politico, di Rousseau di trovare una nuova strada per risaldare la frattura fra particolare e universale nella storia della società umana. ↩︎

  5. Gianfranco Ravasi, Il libro di Giobbe, EDB, Bologna 2015. ↩︎

  6. Ivi, p. 9. ↩︎

  7. R. Girard, L’antica via degli empi, op. cit., p. 91. ↩︎

  8. Su questa distinzione ci troviamo in accordo con Maurice Godelier, Al fondamento delle società umane, Jaca Book, Milano 2009, p. 32, anche se, a nostro avviso, essa non coglie le molteplici sfaccettature del concetto di «simbolico», che riteniamo più ampio della definizione che ne abbiamo dato qui per confrontarla con il concetto di immaginario. ↩︎

  9. L’antica via degli empi, op. cit., p. 93. ↩︎

  10. R. Girard, op. cit., p. 97. ↩︎

  11. Ivi, p. 99. ↩︎

  12. Ibidem. ↩︎

  13. René Girard in Vedo Satana cadere come la folgore, Cap IV, Adelphi, Milano 1990, vi è un illuminante discorso che Apollonio fa ai seguaci, indicando loro la necessità di compiere un linciaggio del orrendo mostro la cui morte salverà la comunità dalla peste: "Guardate l’equipaggio, alcuni riconducono a bordo le scialuppe, altri levano le ancore e le incatenano, altri spiegano le vele per giovarsi del vento, mentre altri sorvegliano le manovre del vascello tanto a poppa quanto a prua. Se uno solo di questi uomini trascurasse per una sola volta il suo dovere, oppure s’egli si dimostrasse inesperto, la navigazione procederebbe malamente, alla stessa stregua come se il battello covasse la tempesta nel suo seno. Se, al contrario, i marinai rivaleggiano per zelo, se ciascuno si studia solamente di compiere il proprio dovere al pari dei propri compagni, il battello farà una buona rotta verso il porto ed il tempo favorirà il suo viaggio". In questo discorso appare evidente come l’equipaggio della nave è un corpo unico, una comunità organica, che trova benessere nella concordia e l’espulsione dell’elemento di disturbo equivale ad espellere la malattia. ↩︎

  14. R. Girard, L’antica via degli empi, op. cit., p. 104. ↩︎

  15. Ivi, p. 108. ↩︎

  16. R. Girard, op. Cit., p. 119. ↩︎

  17. Mario Reale, op cit. p. 389. ↩︎

  18. Roberto Esposito, Communitas- origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. ↩︎

  19. Ivi, p. X. ↩︎

  20. Ivi, p. XVII. ↩︎

  21. Sul confronto Girard -Vattimo facciamo riferimento al testo a cura di Pierpaolo Antonello, Verità o fede debole?, Feltrinelli, Milano 2015. ↩︎

  22. Ivi, p. 18. ↩︎

  23. Fondamentale ricordare l’incipit del Giuramento: «L’assemblea nazionale, considerando di aver richiesto di definire la costituzione del regno, di operare la rigenerazione dell’ordine pubblico e di mantenere i veri princìpi della monarchia, nulla può impedire che essa continui le proprie delibere in un qualunque luogo dove essa sia costretta a stabilirsi, e che infine, ovunque i suoi membri siano riuniti, là vi è l’Assemblea nazionale». Interessante notare che per «mantenere i veri principi della monarchia» la collettività doveva unirsi e allora «ovunque i suoi membri siano riuniti, là vi è l’Assemblea nazionale». La nazione moderna stava riconoscendosi unita in assenza/contro l’ab-solutus. ↩︎

  24. Michel Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Laterza, Bari-Roma 1992 pp. 62. ↩︎

  25. Ivi, p. 65. ↩︎

  26. Su questo argomento si veda lo studio di David Graeber, Oltre il potere e la burocrazia, Elèutera, Milano 2012. ↩︎

  27. Saint-Lambert, Genio in Encyclopédie, traduzione e cura di Paolo Casini, Laterza, Roma Bari 2003, p. 437. ↩︎

  28. Ivi, p. 435. ↩︎

  29. Pierre Corneille (1606-1684). ↩︎