1. Introduzione: Rorty tra nichilismo e antinichilismo
Richard McKay Rorty (New York, 4 ottobre 1931 — Palo Alto, 8 giugno 2007) attualmente è uno dei filosofi di maggior successo a livello mondiale. Tra le varie onorificenze ricevute, Rorty nel 1999 ha ricevuto una laurea honoris causa dall’Università di Parigi viii (Vincennes-St. Denis), nel 2000 un’altra dalla Johannes Pannonius University di Pecs, in Ungheria, nel 2001 una dall’Università Babes-Bolyai di Clui, in Romania, e una dall’Università «Vrije» di Bruxelles, in Belgio.
Fino ad oggi, quando si è parlato di nichilismo, non sempre si è fatto riferimento a Rorty, il quale piuttosto è stato associato soprattutto al pragmatismo (in particolare, vedendo il lui un fondatore del neopragmatismo) e ricollegato alla ricezione e alla rielaborazione, negli Stati Uniti, di autori europei «continentali», tra cui Heidegger, Gadamer e Derrida, in contrapposizione agli «analitici» di area anglosassone. Alcuni, quando hanno parlato di nichilismo, Rorty nemmeno lo hanno nominato (cfr. p. es. Vercellone 19921, 2009u. ma; Volpi 19961, 2004u. ma). Anche se ci sono sempre stati, negli scritti di Rorty, molti elementi propri del nichilismo, questi non sono stati evidenziati dalla maggioranza dei suoi commentatori. Solo una stretta minoranza, a partire almeno dagli anni Ottanta, ha parlato apertamente di Rorty come nichilista (cfr. ad. es. Larsen 1987, p. 14). Rorty è stato anche interpretato, esattamente al contrario, come «antinichilista», e questo soprattutto da parte di alcuni critici di area pedagogica (p. es. Cambi 2005, p. viii). Questa contrapposizione radicale, per certi aspetti inconciliabile, tra alcune interpretazioni di Rorty come nichilista e altre di Rorty come antinichilista, per altri aspetti conferma un approccio condiviso e unitario nel vedere nel nichilismo un concetto chiave almeno per alcune delle interpretazioni che fino ad ora sono state date del pensiero Rorty.
Si tratta a mio avviso di un nichilismo contraddittorio, che finisce col contraddire se stesso e risultare, di fatto, antinichilismo. Se ci si attiene a quanto Rorty si limita a dire, è nichilista -lo vuole essere, ritiene di esserlo, dichiara esplicitamente e ripetutamente tesi nichiliste-. Se, invece, si vogliono trarre alcune conclusioni dall’esterno degli scritti di Rorty, spingendo alcune sue affermazioni a conclusioni che lui stesso non ha tratto e che possiamo prendere noi per lui, osservandone alcune incongruenze di fondo, allora Rorty può risultare, di fatto, antinichilista.
È presente, in Rorty, il conflitto con i principi della tradizione già presente nei Padri e figli di Turgenev (1862) o nella negazione di qualsiasi valore ancorato a basi metafisiche e religiose (cfr. p. es. Dostoevski). Più in generale, Rorty rientra a pieno nella definizione di Lalande, secondo la quale «non esiste nulla (di assoluto)», «non v’è verità morale» e in quella di Eisler, secondo la quale si nega «ogni possibilità di conoscenza, ogni verità generale certa».
Si tratta di un nichilismo implicito sia gnoseologico che etico, metafisico e politico. Per quanto riguarda l’atto conoscitivo (aspetto gnoseologico), non si può conoscere niente con sicurezza. Per quanto riguarda l’aspetto etico, non c’è una verità etica. Per quanto riguarda l’aspetto metafisico, viene negata la categoria dell’essere, la stessa ragion d’essere della metafisica, in quanto inutile. Per quanto riguarda l’aspetto politico, la libertà individuale è, per Rorty, una libertà che dovrebbe stare quanto più possibile al di sopra di ogni autorità, legge e condizionamento sociale. Come in Nietzsche, anche in Rorty si proclama un’assoluta mancanza di certezze e una negazione di tutti i valori tradizionali, ultramondani e soprasensibili.
2. Cenni biografici: per una genesi del pensiero nichilista rortyano
Rorty è figlio unico di James Rorty e Winifred Rauschenbusch Rorty, due scrittori socialdemocratici entusiasti di Trotsky, filocomunisti e antimilaristi.
Il padre, James (1890-1973), scriveva poesie articoli di carattere etico-politico per giornali. Il nonno paterno era un immigrato irlandese, aspirante poeta; la nonna paterna, una maestra di scuola elementare di convinzioni femministe (cfr. p. es. Gross 2008, in part. pp. 16-25).
La madre, Winifred, morta a Princeton (New York) nel 1980 a 85 anni, a casa del figlio, aveva studiato all’Università di Chicago e negli anni giovanili era stata assistente del sociologo statunitense Robert Ezra Park (Harveyville, 1864 — Nashville, 1944), uno dei principali fondatori ed esponenti della «scuola dell’ecologia sociale urbana» o «scuola sociologica di Chicago» (the Chicago School of Sociology), dopo esser stato allievo, tra gli altri, di William James e di John Dewey. Tale scuola si interessava prevalentemente di problematiche sociali quali la criminalità, il divorzio, il suicidio, ritenendo che i rapporti sociali e culturali sono strettamente condizionati dall’ambiente sociale di appartenenza. Park in particolare è noto per aver messo a tema le «personalità marginali», intese come soggetti non inseriti in un ambiente sociale, insicuri e disorientati; l’«uomo marginale», inteso come chi sta al confine tra due culture che non si integrano; e l’«uomo asociale», inteso come chi viene escluso dal processo di produzione, comprendendo gli alcolisti e i malati di mente. La madre di Rorty, tra l’altro, ha scritto un libro su questo suo professore (Rauschenbush 1979). La nonna materna, Pauline Rauschenbush, era un’immigrata della Prussia.
Il nonno materno, Walter Rauschenbusch (Rochester, New York, 4 ottobre 1861 — Rochester, New York, 25 luglio 1918), figlio a sua volta di un predicatore protestante tedesco, è particolarmente interessante per una interpretazione della genesi del pensiero di Rorty. È stato professore al «Rochester Theological Seminary» dal 1902 al 1917. Gli eventi della prima guerra mondiale, che si era consumata tra il 28 luglio 1914 e l’11 novembre 1918, lo avevano turbato e deluso profondamente. Prima di questo periodo, era stato per 11 anni, dal primo giugno 1886 al 1897, un ministro battista a New York in zone industriali di operai poveri, quartieri di Brooklyn chiamati Hell’s Kitchen, «Cucina dell’Inferno». Luoghi caratterizzati da slums, insicurezze e deprivazioni economiche, disoccupazione, malnutrizione, epidemie, criminalità, diffuso disagio psicologico e sociale, estrema povertà accentuata dalle diseguaglianze concretizzate nelle marcate separazioni sociali tra ricchi e poveri. Era stato molto noto e attivo in un movimento del «Social Gospel», da lui stesso fondato, influendo, con la sua vita e i suoi scritti di teologo (cfr. Christianity and the Social Crisis, Macmillan, New York 1907; Christianizing the Social Order, Macmillan, New York 1912; Theology for the Social Gospel, Abingdon Press, New York 1917; Social Principles of Jesus, The Association Press, New York 1918), oltre che su suo nipote Richard Rorty, anche su altri, tra cui Martin Luther King e Mahatma Gandhi. L’etica sociale di Rauschenbusch era basata sul pietismo, sul settarismo anabattista, sul liberalismo e sul trasformismo politico, e si può condensare in poche parole: vivere «sulla terra come se si fosse in Cielo» (on earth as it is in heaven), «trasformando la vita sulla terra nell’armonia del Cielo» (transforming the life on earth into the harmony of heaven) (cfr. ad es. Gotobed, Charles 1994, tr. it. mia).
