1. Cristo: logo che si fa dialogo
Racconta la Genesi come tutto abbia inizio per una parola di Dio: Dio dice e la sua parola fa essere, genera nell’istante in cui parla; la parola creatrice di Dio è logos assoluto, in quanto pensa, esprime e fa essere al tempo stesso ciò che pensa e esprime parlando.
Non c’è mediazione temporale fra il pensiero di Dio e il farsi delle cose che non sia l’istante della parola: in essa e con essa le cose nascono, hanno funzione, si attuano poco per volta in quella che sarà la loro realtà d’insieme interagente.
Ma se la parola è il mediatore im-mediato fra Dio e il creato, fra i due soggetti si crea fin dal primo istante la divaricazione, l’allontanamento come differenza ontologica: la Bibbia stessa si apre con le parole «in principio Dio creò il cielo e la terra. Il mondo era vuoto e lo spirito di Dio aleggiava» (Gn 1, 1-2); il cielo e la terra sono il simbolo dell’opposizione primigenia su cui agisce la creazione, lo spirito è il divaricatore che si muove nello spazio aperto da lui stesso.
Le prime basi su cui Dio stabilisce il creato e il suo rapporto con esso sono quindi l’alterità (dia) ontologica e la mediazione Creatore — creatura attraverso la parola (logos); come a dire: il primo soffio di Dio nel silenzio sconfinato dell’inizio è già dia-logo.
Lo scarto assoluto della separazione che la trascendenza presuppone trova la sua migliore espressione nel termine di creazione in cui, nello stesso tempo, viene affermata la parentela degli esseri fra di loro, ma anche la loro eterogeneità radicale, la loro esteriorità reciproca a partire dal nulla.1
Il dialogo della creazione si pone nella prospettiva aperta della levinasiana relazione senza relazione: è infatti in tale paradossale dimensione che identità e differenza si concretano vicendevolmente, costituendosi ognuna sull’ imporsi e sottrarsi dell’altra, in un afflato pneumatico sempre affacciato sull’abisso.
L’identità che nasce dalla differenza originale acquista senso nella parola fondante e attraverso la parola si crea il movimento dia-logico fra Creatore e creatura all’interno della differenza ontologica; ancora con le parole di Emmanuel Levinas:
Il rapporto del linguaggio presuppone la trascendenza, la separazione radicale, l’estraneità degli interlocutori, la rivelazione dell’Altro a me.2
Nella creazione la parola di Dio, il verbo originario, Cristo, diventa ente cosale, il verbo si fa carne sin dalla fondazione del mondo; attraverso Cristo compare l’altro-da-sé di Dio, e Cristo è fulcro del movimento assieme unificante e aprente della relazione fra Dio e tale altro.
Cristo è il logos, la parola che, detta, si compie, si fa cosa vivente; Cristo è ancor più dia-logo su cui si innesta la relazione creatrice/rivelatrice fra Dio e l’essere creato, l’uomo.
Egli congiunge in sé la lacerazione, ma è anche Colui che mantiene aperta la differenza affinché in essa ci possa essere movimento, relazione, e tale movimento è Lui stesso.
Nella rivelazione, il Dio che si fa uomo è già dia-logo sin dalla creazione; non c’è prima un soliloquio (logos) di Dio e poi un’apertura del discorso (dialogo) all’uomo: in Cristo la parola della creazione e quella della rivelazione sono un unico logos che si apre alla diversità e si relaziona con essa, in un dialogo continuo.
Detto altrimenti, con l’aforisma che Ferdinand Ebner usa in Parola e amore,
mediante la parola di Dio in senso «trascendente» tutto è creato, mediante la parola di Dio in senso «umano» — cioè mediante la parola di Gesù — la relazione originaria dell’uomo a Dio è stata ripristinata. Questa è uscita da quella che era «in principio» e ritorna alla sua fonte. Ma la «parola» — intesa in senso trascendente o in senso umano — è la «relazione dell’Io al Tu».3
Se Cristo è il logos attraverso cui Dio crea tutte le cose e Cristo, anche se Figlio, è tutt’uno con Dio Padre, non è allora possibile separare la parola dal soggetto parlante; il Dio che crea è il Dio che si rivela, attraverso la parola, in un altro-da-sé, che egli si pone davanti come un’identità diversa: è il Dio che, attraverso il logos, si mette in dialogo con l’altro-da-sé, in primis la creatura uomo.
