La speranza nella cultura africana

1. Introduzione

Per parlare della cultura africana, useremo il termine Bantu. C’è da ricordare che la prima dimostrazione e trattazione sistematica della filosofia africana è stata quella di Placido Tempels con la sua opera Filosofia Bantu. Essa ha dato origine a un ampio dibattito filosofico, dal momento che, alle tesi presentate da Tempels, alcuni hanno dato il loro assenso, mentre altri le hanno fortemente contrastate.1 Il termine Bantu tradotto letteralmente, significa «gente» oppure «popolo». Esso accomuna molte stirpi dell’Africa nera, cioè quella compresa tra il deserto del Sahara e il deserto del Kalahari e tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano, dove abita la maggior parte della popolazione di etnia Bantu. Non si può parlare, dunque, di una «visione monolitica»2 nelle culture presenti in Africa nera, poiché il termine Bantu ha una risonanza ampia e varia, almeno quanto quella del termine «occidentale»: «All’interno dei Bantu esistono notevoli differenze, spesso antagonistiche».3 Nonostante ciò, vari elementi comuni sono individuabili all’interno delle differenti culture delle molteplici stirpi di etnia Bantu, il che consente di parlare di un pensiero o di una filosofia Bantu. Nonostante la vastità del continente africano, vi sono alcuni valori uguali per tutti, il che rende, non solo possibile, ma anche legittimo, parlare di una cultura africana in generale, nonché di un pensiero e di una filosofia africana.

2. La speranza come forza vitale

Seguendo l’approccio di Tempels, concordiamo con lui sull’esistenza di un pensiero o una filosofia africana a partire dagli studi fatti dei dialetti dei Bantu. Infatti: «nella sua visione del mondo esistono per il Bantu principi costanti e ricorrenti, comuni e irriducibili».4 In tal senso gli autori che concordano con quest’approccio affermano che l’Africa possiede una visione del mondo intesa come riflessione filosofica valida e che rivendica la sua autonomia. Esso ha «un apparato di pensiero filosofico proprio».5

Tempels pone la forza vitale al centro della sua indagine. L’autore nota che ci sono delle parole che ritornano continuamente sulla bocca dei Bantu; secondo lui, esprimono i loro valori e le loro aspirazioni supreme. Sono quindi «varianti di un leitmotiv presente nel loro linguaggio, nel loro pensiero, in tutte le loro azioni e nei loro gesti. Questo valore supremo è la vita, la forza, vivere fortemente o la forza vitale».6 L’autore osserva che le usanze africane, giudicate strane dagli occidentali perché essi non riescono a coglierne il senso, sono in realtà estremamente significative, in quanto servono ad acquisire «il vigore o la forza vitale, per essere fortemente, per rinforzare la vita o per assicurare la sua continuità nella discendenza».7 Questa forza vitale si trova dappertutto: è oggetto delle preghiere, delle invocazioni a Dio, ai propri defunti, agli spiriti e talvolta consente magicamente dei rimedi. Per quanto concerne il rimedio magico «bwanga», secondo i Bantù, esso non deve essere necessariamente applicato alla ferita o alla parte malata del corpo, ma serve a rinforzare o ad aumentare direttamente la forza vitale; esso non ha allora, in primo luogo, un effetto terapeutico diretto.8 Per i Bantù la forza vitale è ovunque: tutti gli esseri la possiedono in modo specifico: l’uomo, i vegetali e gli esseri inanimati. Afferma, infatti, Tempels che «ogni essere è stato dotato da Dio di una certa forza, capace di rafforzare l’energia vitale dell’essere più forte della creazione: l’uomo».9

P.Tempels pone al centro della sua riflessione la«Forza Vitale», detta anche «Muntu»(persona),10 che rappresenta il «perno attorno al quale girano tutti i valori umani e cosmici».11 La Forza Vitale si presenta allora come il nucleo teoretico e il fondamento della filosofia africana; essa costituisce «il vero e proprio nucleo incandescente, dal quale traggono energia e significato tutte le manifestazioni antropologiche e culturali dei Bantù».12 Il punto di partenza della filosofia Bantù non è l’essere, ma la forza vitale, in quanto la vita, per gli africani, è più grande dell’essere. Il fine della vita è vivere; non si può scegliere diversamente. Il mondo africano dona alla vita e al senso della vita, cioè la «forza vitale», una rilevanza del tutto speciale .

Il Teologo Tubaldo, nel suo libro Filosofia in bianco e nero (1995), continua la riflessione sulla stessa linea di Tempels, rintracciando nella Forza Vitale il principio su cui si fonda la filosofia Bantù. Anche per lui la vita rappresenta il centro dell’esistenza africana.13 Secondo Tubaldo, il più grave errore ed equivoco da parte di chi entra in contatto con il mondo africano, consiste nel mancato riconoscimento della forza vitale come tratto essenziale della filosofia africana. Egli sostiene, invece, che un pensiero avente come punto di riferimento la vita è una filosofia vera e propria. A conferma di ciò, l’autore cita vari pensatori che hanno assunto come tema centrale della loro riflessione la vita:14 in primo luogo, Rosmini, con la teoria del sentimento fondamentale e dell’animazione; poi Bergson con l’Elan vital; infine, José Ortega y Gasset (1883-1955), grande pensatore, secondo il quale «filosofare non è dimostrare con la vita il valore della verità, bensì, il contrario: dimostrare la verità per vivere autenticamente».15 Il pensiero russo è incentrato sull’essere e percepito come «organismo, vivente unitotalità, di cui le nostre vite sono parte».16

La «Vita» può essere, dunque, oggetto di riflessione e indagine filosofica: egli lo sostiene ancora, mutuando «la filosofia vitalistica» o«della storia della vita»di Wilhem Dilthey (1833-1911). Secondo lui, la vita «è l’unico, oscuro, spaventevole oggetto di ogni filosofia»;17 la vita nelle sue varie forme è il soffio poderoso che spinge in avanti; è per essa che il tempo diventa futuro. La vita, infatti, non è soltanto passato e presente, ma potenza, possibilità, promessa, energia. Vivere vuol dire avere un orizzonte. L’africano non ha difficoltà a capire questo concetto, poiché respira la vita come l’aria che lo circonda ed è facilitato dal carattere sapienziale della sua cultura. Molti sanno che l’Africa è vita. Lo aveva affermato anche Giovanni Paolo II nell’apertura de Sinodo dei Vescovi africani del 1994: «I figli e le figlie dell’Africa amano la vita». La forza vitale e la vita coincidono. La vita è quindi la caratteristica fondamentale degli africani. L’africano non fa tanti ragionamenti sulle cose, ma le prende come appaiono: «si tratta dell’impulso determinante dell’esistenza e della vita».18