Rorty descrive la sua infanzia come libresca e solitaria (bookish and solitary) (Rorty 1992, ora in 1999, pp. 3-20, tr. it. mia). In effetti la sua infanzia e la sua famiglia sono state insolite (unusual) (Guignon, Hiley 2003, p. 3; in rimando a Weaver 2000, p. 38); i suoi genitori di sinistra e simpatizzanti del partito comunista (Guignon, Weaver 2000, p. 3). A 12 anni comincia a filosofare. Scrive: «A 12 anni, ho capito che il senso dell’essere umano era di usare la propria vita per combattere le ingiustizie sociali» (At 12, I knew that the point of being human was to spend one’s life fighting social injustice) (Rorty 1992, tr. it. mia). A 15 anni i suoi genitori lo iscrivono in un college per ragazzi precoci all’Università di Chicago (Hutchins College), chiamato da Liebling «la più grande collezione di nevrosi giovanili» (the biggest collection of juvenile nevrotics) (in Guignon, Hiley 2003, p. 4, tr. it. mia). È sempre a 15 anni che legge Platone e si identifica con Socrate: «Ho letto Platone durante l’estate dei miei 15 anni, e mi sono convinto che Socrate era nel vero — la virtù era conoscenza» (I read through Plato during my fifteenth summer, and convinced myself that Socrates was right — virtue was knowledge) (Rorty 1992, tr. it. mia). Nel 1949, a 18 anni, discute la sua tesi su Whitehead, nel 1952, a 21 anni, inizia a Yale un dottorato in filosofia. Nel 1954, a 23 anni, si sposa. Nel 1956, a 25 anni, porta a termine gli studi con una dissertazione dottorale sul concetto di potenzialità (The Concept of Potentiality).
Il matrimonio di Rorty del 1954 è con una professoressa di filosofia dell’Università di Harvard, Amelie Oksenberg Rorty, da cui ha una figlia, Jay Rorty. Questa moglie di Rorty, che attualmente insegna in un Dipartimento di Filosofia a Boston e in un Dipartimento di Medicina Sociale ad Harvard, nel 1951 aveva conseguito un baccellierato in filosofia a Chicago, nel 1954 alla Yale University un M. A. con una tesi dal titolo A Theory of the Comic, nel 1957 comincia a insegnare filosofia, nel 1961 sempre alla Yale University, aveva conseguito un Ph. D. con una dissertazione intitolata Self Reference and the Theory of Error, a partire dagli anni sessanta aveva scritto dei saggi all’interno di alcuni libri, tra i quali Pragmatic Philosophy (Doubleday, 1966), The Identities of Persons (University of California Press, 1976) e, tra i suoi numerosissimi articoli che pubblica dal 1962, nel 1995 ne scrive uno, Ruins and Runes (Journal of the Philosophy of Education, ristampato in Tamir Y., cura, Democratic Education in a Multicultural State, Blackwell, 1995, pp. 59-64), tutti scritti i cui temi si avvicinano molto a quelli degli scritti di Rorty, per certi aspetti coincidono.
Da questa prima moglie Rorty si divorzia. Diciotto anni dopo quel primo matrimonio, nel 1972, a 41 anni, si sposa con un’altra donna, Mary Varney Rorty, anche lei professoressa di filosofia in università statunitensi, dalla quale ha due figli, Kevin e Patricia. Da quanto ricavo dall’url dell’Università di Stanford (http://www.stanford.edu/~mvr2j/), questa seconda moglie, di area femminista e con interessi scientifici in area bioetica, attualmente insegna all’Università dello Stato di San Francisco; aveva conseguito un baccellierato in filosofia nel 1961, nel 1965 aveva cominciato a insegnare filosofia e a far parte della American Philosophical Association, nel 1970 aveva conseguito il suo Ph. D., negli anni 1972-1974 (in coincidenza con il suo matrimonio con Rorty) aveva interrotto la sua attività di insegnamento e, nel 2003, avrebbe scritto una lunga recensione a Habermas J., The Future of Human Nature (in Notre Dame Philosophical Review, 12. 02. 2003).
Attraverso questi rapidi cenni biografici, è facile osservare, da una parte, una genesi del pensiero di Rorty ascrivibile in buona parte alla sua storia familiare, a condizionamenti parentali; dall’altra, una sostanziale sovrapposizione dei suoi interessi culturali con quelli di alcuni componenti della sua famiglia, in particolare della prima moglie e della seconda.
3. Un contesto al nichilismo rortyano: il pragmatismo
Rorty in tutti i suoi scritti aderisce sostanzialmente al pragmatismo, per sua stessa esplicita e ripetuta ammissione. È pragmatista, ad esempio, nel ritenere che qualcosa (un’affermazione, una ricerca) è utile (ha senso, è ammissibile) se ci aiuta a capire o a risolvere un problema dato. Ma il pragmatismo, che Rorty condivide, non è solo questo; ha a che fare anche con ‘filosofia dell’azione’ (cfr. Sciacca 1952, p. 1884).
Una forma, a volte esasperata, di fare della verità una specie di candidato ’democratico’ in una lista di tante presunte verità, in attesa di ottenere la maggioranza dei suffragi per proclamarsi vere o non vere; e l’esito dipende dall’efficacia della messa in scena e della pubblicità. Il pragmatismo nega, in fondo, ogni verità e si risolve in una forma di storicismo empirico e, da ultimo, di autentico materialismo; e, quando si chiama religioso e spiritualista, in un fideismo non meno rovinoso, in una specie di mistica dell’azione e della volontà, che, non sorretta da un saldo principio razionale né da un concetto ben fondato della trascendenza, si orienta verso l’immanentismo più radicale e perciò verso una mistica dell’efficacia trasformatrice ed operativa dell’uomo, in vista della instaurazione di una società futura sempre più idonea ad appagare i suoi bisogni e a godersi i beni del mondo; cioè s’incontra con il marxismo (Sciacca 1952, p. 1889-90, corsivi miei).
Il neopragmatismo è sempre anche antifondazionismo: non parte da principi o fondamenti, ma da «convinzioni formate nella concreta esperienza di vita» (Restaino 2006, p. 7833). In particolare, al libro di Rorty Philosophy and The Mirror of Nature (Oxford 1979) si attribuisce la nascita di questo neopragmatismo (cfr. p. es. Restaino 2006, p. 7833).
4. Il pensiero di Rorty: aspetti nichilisti (1979-2005)
A 48 anni Rorty, nel libro «La filosofia e lo specchio della natura» (Philosophy and the Mirror of Nature), del 1979, scrive che il desiderio di una teoria della conoscenza è un desiderio di trovare «fondamenti ai quali potersi aggrappare», «rappresentazioni che non si possano mettere in discussione». Pur rendendosi conto che l’accantonamento dell’epistemologia fondazionale «lascia un vuoto che richiede di essere riempito», non intende proporre niente come un soggetto sostitutivo dell’epistemologia e della metafisica, nemmeno l’ermeneutica (Rorty 1979, tr. it. 2004, p. 631). Rorty stabilisce una contrapposizione tra «il sovrintendente culturale che conosce il terreno comune a tutti — il re-filosofo di Platone che sa quel che tutti gli altri fanno […], perché lui conosce il contesto ultimo […] all’interno del quale essi agiscono», sotto il nome di «epistemologia», e quello «del dilettante informato, del mediatore poliedrico e socratico tra i vari discorsi», sotto il nome di «ermeneutica» (Rorty 1979, tr. it. 2004, pp. 635-37). Da questo contrasto Rorty fa emergere «la nozione di cultura come conversazione piuttosto che come struttura unificata su fondamenti», e «quest’idea di interpretazione suggerisce che giungere alla comprensione somigli più al far conoscenza con una persona che al seguire una dimostrazione» (Rorty 1979, tr. it. 2004, p. 639).
