La giustizia secondo Rawls

1. Introduzione

Nell’epoca della peggior crisi identitaria della Sinistra europea, ci sembra quanto mai necessario riallacciare i fili con quella che, probabilmente, può essere considerata la più importante opera di filosofia politica del novecento: Una teoria della giustizia di John Rawls. È proprio il concetto di giustizia che la Sinistra contemporanea pare abbia dimenticato. Non solo si è distaccata teoricamente ed economicamente – appiattendosi quasi incredibilmente su posizioni liberiste o addirittura neoliberiste – da Marx, ma ha oltretutto abbandonato la difesa del Welfare State, quello Stato Sociale e quella presenza statale che riusciva, anche se con qualche difetto, a garantire quell’equità e quella redistribuzione della ricchezza in grado di contrastare la crescita della povertà. Ecco, è a questo punto, che la Sinistra, oltre ad abiurare la lezione di Marx, ha anche abiurato quella di Rawls. Dopo la caduta dell’impero sovietico si è diffusa la menzogna del fallimento del comunismo tout court, dimenticando tutte le esperienze socialiste tuttora ancora vive nel mondo. Con la caduta del muro di Berlino sembrava che l’unica ricetta buona e vincente fosse quella del liberalismo politico e del liberismo economico, quella dell’assoluta libertà formale ed economica che si slega dai lacci della giustizia sociale in nome di un edonistico iper-individualismo. Il risultato odierno è la concentrazione nelle mani di pochi della ricchezza mondiale e delle risorse naturali a discapito di una maggioranza sempre più povera, una povertà che umilia giovani e anziani, e che crea un flusso migratorio e uno sradicamento sia interno che esterno, che è alla base di un sistema di sfruttamento del lavoro che costringe molti disperati in condizioni servili, o peggio, di vera e propria schiavitù. Di fronte a tutto ciò viene a mancare quello Stato Sociale che dovrebbe garantire i diritti dei lavoratori, il diritto a un’istruzione e a una sanità pubblica di eccellenza e alla pensione. Tutto quello che un giorno fu una conquista, oggi si sgretola di fronte agli occhi rassegnati di milioni di giovani. Lo Stato Sociale e il concetto di giustizia sono stati fondamentali per non creare la categoria degli esclusi e per combattere la paura di rimanere soli di fronte alla perdita di un lavoro e della sicurezza economica, la paura della miseria e dell’emarginazione sociale. Per combattere quest’angoscia, anche se solo a livello teorico, ci sembra urgente rileggere e rimparare il testamento filosofico di Rawls.

2. Il velo di ignoranza

Secondo John Rawls il concetto di giustizia viene definito in base al valore assegnato ai diritti e ai doveri nella ripartizione dei benefici sociali. Occorre immaginare una situazione ipotetica in cui, individui ugualmente liberi, determinino i principi di giustizia e assegnino i diritti e i doveri fondamentali per creare la divisione dei benefici sociali. Così come l’individuo decide razionalmente cosa è bene per lui, così la collettività deve risolvere in anticipo i possibili conflitti e decidere in maniera definitiva ciò che per essa è giusto o ingiusto. Naturalmente questa posizione originaria di uguaglianza non è né una condizione storica reale né uno stato culturale primitivo. È solo una posizione ipotetica finalizzata ad una concezione della giustizia. Rawls parla di «velo di ignoranza»,1 ossia assume che all’interno di questa situazione ipotetica gli individui non conoscano il proprio posto nella società, né status né classe, non conoscano le doti naturali, l’intelligenza e la forza assegnategli dal caso e non conoscano nulla della propria concezione del bene e delle proprie caratteristiche psicologiche. Questo nascondimento permette che nessuno venga avvantaggiato o svantaggiato in base alla casualità della natura o delle condizioni sociali. Dal momento che ognuno ignora la propria situazione nessuno può proporre principi che la favoriscono, pertanto i principi di giustizia saranno il frutto di un accordo e di un’equa contrattazione. « Si potrebbe quindi dire – afferma Rawls – che la posizione originaria è il corretto status quo iniziale, e perciò che gli accordi fondamentali stipulati in essa sono equi».2 E i principi di giustizia che secondo Rawls le persone sceglierebbero in questa situazione iniziale sono essenzialmente due: il primo decreta l’uguaglianza nell’assegnazione dei diritti e dei doveri; il secondo decreta che le ineguaglianze economiche e sociali, ossia le ineguaglianze collegate alla ricchezza e al potere, sono giuste ed accettabili solo se producono una compensazione benefica per tutti gli altri, in particolar modo per i membri meno avvantaggiati della società. Non vi è dunque ingiustizia se i maggiori benefici di pochi vanno a migliorare la condizione dei meno fortunati. In definitiva, il velo di ignoranza diventa necessario per evitare conflitti. Cosa accadrebbe, infatti, se gli individui conoscessero la propria condizione? Se il ricco sapesse di essere tale, non considererebbe ingiusto pagare imposte per scopi assistenziali? Il povero, invece, non considererebbe ingiusto non far pagare più tasse ai ricchi? La non conoscenza iniziale elimina questi disaccordi, gli individui in questo modo non vengono lasciati in balia dei propri interessi di parte e dei propri pregiudizi, essi convengono nell’uniformare le proprie concezioni del bene ai principi di giustizia, o almeno di non rivendicare ciò che potrebbe violarli. Di conseguenza in questa concezione della giustizia come equità, le aspirazioni e le inclinazioni delle persone, non vanno considerate come date. Al contrario esse vengono fin dall’inizio ristrette dai principi di giustizia all’interno di un sistema in cui il concetto di giusto è prioritario rispetto a quello di bene, un sistema che garantisce un equo perseguimento dei fini e che non ammette atteggiamenti e propensioni in contrasto con i due principi di giustizia.