Un altro pensatore che sostiene la forza vitale come fondamento della filosofia africana, è il filosofo angolano Pedro F. Miguel. Egli scrisse una famosa opera, intitolata Kijila. Per una filosofia Bantu (1985). Nel suo scritto, in accordo con Tempels ed altri filosofi, egli rivendica il valore della nozione di «Forza Vitale» all’interno della filosofia Bantu.19 La forza vitale, infatti, si presenta come valore supremo della cultura africana, la sua fonte di origine, la sua sorgente, il principio primordiale. Ogni cosa esistente deve essere spiegata attraverso di essa. Il filosofo angolano continua la sua riflessione riportando un proverbio del suo dialetto, il Kimbundu: «Dibengu katulukê diie: uadiangela ku-di-banda», che significa «Il topo non scende dalla palma, se prima non vi si è arrampicato». Ciò vuol dire che per ogni effetto c’è sempre una causa. Egli prosegue, definendo la forza vitale, facendo riferimento a un altro filosofo angolano, Agostinho Neto, e al suo poema politico rivoluzionario: Sagrada Esperança. Secondo Neto, la forza vitale s’identifica con la speranza del popolo angolano, che fu soggetto per circa cinque secoli al dominio coloniale dei portoghesi e cercò ad ogni costo l’indipendenza. In questa situazione un ruolo fondamentale fu assunto dalla speranza, definita da Miguel, come «una forza che spera contro ogni speranza».20 Si tratta di sperare in se stessi e nelle proprie azioni. Il nucleo centrale del poema è rappresentato, infatti, dal termine kolokota, che significa «forza»; l’imperativo di questa parola vuol dire a sua volta: «ostinarsi», «insistere», «persistere con energia vitale».21

Nella sua riflessione Miguel cita Tempels: «la Forza, la vita possente, l’energia vitale sono l’oggetto delle preghiere e delle invocazioni a Dio, agli spiriti ed ai defunti»22 Il filosofo angolano spiega, infatti, il ruolo primario della Forza Vitale nel pensiero e nella vita dei Bantù, rilevando la sua centralità nelle manifestazioni socio-religiose di questo popolo: «tutte le manifestazioni socio-religiose perseguono lo stesso fine: quello di acquistare vigore, di vivere con esuberanza, di rafforzare la vita ed assicurare senza interruzione la sua perennità nella discendenza».23 I filosofi africani del novecento, pur non parlando di forza vitale o di speranza, fondano la loro riflessione sul dominio coloniale vissuto da tutti gli stati africani. La filosofia africana nasce «dalla sua storia, e particolarmente dagli eventi capitali, che hanno segnato le vicende del continente e delle società africane nell’era moderna e contemporanea: la civiltà egiziana nera, la Tratta della schiavitù, il colonialismo, l’indipendenza, il post colonialismo».24 Essi hanno riscoperto una storia comune a tutto il continente e questa ultima diventa il centro della loro riflessione filosofica. La finalità dello scritto di Miguel non consiste tanto nello stabilire se la filosofia africana sia effettivamente una filosofia o piuttosto un modo di impostare l’esistenza, quanto nella volontà di offrire al lettore una riflessione sull’importanza dei valori e della speranza africana.

3. Forza vitale e vita

Per la mentalità scientifica occidentale, tutte le forze, che compongono un ente sparso nell’universo, sono vitali. La mentalità degli africani, invece, è diversa: per loro, «tutti gli esseri sono tali, in quanto partecipano in modo differente della forza vitale».25 Inizialmente, in Occidente ha prevalso una concezione di vita meccanicistica, esemplificata in maniera grandiosa nel mito della caverna di Platone, dietro al cui carattere allusivo trapela una rappresentazione del processo conoscitivo inteso nei termini di un rapporto tra l’originale e la sua immagine, detta anche «ombra o copia». Solo in seguito si è trovato ed accettato un altro modo di vedere le cose, che è comune a tutti i popoli, e consiste nel «considerare gli enti per gli effetti che producono, per le forze che posseggono, per le specifiche qualità dinamiche che distinguono una cosa all’altra».26 Si può affermare quindi che ogni ente si distingue dall’altro per il suo modo di vivere e di agire.

Gli africani hanno una termologia molto larga: vita, forza vitale, forza del nostro essere, forza della nostra vita, line- force, poiché nella loro cultura non vi è distinzione tra vita e forza. Tutti gli esseri, infatti, partecipano della forza vitale. La vita, in questa cultura, è considerata una realtà visibile ed invisibile allo stesso tempo. Tutto possiede forza; essa penetra l’universo intero e lo costituisce. Esiste dall’inizio del mondo, è dinamica e permette a tutte le cose di partecipare ad essa.27 Anche gli oggetti che vengono dati in dono sono carichi di una forza che «spinge il donatore ad offrirli». Nella cultura africana, tutto appartiene al mare della forza vitale e perciò non si può abolire quanto di animistico e di magico è in essa presente. Non a caso scrive Miguel:

«È un una vita sotto pressione (come una molla); oggetto delle preghiere e delle invocazioni a Dio, agli spiriti, ai defunti; immenso soffio vitale, vita con pungu in quanto la parola pungu, nella lingua dell’Angola indica il suono prodotto soffiando nel corno di bue; e la «P» della parola pungu si pronuncia con le labbra socchiuse e soffiando leggermente: è un’ invocazione del soffio vitale, che si propaga nell’universo; Dio stesso è pungu : immenso soffio vitale».28

Si può notare che si tratta di una forza vitale allargata che riguarda Dio e l’uomo, trascendente e immanente. «Si tratta come di tante linee di forza che formano una rete o un ciclo vitale, un tessuto compatto ed organico».29 La forza vitale è dunque comunione, in quanto è comunicabile alla terra e alla natura ed è in grado di assicurare un equilibrio e un’armonia globali. L’africano entra in comunione con la forza della vita, cioè con la sorgente della vita (l’Essere Supremo), attraverso le forze vitali in cui è immerso. Per l’africano esistere significa «essere con…», e il vivere significa «comunicare». Nella cultura africana, il concetto di vita- forza vitale coincide con quello di unione e partecipazione vitale. Si tratta di un autentico «umanesimo». di solidarietà.

«È la persona che si trasforma in relazione, amando la vita; nulla infatti è più comunicativo della «gioia di vivere», specie se sentita e vissuta al ritmo del mondo. Vita sentita come dono, che si deve trasmettere, perché chi non dà «muore». Dono della vita, non solo generando ma anche trasmettendola sapienzialmente e spiritualmente. La vita è talmente al centro che dev’essere ritenuta «sacra» e divina. Il vero amante della vita è Dio: gli antenati e gli spiriti possono costituire una specie di «medicina», ma la vita è Dio; molte volte i nomi di Dio significano che Egli è «la sorgente della vita» e vivifica. In definitiva, la vita è un dono di Dio».30

Per la cultura africana, la vita viene da Dio e per questo essa è sacra e viene naturalmente accolta con gioia; essa è comunione e partecipazione. Nella cultura africana, la vita è partecipazione, in virtù della sua comunione a tutti gli uomini e della visione d’insieme di tutta la realtà. La civiltà africana è caratterizzata da rapporti che si stabiliscono con tutti gli esseri: «Tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e il soprannaturale, ovvero con la forza vitale che è Dio e che si comunica agli uomini e a tutti».31 Il rapportarsi è quindi partecipazione alla forza vitale dell’altro, ed è proprio quest’ultima che permette agli uomini di riconoscersi a vicenda come simili.

4. Una vita di speranza: i valori fondamentali per la cultura africana

Sebbene l’Africa abbia vissuto momenti terribili nella sua storia, continua nondimeno a vivere nella speranza. Non a caso è il continente africano è chiamato continente della speranza.