Lo stesso anno, in un altro libro, Rorty esalta il pragmatismo, definendolo «la maggior gloria della tradizione intellettuale del nostro paese» e affermando che «nessuno scrittore americano, quanto James e Dewey, ha avanzato una proposta tanto radicale al fine di rendere il nostro futuro diverso dal nostro passato» (Rorty 1979b, ora in Rorty 1982, tr. it. 1986, p. 167). Anche se i profondi limiti teorici del pragmatismo erano stati messi a nudo da varie parti fin dall’inizio (p. es. Spirito 1921), Rorty continuerà a identificarsi esplicitamente in James e Dewey per tutta la vita, fino agli ultimi scritti (cfr. ad es. Rorty 1992; Rorty 1999, p. XVI).
Nel 1984, Rorty, a 53 anni, in uno scritto intitolato «La priorità della democrazia sulla filosofia» (The priority of democracy to philosophy), si rifà a Jefferson quando scrive che le questioni ultime (matters of ultimate importance) «non sono essenziali per una società democratica», «non sono essenziali per una coesione sociale», per cui «devono essere scartate», «forse per essere rimpiazzate […] con una sorta di esplicita fede politica secolare che formerà la coscienza morale del cittadino». Per Rorty «dobbiamo abbandonare o modificare le opinioni sulle questioni ultime» (Rorty 1984, ora 1991, pp. 175ss., tr. it. mia; con rif. a Jefferson 1905). Per Rorty, che si richiama esplicitamente a Jefferson, sono da abbandonare tutte queste «opinioni sulle questioni ultime sul nostro posto nell’universo e la nostra missione sulla terra» (Rorty 1984, ora 1991, p. 195, tr. it. mia). Nello stesso saggio, Rorty finisce col dire che tutti quelli che non la pensano come lui sono dei pazzi: «Noi eredi dell’Illuminismo pensiamo di persone simili che sono pazze. Questo avviene perché non c’è modo di considerarle come concittadini della nostra democrazia» (Rorty 1984, ed. it., vol. i, p. 248).
In questo modo, Rorty mostra almeno due contraddizioni, entrambe estremamente profonde. Prima contraddizione: da una parte, Rorty rifiuta ogni fondamento, ogni questione ultima (o principio primo); dall’altro, fa della democrazia un fondamento e una questione ultima (o principio primo). Seconda contraddizione: Rorty da un lato assolutizza la democrazia come un principio vero, di per sé evidente, indiscutibile, fondamentale; dall’altro lato non è per niente democratico, né rispettoso, quando nega il diritto di dissentire, di discostarsi dalla sua filosofia democratica, che finisce coll’essere, più che una filosofia, una fede, ed estremamente dogmatica, fondamentalista e intollerante, potenzialmente terroristica. Ancora: l’idea di «democrazia», che Rorty dichiara di riprendere in primo luogo da Jefferson e da Dewey, non è da Rorty sufficientemente esplicitata, rimane un concetto vago, non solo non teorizzato, ma neppure storicizzato. Vale a dire che in Rorty manca sia una esposizione teorica che una esposizione storica del concetto di «democrazia»; analisi teoretiche e storiche recenti del concetto di «democrazia» ne hanno evidenziato tutti i limiti, a partire dal carattere violento e dalla dannosità, a volte, al bene comune (cfr., uno per tutti, Canfora 2002; 2004; 2007). La stessa cosa si può osservare a proposito di un altro concetto fondamentale per Rorty, anch’esso di fatto assolutizzato, quello di «conversazione».
In uno scritto del 1987 dal titolo Science as solidarity, Rorty scrive che oggi «lo scienziato rimpiazza il sacerdote» (Rorty 1987, ora 1991, p. 35, tr. it. mia). Forse non si accorge che in questo modo finisce non con lo svuotare i sacerdoti della propria sacerdotalità, e la religione della propria religiosità (il che sarebbe un controsenso), quanto piuttosto col conferire agli scienziati un’identità sacerdotale, sacra, e alla scienza uno statuto religioso, di sacralità, assolutezza, fondamento primo e fine ultimo. In uno scritto del 1986, La filosofia come scienza, come metafora e come politica, Rorty aveva allargato l’attacco al sacerdozio e alla religione alla filosofia: «Senza ricadere in desideri di santità», «non ricorreremo più ai filosofi per cercare aiuto, esattamente come i nostri antenati si rivolgevano ai sacerdoti. Ci rivolgeremo, invece, ai poeti e agli ingegneri, le persone che producono nuovi, sorprendenti progetti per il raggiungimento della maggior felicità possibile per il maggior numero di persone possibile» (Rorty 1986, ora 1993, tr. it. 1994, p. 34). Ma in questo modo non si accorge che finisce, di fatto, col proporre non solo i poeti e gli ingegneri come nuovi filosofi, e sacerdoti, ma anche la poesia e l’ingegneria come nuova filosofia, e religione. Una nuova fede umanista e umanitaria, un culto dell’uomo che non è nuovo: è sempre il solito, classico, notissimo, aversio ab incommutabili bono, conversio ad commutabile bonum più volte ripetuto da S. Tommaso d’Aquino (cfr. p. es. S. Th. I-II, 72, 6; Iª-IIae qq. 85-89, IIª-IIae qq. 17-22; De malo, q. 4, a. 5, o. 3; Scriptum super Sententiis, l. 2, dd. 30-33).
Nel 1988, in Identità morale e autonomia privata: il caso di Foucault, Rorty dice di Foucault che «è stato, tra le altre cose, un cittadino utile ad un paese democratico, un cittadino che ha fatto del suo meglio per rendere migliori e più degne le istituzioni del suo paese» (Rorty 1988, ora 1993, tr. it. 1994, p. 268). Leggendo tra le righe, si potrebbe interpretare che, per Rorty, la categoria dell’utilità sia una categoria etica di primaria importanza, e sia da riferire sempre alla democrazia, come a dire che non ci sia altra «utilità» al di fuori di quella funzionale alla democrazia. Spingendo oltre l’interpretazione, si potrebbe ipotizzare che un cittadino «inutile» (non funzionale alla democrazia, alla società democratica) non ha proprio nessun senso, nessuna ragion d’essere, nel pensiero di Rorty, e vedere in questa mancanza di senso una possibile via giustificatoria di pratiche omicide come quelle dell’aborto, dell’eutanasia, della pena di morte.