Il dia-logo è la dimensione ontologica in cui Dio pone il suo rapporto con il creato; tale dimensione relativa e rivelativa diventa meta-etica attraverso l’incarnazione di Cristo, il logos che è già dia-logo nella creazione e che ancor più concretizza tale identità di relazione nel suo farsi uomo, parlando parole di uomo.
In questa maniera li Prologo del Vangelo di Giovanni assume il carattere del movimento bidirezionale insito tanto nella creazione quanto nella rivelazione: In principio era il dialogo, e il dialogo era presso Dio e il dialogo era Dio… il dialogo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Fondamento ontologico e dimensione meta-etica si con-fondono in Cristo, parola di Dio per e fra gli uomini; in Lui la parola di Dio e le parole degli uomini risuonano insieme, pur restando separate: Egli è il dialogo in essenza, spazio, centro e movimento del rapporto fra i diversi linguaggi di Dio e della creatura.
In quest’ottica il dialogo interumano (dimensione meta-etica) ha valore di senso nel fondamento ontologico della relazione fra Dio e l’uomo in Cristo, il che comporta che l’uomo dialogante con altri è in Cristo, essendo Egli fulcro del dialogo fra Dio e uomo e quindi fra uomo e uomo; perciò chi dialoga pone il suo rapporto personale con altri all’interno della relazione che Dio intrattiene con l’uomo.
È il principio biunivoco di cui parla Martin Buber nel suo saggio Distanza originaria e relazione:
la prospettiva in base alla quale il principio dell’essere uomo non è semplice, ma doppio, si costituisce in un doppio movimento, in modo tale che un movimento è il presupposto dell’altro. Chiamo il primo movimento distanziarsi originario, il secondo entrare-in-relazione. Che il primo sia presupposto del secondo dipende dal fatto che si può entrare in relazione solo con un esistente distanziato, o meglio: con uno che è diventato autonomo star di fronte. […] Il principio dell’essere uomo, una volta conosciuto, ci offre in modo tangibile la comprensione del rendere presenza nel suo significato ontologico. All’interno del distanziamento e dell’autonomizzazione del mondo, e tuttavia anche essenzialmente al di là di esso, è il distanziamento e l’autonomizzazione dell’uomo: gli altri.4
Cristo è la parola che Dio dice per indicare l’esistenza delle cose: «per mezzo di Lui tutte le cose sono state create»; Cristo è lo strumento che Dio usa per creare qualcosa di diverso da sé, in Lui avviene la differenziazione, Egli è il mezzo attraverso cui Dio compie l’altro-da-sé.
Ciò che avverrà pienamente nella rivelazione, accade in origine nella creazione: Dio fa l’altro-da-sé tramite quell’altro-da-sé che è Cristo, pur rimanendo Egli il Figlio consustanziale al Padre.
Dio Padre e Cristo, parlante e parola, sono tutt’uno sin dall’origine, ma in un dato momento Dio decide di aprire la distanza, facendo essere qualcos’altro; l’impulso di questa distanziazione non può essere che un dire «sia fatto» e il veicolo dell’alterazione sarà allora la parola, il dire stesso.
La parola rende allora attuale l’alterazione, crea la differenza, essa è lo spazio aperto e il movimento riempiente: di conseguenza, le cose stesse, mosse originalmente dal dire di Dio, sono impregnate di parola.
Gli enti cosali, e fra essi l’uomo come culmine della creazione, sono fatti di parola, hanno un nome che li fa essere qualcosa; l’uomo ha fra essi maggiore dignità, ma anche altrettanta responsabilità, in quanto egli ha il compito di «imporre il nome a tutte le cose» (Gn 2, 19-20), ma il suo nome è detto da Dio, e il suo nome (Adamo) non è altro che ciò di cui è fatto (terra e spirito).