3. I principi di giustizia

Rawls specifica ed enuncia i due principi di giustizia. Il primo principio afferma che «ogni persona ha un eguale diritto al più esteso schema di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile schema di libertà per gli altri».3 Il secondo principio afferma che «le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere combinate in modo da essere (a) ragionevolmente previste a vantaggio di ciascuno; (b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti».4 Il primo principio, dunque, garantisce a tutti le stesse libertà fondamentali, quelle libertà considerate, in uno stato di diritto, inalienabili. Tra esse vanno ricordate: la libertà politica connessa al diritto di voto e al diritto di ricoprire cariche pubbliche; la libertà di parola e di riunione; la libertà di pensiero e di coscienza; la libertà della persona che include la libertà dall’oppressione e dall’aggressione fisica e psicologica (tutela quindi dell’integrità della persona); la libertà di possedere una proprietà personale e la libertà dall’arresto arbitrario e dalla confisca nei termini previsti dalla legge.

Il secondo principio riguarda la sfera sociale ed economica e si concentra sulla distribuzione del reddito e della ricchezza, la quale non deve essere necessariamente uguale, ma deve essere vantaggiosa per ciascuno. Inoltre il secondo principio garantisce che le posizioni di autorità e responsabilità debbano essere aperte a tutti (uguaglianza di opportunità). L’idea è che coloro che possiedono la stessa abilità o lo stesso talento e la medesima intenzione di servirsene dovrebbero avere uguali possibilità di vita, vale a dire l’uguale prospettiva di riuscita indipendentemente dal loro punto di partenza all’interno del sistema sociale, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza. Il primo principio, sottolinea Rawls, precede il secondo. Ciò significa che le violazioni delle libertà fondamentali non possono essere giustificate o compensate da maggiori benefici economico-sociali. Le libertà fondamentali possono essere limitate o compresse solo quando confliggono con altre libertà fondamentali. Tra le libertà fondamentali non rientrano, ad esempio, la libertà di possedere certe proprietà come quella dei mezzi di produzione e la libertà di contratto come prevista dalla dottrina del laissez-faire, ossia dal principio del liberismo economico favorevole al non-intervento dello Stato. Secondo questa dottrina l’azione del singolo nella ricerca del proprio benessere sarebbe sufficiente a garantire la prosperità economica della società. Tali libertà non fondamentali, dunque, non sono protette dal primo principio.