Nel 1989, nello scritto Wittgenstein, Heidegger e la reificazione del linguaggio, Rorty scrive: «il linguaggio di Heidegger è semplicemente un dono che Heidegger ha fatto a noi e non un dono dell’Essere a Heidegger» (Rorty 1989, ora in 1993, tr. it. 1994, p. 88); in Heidegger, Kundera e Dickens paragona Heidegger a «un prete ascetico» (Rorty 1989b, ora 1993, tr. it. 1994, pp. 100-101), paragone che detto da altri potrebbe essere addirittura un complimento, ma detto da Rorty suona evidentemente come una derisione o una commiserazione. In questo modo Rorty sembra scrivere a spintoni. Si rende esempio, in questo modo, di come una persona, per quanto intelligente ed erudita, e per quanto democratica a parole, di fatto possa essere del tutto irrispettosa del pensiero e dell’identità degli altri, nascondendo nel proprio sorriso (sono note le fotografie nelle quali Rorty è uscito sorridente) una risata, un atteggiamento aggressivo e beffardo. In Contingency, irony, and solidarity Rorty concorda con chi nega la natura umana e riconduce tutto a circostanza storica: «A partire da Hegel i pensatori storicisti hanno […] negato l’esistenza di una ‘natura umana’o dello ‘strato più profondo dell’io’. Hanno affermato che tutto è socializzazione, e quindi circostanza storica — che non esiste un’essenza dell’uomo ‘al di sotto’della socializzazione e prima della storia» (Rorty 1989c, p. xiii, tr. it., p. 1, tr. it. mia).
«Questa svolta storicista ci ha permesso di liberarci, gradualmente ma fermamente, della teologia e della metafisica. […] Ci ha permesso di sostituire alla Verità, come traguardo del pensiero e del progresso sociale, la Libertà. […] Autori come Marx, Mill, Dewey, Habermas e Rawls sono, più che dei modelli, dei concittadini. Il loro impegno è sociale, è il tentativo di rendere le nostre istituzioni e pratiche più giuste e meno crudeli» (Rorty 1989c, pp. xiii-xiv, tr. it., p. 2, tr. it. mia). Ma dire istituzioni e pratiche «più giuste» è anche dire senza misericordia, perché una giustizia chiusa in se stessa esclude da sé qualunque misericordia; una società solo umanamente giusta è una società senza amore.
«Il massimo che possiamo fare […] consiste nel vedere il fine di una società […] nel fatto che i suoi cittadini siano privatistici, ‘irrazionalisti’ed estetizzanti quanto vogliono fin tanto che lo fanno per conto loro, senza danneggiare gli altri e senza sfruttare le risorse necessarie ai meno privilegiati» (Rorty 1989c, tr. it., pp. 2-3). «Una cultura storicista e nominalista come quella che immagino io deciderebbe invece a favore di narrazioni che collegano il presente da un lato al passato, dall’altro a un futuro utopico. Soprattutto, considererebbe l’attuazione e la creazione delle utopie un processo infinito: una realizzazione e proliferazione infinita della Libertà, e non un convergere verso una Verità già data» (Rorty 1989c, tr. it., pp. 5-6); una forma di «politica utopistica» che «sogna di creare una forma di società mai vista prima» (Rorty 1989c, tr. it., p. 9). E qui Rorty rivela tutto il suo nichilismo politico, se stiamo alla definizione nietzschiana per cui «il nichilista è un uomo il quale afferma del mondo, così com’è, che non dovrebbe esistere, e del mondo, così come dovrebbe essere, che non esiste» (Nietzsche 9 [60] 1887 = La volontà di potenza, 585; tr. it. in Magris 2003, p. 211). Oltre a ricadere sempre nella stessa contraddizione: di dire di rinunciare ad ogni assoluto, ma di continuare a sentire un bisogno, un desiderio insopprimibile di assoluto e di finire col sostituire a un assoluto (la Verità) un altro assoluto (la Libertà).
Rorty vuole essere un radicale ironico, laddove per ironico intende colui al quale «non gli interessa trovare un metodo, un programma o un criterio di base per sé e per i suoi colleghi. La sua unica occupazione è quella di tutti gli ironici: la ricerca dell’autonomia» (Rorty 1989c, tr. it., p. 118). Autonomia anche in pedagogia: «Quando la gente di sinistra parla di educazione, parla prima di tutto di libertà» (Rorty 1989d, p. 114, tr. it. mia). E provoca: «L’acculturazione alle norme della nostra Società produrrà libertà o alienazione?» (Rorty 1989d, p. 115, tr. it. mia).
Nel 1992 Rorty scrive: «non c’è niente di sacro» per «i pragmatisti deweyani come me», per «i tipici professori di sinistra come me» (Rorty 1992, tr. it. mia). Si tratta di un ateismo «di indifferenza» (cfr. p. es. Colomer 1997, p. 108).
Nel 1993 Rorty, pur avendo commentato a lungo Heidegger e Derrida, e pur dovendo proprio a questo suo recepire e rielaborare negli Stati Uniti Heidegger e a Derrida gran parte del suo successo, non si sente per niente heideggeriano o derridiano. Ammette infatti testualmente: «io ho scritto a lungo (fino alla noia) contro Heidegger e Derrida» (Rorty 1993, ora 1998, tr. it. 2003, p. 43, richiamandosi a Rorty 1984 e Rorty 1985 ora in Rorty 1991, corsivo mio).
Nel 1994 scrive: «man mano che la società nordamericana si è laicizzata si è sempre più sviluppata la convinzione che le credenze religiose — e forse anche la mancanza di credenze — di una persona sono irrilevanti per la sua partecipazione a quasi tutte le nostre pratiche sociali» (Rorty 1994, ora 1998, tr. it. 2003, p. 61). «La nostra maturazione è consistita nel comprendere a poco a poco che se possiamo contare gli uni sugli altri non abbiamo bisogno di contare su nient’altro. In termini religiosi questa è la tesi feuerbachiana che Dio è solo la proiezione dell’aspetto migliore dell’umanità, e qualche volta del peggiore; […] in termini politici è la tesi che purché riusciamo a tenere in vita la democrazia e la tolleranza politica, tutto il resto si può risolvere avanzando a piccoli passi verso un qualche compromesso ragionevole» (Rorty 1994, ora 1998, tr. it. 2003, pp. 76-77). Rorty non contrasta la religione (e tutto ciò che è assoluto, infinito), ma ne è indifferente. Il suo nichilismo è un nichilismo di indifferenza verso tutto ciò di cui non vede l’utilità; la trascendenza, il fondamento, l’assoluto, la verità sono tutte idee inutili per lui. Questa convinzione personale diventa una filosofia della storia di tipo progressivo, evolutivo: man mano che la storia procede, il ricorso alle trascendenze, ai fondamenti, agli assoluti, alle verità si farebbe sempre meno necessario, sempre più superfluo e inutile.
Nel 1995 è Rorty stesso a vedere nel proprio pensiero «lo stesso messaggio dell’illuminismo e dell’umanesimo secolarizzato, e cioè l’idea che non esiste niente al di fuori della comunità umana. In un mondo in cui ci siamo solo noi, in cui non ci sono più Dio, la legge morale, la natura della realtà, ci rimane soltanto la speranza in una società più libera» (Rorty 1995, corsivo mio). Rorty riconosce di restare sostanzialmente fermo agli ideali dell’illuminismo e dell’umanesimo; nel condividerli non si dà conto che l’illuminismo e l’umanesimo non sono andati avanti, ma sono tornati indietro, non hanno creato, ma hanno imitato (cfr. p. es. Pernoud 1977), contraddicendo così la sua visione della filosofia della storia.
Da una parte, Rorty insiste a scrivere: «mi sembra che l’immagine greca della filosofia come riflessione sui problemi eterni che si ripresentano costantemente alla mente umana sia sbagliata. Non ci sono problemi filosofici fondamentali» (Rorty 1995). Dall’altra parte continua a ripetere: «la democrazia, a mio parere, è un fine in se stessa [un problema filosofico fondamentale?], non un mezzo per ottenere qualcos’altro. E lo stesso vale per la libertà […] . Non credo che si possano offrire argomenti filosofici a favore della democrazia» (Rorty 1995). È quindi per fede che la democrazia è indicata da Rorty come il «miglior tipo di società finora inventata» (Rorty in Massarenti 1993, cfr. Rorty 1992) e come unico punto fermo, vero e fondamentale. In Rorty, l’ossessiva intenzione di essere senza punti fermi, verità e fondamenti rimane uno stato di desiderio, un’illusione, un sogno irrealizzato e irrealizzabile.