«Il passato si potrebbe compendiare in questa terribile constatazione: nessun popolo della terra ha tanto sofferto e per così tanto tempo come il popolo africano. Pur trattandosi di un complesso di popoli, razze, tribù, (circa 3.200), con lingue e tradizioni differenti, la sofferenza li ha tutti unificati. Passando in rassegna ebrei, zingari, africani, a chi spetta il primato della sofferenza? Non vi è dubbio alcuno che questo terribile primato spetti all’Africa, sia per il numero delle vittime, sia per il cumulo delle sofferenze. Se nella Bibbia ebraica ci sono più di venti parole per esprimere«oppressione» e se più del 90% della storia del popolo ebraico è una storia di oppressione, in Africa le parole sono ben più di venti e la percentuale ben più del 90%».32

Gli africani hanno vissuto dunque sulla loro pelle una storia reale di sofferenza e ancora oggi l’Africa risulta lacerata e quasi tutto il continente vive una situazione di povertà. Ciononostante non ci sono soltanto sofferenza e povertà, in quanto l’Africa possiede molte ricchezze naturali e molti valori positivi. I Padri sinodali affermavano, infatti, riguardo al continente africano, alla sua tradizione e alla sua cultura che, se è vero che «L’Africa, malgrado le sue grandi ricchezze naturali, permane in una situazione economica di povertà, possiede, tuttavia, una molteplice varietà di valori culturali e di inestimabili qualità umane».33 La cultura africana ha un’immensa ricchezza di valori umani e spirituali, che si manifestano in forma naturale e spontanea nella vita concreta delle persone, delle famiglie e dei popoli; nelle loro convinzioni e credenze, nei riti, nelle cerimonie e negli atteggiamenti; nei loro comportamenti verso il soprannaturale, il cosmo, la persona umana, la società, il mistero della vita e della morte. Alcuni valori africani sono innati, dal momento che si identificano facilmente con molti aspetti della vita cristiana. Essi hanno un grande senso del sacro, dell’esistenza di Dio creatore e del mondo spirituale.34 Nonostante la vastità del continente africano - consta, infatti, di cinquantatré paesi - alcuni valori si rivelano uguali a prescindere dal paese di provenienza. Al di là dunque della diversità delle forme e delle espressioni di ogni paese, esiste in tutta l’Africa nera un’unità culturale di base, che si manifesta nei seguenti aspetti: il principio della relazione e partecipazione comunitaria alla forza vitale universale; la profonda religiosità e apertura al sacro; la credenza nell’immortalità e nella intermediazione degli spiriti (degli antenati); la prevalenza del bene comune sugli interessi individuali; il forte senso della famiglia; i valori della solidarietà, ospitalità e condivisione; l’amore per la vita e la fecondità; il rispetto e la venerazione per gli anziani e per i bambini; il senso della pazienza e della speranza nella vita. Tutti questi valori sono inclusi in valore supremo: la forza vitale.35 Prendiamo in considerazioni alcuni di essi: l’incontro, la relazione, l’ascolto e la parola, l’accoglienza e l’ospitalità, il ritmo, la danza e la festa, la comunità e la famiglia.

4.1. L’incontro

Uno dei valori fondamentali della cultura africana è l’incontro; la vita stessa è già un incontro che esige relazione, in quanto «l’uomo è il solo essere sociale che la terra abbia mai conosciuto ed è tale per la sua capacità di rapportarsi agli altri — ovvero i suoi simili e il mondo — e all’altro – Dio, il suo autore».36 Vivere è dunque incontrare continuamente nuove terre, nuove realtà, nuove persone e nuove esperienze. Per questo l’africano ha una tendenza ad inventare occasioni di incontro, di celebrazione e di festa. Esso è attratto verso il mercato, non tanto come un luogo di compravendita, ma soprattutto come luogo d’incontro per rivedere gli amici, rinnovare i legami, fare nuove esperienze e coltivare relazioni con gli altri. Il senso della vita dell’africano si trova, infatti, nella collettività, nel suo rapportarsi con gli altri.37 All’africano il senso dell’incontro viene trasmesso fin da piccolo; infatti, già dalla nascita, il bambino viene introdotto, mediante cerimonie e riti di presentazione, in un processo progressivo di incontro con i differenti livelli dell’esistenza, così da armonizzarsi completamente con tutte le forze che costituiscono l’unità e la partecipazione vitale di tutto il cosmo. L’incontro avviene non solo con le persone, ma con tutto il cosmo e con Dio; infatti l’uomo dipende sia dalla sua relazione con il mondo che dalla relazione con Dio suo creatore.38

Nella cultura africana, dopo che la mamma ha partorito il suo bambino, entrambi sono invitati a rimanere a casa e a non uscire per rimanere in un luogo riservato e protetto per circa una settimana, prima che si celebrino le cerimonie e i riti di presentazione del nuovo essere agli elementi fondamentali della Natura: terra, acqua, aria e fuoco. Con questi riti il bambino viene integrato ed armonizzato con le principali forze cosmiche, affinché non venga escluso come elemento estraneo al sistema. Egli deve sentirsi unito a tutto il creato. A questi riti iniziali seguono i riti di presentazione e di armonizzazione del nuovo nato con le persone, il clan e la società, i quali segnano la nascita sociale, etnica e culturale del bambino.39 Il neonato viene così introdotto, in modo rituale e simbolico, alle tradizioni e alle attività che caratterizzano il clan (caccia, pesca, agricoltura, pastorizia, guerra, ecc), le quali saranno personalizzate nelle istruzioni tradizionali che caratterizzano la sua dimensione di incontro. «Come non si può togliere un pesce dal mare per dialogare con esso, allo stesso modo l’africano fuori della vita del clan, della tribù o del gruppo, familiare non è più un africano autentico, in quanto perde la sua più profonda identità».40

Al termine di questo periodo di istruzione, il bambino può finalmente uscire di casa insieme a sua madre e partecipare al grande incontro di festa organizzato dall’intera comunità e presenziato da tutti: i membri della famiglia, i parenti, gli amici, i vicini. È il primo incontro del bimbo con la società allargata, oltre le frontiere del proprio clan. In questo giorno viene dato ufficialmente al bambino il nome di famiglia, previamente designato attraverso l’oracolo degli antenati o ispirato dal sogno dell’anziano del clan.41 L’incontro con l’altro si estende e matura in seguito durante l’intera vita, attraverso una fitta rete di relazioni di amicizia e di alleanza, dentro e fuori del clan, per raggiungere la sua massima espressione nel matrimonio e nella trasmissione della vita con la generazione dei figli. Le relazioni dell’uomo africano continuano, poi, con accordi ed alleanze, che permettono all’individuo di allargare al massimo la rete dei suoi incontri, influenzando così gli altri clan. Per questo l’africano anziano cerca di avere molti figli e figlie per poterli fare sposare con membri appartenenti a diversi clan ed ampliare in tal modo il suo prestigio e la sua influenza sociale. L’intera vita dell’africano è considerata dunque un incontro continuo: l’ultimo è quello con la morte.