Questi due principi sono alla base di una concezione della giustizia che, secondo Rawls, può essere espressa in questo modo: «tutti i valori sociali – libertà e opportunità, ricchezza e reddito, e le basi sociali del rispetto di sé – devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale, di uno o di tutti questi valori, non vada a vantaggio di ciascuno. L’ingiustizia, quindi, coincide semplicemente con le ineguaglianze che vanno a beneficio di tutti».5 La giustizia, pertanto, deve riparare e compensare le disuguaglianze immeritate di doti naturali dipendenti dalla nascita e dal caso. Vi è giustizia quando la società presta maggiore attenzione a coloro che sono nati con meno abilità o in posizioni sociali meno favorevoli. Da questo punto di vista un ruolo centrale lo detiene l’istruzione che deve concentrarsi essenzialmente sui meno dotati, soprattutto nei primi anni di scuola. L’importanza dell’istruzione non può essere parametrata solo in termini di crescita economica e sociale, essa deve essere anche in grado di permettere all’individuo, anche il meno dotato, di fruire della cultura della propria società e di esserne pienamente partecipe assicurando a ciascuno un senso cristallino del proprio valore. In tutto questo, coloro che sono stati avvantaggiati dalla natura, devono usare il proprio talento anche per favorire e aiutare i meno fortunati. Di per sé la natura non è né giusta né ingiusta nella distribuzione delle doti naturali, ma sono giuste o ingiuste le istituzioni che amministrano ciò che è frutto del caso. Le società aristocratiche o basate sulla casta sono ingiuste perché incorporano in sé l’arbitrarietà della natura. Una società giusta, invece, non è immutabile, non si rassegna a ciò che è contingente e ripara ai torti in maniera equa.

4. La posizione originaria

Il vantaggio della posizione originaria, sostiene Rawls, è che nessuno conosce il proprio ruolo nella società e le proprie doti naturali, di conseguenza nessuno può sapere quali siano i principi vantaggiosi per i propri interessi. In questo modo le persone non sono mosse dall’avidità e dall’invidia, ossia dall’attaccamento verso i propri vantaggi rispetto agli altri. È chiaro, quindi, che la posizione originaria assicura che i principi etici e la concezione della giustizia posseggano un legame razionale con lo sviluppo degli interessi umani in senso lato. Ciò significa che le distinzioni e le discriminazioni razziali e sessuali non sono solo ingiuste in una prospettiva etica, ma sono anche irrazionali perché portano vantaggi ad alcuni gruppi e non portano vantaggi all’umanità in generale. Spiega Rawls:

Le discriminazioni razziali e sessuali presuppongono in modo inevitabile che alcuni occupino un posto privilegiato nel sistema sociale, che essi intendono sfruttare a proprio vantaggio. Dal punto di vista di individui dotati della stessa posizione in una situazione iniziale equa, i principi delle dottrine razziste non sono semplicemente ingiusti. Sono irrazionali. Per questa ragione, si potrebbe affermare che essi non sono per nulla concezioni morali, ma soltanto mezzi di repressione. Non c’è alcun posto per loro in un ragionevole elenco delle concezioni tradizionali della giustizia.6

Ecco, dunque, che la posizione originaria, il velo di ignoranza e la razionalità delle parti escludono principi insensati e arbitrari. Da questo punto di vista la libertà morale, di coscienza e religiosa può essere limitata solo se è in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza, pertanto la libertà viene negata, in questo caso, per scongiurare una perdita di libertà ancora più grande. Nelle epoche passate, ad esempio, gli eretici venivano messi a morte perché considerati una minaccia per la fede e la vita dell’anima e ciò era valutato più grave rispetto a crimini materiali. Ma questa visione del mondo è qualcosa di non accoglibile nella posizione originaria perché contrasterebbe con un modo di ragionare comunemente accettato: «Che la fede sia la vita dell’anima, e che la soppressione dell’eresia, che è la deviazione dall’autorità ecclesiastica, sia necessaria per la salvezza delle anime, sono questioni dogmatiche».7 Ergo, queste questioni dogmatiche ed altre simili e affini, non si basano su prove e pensieri accettabili per tutti, ossia su quell’osservazione comune e su quel modo di ragionare generalmente riconosciuti come corretti.