Nel 1997, concordando con James, Rorty ammette: «la democrazia è una specie di religione, e noi siamo tenuti a non ammettere il suo fallimento» (Rorty 1997, ed. it. 1999, p. 21). Per Rorty il rispetto e l’orgoglio sono atteggiamenti rischiosi: così come il rispetto di sé può condurre all’arroganza, allo stesso modo l’orgoglio nazionale può sfociare nell’imperialismo e nella bellicosità. Da questi rischi, secondo Rorty, ci potrebbe salvare qualcosa come l’ironia e la vergogna, di sé e della propria appartenenza sociale (cfr. Rorty 1997, ed. it. 1999 p. 15). Ora, a parte il fatto che in Rorty l’ironia e la vergogna sono cose diverse dall’umiltà, si tratta di un’ironia e di una vergogna piene di orgoglio democratico e arroganza nichilista: quella dell’ironia e della vergogna è solo una maschera d’argento con cui Rorty copre il suo vero volto, tutt’altro che ironico.
Nel 1999 Rorty ancora una volta si dichiara apertamente deweyano: «il filosofo che ammiro di più, e che di cui di più vorrei pensarmi come discepolo, è John Dewey» (Rorty 1999, p. XVI, tr. it. mia). Proprio «Dewey, il democratico radicale e il più politico dei pragmatisti» (Habermas 2007b, tr. it. mia).
Nel 2000 Rorty, quando scrive contro i fondamentalisti religiosi (Rorty 2000, pp. 21-2), in realtà scrive contro i religiosi tout court. In questo modo non si accorge dell’atteggiamento contraddittorio in cui finisce col cadere, ritrovandosi di fatto lui stesso un fondamentalista, anti-religioso, per il quale tutto può aver senso, tutto può aver significato, tutto può essere ammissibile, legittimo, tollerabile, fuorché la religione e tutto quello che ci può assomigliare, avvicinare, avere in qualche modo a che fare. La parola «religione» per Rorty ha a che fare con parole come «verità», «certezza», «fondamento», «senso o significato primo o ultimo». Alla religione intesa in questo modo, di fatto, Rorty finisce col sostituire una «religione», una «fede», in idee come la «democrazia», la «contingenza», lo «scetticismo», «il progresso sociale», la «solidarietà-senza-Dio».
Nel 2005, a 74 anni, Rorty scrive: «noi esseri umani non abbiamo obblighi morali se non quello di aiutarci vicendevolmente a soddisfare i nostri desideri» (Rorty 2005, p. 14). «Per quanto riguarda la democrazia sociale -nel senso che si dà a questa nozione negli Stati Uniti — credo che i suoi difensori, come Dewey, direbbero che essa non è di per sé un assoluto, ma semplicemente il mezzo migliore che siamo stati in grado di immaginare fino a questo momento per giungere alla massima felicità possibile per gli esseri umani» (Rorty 2005, p. 33).
5. Aspetti pedagogici del nichilismo rortyano
L’ambito pedagogico è un ambito nel quale si rendono particolarmente visibili le implicazioni pratiche delle filosofie sottostanti; la filosofia di Rorty non fa eccezione. Il pensiero di Rorty è stato oggetto di attenzione in ambito pedagogico almeno dagli anni Ottanta (cfr. p. es. Santoianni 2005, p. 1, con esplicito riferimento a Suppe 1982, Arcilla 1990, 1995, Neiman 1991, Hostetler 1992, Hare 1995, Martin 1993, Cambi 1995, 2002, Santoianni 1996). Qui Rorty è stato da alcuni accolto come un innovatore e un liberatore: la pedagogia troverebbe modo, «collocata tra pragmatismo e ermeneutica», di oltrepassare «quello statuto di ‘scienza regia’, votata alla e vocata dalla Verità (unica, stabile, imperativa)», «per assumere invece un «volto umano, postmetafisico», «senza fondamenti», «sottratta all’ipoteca della metafisica», «sottratto a ogni ottica di Dominio e di Potenza, di Unicità/Univocità e di Fondazionismo» (Cambi 2005, pp. vii-viii). Come pedagogia «anti-nichilista» (!) (Cambi 2005, p. viii), porrebbe «al centro la democrazia come struttura-basica delle società attuali» (Cambi 2005, p. ix).
Il valore pedagogico della filosofia di Rorty è stato visto nella critica di Rorty alla metafisica, all’epistemologica, alla tradizione filosofica e nella ricerca di un «nuovo modo di pensare» (Santoianni 2005, p. 5). Il nucleo pedagogico ruoterebbe intorno ad alcune categorie interpretative, come il concetto di contingenza, il concetto relativizzato di verità intesa come credenze «situate, condivise, confutabili e negoziabili» (Santoianni 2005, p. 8). Categorie chiave nell’interpretazione pedagogica sono stati il concetto di democrazia e di speranza sociale, ma anche di conversazione e narrazione, strettamente interrelati tra loro (cfr. Santoianni 2005, p. 9). Gli aspetti pedagogici di Rorty sono stati accostati alla psicopedagogia culturale Bruner degli anni Ottanta e Novanta; in particolare al Bruner del 1997 (cfr. Santoianni 2005, p. 9), come pure al Bruner del 1988 e del 1992 (cfr. ibid., pp. 41 ss.). In ogni caso, sono i concetti di contingenza, verità, democrazia e speranza sociale a costituire il presupposto teorico, il fondamento della pedagogia di Rorty (cfr. Santoianni 2005, p. 10).
Da una parte, Rorty apre la strada a una pedagogia in cui «non esiste una verità superiore, con la V maiuscola», e in cui «nessun sapere, d’altra parte, può essere considerato in grado di ‘illuminare’ la verità delle cose meglio di ogni altro, così come nessun vocabolario (cioè nessun linguaggio) può essere considerato migliore di un altro» (Santoianni 2005, p. 11); dall’altra parte questa stessa finisce con l’essere, di fatto, una verità superiore, con la V maiuscola. Il fondamento teorico, pragmatista, che starebbe alla base di questa posizione di pensiero sarebbe quello di James, secondo cui la verità sarebbe «ciò che ci è utile credere», e quello di Peirce, secondo cui «ogni differenza nella teoria deve fare una differenza nella pratica» (Santoianni 2005, p. 12). In questo modo Rorty cade in contraddizione, perché nel dire che qualcosa è utile e qualcosa non lo è, o che qualcosa è più utile di qualche altra cosa, è implicito un criterio di migliore e peggiore e un riferimento a un’idea di verità fondativa di tale criterio.
Sempre in quest’ambito pedagogico, Rorty è stato inoltre accolto nella sua interpretazione della pedagogia, e della vita, come romanzo: «nel romanzo si moltiplicano e si sommano i punti di vista, le modalità e le angolazioni descrittive, senza che alcuna prenda il sopravvento o sia considerata esaustiva, univoca, apodittica, risolutiva — il romanzo è al di là dei concetti di verità, e di realtà; senza che si supponga, anche per un momento, che esistano spiegazioni e schemi astorici sovraordinati, o una ‘natura umana’la cui comune essenza sia universale» (Santoianni 2005, p. 43). Nel romanzo «non sono le tipologie, le schematizzazioni, le assunzioni dogmatiche e le formulazioni assertive a caratterizzare un luogo, un ambiente, un fatto»; il romanzo è il migliore «approccio alla realtà» (Santoianni 2005, p. 43).
