Ferdinand Ebner, Proviamo a guardare al futuro, a cura di Nunzio Bombaci, Morcelliana, Brescia 2009
Versuch eines Ausblicks in die Zukunft è l’appello che Ferdinand Ebner rivolge ai lettori dei suoi Fragmente nell’autunno del 1929 e che Nunzio Bombaci propone nella presente edizione italiana, accompagnata da una prefazione di Silvano Zucal. Nel decennio successivo all’edizione dei Fragmente l’autore «non si è sottratto all’esame di quanto era confuso e impacciato», confrontandosi sia con gli esponenti del pensiero dialogico — su tutti, Buber e Rosenzweig — sia con biologi, psicologi, fisici e sociologi. Proviamo a guardare al futuro è stata allora l’occasione per coagulare le riflessioni e le suggestioni che questi studi gli offrirono in un «libro del tutto nuovo», in cui ha affrontato il “rischio” di immergersi nell’universo delle scienze e della Scrittura, fino alla politica e alla storia della Chiesa.
Il libro muove difatti da una attenta analisi di quella «bancarotta culturale e morale dell’uomo europeo», la guerra, che sembra condurre l’Europa verso la propria ultima spiaggia. La stessa Chiesa oggi «abusa dei poteri spirituali» e intrattiene relazioni di “scambio” con il capitalismo più conservatore; inoltre neanche l’attuale socialismo, definito del cervello e dello stomaco, riesce a esser luce per questa terra, che invano attende un autentico socialismo del cuore e dello spirito. L’appello di Ebner invita a tenere gli occhi ben aperti su questa Chiesa, sempre lontana dal vero messaggio, per riuscire ad attingere autenticamente al luogo della Verità e della Libertà: il Vangelo. A partire da Giovanni l’Evangelista, la Chiesa e la Cristianità hanno da sempre interpretato il Vangelo, dando così vita a un insieme di dottrine e teologie che sono totalmente inutili poiché provano a «spremere l’esistenza di Dio dalla ragione dell’uomo». Ma per Ebner il nostro tempo porta con sé una grossa novità: ora infatti siamo finalmente pronti a scovare nel Vangelo la Parola di Cristo, che è essenzialmente anti-clericale e anti-romana. L’orecchio del lettore che recepisce l’eu-angelion non deve ora limitarsi alle vicende narrate, ma è necessario che — appunto — ne “ascolti” la Parola, volgendosi alla Wirklichkeit del Cristo: «Lasciamo tuttavia che il nostro sguardo […] si soffermi su quella vita, nella sua umanità, e allora scorgeremo ad un tratto qualcosa di singolare, qualcosa di veramente meraviglioso, nientemeno che il prodigio spirituale: dalla vita e dalla parola di Gesù si irradia verso di noi una luce che non vedevamo, né potevamo vedere, finché guardavamo il Cristo della Chiesa».
La verità è veicolata nel Vangelo, nel Discorso della montagna, dove la testimonianza dello Spirito si manifesta in Cristo, in cui la vita e la Parola «erano una cosa sola». I filosofi si sono spesso avvicinati alla Parola e alcuni ne hanno riconosciuto il mistero: essa per un verso è a disposizione dell’uomo, eppure, d’altro canto, rimanda alla propria Origine, la quale è trascendente (Hamann) e inaccessibile. Perché la Parola — ammonisce Ebner — viene da Dio. Il mistero della Parola, patrimonio enigmatico di ogni uomo, è conseguentemente «da pensare metaforicamente e metafisicamente»: la sua Origine rimanda al di fuori dell’uomo proprio perché il linguaggio è intimamente legato con l’uomo stesso. Se dunque la Parola diviene il luogo della verità, allora il mistero del linguaggio, per un verso così umano e per l’altro così proiettato verso una origine inattingibile, è la questio fondamentale, la domanda decisiva per intendere l’uomo e proiettarsi verso Dio. Lo stesso Grimm, alle prese con il problema dell’Origine, è costretto a guardare al linguaggio come a un qualcosa di propriamente umano, il cui presupposto è l’uomo con la sua libertà e singolarità. Il linguaggio difatti né può essere rivelato, perché altrimenti saremmo costretti a presupporre una divinità “altra”, né può esser un qualcosa di totalmente naturale, poiché altrimenti sarebbe sono una funzione che viene a esercitarsi, una potenzialità che viene in atto, inghiottendo così ogni idea di libertà.
Per Grimm l’origine del linguaggio rimanda inevitabilmente al problema dell’origine dell’uomo; Ebner rinforza questo esito sottolineando come a questo punto la ricerca non possa non incontrare il prologo del Vangelo di Giovanni e il testo del Genesi, nei quali il miracolo del linguaggio è il miracolo della creazione. L’uomo originario, unito a Dio, viveva nell’apertura dell’Io dinanzi al Tu, nella luce della Parola che era al Principio. C’è stato un momento in cui l’Io ha voltato le spalle e l’iità è divenuta Icheinsamkeit. Questo è il peccato originale. Dopo il peccato, il distacco da Dio, l’uomo iniziò a sognarlo, chiuso tra le mura della propria Icheinsamkeit e allora presso di lui si realizzò la frattura tra la propria spiritualità e l’umanità; la filosofia è figlia di questa frattura e non stupisce come essa abbia frainteso il linguaggio e la vita poiché ha confuso l’essere personale con la sostanza. «Dio o ha un’esistenza personale oppure non esiste assolutamente»; la filosofia pensa “alla terza persona”, sostanzializza e oggettivizza.
Nelle pagine di Versuch eines Ausblicks in die Zukunft Ebner tuona contro la “filosofia dell’Io” che «non si cura del fatto che “io sono”». Il linguaggio è difatti da intendere sempre tra due o più uomini, tra un Io e un Tu: la parola presuppone e produce una relazione e attingere al mistero del linguaggio significa pensare la relazione tra l’Io e il Tu. Nel linguaggio Ebner rinviene così una vera e propria grammatica della asserzione esistenziale, necessaria per comprendere come riuscire a far cenno a quel Tu originario, che ha chiamato l’uomo al momento della creazione e che nel Vangelo continuamente ritorna. D’altronde nell’utilizzo stesso della lingua è possibile rinvenire tutti quegli errori e quelle falsificazioni che la filosofia ha generato: «Si potrebbe dire che wesen sia il verbo tipico per l’asserzione esistenziale e di realtà platonico-idealistica, e sein per quella spinoziano-sostanzialistica. Ma la filosofia, sia essa platonismo o spinozismo, non comprende mai la realtà spirituale della vita che viene affermata, o afferma se stessa, nel verbo bin, bist». L’umanità deve comprendere che «Dio non è, ma Tu sei»: solo così potrà uscire dal “sogno dello Spirito”. L’uomo deve comprendere che attraverso la Parola, egli può rischiarare l’origine, solo come segno e mai com-prendendo veramente, perché la creazione è propriamente l’inconcepibile.
La conoscenza-possibile della Parola è conoscenza di Dio: realizzarla “soggettivamente” significa uscire dalle mura che ci chiudono nell’Icheinsamkeit e abbandonarci all’amore verso il Tu, quello stesso amore di cui parla Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. Proviamo a guardare al futuro è allora un appello a recuperare quel rapporto personale con il Tu divino che non può esser pensato con la filosofia ma piuttosto può esser approssimato accedendo alla Wirklichkeit del Cristo, stando in ascolto di quella “Persona che parla”, Jahweh, la cui «realtà effettiva è data all’uomo soltanto nell’aprirsi del suo Io al Tu».