5. La disobbedienza civile e la guerra

Le persone che accettano i principi di giustizia accettano allo stesso tempo istituzioni eque e giuste che li rispettino e li soddisfino. Se queste persone si impegnano in un’impresa cooperativa reciprocamente vantaggiosa, nel rispetto di certe norme, e limitando volontariamente la propria libertà, è ragionevole che si interfaccino con istituzioni giuste. Se le istituzioni fossero ingiuste, afferma Rawls, verrebbe meno l’obbligo delle persone a queste istituzioni: «Gli assetti sociali ingiusti sono una specie di estorsione, se non di violenza, e il consenso nei loro confronti non è vincolante».8 Rawls fa l’esempio più estremo, quello della coscrizione obbligatoria durante la guerra. Il filosofo, in questo caso, esclude il pacifismo tout court perché la coscrizione può essere legittimata, in una società giusta o quasi giusta, per difendere la libertà delle persone che fanno parte della comunità in questione, ma anche di quelle che fanno parte di altre comunità. La procedura della leva obbligatoria può essere difesa solo su questo terreno e in questa situazione i cittadini si accordano sul fatto che la coscrizione è una maniera equa di condividere gli impegni della difesa nazionale i cui rischi dipendono dal caso e dagli accadimenti storici. Ma va detto che in una società equa e giusta i pericoli possono venire solo dall’esterno, pericoli che sono ineliminabili. Pertanto l’unica cosa che può fare una tale società è assicurare che il rischio di soffrire queste sventure sia suddiviso equamente fra tutti i membri della comunità nel corso della loro vita, senza distinzioni di classe. Ma cosa succede se la guerra viene fatta per scopi ingiusti, per un vantaggio economico o per rafforzare la potenza nazionale? In questo caso, secondo Rawls, non è possibile interferire con la libertà fondamentale dei cittadini per raggiungere questi scopi, di conseguenza il cittadino è giustificato nel suo rifiuto di adempiere al proprio dovere giuridico. Anche all’interno di una guerra legittimata dalla difesa nazionale, il cittadino può rifiutarsi di eseguire ordini che considera ingiusti o che contrastino con la legge morale della guerra o con i propri doveri naturali. In tali situazioni la responsabilità non è di coloro che esprimono un giusto diniego, ma di coloro che abusano della propria autorità e del proprio potere per dare ordini criminali o per scatenare guerre predatorie ed assassine. Scrive Rawls: «impiegare l’apparato coercitivo dello stato allo scopo di mantenere istituzioni chiaramente ingiuste è di per sé una forma di violenza illegittima cui gli uomini hanno il diritto di opporre resistenza nei modi opportuni».9

6. Lo sviluppo della morale come premessa della concezione della giustizia

Rawls sostiene che lo sviluppo morale, suddiviso in moralità autoritaria, moralità associativa e moralità dei principi, è la premessa che permette ad una persona di acquisire comprensione e fedeltà al concetto di giustizia all’interno di una società equamente ordinata. La prima tappa dello sviluppo morale è quella della moralità autoritaria, ossia quella a cui è soggetto il bambino da parte dei genitori. I genitori amano il bambino, se ne prendono cura e lo proteggono, non solo, gli confermano il posto che gli spetta evidenziando il senso del proprio valore personale. Il bambino impara così ad amare a sua volta i propri genitori e ad averne fiducia, in questo modo, tenderà ad accettare le loro disposizioni. I genitori diventano modelli degni di stima e pertanto il bambino riterrà opportuno conformarsi alle loro regole e giudicherà se stesso come fanno loro nel momento in cui egli disobbedisce alle loro massime. Allo stesso tempo, però, il bambino sente di dover trasgredire tali massime, magari perché considerate arbitrarie, ma se egli ama e ha fiducia nei propri genitori, sarà pronto a confessare loro le proprie malefatte, tenderà a confessare per cercare una riconciliazione. Scatta in questo modo il senso di colpa verso l’autorità e se non ci fosse questo senso di colpa verrebbe a mancare anche l’amore e la fiducia. È evidente che la moralità autoritaria deve seguire i principi di giustizia, ciò significa che le disposizioni dei genitori devono essere giustificate e ad esse non vanno applicate sanzioni punitive corporali o rappresaglie. Il bambino deve vedere il genitore come esempio e guida, solo così acquisirà il desiderio di rispettare i divieti imposti.

Dalla moralità autoritaria si passa alla seconda fase, quella della moralità associativa, il cui contenuto dipende dagli standard morali legati al ruolo dell’individuo all’interno delle varie associazioni a cui appartiene, standard che comunque includono alla base le regole della moralità comunemente intesa. Crescendo, quindi, il bambino apprende gli standard di comportamento adatti alla sua posizione (il ruolo in famiglia, nella scuola, nei giochi, nello sport, nel vicinato, ecc.). Ora, prendiamo ad esempio un’associazione le cui regole sono riconosciute da tutti come giuste. All’interno di quest’associazione si sviluppano sentimenti d’affetto e di solidarietà, e una volta che si sono instaurati tali legami, una persona è incline a provare sensi di colpa nei confronti dell’associazione nel momento in cui si sottrae ai doveri che le spettano. Il senso di colpa guida il trasgressore alla riparazione del danno, ad ammettere di aver compiuto un atto sbagliato e ingiusto, e quindi lo porta a scusarsi. Come nel caso della moralità autoritaria del bambino, i sensi di colpa non si svilupperebbero se alla base non ci fossero l’amicizia e la fiducia reciproca all’interno dell’associazione.