4.2. La relazione

La relazione riveste una notevole importanza nella cultura africana. La vita in Africa è fondamentalmente relazione. La prima relazione che l’africano stabilisce è con la madre. Il bambino passa la maggior parte del tempo sul dorso di sua madre anche quando quest’ultima lavora nei campi sotto il sole. Dalla nascita ai sette anni, il bambino esige la maggior cura possibile, «per questo è importante che egli rimanga intimamente legato a sua madre da cui dipende per tutti gli aspetti della sua vita. Ella è ai suoi occhi la persona più importante e più istruita del mondo».42 Man mano che il bambino cresce, infatti, stabilisce gradualmente la relazione con altre persone con la stessa modalità con cui si è precedentemente rapportato con la madre.

Nelle relazioni è comunque molto importante la reputazione della persona con la quale si entra in relazione. Una prova è costituita dal fatto che, quando si parla di un uomo, si dice che appartiene ad una determinata tribù, villaggio o famiglia; così la sua reputazione dipende della sua provenienza.43 A prescindere da questo, comunque, ciò che conta è la relazione. Nella cultura africana, parlare dell’uomo non è mai argomento astratto, poiché l’uomo è pensato innanzitutto come relazione, una relazione che trova la sua massima espressione nell’incontro con gli altri, in particolare con il popolo. L’uomo è dunque incontro e relazione; per questo non può essere considerato, a differenza del pensiero europeo, un problema di ordine speculativo soggetto ad argomentazione.44 L’uomo africano è sempre l’altro. La relazione è e resterà un valore fondamentale per la cultura africana. L’africano ha una relazione continua con il mondo interiore ed esteriore, con la società, con gli spiriti degli antenati e con Dio. Relazionarsi è la condizione esistenziale dell’africano, la cui vita è fondamentalmente radicata nel principio della partecipazione comunitaria. Infatti: «La civiltà e la cultura di un popolo sono caratterizzate dalla categoria di “relazione” ».45 La civiltà africana è una civiltà di rapporti: tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e il soprannaturale, ovvero con la Forza vitale che è Dio e si comunica agli uomini e a tutto.

Nella cultura africana l’universo viene considerato come un’immensa unità vitale in cui esistono vari gradi di relazione: gli spiriti, gli animali, le piante, gli esseri inanimati e i fenomeni naturali sono animati di vita e sono intimamente legati tra loro da una forza, che li mantiene in intima relazione di solidarietà, interdipendenza ed armonia universale. Ogni livello dell’esistenza dipende da se stesso ed obbedisce alle proprie leggi, ma al tempo stesso è in relazione con gli altri. Questa interconnessione garantisce così una situazione di equilibrio, che al tempo stesso necessita di essere preservata, dal momento che il verificarsi di una rottura in qualsiasi punto della catena causerebbe la distruzione dell’intero sistema. La qualità della vita, la pace, il benessere, la salute, la prosperità, la felicità e la sicurezza delle persone e della società dipendono dal mantenimento di questa armonia cosmica. Ogni vivente è chiamato a partecipare in grado diverso e a suo modo a questa comunione.46

Il pensiero africano possiede dunque una visione olistica della realtà: non vi è alcuno spazio per l’irriducibile divisione tra mondo materiale, visibile, (il cosmo) e mondo spirituale invisibile. Nkafu afferma infatti che non si possono pensare «le parti separate dal tutto ed il tutto privo delle parti. Il principio primo mediante cui le parti sono veramente costitutive di un tutto ed il tutto ha in sé tutte le parti, pur essendo diverse da esse, è il principio della forza vitale»47. È questa forza vitale l’anima delle relazioni tra le diverse categorie. Per l’africano, deve sempre esistere un legame tra tutti e con tutto. Nella visione africana l’uomo occupa il centro dell’universo: egli stabilisce l’equilibrio tra le forze, instaurando una relazione speciale con ogni ambito dell’esistenza, che è considerato e valutato esclusivamente in funzione della relazione con lui. Tutta la creazione è profondamente unita ed armonizzata attraverso la partecipazione vitale e l’interscambio degli uomini tra loro e con Dio mediante l’intermediazione degli antenati. Per l’africano la relazione verticale (con Dio e con gli spiriti) e orizzontale (con le persone e con il mondo) coinvolge sempre la totalità della persona umana: corpo, mente, spirito ed emozioni. Il confine tra lo spirituale e il materiale, tra il religioso e il secolare è tanto sottile che difficilmente si distingue. Il mondo africano conosce un’ infinità di mondi e ne prevede una conoscenza progressiva.

«Occorrerebbe un grande impegno intellettuale per esaurire tale conoscenza poiché il mondo materiale non è che il primo momento di questa conoscenza. […] L’uomo partendo dal mondo materiale, creato da Dio, arriva al mondo come vitalità, come intelligenza e come ente di ragione. Con questa partecipazione alla divinità assoluta di Dio nasce una nuova prospettiva del mondo come trascendente e di ordine soprannaturale».48

L’uomo entra dunque in relazione con questa infinità di mondi: in primo luogo con il mondo degli spiriti, la cui credenza è condivisa da tutte le società africane. Non è facile indagare questo mondo spirituale, poiché «non si tratta di una realtà sensibile, ma piuttosto soprannaturale».49 Il pensiero africano non è riuscito a darne una collocazione esatta e, nell’incertezza di farlo rientrare o meno nella sfera della creazione, ha posto il mondo degli spiriti in un ambito intermedio tra la terra ed il pianeta. Per questo alcuni uomini suppongono che esso rientri nel mondo materiale, mentre altri pensano che esso coincida con il mondo degli antenati. Comunque è certo che il mondo degli spiriti non può essere identificato con il luogo dove abita Dio, perché alcuni spiriti, a differenza di Lui, non sono sempre buoni, ma a volte «operano il male all’interno della comunità e vivono in uno stato di costante rivalità reciproca».50 Sia gli spiriti buoni che gli spiriti cattivi entrano in relazione con l’uomo africano: i primi lo aiutino, i secondi lo danneggiano. La relazione con gli spiriti occupa un posto molto importante nella religiosità tradizionale africana. L’universo africano è popolato da innumerevoli spiriti che esercitano un grande influsso nella vita e nei comportamenti, personali e comunitari della società africana. Ci sono gli spiriti della terra, quelli della foresta, gli spiriti dell’acqua, gli spiriti del deserto e quelli della famiglia. Gli spiriti, situati gerarchicamente al di sotto di Dio e al di sopra dell’uomo, sono i messaggeri e i servitori di Dio nel governo del mondo. Il rapporto tra Dio e gli esseri umani è possibile solo attraverso gli intermediari spirituali, tra i quali un posto particolare spetta agli Antenati del Clan.51

Nella cultura africana la relazione con la religiosità è un aspetto molto noto. Gli uomini ereditano la loro religiosità dagli antenati, che la trasmettono loro fedelmente. Inoltre, essa investe ogni aspetto dell’esistenza ed incide sui comportamenti individuali e collettivi. L’africano è un essere profondamente religioso, immerso nel mondo della religiosità ancor prima della nascita e dopo la morte. Dove sta un africano, lì vi è la sua religione. Egli la porta sempre con sé. Questa religiosità diffusa si manifesta e si esprime attraverso credenze, gesti, simboli, riti, cerimonie, celebrazioni, atteggiamenti e pratiche tradizionali. In tutto ciò sembrano mescolarsi tutte le attività possibili: medicina, educazione, politica, magia, stregoneria, credenza nella vita oltre la tomba, credenza nella presenza ed influenza degli spiriti dei defunti sui vivi, credenza in Dio unico e creatore.52 Nella cultura africana, è presente la credenza in un Dio supremo e nei miti relativi ad esso. La comunicazione e le relazioni con Dio avvengono spesso grazie ai geni, ai demiurghi e agli antenati, ma si possono ottenere anche attraverso i sacrifici e gli oggetti presenti nelle tombe come «le maschere, le statuette, gli altari e i simboli molto ricchi che ne sono l’espressione».53