Anche Ebner parla di questo innervarsi dell’essere nella parola:
l’uomo ha la parola, e che cos’altro ha nella parola? Anzitutto anche la luce che gli fa percepire che il «miracolo della lingua» coincide col «miracolo della creazione»: nel Logos, di cui parla il Vangelo di Giovanni. Perché il Logos non è soltanto la premessa spirituale della lingua ma, nell’intenzione profonda dell’evangelista, la premessa e la «posizione» dell’essere.5
Dio crea l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gn 1, 27), ma si tratta di un’immagine spirituale, laddove lo spirito è il movimento divino animato e presente in ogni relazione in cui Dio è coinvolto. Chiarisce ancora Ebner:
ma che cosa è «lo spirituale»? È il «medium», il «tra» (zwischen) che la parola costituisce. È il divino previamente donato da Dio all’uomo con la parola, grazie al quale l’uomo, in partecipazione con-creativa, può vivere nella realtà effettiva dell’amore di Dio e del prossimo.6
Nell’uomo il Creatore immette il suo spirito, costituisce l’uomo come essere movimentato nel rapporto, non chiuso in se stesso, tant’è vero che Egli stesso afferma: «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2, 18).
Il carattere di Wort haben («avere la parola») che contrassegna l’uomo come natura relazionale, costitutivamente concepita entro l’orizzonte ontologico della «dualità originaria dell’esistenza», deriva dunque da quel logos che fonda la reciprocità delle realtà spirituali Io-Tu. Il Logos è infatti «premessa» e «posizione» del rapporto dell’Io con il Tu. Esso si fa così paradigma di riferimento di ogni evento autenticamente dialogico. Il Logos divino infatti, in un processo di gratuita autocomunicazione che trova una propria giustificazione solo alla luce della libertà e dell’amore, esce dall’alveo inaccessibile della propria trascendenza ed aseità e si immerge nella contingenza del finito. […] il Logos si presenta così al mondo come medium di relazionalità, inaugurando una nuova modalità di comunicazione di Dio con l’uomo e degli uomini tra di loro. […] Il Logos che era in principio si pronuncia dunque in senso creante e, nell’attualità del suo venir espresso, origina l’essere come realtà personale e come evento di relazione. Quello stesso Logos che si pone quale presupposto dell’essere è infatti insieme anche parola fondativa del rapporto Io-Tu, è Logos-«tra». Dio è parola, ma — proprio in quanto parola — Dio è pure dialogo (dia-Logos) e relazione. L’incipit del Prologo viene quindi così parafrasato da Ebner: «In principio era “il rapporto dell’Io al Tu”, e questo rapporto era Dio e Dio era “il rapporto dell’Io al Tu”». Tale glossa ebneriana del Prologo giovanneo orienta a considerare la priorità originaria della dimensione relazionale insita dentro lo stesso Logos: il rapporto Io-Tu è realtà archetipa, antecedente la sussistenza dell’Io, il quale non si dà appunto se non dentro tale rapporto che è proprio della «vita dello spirito». Dio è Logos e dia-Logos, e tale realtà divina determina lo stimma della realtà umana.7
L’uomo viene costituito come essere relazionale, dialogico perché fondato come logos dal Logos di Dio, dialogante con lui.
2. Il simbolo del dialogo
In tale dinamica, Cristo, dia-logo in essenza in quanto Dio che si fa uomo e uomo che è Dio, mediatore unico fra creazione e rivelazione, è simbolo fondante, unificazione aperta dei due opposti uomo-Dio; il dialogo infatti altro non è che un simboleggiare continuo e un’interpretazione ininterrotta, perché fondata in un’apertura trascendente che la costituisce come movimento pneumatico all’interno di una diversità originaria, determinata ontologicamente fra uomo e Dio, esistenzialmente fra uomo e uomo.
La relazione dialogica, quindi, va intesa come differenza di identità e l’identità come relazione di differenti logoi, concetti, sensazioni, azioni espressi in parole da dire all’altro e da ascoltare.
Cristo è il simbolo assoluto, il dialogo originario e fondante il senso di ogni dialogo interumano. Egli stesso afferma: «dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20); se qualcuno assume la responsabilità del dialogo quotidiano con qualcun’altro, fra loro ci sono Io, che sono il dialogo stesso.