Una persona che perviene alla moralità associativa ha senza dubbio accesso alla terza fase dello sviluppo morale, quella dei principi di giustizia. Una persona, infatti, che nel precedente grado della moralità associativa ha imparato a desiderare di essere un leale compagno dell’associazione, ora desidera essere una persona giusta: «la concezione di agire giustamente e di rispettare le istituzioni giuste arriva ad avere per questa persona un’attrattiva pari a quella posseduta precedentemente dagli ideali secondari».10 Dal momento che si sono sviluppati atteggiamenti di amicizia e di lealtà reciproca ci si rende conto che noi e coloro che amiamo beneficiamo dei vantaggi di un’istituzione giusta e pertanto in noi si genera un corrispondente senso di giustizia e la volontà di applicare i principi di giustizia (quelli della posizione originaria) e di agire in base a essi. «Con il tempo – sostiene Rawls – impariamo ad apprezzare l’ideale della giusta collaborazione umana».11 Una persona che agisce per interesse personale e per convenienza può adirarsi e andare in collera, ma non può provare indignazione e risentimento. Indignazione e risentimento, a differenza della rabbia, sono emozioni morali e presuppongono legami di affetto, legami cioè, che permettono di agire equamente. Una persona priva del senso dell’amicizia e della lealtà è incapace di provare risentimento e indignazione, essa:

è priva di certi atteggiamenti naturali e di certi sentimenti morali di un genere elementare particolare. Detto in maniera diversa, chi è privo del senso di giustizia è privo anche di certi atteggiamenti e capacità fondamentali compresi nella nozione umana. […] Ne consegue che i sentimenti morali sono parte normale della vita umana. Non si potrebbe fare a meno di loro senza demolire anche contemporaneamente gli atteggiamenti naturali. […] I sentimenti morali sono legati a questi atteggiamenti nel senso che l’amore per l’umanità e il desiderio di difendere il bene comune implicano come necessari i principi del giusto e di giustizia per definire il loro oggetto.12

In tal senso in una società equamente ordinata scompare l’arbitrarietà dell’autorità e non si sente il peso della repressione morale poiché le norme etiche non sono percepite come vincoli. Le persone, infatti, sentono il loro senso di giustizia come un’estensione dei loro legami d’affetto naturali e come un mezzo per tutelare e difendere il bene comune. Da questo punto di vista il velo di ignoranza impedisce alle persone di formulare una teoria morale che possa accordarsi con i loro interessi particolari. Non si guarda egoisticamente alla propria situazione personale, ma ci si apre altruisticamente su un piano di parità e di obiettività, un piano di natura comune. Ciò significa, tra l’altro, che i principi di giustizia stabiliti nella posizione originaria rendono ciascuno responsabile nei confronti degli altri, pertanto, afferma Rawls: «coloro che si sottomettono all’esecuzione di comandi ingiusti o alla complicità in progetti malvagi non possono in generale addurre come pretesto la loro ignoranza di come andavano le cose, o il fatto che l’errore è imputabile solo a coloro che rivestono le cariche più alte».13 In conclusione, quindi, assumendo una connessione tra l’agire giustamente e gli atteggiamenti naturali, si può affermare che i legami di affetto e comprensione si estendono, in una società equamente ordinata, anche alle istituzioni. Chiunque decida, pertanto, di comportarsi in maniera iniqua e sbagliata, saprà che non arrecherà danno solo alle forme sociali, ma anche ai suoi amici e consociati che di quelle forme sociali fanno parte. Vi sono dunque valide ragioni per conservare il proprio senso di giustizia. «Ciò protegge, - afferma Rawls – in modo semplice e naturale, le istituzioni e le persone che abbiamo a cuore, e ci porta ad accettare volentieri legami sociali nuovi e più ampi».14


  1. John Rawls, Una teoria della giustizia, 4a edizione, Feltrinelli, Milano 2017, pag. 33. ↩︎

  2. Ivi, pag. 34. ↩︎

  3. Ivi, pag. 76. ↩︎

  4. Ibidem. ↩︎

  5. Ivi, pag. 77. ↩︎

  6. Ivi, pag. 153-154. ↩︎

  7. Ivi, pag. 215. ↩︎

  8. Ivi, pag. 330. ↩︎

  9. Ivi, pag. 372. ↩︎

  10. Ivi, pag. 446. ↩︎

  11. Ivi, pag. 447. ↩︎

  12. Ivi, pag. 460-461. ↩︎

  13. Ivi, pag. 487. ↩︎

  14. Ivi, pag. 534. ↩︎