Si può notare inoltre che nel pensiero africano la vita dell’uomo è immersa nel mistero della provvidenza di Dio. Dio è il Creatore e il Signore di tutte le cose, fonte perenne di ogni bene e di ogni grazia di cui la persona ha bisogno per essere felice. La relazione con Dio si realizza naturalmente attraverso la vita: Dio è all’inizio e alla fine della vita e presiede tutte le attività della persona e della comunità. In ogni situazione, l’africano risponde: «Dio provvede». Egli ha sempre in bocca il nome di Dio: nella salute dichiara: «per grazia di Dio, sto bene»; quando parte, saluta la persona dalla quale prende congedo con l’espressione: «Dio ti guardi», sentendosi rispondere a sua volta: «va’ in pace! Dio ti protegga e benedica il tuo cammino»; quando si interroga sulla vita e sul futuro o quando è accusato ingiustamente afferma: «Dio sa» o «Dio vede»; nell’accingersi ad intraprendere una qualunque attività si affida a Dio con le seguenti parole: «se Dio vuole o se Dio mi aiuta, si farà». Sembra che tutta la vita dell’africano sia dunque una preghiera continua, orientata permanentemente a Dio.54 L’africano vede Dio come un Padre buono e previdente; egli conosce e provvede con amore paterno a tutte le necessità degli uomini considerati suoi figli. La relazione con Dio è caratterizzata da una fiducia totale. L’africano è convinto che Dio non smette mai di comunicare la vita agli uomini, anche quando questi ultimi non gliela chiedono o pensano di non meritarla a causa di una condotta cattiva. Tale consapevolezza lo induce a non avere paura di Dio e delle sue possibili reazioni: egli non ha nulla da temere, poiché nessuna disgrazia può venire da Dio. Per questo motivo la religione tradizionale non possiede riti né cerimonie magiche di carattere propiziatorio: non c’è alcun bisogno di fare sacrifici per placare l’ira di Dio, dal momento che Dio, non è mai irato.55

4.3. La parola e l’ascolto

La cultura africana ha sempre preferito l’oralità alla scrittura. Per questo, sebbene l’Africa abbia avuto dei filosofi fin dall’antichità, non possiamo conoscerli a causa della mancanza di documenti scritti.56 In Africa, il pensiero, l’azione e la relazione sono organizzati in armonia con i principi dettati dalla tradizione ereditata dagli antenati e trasmessa oralmente di generazione in generazione. La parola, parlata, proclamata, cantata o semplicemente gesticolata, svolge un ruolo di estrema importanza. È la parola che articola, spiega e chiarisce i meccanismi che sottendono i vari aspetti della vita comunitaria: religioso-sacro, politico e legislativo. È la parola primordiale, pronunciata dal patriarca, fondatore del clan, che indica la direzione sicura in caso di dubbio; che stabilisce la comunione e ristabilisce l’armonia in caso di conflitti e contrasti. La parola assume dunque un ruolo rilevante in Africa: dei circa 2.300 dialetti la maggior parte di essi non è scritta.57 Nelle culture africane, l’oralità precede la parola scritta.

«Essa non è mai un semplice flatus vocis; è invece pregnante di realtà, in proporzione al valore della persona che parla. Le parole, oltre al senso che esprimono, posseggono nel loro essere parola pronunciata una forza vitale, che le rende quasi autonome dalla bocca di chi le ha pronunciate: cariche di magia, come lo sono gli oracoli, le parole rituali, le maledizioni, le benedizioni, i giuramenti, le profezie, le preghiere».58

Si può affermare che nella cultura africana la parola rappresenta un ponte di unità e continuità tra passato, presente e futuro; soprattutto la parola rituale, che ricrea il cosmo e garantisce la continuità dell’unità vitale universale. Poiché l’oralità nella cultura africana è fondata sulla parola, essa è un tratto essenziale per gli africani. Per questa ragione è importante praticare la virtù e la capacità dell’ascolto. Per comprendere quanto sia importante per gli africani l’ascolto, basta guardare lo spazio e il tempo che viene riservato ad esso nella vita, nel linguaggio e nei rapporti tra le persone, come nelle cerimonie e nei riti. I giovani devono sviluppare la capacità di ascoltare attentamente e silenziosamente, così da non perdere i dettagli di ciò che è stato trasmesso loro dagli anziani. L’ascoltare africano coinvolge tutta la persona: non si tratta di ascoltare solo con gli orecchi, ma con il cuore. L’africano non usa spesso l’orologio: si dice che sa quando esce, ma non quando torna, proprio perché si ferma ad ascoltare. Non ha fretta.59 La famiglia tradizionale la sera si mette sotto la luna, per ascoltare miti e racconti. L’importanza dell’ascolto riguarda tutti: non solo i giovani e i bambini, ma anche gli anziani, che a volte devono prestare attenzione a ciò che dice il più giovane. Eccone un esempio, tratto da una favola africana: Il capo, lo sparviero, la tortora e il bambino .

«Un giorno, un capo era seduto sotto un albero del suo cortile, per riposarsi. Vide uno sparviero che andava a caccia di una tortora. La tortora entrò nella tasca del capo e lo sparviero si posò sulla sua spalla. La tortora disse al capo: «Se tu non mi dai allo sparviero, avrai tutto ciò che desideri sulla terra. Lo sparviero disse al capo : «Se tu mi dai la tortora, tutte le tue donne sterili avranno dei figli» Il capo era seduto, perplesso. Non sapeva cosa fare. Intanto un gruppo di bambini venne a sedersi vicino a lui. Uno di essi, che aveva notato la sua inquietudine, gli chiese a brucia-pelo:«Come mai uno sparviero appoggiato sulla tua spalla può metterti in tale perplessità»? Il capo espose il suo problema ai bambini.

Un altro bambino gli diede questo suggerimento«Chiedi allo sparviero se preferisce mangiare della carne o la tortora». Quando il capo pose tale domanda allo sparviero, questi gli rispose che preferiva la carne Allora il bambino disse al capo di far uccidere una pecora, tagliarla a pezzi e dargliela. Il capo eseguì secondo il suggerimento. Quando fu sazio, lo sparviero disse al capo: «Guarda ! Il tuo pozzo che è dietro il tuo cortile, non si estinguerà mai. Se tu bevi la sua acqua, avrai molti figlio» . Dopo la partenza dello sparviero, la tortora uscì e disse al capo:«Se così piacerà a Dio, tutto ciò che tu desideri su questa terra, tu l’avra» . E partì a sua volta .In questa favola, è dunque un bambino che trova la soluzione al problema del capo. Questo ci insegna che quando parlano i vecchi, i bambini devono pure avere la loro parola da dire».60 Ascoltare acquista dunque un significato molto profondo: è interiorizzare, assimilare e fare attenzione alle esperienze legate alla memoria collettiva del clan, per poterle trasmettere a propria volta come se si partecipasse ad esse direttamente. Ascoltare è immergersi nell’esperienza fondante di ciò che sta all’origine della tradizione. I racconti hanno un significato simbolico e per questo sono degni di ascolto. Nella cultura africana, il linguaggio parlato non viene solamente ascoltato; l’africano possiede una grande capacità simbolica, che presuppone la capacità di pensiero. In Africa, qualsiasi simbolo acquista maggiore significato, se usato in un contesto rituale. Esso rafforza la sua efficacia, dotandosi di una forza particolare.61 L’africano è immerso nei simboli. Tutto ciò che può avere un qualche rapporto con la vita è tradotto in simbolo. I principali simboli: il cerchio, il mezzo-cerchio, il triangolo sono usati con una costanza che meraviglia. «Il cerchio spinge il pensiero, l’immaginazione al sole e alla vita; il semi-cerchio alla luna e perciò alla fertilità e al successo; il triangolo come il cerchio ha un evidente significato biologico, essendo il cerchio un “ritmo” di triangoli».62 Tutti questi simboli sono accolti ed ascoltati dall’uomo africano.