In pedagogia, come in filosofia, «l’ironico dubita, di se stesso, delle proprie convinzioni, del proprio senso esistenziale, non perché non possano essere validi, ma perché non tende ad assolutizzare, ed è alla continua ricerca di creazioni (e non di scoperte), di divergenze (e non di convergenze), di cambiamento. […] La riflessività ironica, in senso culturalista, concerne la comprensione soggettiva, e il continuo ripensamento, delle proprie opinioni, e credenze» (Santoianni 2005, p. 60). L’ironia «non dà garanzie, e si apre soltanto, continuamente, alla più assoluta libertà della espressione umana» (Santoianni 2005, p. 67). Si tratta di una filosofia «liberal», che «non ha altro scopo eccetto la libertà» (Santoianni 2005, p. 61).
6. La critica (1987-2008)
Subito dopo la morte di Rorty, avvenuta l’8 giugno 2007, sono stati scritti un po’in tutto il mondo articoli di ricordo su di lui, solitamente da parte di giornalisti e filosofi a vario titolo filo-rortyani. Questi articoli sono apparsi sia nelle principali testate nazionali che in riviste scientifiche specializzate. Ad oggi sono già stati pubblicati usciti, in lingua inglese, dei volumi biografici. Ai molti commenti entusiastici se ne sono fin dall’inizio affiancati altri più critici, prevalentemente ricollegati ai temi nichilistici presenti in Rorty. Le interpretazioni di Rorty come nichilista iniziano almeno a partire dagli anni Ottanta.
Nel 1987 Rorty viene definito da Larsen come nichilista sia per quanto riguarda la conoscenza delle verità (gnoseologia), che per quanto riguarda l’ordine dei valori (etica) e molte alter cose (p. es. metafisica, antropologia, politica) (Larsen 1987, p. 14, tr. it. mia). Il nichilismo in Rorty nega la possibilità di realtà e di conoscenze di tipo metafisico.
Nel 1991 Bhaskar osserva in Rorty la profonda contraddizione di questo nichilismo metafisco, che ricade in una «ontologia implicita» (implicit ontology), coperta da una parte in un positivismo e in uno strumentalismo, dall’altra in uno scetticismo da far risalire prima di tutto a Hume e a Hempel (Bhaskar 1991, p. viii). Da una parte Rorty, a parole, rifiuta qualsiasi ontologia; dall’altra, di fatto, finisce per crearsi un’ontologia della democrazia.
Nel 1993 Bernstein scrive che è la democrazia, progressista, pluralista, ugualitaria, unitamente all’idea di solidarietà e di cittadinanza, a costituire, per Rorty, l’«accordo fondamentale» (accord fondamental), l’«accordo sul fondo» (accord sur le fond), il «filo rosso» (fil rouge) (Bernstein 1993, p. 14, tr. it. mia). Secondo Bernstein, l’idea da cui parte Rorty è «non argomentata» (non argumentée), ed è da mettere in discussione che le idee a cui arriva possano contribuire a farci «diventare migliori cittadini» (à devenir de meilleurs citoyens) (Bernstein 1993, p. 21, tr. it. mia). Le posizioni di Rorty, per alcuni aspetti, sono state assimilate a quelle di Habermas. Bernstein rovescia quest’ottica, interpretando Rorty in contrapposizione ad Habermas proprio per il nichilismo che li separa. Rorty, nichilisticamente, si contrappone alla ricerca della verità, dell’oggettività, della razionalità, dell’universalità e della validità, tutti temi invece centrali in Habermas; per Habermas stesso, dal canto suo, tutto il pensiero di Rorty si riduce a contestualismo e relativismo (Bernstein 1993, p. 13).
Nel 1993 Massarenti paragona le «fedi» di Rorty, quella democratica e quella ironica, a «gusti che per definizione, proprio come i valori assoluti, non si discutono» (Massarenti 1993), a contraddire le posizioni nichiliste rortyane.
Nel 1996 Reich scrive che il modello filosofico di Rorty, e il suo uomo ideale, non è solo il filosofo, e l’uomo, democratico, ma è anche l’ironico, e che questa è una figura elitaria (cfr. p. es. Reich 1996), a indicare ilo carattere elitario del nichilismo rortyano.
Tra tutti i critici ostili a Rorty, per durezza e chiarezza espositiva si distingue una donna italiana, Irene Giurovich, particolarmente combattiva e severa nei confronti di Rorty in un testo del 2001:
Dietro il nichilismo liberale di Richard Rorty si nascondono progetti politico-culturali di natura autoritaria. Il fine del filosofo postmetafisico è proprio quello di eliminare le opinioni che divergono dalle proprie e di allontanare fisicamente quanti non accettano, in una presunta democrazia, il suo pensiero relativista. In quanto filosofo relativista, le idee di cui si fa portavoce ricalcano, seppur estremizzate, quelle del relativismo antico: inesistenza di una natura umana, inconcepibilità di valori oggettivi, assenza della verità. […] Una società tanto più apparentemente laica e liberale quanto più concretamente dittatoriale. Infatti chi non si accoda al pensiero debole dei postmetafisici non solo è bollato come pazzo, ma non ha neanche il diritto di chiamarsi cittadino di una democrazia liberale. […] La società rortiana non può che trasformarsi in una eterna guerra di tutti contro tutti, [… uno] scontro libero e aperto» […] . Una società «liberale» solidale con il pensiero dominante […] . Sorge il fondato sospetto che l’analisi rortiana poggi sulla concezione di un uomo inesistente, astorico (Giurovich 2001).
Nel 2002 Geuras scrive, del pensiero di Rorty, che «è irrazionale e cade sul suo proprio peso […] in un’inconsistenza evidente», che le sue tesi «sono incapaci di stare in piedi da sole», così che tutto il sistema rortyano «si autodistrugge», in una completa, radicale «auto-distruzione» (Geuras 2002, tr. it. mia).
Nel 2003 Williams vede di cattivo occhio Rorty per il suo nichilismo: se «niente è assolutamente certo», se «perfino le vie più profondamente consolidate possono essere rigettate o abbandonate», se non c’è altro che «un dubbio radicale e continuo», e se tutto questo alla fin fine si fa «eco dell’antico scetticismo pirroniano», allora noi siamo paralizzati nella capacità di giudizio (Williams 2003, p. 76, tr. it. mia). Sempre Williams riporta indietro Rorty, nella sua ironia, allo scetticismo di Pirrone e di Agrippa (cfr. Williams 2003, p. 77).
Sempre nel 2003, da Rouse, di Rorty viene messa in evidenza «l’idea che le scienze procurano un modello per una libera comunità democratica», accostandola a quella di Conant 1947, Popper 1962, Merton 1973 e Feyerabend 1978 (Rouse 2003, p. 93, tr. it. mia; per il riferimento a Conant, Popper, Merton e Feyerabend, cfr. Rouse 2003, p. 103, nota 10); ma tutto il pensiero di Rorty, nel suo insieme e nelle sue parti, viene visto come più simile al discorso della fantasia che a quello della razionalità, come poetico e non argomentativo (more akin to poetry than calculation) (Rouse 2003, p. 96). Nel 2003 anche Rockwell denuncia le contraddizioni in cui cade il tentativo nichilistico di Rorty di buttare a mare l’epistemologia (cfr. p. es. Rockwell 2003, p. 6).