Su questa certezza, che sembra una tautologia, si costituisce il senso del nostro relazionarci: il dialogo vale per se stesso, non ha bisogno di connotazioni valoriali per darsi significato specifico, così come a Cristo non serve alcuna giustificazione, il suo paradossale mediare nell’insanabile divisione resta al di là di ogni misticismo e secolarizzazione, il suo essere simbolo non si esaurisce in un qualche logos, ma si movimenta ancora verso l’alterità, innervato com’è dalla differenza che lo costituisce.
È infatti l’essenza stessa del simbolo il suo essere paradossale: contrazione di significato che mantiene l’opposizione di senso, differenza tragica che fonda un efficacia concreta:
il syn-ballein è l’atto di una volontà che ha una destinazione ontologica di unità nella e attraverso la differenza. Siamo qui di fronte a una differenza originaria in cui l’identità si produce come «differenziazione». […] La struttura simbolica riceve il suo significato più radicale. L’uomo è ciò-che-non-è, è syn-bolon.8
Anche l’uomo è allora simbolo, così come Cristo: anch’egli sta-nel- mezzo pur rimanendo se stesso, anzi è se stesso solo stando nel tra, in opposizione; al medesimo, egli è sensato logos solamente mettendosi nella condizione di dialogo, allo stesso modo in cui Cristo è parola di Dio e dell’uomo in reciproco scambio nella distanza assoluta.
In ogni dialogo fra esseri umani c’è la traccia, un alito dello spirito divino: è il mistero che impone tragicità ma anche coraggio al nostro pensare, perché il dialogo è sì riconoscimento e reciproca conciliazione fra senso personale e parole significanti, ma è anche relazione innestata sulla diversità, unione gravida di paradosso.
È lo scandalo di un Dio che parla con le prostitute e i pubblicani, che addita ad esempio i samaritani, perché il prossimo di cui parla il Vangelo non è solo colui che aiutiamo, ma anche la persona di cui abbiamo bisogno e, in entrambi i casi, il diverso, l’ultima delle persone che ci saremmo aspettati di incontrare, quella che non vogliamo, ma con la quale possiamo e dobbiamo dialogare.
Parola e amore esigono lo stesso strappo alla normalità, al nostro rimanere chiusi in vuoti e ridondanti discorsi fatti alle stesse, rassicuranti compagnie: «amatevi gli uni gli altri come io ho amato» (Gv 15, 12); dialogate fra voi come io sono dialogo, senza altra regola che non sia l’accostamento mai compiuto all’altrui differenza.
Riconoscere Cristo come dialogo è una sfida grande per una filosofia che riconosca l’essere di Dio e della persona umana fondati nella differenza dei logoi, nella parola reciproca, nelle diversità comunicanti; è una sfida che però reca con sé la forza per essere affrontata, perché attraverso essa è possibile affrontare, senza annullarla, la drammaticità della differenza fra Dio e l’uomo e fra uomo e uomo.
3. Parola e differenza
Il nostro essere è fondato in una lacerazione, il nostro essere parola trae senso nella mediazione: siamo esseri dialogici perché creati nella differenza e vivificati attraverso la parola.
La nostra esistenza ha bisogno di un senso: se fossimo senso di noi stessi, non esisterebbero gli altri, in quanto per noi non avrebbe senso la loro esistenza, vivremmo adeguatamente anche senza di loro; ma, di conseguenza, non avremmo senso neanche noi, perché altri di altri; è un paradosso a cui solamente il solipsismo pone rimedio, ma intanto condanna alla solitudine.
Il nostro senso è altro da noi, per il motivo che siamo stati fatti in noi stessi, ma non da e per noi stessi; non che il senso della nostra vita sia per questo da ricercare negli altri, ma comunque l’alterità che ci costituisce imprime in noi la traccia di uno sporgersi-al-di-là.
Ciò che siamo si muove e si articola attraverso la parola, e siccome ognuno è parlante, la differenza è l’altro tratto ineludibile della situazione ontologica e esistenziale in cui agisce la persona.