4.4. L’accoglienza e L’ospitalità

L’africano è ritmo, emozione, accoglienza e ospitalità. Egli è sempre ospitale. L’ospitalità è uno dei valori caratteristici della sua cultura. Nei vari dialetti ogni straniero o ospite che arriva viene chiamato «il desiderato». La virtù suprema degli africani è l’accoglienza dell’ospite: l’ospitalità per la cultura africana è la regina delle virtù ed è ciò che rende nobile una famiglia.63 È importante sapere accogliere gli ospiti; quando un occidentale va per la prima volta in Africa, si meraviglia della calorosa ospitalità con la quale viene accolto. Per gli africani l’altro, il diverso, non è visto come un avversario o una minaccia alla propria identità e incolumità, ma è qualcuno in grado, da un lato, di portare ciò che manca alla persona per essere completa, dall’altro, di ricevere dalla persona ciò di cui egli è mancante. Per questo, lo scambio dei doni tra la persona che visita e quella che viene visitata è una forma simbolica per raffigurare questa profonda reciprocità. Il senso di accoglienza dell’africano evidenzia proprio questo scambio del dare e del ricevere, che non svuota nessuno, ma arricchisce entrambi.

La famiglia africana tradizionale è ben felice e si sente onorata nell’essere visitata, nell’accogliere gli ospiti. Chiunque arrivi, e in qualsiasi ora, è sempre il benvenuto. Non c’è bisogno di avvisare. Se lo si può fare, è meglio, ma se non si può, non ci si deve preoccupare. L’arrivo dell’ospite è sempre una festa, una benedizione. La famiglia si sentirebbe molto offesa, se venisse a sapere che un amico è passato nei paraggi senza entrare in casa o che si è recato al ristorante per mangiare o in un hotel per dormire solo perché non ha avvisato. «Dove mangia uno, si mangia in dieci», dice un detto africano. Nessuno rimane senza mangiare. E il meglio che si possiede in casa è per l’ospite. Quando arriva un ospite, la coppia preferisce offrirgli il proprio letto come segno di accoglienza. Esaminiamo questo racconto sull’ospitalità:

Un giorno un barbone tutto sporco si presentò a casa di una famiglia. La famiglia, dopo averlo lavato e avergli dato da mangiare, giunta la sera, gli offrì la propria stanza. Alla mattina, la famiglia si accorse però che l’uomo non c’era più. Le porte erano tutte chiuse, ma lui non c’era: era sparito.

Questo racconto intende mostrarci che l’ospite è un angelo mandato da Dio, il quale può presentarsi all’uomo sotto ogni forma di veste. Esso fa notare, inoltre, al lettore come il mangiare viene sempre preparato dalla famiglia africana in quantità eccedente rispetto ai propri membri, in modo da poter provvedere a un possibile ospite inaspettato. Non si usa, ad esempio, contare i pezzi di carne in base a quante persone ci sono, c’è sempre qualcosa in più per i vicini o per un ospite che può arrivare all’improvisto. Bisogna sottolineare, infine, come l’accoglienza, tra gli africani, è sempre una cerimonia. A seconda delle circostanze, quest’ultima può essere molto semplice o complessa, ma a prescindere da ciò, riesce sempre a coinvolgere le persone, permettendo loro la condivisione delle esperienze e la comunicazione delle novità: offrire l’acqua per il bagno o servire rapidamente un piccolo spuntino sono gesti molto apprezzati tra gli africani.

Accogliere ed ascoltare qualcuno è saper rispettare il suo ritmo e aspettare con pazienza e delicatezza il momento dell’altro. Il visitatore è capace di far passare ore parlando di molte cose, prima di dire il vero motivo della visita. È un rendersi conto se la persona è preparata ad accogliere il messaggio, soprattutto, quando si tratta di un argomento difficile come la morte, i problemi delle persone, ecc. Per questo motivo gli africani si sentono offesi e scandalizzati se notano che il padrone di casa è preoccupato per il tempo che passa o cerca di fare le cose in fretta. Se l’africano non trova un ambiente sereno ed accogliente, può andarsene senza comunicare il messaggio che ha nel cuore. Per tale motivo, chi accoglie non può dare all’ospite l’impressione di essere frettoloso, preoccupato e imbarazzato. Se l’ospite si rende conto di questo, concluderà che non è ben visto e cercherà di ripartire al più presto. Non si chiede mai ad un africano se vuole mangiare o che cosa desidera mangiare. Tali domande vengono facilmente interpretate come una cacciata. Allo stesso modo determinano risposte insincere: l’africano non dirà mai che ha fame o che preferisce mangiare questo o quel cibo; dirà sempre di no, anche se ha fatto un lungo viaggio e non ha mangiato né bevuto.

4.5. Ritmo, danza e festa

La caratteristica degli africani è la festa, la gioia, l’allegria contagiosa, il canto, la danza e il ritmo coinvolgente, il carattere caldo e festoso. Il ritmo (musica, danza, tamburi), offre la chiave dello spirito della cultura africana.64 L’africano è affascinato dal ritmo in tutte le sue le sue forme, non solo da quello prodotto da strumenti musicali, ma dalla danza, dai colori, dalla cultura, dalla poesia.