Nel 2007 Palacio insiste sul carattere di indimostrabilità delle tesi rortyane, che finiscono col risolversi in un credo etico-politico assolutamente dogmatico: «Per un liberale come Rorty, tutto il progetto politico si inquadra nella difesa della libertà, e questa difesa è quella che rende possibile occuparsi della giustizia» (Palacio 2007, p. 6, tr. it. mia). Rorty vorrebbe «difendere la libertà» e «garantire il superamento delle ingiustizia» (Palacio 2007, p. 9, tr. it. mia), «però non c’è modo di dubitare della democrazia né del liberalismo. Questo è un nostro presupposto di base, ed è questo il limite del nostro linguaggio, dal quale non possiamo venirne fuori» (Palacio 2007, p. 13, tr. it. mia).
Nel 2007 Habermas, che per la prima volta aveva conosciuto Rorty nel 1974 ad un convegno su Heidegger a San Diego (Habermas 2007b), aperta con una videoconferenza di Marcuse, contrappone all’ateismo nichilistico di Rorty, dissacrante, un’idea etica politica religiosa, che fa dei concetti di libertà e di democrazia qualcosa di sacro. Scrive: da una parte, «niente è sacro per Rorty l’ironico, […] l’ateo», dall’altra parte Rorty vorrebbe «riconciliare la paradisiaca bellezza delle orchidee con il sogno trotsckyano di giustizia sulla terra» (Habermas 2007, tr. it. mia); vale a dire che il sogno paradisiaco di Rorty sacralizza le idee di libertà e di democrazia, fondando la filosofia sull’assoluto della democrazia, e la teoria sull’assoluto della tecnologia (cfr. Habermas 2007b, tr. it. mia). Questo implica che niente è sacro fuorché la libertà, la democrazia e i progressi nelle applicazioni tecniche. Così ci sono forme socio-politiche sacre, assolute, indiscutibili: quelle democratiche e liberali; e valori etico-morali altrettanto sacri, assoluti, indiscutibili: quelli della libertà individuale e dell’utile, dell’utilizzabile, del misurabile in termini di utilità. Ma libertà di chi? Libertà da chi? Utilità a chi? A cosa? In contrapposizione a cosa? Alle inutilità degli altri?
Nel 2008 Vattimo osserva che per Rorty «il pragmatismo non significava soltanto ‘è vero ciò che funziona’, ma anche ‘noi siamo al mondo non per guardare come sono le cose ma per produrre, per fare, per trasformare la realtà’» (Vattimo 2008, p. 11). Vattimo scrive: «Riassumerei i discorsi rortyani […] dicendo che nel Novecento la filosofia è passata dall’idea di verità all’idea di carità: il valore supremo non è la verità come descrizione oggettiva, il valore supremo è l’accordo con gli altri» (Vattimo 2008, p. 12).
7. Conclusioni: un nichilismo contraddittorio
Da un punto di osservazione psicologico, è possibile ipotizzare che il pensiero nichilistico di Rorty abbia alla base alcuni atteggiamenti e bisogni nevrotici: un bisogno nevrotico di potere, inteso come «fondamentale mancanza di rispetto verso gli altri», desiderio di «controllare gli altri per mezzo dello sfruttamento intellettuale e della loro superiorità» (definizione di Horney 1942 in Hall-Ginzey, ed. it. 1986, p. 184), oppure un bisogno nevrotico di riconoscimento sociale e prestigio, oppure un bisogno nevrotico di ammirazione della propria personalità, oppure un bisogno nevrotico di prodezze; ma soprattutto un bisogno nevrotico di perfezione e di inattaccabilità, tipico della persona «timorosa di sbagliare e di essere oggetto di critiche, la persona che ha tale bisogno cerca di rendersi irreprensibile e infallibile» (ibid., p. 185). Tutti questi bisogni nevrotici potrebbero rientrare in un bisogno d’indipendenza e in un bisogno di potere (ibid., p. 185).
In particolare, l’ateismo nichilistico dichiarato da Rorty potrebbe accostarsi a quello che è stato chiamato «ateismo nevrotico», conscio, inconscio o semiconscio (Raab 1993; cfr. Dacquino 1984, in part. pp. 174, 176), nel senso che potrebbe nascere da un transfert negativo, da una rabbia di transfert (conscia, semiconscia o inconscia) contro figure parentali o di autorità, avrebbe cioè alla radice problemi di identificazione negativa con figure parentali o comunque autoritarie. Più facile è ipotizzare che un ateismo nichilistico «nevrotico» di questo tipo sia stato acquisito non tanto da Rorty in prima persona, quanto piuttosto dai suoi genitori, e poi trasmesso da questi al figlio, che l’avrebbe semplicemente assimilato in modo acritico e passivo. Ma queste sono solo ipotesi sulle motivazioni psicologiche che hanno spinto Rorty a fare filosofia e a farla in un certo modo.
Per quanto riguarda il suo pensiero, gli scritti di Rorty, che fino ad oggi sono stati letti quasi esclusivamente attraverso le categorie del pragmatismo, in realtà possono essere letti anche, e forse più profondamente, attraverso le categorie del nichilismo (gnoseologico, metafisico, etico e politico); alcuni, anche se pochi, hanno aperto questa linea interpretativa, sia in senso nichilista (cfr. p. es. Larsen 1987, p. 14), sia in senso antinichilista (cfr. p. es. Cambi 2005, p. viii);.
Interpretando gli scritti di Rorty nella prospettiva del nichilismo è possibile vederne l’unitarietà e la linearità dai primi agli ultimi scritti. Questo tipo di interpretazione permette facilmente una critica di fondo alle tesi di Rorty, evidenziando la contraddittorietà tra la dichiarata mancanza di assoluti (di verità, di certezze, di fondamenti) e la fede, di fatto, in valori etico-politici assoluti (veri, certi, fondamentali), a partire da quelli delle libertà individuali, della democrazia e della solidarietà atee.
Certamente anche per la fede cattolica la libertà è un presupposto essenziale della moralità delle azioni umane e di quanto ne segue, nel bene e nel male (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, (1992), 1730-1738). Tuttavia per tutta una tradizione autorevole della Chiesa, la persona è considerata libera non per essenza, ma per partecipazione (cfr. p. es. S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II, q. 10, a. 4; Forment 1997, p. 255).
Rorty, da una parte assolutizzandola e dall’altra rigettandone la trascendenza, finisce di fatto col legittimare quell’eccesso della libertà che è l’anarchia, già ben rappresentata dalla figura di Prometeo (cfr. p. es. Díaz 1997, p. 81; ma anche Díaz 1975a, 1975b, 1976 e 1980), e che corrisponde alla superbia, alla presunzione, all’arroganza, alla vanità, all’edonismo (cfr. Catech. C. Catt., 1739-40). Nel tipo di libertà assoluta e indipendenza totale sostenuto da Rorty è possibile vedere un vizio di accidia, inteso come «disgusto delle cose di Dio», «odio o indifferenza del sacro» (cfr. p. es. Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 35, aa. 1-2; De Malo, q. 11, aa. 1-2). L’ironia stessa, atteggiamento fondamentale di Rorty, e tesi di fondo nei suoi scritti, è stata ritenuta peccato da San Tommaso (cfr. S. Th., II-II, q. 113), e in qualche modo assimilata alla bugia (cfr. ibid., q. 110) , alla simulazione e all’ipocrisia (cfr. ibid. q. 111), all’ostentazione (cfr. ibid., q. 112).