Differenza e parola, dia e logos, se camminano da sole, rischiano di perdersi in loro stesse; l’uomo è dialogico perché altrimenti non sarebbe, e allo stesso modo Dio è dialogico perché diversamente non avrebbe senso, la sua presenza equivarrebbe alla sua assenza.
L’immagine che simboleggia in maniera efficace la relazione senza relazione, il dia-logo, è quella della creazione raffigurata da Michelangelo: in essa il rapporto vitale nasce proprio nella distanza minima e enorme che separa le dita di Dio e dell’uomo:
il dispiegarsi dell’indice del Creatore è eletto dal filosofo a potente icona della parola del principio che, nel suo dirsi, pone l’uomo nell’esistenza come partner dialogico del Tu divino. Nell’opera michelangiolesca dunque «l’indice di Dio è segnavia che conduce dal nulla all’essere». […] Tratto volontariamente dal nulla mediante l’atto intenzionale di un Amore che non basta a se stesso, l’uomo viene «pronunciato» da Dio come alterità che partecipa della natura verbologica del proprio Creatore. […] nella nuova creatura che nasce dal dito dell’Onnipotente si imprime lo stigma del Logos giovanneo il quale si offre nell’evento creazionistico come parola partecipante all’uomo la forza dello spirito che lo inabita. L’esaltazione vitale delle membra del primo uomo che si sviluppano in una libertà autonoma si fanno così da una parte esaltazione dell’individualità della figura di Adamo e dall’altra segno dell’«incontro originario» che lega nella reciprocità le realtà spirituali Io-Tu. Il dito di Dio segna infatti contemporaneamente la misura dell’intimità e lo iato della distanza che apre lo spazio alla libertà dell’uomo.9
Cristo è allora Colui che ci ricorda, impersonificandolo, il principio del dialogo perché Egli è il dialogo del principio, il tramite e l’essenza di quell’Amore che ha detto: «sia il diverso», perché l’amore trovi spazio e si metta in movimento, quell’amore che è il dialogo, costituito in Cristo, fra Dio e l’uomo, fra uomo e uomo.
La distanza, non è forse il luogo in cui la presenza dell’Altro è «resa possibile»? La distanza non è forse il luogo in cui ogni presenza e ogni assenza sono rese possibili?
L’Altro si dà nella distanza. L’Altro lo chiamiamo anche «il nostro prossimo».
Forse è soltanto la presenza dell’Altro che può risolvere l’enigma della distanza. Facendo delle distanze il sistema circolatorio della comunicazione, della relazione.10
Perciò la parola di Cristo è essa stessa promessa efficace: «come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore! Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 9. 11).
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Emmanuel Levinas, Totalità e infinito, 2 ed., Jaca Book, Milano 1990, p. 301. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 71. ↩︎
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Ferdinand Ebner, Parola e amore, Rusconi, Milano 1983, p. 174. ↩︎
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Martin Buber, Il principio dialogico e altri saggi, 3 ed., San Paolo, Milano 1997, pp. 280-285. ↩︎
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Ferdinand Ebner, Parola e amore, cit., p. 101. ↩︎
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Ferdinand Ebner, Frammenti pneumatologici, San Paolo, Milano 1998, p. 95. ↩︎
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Anita Bertoldi, «La cristologia giovannea in Ferdinand Ebner», in La filosofia della parola di Ferdinand Ebner (a cura di S. Zucal e A. Bertoldi), Morcelliana, Brescia 1999, pp. 71-73 (corsivo mio). ↩︎
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Emilio Baccarini, «Presupposti antropologici di una cultura della solidarietà», in Etica e solidarietà (a cura di Claudio Bucciarelli), Fondazione italiana per il volontariato, Roma 2001, p. 80. ↩︎
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Anita Bertoldi, «Ferdinand Ebner, filosofo dell’incontro. Il corpo “verbale” e la direzione dell’incontro», Communio, n. 175-176 (2001), p. 50. ↩︎
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Emilio Tadini, La distanza, Einaudi, Torino 1998, p. 5, 9, 68. ↩︎