«Il ritmo esprime la forza vitale che percorre tutti gli esseri ed è presente in tutti come la linfa delle piante in primavera: da Dio fino agli esseri inanimati. Ritmo ripetitivo, quasi all’infinito, con varianti minime, ma che è sempre movimento, come il battito del cuore, e perciò vita. Come le onde del mare, in un ritmo senza fine… Come una fiamma che dev’essere continuamente sostenuta, soffiandovi sopra. […] Per gli africani, la danza è tutto: meditazione vitale, comunione universale con il cosmo, con la madre terra, armonia tra corpo e spirito, tra le persone e la comunità, incontro con l’altro, liberazione, contatto con l’aldilà, conclusione di qualsiasi solidarietà».65

Anche di fronte alla sofferenza, la miseria e l’insicurezza della vita, l’africano porta questo ritmo di festa e di danza. Tante famiglie e bambini africani vivono ogni giorno in situazioni di completa incertezza riguardo al domani. Trascorrono il giorno affamati, senza sapere dove trascorrere la notte o se mangeranno il giorno seguente, tuttavia continuano a danzare, accompagnati dai canti, dal ritmo dei tamburi e dal battito delle mani. Spesso, essi stessi inventano dei canti legati alle situazioni della vita. Per l’africano la vita è una festa. Egli ringrazia Dio per il poco che ha e trova sempre dei motivi per celebrare con allegria ogni istante che passa come un dono. Per questo gli risulta incomprensibile e sorprendente vedere tante famiglie in occidente sedersi a mensa dinanzi ad una tavola imbandita senza allegria, con i volti tristi e sempre pronte a lamentarsi. Le famiglie africane, infatti, sebbene con molti figli e poco cibo, fanno festa tutto il giorno, riempiendo l’ambiente di allegria. Esse, pur vivendo nella povertà più assoluta e in mezzo ad ogni sorta di sofferenza, non si lamentano mai, ma sono sempre pronte a cantare e a sorridere. Tubaldo, a proposito degli schiavi africani, strappati alle loro terre e trasportati nelle piantagioni degli Stati Uniti, racconta che durante la liturgia della domenica – loro giorno libero- essi erano soliti cantare, danzare e suonare i tamburi . Esclamavano infatti:

«I bianchi hanno il libro. Noi lo spirito: uno spirito effervescente che lascia dei segni». A questo linguaggio simbolico il bianco oppressore non aveva accesso. Anche il sermone era affare di musica: ritmo della parola, intonazione della voce, in un crescendo che introduceva al mistero, fino a sfociare nell’esaltazione collettiva. Lo spirito danza, canta attraverso il corpo collettivo dei suoi fedeli: vieni spirito di Dio danza con noi».66

Le celebrazioni eucaristiche dei cristiani africani continuano tuttora a essere molto animate e cariche di dinamismo: sono una festa che si prolunga all’infinito senza che nessuno guardi l’orologio: non si corre, nessuno si preoccupa del tempo che passa, ma tutto è per il Signore. Le comunità cristiane presenti in Africa, soprattutto quelle più povere, preparano sempre qualcosa per tutti e offrono spesso momenti di fraternità, animati da canti e danze, al termine della celebrazione. La messa è la festa dei fedeli attorno al loro Signore, è un momento di incontro, di convivio e di condivisione dei beni spirituali e materiali. Non c’è incontro né celebrazione senza festa, e non c’è festa senza mangiare insieme qualche cosa. Non è importante la qualità e la quantità del cibo, ma l’intensità della relazione, dell’incontro, della comunione e della condivisione. L’africano mostra la sua gioia cantando e danzando. È tutta la persona, corpo e spirito, che manifesta la sua gioia. La fonte dell’allegria e della speranza dell’africano risiede nella fede in Dio e nel senso di comunione fraterna.

4.6. Comunità e famiglia

La cultura africana ha una concezione più sociale che individuale della persona umana. Per l’africano, l’altro appare come una presenza della quale non si può fare a meno. «Il progetto dell’io non è dunque quello di porsi come entità rigidamente strutturata, che si distingue totalmente dall’altro e che si oppone a lui per essenza, ma quello di cogliersi e di definirsi in rapporto a lui».67 L’individuo non è, così, un luogo di rapporti singolari, ma unità: egli è il centro di relazioni.

La cultura dell’Africa è basata sull’unione intima e vitale alla famiglia, alla tribù e a Dio. La centralità appartiene al «tu» che diventa il «noi» come collettività della comunità, e non piuttosto all’«io» . C’è la superiorità della comunità, della collettività e del gruppo sull’individuo; questa visione fa sì che il pensiero africano conosca una pluralità di espressioni. Infatti, l’individuo non può trovare la propria realizzazione al di fuori della sua comunità, del clan, della tribù. Con ragione si può parlare di un «primato del no» . In Africa dove c’è la comunità ma c’è l’individuo, e dove c’è l’individuo c’è la collettività. Esiste un legame di unione vitale con tutti. Questa comunione è stata sempre presente nella cultura africana e lo dimostra autorevolmente il pensatore africano Kenneth nel seguente brano:

«La comunità tradizionale era una società basata sull’aiuto reciproco, organizzata in modo da sodisfare le esigenze fondamentali di tutti i suoi membri, scoraggiando quindi ogni forma di individualismo….I bisogni dell’uomo costituivano i criteri supremi di comportamento…L’unità fondamentale non è come nella società industriale: l’individuo o la famiglia, ma la comunità. Questo comporta che ci sia un accordo sostanziale sui fini e sull’imprescindibilità dell’azione collettiva. Lo spirito di coesione sociale era così sviluppato che la comunità e non la vita del singolo costituiva il centro dell’interesse, con risultati ammirevoli… Nelle società tribali, l’individuo non era valutato in base alle sue capacità potenziali ma in quanto membro della tribù. Il suo contributo al benessere materiale del villaggio, per quanto limitato, era sufficiente, ed era comunque la sua presenza, e non i suoi successi, ad essere apprezzata».68

La spiritualità africana si basa sullo spirito di comunità, sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione, sulla condivisione e sulla redistribuzione piuttosto che sull’accumulo e sull’avidità individualistica. Questa comunità è concepita in termini di «famiglia», cioè in termini di parentela e di prossimità acquisita, nell’ambito della quale idealmente i doveri e i diritti si scambiano in modo incondizionato. Questo tipo di relazioni offre un grande senso di sicurezza mentre crea un forte senso di identità e di appartenenza. Si ritiene che la vita ideale consista nell’operare semplicemente con questi elementi. Quando queste relazioni vengono meno o sono minacciate, ci si sente in un’atmosfera di morte. È importante nella cultura africana la chiave di lettura della famiglia, che permette di penetrare nel suo cuore pulsante. Il tema della famiglia in‐forma e struttura in profondità l’antropologia, le relazioni sociali, la sfera della produzione e riproduzione della ricchezza, l’orizzonte simbolico e religioso. John Mbiti, teologo e grandissimo esperto di religioni africane, spiega in questo modo il carattere ontologico del legame tra cultura africana, famiglia e senso della comunità:

«Nella cultura africana la comunità ricopre un ruolo dominante, con vari punti di riferimento, come il sangue e il legame sponsale, la terra, le radici tribali e claniche, i rituali (in specie l’iniziazione, l’appartenenza a società e a ranghi, e il conferimento di onori o titoli in alcune comunità) causata dal dominio straniero, dalle carestie e da altre catastrofi… Con i suoi circa 3200 popoli («tribù») più migliaia di clan e sotto clan che sono ulteriormente strutturati in famiglie estese o single, riflettendo l’orientamento comunitario della società, l’Africa ha preso sul serio e ha sviluppato adeguatamente il senso della comunità. La comunità è sia verticale (include i defunti, i viventi e i nascituri) che orizzontale (con parentela e rapporti di vicinato che svolgono ruoli diversificati, talune con tensioni e conflitti)».69

La famiglia rappresenta il pilastro in cui si costruisce la comunità, il futuro e la vita del mondo passa attraverso di essa. Nella cultura e nella tradizione africana, il ruolo della famiglia è fondamentale. Infatti il grande rispetto per la vita e l’amore verso i figli accolti gioiosamente sono l’indizio della valorizzazione della famiglia. Giovanni Paolo II durante il sinodo dei Vescovi africani:

«I figli e le figlie dell’Africa amano la vita. È proprio l’amore per la vita a comandare loro di attribuire così grande importanza alla venerazione degli avi. Credono istintivamente che quei morti continuino a vivere e rimangono in comunione con loro. Non è questa, in qualche modo, una preparazione alla fede nella comunione dei santi? I popoli dell’Africa rispettano la vita che viene concepita e nasce. Gioiscono di questa vita. Rifiutano l’idea che possa essere annientata, anche quando a ciò vorrebbe indurli le cosiddette “civiltà progressiste. E le pratiche ostili alla vita vengono imposte per mezzo di sistemi economici al servizio dell’egoismo dei ricchi».70

Gli africani, amano e rispettano la vita. Ragione per la quale le famiglie sono molte numerose, i figli sono la ricchezza. Il disprezzo della vita come l’aborto e l’eutanasia non è ancora tanto diffuso.