All’assoluto metafisico, in Rorty, si sostituisce, di fatto, un assolutismo tecnico (cfr. p. es. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, 2009, cap. vi, nn. 68-77), l’assoluto di una particolare tecnica di governo politico, quello democratico, e un assolutismo etico, di una particolare condizione dell’uomo, quella della libertà. In Rorty, l’assolutismo della metafisica viene, di fatto, sostituito con l’assolutismo della tecnica, intesa come forma fondamentale dell’apparire, come nascondimento e assolutizzazione del fenomeno (cfr. p. es. Heidegger), ma anche come quell’atteggiamento centrato sull’uomo (sull’autonomia, l’autosufficienza e l’iniziativa dell’uomo) e come quella fede nel progresso che sono propri dell’illuminismo greco (Protagora, Democrito, ecc.). Per Rorty la stessa idea di solidarietà si riduce a convivenza pacifica senza riferimento a nessun assoluto, mettendo a fondamento un convenzionalismo tale da mettere in discussione tutto, anche il principio del miglior argomento (cfr. p. es. Habermas, Apel).
Alla base di tutto il pensiero rortyano, fin dai primi scritti, è chiarissima un’idea della democrazia che, oltre a rimanere in Rorty un concetto vago e generico in sé né buono né cattivo (cfr. p. es. López-López 1996 e 1997), in realtà è un sogno mai realizzato e mai realizzabile. Questa fede nella democrazia è fondata su un presupposto antropologico estremamente ottimistico e inverosimile, cioè che il mondo possa veramente trovare forme di convivenza solidali soddisfacenti senza aperture alla trascendenza, senza la presenza e l’intervento della grazia, senza il coinvolgimento del soprannaturale, senza verità.
Gli uomini non sono angeli (non possono esserlo), e questo mondo non è un paradiso (non può esserlo), per cui non si riesce a capire come possa essere costruito un regno umano veramente libero, solidale e buono (cioè di fatto angelico, paradisiaco) sulla terra laddove, tolto Dio, resta solo il lupus est homo homini di Plauto (Asinaria, v. 495), il bellum omnium contra omnes, la war of all against all, l’every man is enemy to every man di Hobbes (1642, De Cive, 1. 12; 1651, Leviathan, 1. 13). Non si riesce a capire su cosa possano fondarsi le libertà e le solidarietà, individuali e sociali, tanto meno come possano esserci pur rimanendo infondate, prive di fondamenti. D’altra parte Rorty, nel suo desiderio di un mondo migliore, un regno umano delle libertà e delle solidarietà, è coerente con il suo professato ateismo. La giustizia, e la solidarietà, dell’uomo che non si apre alla relazione con Dio, sono infinitamente meno della misericordia, e dell’amore, di Dio partecipato all’uomo.
Posto che la grazia non annulla la natura, ma la suppone e la perfeziona (cfr. p. es. S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 1, a. 8, 2um; q. 2, a. 2, 1um; II-II, q. 26, a. 9, ob. 2); la carità di Cristo è tutt’altra cosa che la solidarietà dell’uomo (cfr. p. es. Maceiras 1997, p. 29), non è «al servizio di servizio di strategie mondane» (Benedetto XVI, Deus Caritas Est, 2006, ii parte, n. 31b), per cui oggi anche i cristiani, conformemente alla propria fede in Cristo, «non devono ispirarsi alle ideologie del miglioramento del mondo» (ibid., 33). Dire che all’uomo può bastare una libertà, una solidarietà senza assoluti, senza verità, senza fondamenti, senza principi, senza origini prime e senza fini ultimi, senza la presenza, l’azione, l’amicizia di Dio, è come dire che l’uomo può vivere tranquillamente «di solo pane» (Mt 4, 4; cfr. Dt 8, 3). È esattamente questa una delle tentazioni di Satana a Gesù nel deserto, il Satana che si presenta come umanitario e umanista nell’offrire all’uomo tutto il bene del mondo, nel mondo.
In questo modo «la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell’uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero ‘regno di dio’» (Benedetto XVI, Spe Salvi, 2007, n. 59). «Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza» (ibid., n. 42; cfr. n. 44), sia perché «solo Dio può creare giustizia» (ibid., n. 44), sia perché all’uomo «può bastargli solo qualcosa di infinito» (ibid., n. 30). Il nichilismo, negando l’assoluto, l’infinito, finisce col negare anche il finito, negando Dio, finisce col negare anche l’uomo, a svuotarlo di ogni traccia di mistero, di soprannaturale, di divino, a ridurlo a una cosa della natura, o tutt’al più a un animale politico. L’uomo non più come immagine di Dio, non più come cosa molto, molto buona, ma come semplice «cosa» senza un perché particolare, incapace di una condizione esistenziale (metafisica) e di atti (conoscitivi, etici, politici) propriamente umani.
Forse il pensiero di Rorty, nelle sue profonde contraddittorietà e insufficienze, è espressione del limite della condizione umana e delle sue possibilità conoscitive. Limite che si apre sul mistero della realtà umana e del mondo. Limite che si fa porta aperta alla grazia di Dio. Limite che al tempo stesso, sotto un aspetto separa il finito dall’infinito, ci mantiene in atteggiamento di radicale umiltà, povertà nel nostro status creaturale (cfr. p. es. San Bonaventura, Quaestio de humilitate, ad 1, ed. Quaracchi, Firenze, vol. v, p. 122, cfr. ib., viii, p. 658); sotto un altro aspetto, rende possibile che il finito si unisca all’infinito, che l’uomo si faccia partecipe dell’amore di Dio e lo comunichi.
Tutto sommato, per quanto il pensiero di Rorty sia stato visto da molti come originale, non è originale. Come è stato notato da alcuni (cfr. p. es. Williams 2003, p. 77), tutto il pensiero di Rorty può esser fatto risalire allo scetticismo orientale attraverso le sue versioni greche tra il iv e il iii sec. a. C. Pirrone, com’è noto, più giovane di Aristotele di una ventina d’anni, era vissuto tra il 365 e il 275 a. C., dal 334 al 324 aveva preso parte alla spedizione di Alessandro in Oriente, fino all’India, e aveva probabilmente importato il suo pensiero dall’India e dalla Persia (cfr. p. es. Brunschwig 1996b, p. 535; Donini 2005, p. 256). Lo scetticismo indiano e persiano ripreso in Grecia, in forme di radicalizzazione di atteggiamenti socratici e democritei, metteva in dubbio la possibilità stessa della conoscenza delle cose nella loro vera natura, nel loro lato nascosto (le conoscenze come dogmata). Lo scopo di Pirrone, nell’astensione da ogni asserzione (aphasia) e nella sospensione di ogni giudizio (epoche), era «un progetto di felicità», «una ricetta infallibile per la felicità», una «tranquillità sovrumana» (Brunschwig 1996, ed. it. p. 202), «l’ataraxia, cioè l’assenza totale del turbamento e dell’inquietudine che causano l’infelicità dell’uomo» (Brunschwig 1996, ed. it. p. 204), ma anche l’insensibilità (apatheia) (cfr. ad es. Brunschwig 1996b, ed. it. p. 533). In effetti, anche a Rorty quello che interessa, attraverso la sua filosofia, è il progetto di una felicità, individuale e sociale, non sostanzialmente differente da quella di Pirrone e, in generale, degli scettici antichi: una felicità che, alla fin fine, «cercava di annullare il desiderio» (Canto-Sperber 1996, p. 133). In questo modo, non è difficile concludere che l’intero pensiero nichilista di Rorty, come quello di tutti i nichilisti, potrebbe finire col coincidere, alla fin fine, con uno scetticismo tutt’altro che nuovo (cfr. p. es. Weischedel 1971).
8. Bibliografia
Letteratura primaria
- Rorty R.
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