5. Conclusione

Il pensiero africano parte dalla costatazione della propria esistenza e di quella degli altri soggetti intorno a sé. Essa è considerata come «vitalogie». Non si tratta tanto di una teoria, ma della vita. Infatti, il principio primo della filosofia tradizionale africano è la vita, il vissuto. Il fondamento del pensiero africano viene individuato dalla forza vitale, poiché in Africa tutti gli esseri partecipano da una forza vitale. Essa esiste dall’inizio del mondo, è dinamica e permette a tutte le cose di partecipare ad essa. Nella cultura africana, tutto appartiene al mare della forza vitale e per questo è impossibile eliminare quanto di animistico e di magico è in essa presente. Pur vivendo una situazione di povertà materiale, l’Africa ha una grande ricchezza proprio grazie a questa forza vitale. Ci sono alcuni valori fondamentali che danno dignità all’uomo africano: l’incontro e la relazione con gli altri, la parola e l’ascolto degli altri, l’accoglienza e l’ospitalità, il ritmo, la danza e la festa, la comunità e la famiglia. È una cultura intersoggettiva, opposto dell’individualismo. L’Africa ha una grande ricchezza di valori, tradizione, ed anche ricchezze materiali di materie prime per questo esso viene chiamato un continente di speranza.


  1. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, L’Harmattan Italia, Torino 1995, 71. ↩︎

  2. P.F. Miguel, Muxima. Sintesi epistemologica di filosofia africana, Edizioni Associate, Roma 2002, 10. ↩︎

  3. P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, Edilico, Bari 1985, 13. ↩︎

  4. P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, 21. ↩︎

  5. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 69. ↩︎

  6. P. Tempels, La philosophie Bantu, troisième édition, Présence Africaine, Paris 1965, 41. ↩︎

  7. P. Tempels, La philosophie Bantu, 41. ↩︎

  8. Cfr. P. Tempels, La philosophie Bantu, 41. ↩︎

  9. P. Tempels, La philosophie Bantu, 42. ↩︎

  10. Cfr. P. Tempels, La philosophie Bantu, 65-73. ↩︎

  11. P.F. Miguel, Kijila, Per una filosofia Bantu, 20. ↩︎

  12. P.F. Miguel, Kijila, Per una filosofia Bantu, 14. ↩︎

  13. Cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 121. ↩︎

  14. Cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 121. ↩︎

  15. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 121. ↩︎

  16. N. Bosco, Il pensiero religioso russo, in Dio nella filosofia del Novecento, Brescia 1993, 502- 512, in I. Tubaldo, 121. ↩︎

  17. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 122. ↩︎

  18. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 123. ↩︎

  19. Cfr. P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, 20-26. ↩︎

  20. P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, 25. ↩︎

  21. P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, 25. ↩︎

  22. P. Tempels, La Philosophie Bantu, 27-28. ↩︎

  23. P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, 22. ↩︎

  24. B. Cannelli, Un pensiero africano. Filosofi africani del Novecento a confronto con l’Occidente 1934-1982, Leonardo International, Milano 2008, 36. ↩︎

  25. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 129. ↩︎

  26. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 129. ↩︎

  27. Cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 129. ↩︎

  28. P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, in I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 130. ↩︎

  29. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 130. ↩︎

  30. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 131. ↩︎

  31. Cfr. Nkafu, Vitalogie. Comme expression de la pensée africaine, 146, ↩︎

  32. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 77. ↩︎

  33. G. Paolo II, Essortazione Apostolica post-sinodale, Ecclesia in Africa, Editrice Vaticana, Roma 1995, n. 42. ↩︎

  34. Cfr. G. Paolo II, Essortazione Apostolica post-sinodale, Ecclesia in Africa, n. 42.. ↩︎

  35. P. Tempels, La philosophie Bantu, 41. ↩︎

  36. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 124. ↩︎

  37. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 124. ↩︎

  38. Cfr. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 125. ↩︎

  39. Dall’esperienza del mio vissuto in Africa, mi ricordo di queste cose in me, e vedendo i miei nipoti cresce. Inoltre alcuni cose sono state presse dalla testimonianza di un padre missionario francescano. ↩︎

  40. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 125. ↩︎

  41. Il racconto viene dalla mia testimonianza diretta. ↩︎

  42. A: Ndaw, Pensiero africano, 240. ↩︎

  43. Cfr. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 152. ↩︎

  44. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 152. ↩︎

  45. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 193. ↩︎

  46. Cfr. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 192. ↩︎

  47. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 187. ↩︎

  48. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 153. ↩︎

  49. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 152. ↩︎

  50. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 152. ↩︎

  51. Cfr. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 152-153. ↩︎

  52. Cfr. Giovanni Paolo II, Ecclesia Africa, n.43, 57. ↩︎

  53. A. Ndaw, Pensiero africano, 305. ↩︎

  54. Cfr. https://www.ufficiomissionario.it/mz13↩︎

  55. Cfr. https://www.ufficiomissionario.it/mz13↩︎

  56. M. Nkafu, Vitalogie comme expression de la pensée Africaine, 30. ↩︎

  57. Cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 86. ↩︎

  58. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 87. ↩︎

  59. Quando uscivamo di casa, la gente ci fermava, la gente chiede informazione o semplicemente vuole raccontare qualcosa. Bisogna fermarsi per ascoltare. ↩︎

  60. https://www.fmm-italia.pcn.net/index.php↩︎

  61. Cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 92. ↩︎

  62. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 92. ↩︎

  63. Cfr. B. Cannelli, Un pensiero africano, Filosofi del Novecento a confronto con l’Occidente, 120. ↩︎

  64. Cfr. A. Mabona, Elements de culture africaine, in présence africaine n.43 (1962), 144-160. ↩︎

  65. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 94. ↩︎

  66. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, 95. ↩︎

  67. A. Ndaw, Il pensiero africano, 213. ↩︎

  68. K. D. Kaunda, una Zambia zambiana, Roma 1971, 28-29. Citato da Vera Araùjo, in «Nuova Umanità», 2 (1979), 73. ↩︎

  69. J. Mbiti, La Bibbia nella cultura africana, in «Percorsi di teologia africana», Queriniana, Brescia 1972, 55‐56. ↩︎

  70. Giovanni Paolo II, Sinodo dei Vescovi, Assemblea speciale per l’Africa, Relatio ante disceptationem (11 aprile 1994), 6:L’OsservatoreRomano, 13 aprile 1994, 4. ↩︎