In difesa dell’eteronomia morale

1. Premessa

In questo saggio mi propongo di mostrare che l’eteronomia morale è una posizione filosoficamente sostenibile e che, nel modo in cui la esporrò, essa è in grado di offrire una persuasiva teoria della morale che non soltanto può competere con altre di diverso orientamento, ma anche presentare rispetto ad esse una migliore giustificazione della natura e del senso dell’agire morale. Aticolerò il saggio in quattro momenti: nel primo chiarirò il significato di eteronomia morale e lo delimiterò in ordine agli scopi del presente saggio; nel secondo illustrerò i motivi che giustificano una ripresa dell’eteronomia morale nel contesto della discussione etica contemporanea; nel terzo delineerò le caratteristiche fondamentali dell’eteronomia morale per come essa, a mio avviso, dovrebbe essere compresa; nel quarto prenderò in considerazione alcune delle obiezioni più frequenti poste all’eteronomia morale e cercherò di rispondere ad esse.

2. Che cos’è eteronomia morale

Nella filosofia morale moderna il concetto di eteronomia è presentato come antitetico a quello di autonomia e questo vale per tutta la filosofia morale moderna, se è vero che l’autonomia morale è un’invenzione moderna,1 sebbene questa antitesi appaia più evidente in certi casi e meno in altri. Il caso dell’etica kantiana è esemplare a questo riguardo: nella seconda Critica Kant afferma che «l’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono» e che, al contrario, «ogni eteronomia del libero arbitrio non solo non è la base di alcun obbligo, ma piuttosto è contraria al principio di questo e alla moralità della volontà».2 Per Kant, com’è noto, l’autonomia implica al contempo un aspetto positivo e uno negativo: quello positivo è la determinazione del libero arbitrio per mezzo della legge universale razionale (l’imperativo categorico), quello negativo consiste nell’«indipendenza da ogni materia della legge (ossia da ogni oggetto desiderato)».3 L’eteronomia consiste nella dipendenza dalla «legge naturale, da un impulso o da un’inclinazione»,4 che impedisce alla volontà di darsi una legge da sé e quindi di produrre un obbligo. Nella Metafisica dei Costumi fra i principi della moralità definibili come eteronomi non figurano soltanto quelli empirici, ma anche quelli razionali ispirati al criterio della perfezione, sia quest’ultima concepita come ideale morale soggettivo o oggettivamente come perfezione per sé esistente, cioè come Dio.5 Eteronoma è quindi per Kant anche quella posizione che pretende di desumere la moralità dalla volontà perfetta di Dio, per quanto, nella seconda Critica, egli contesti nella fattispecie che il principio cristiano della morale sia eteronomico, poiché in esso la conoscenza di Dio e della sua volontà costituirebbero soltanto il principio per raggiungere il sommo bene e non quello su cui poggia la legge morale.6 Vi sarebbe dunque concordanza tra il principio cristiano della morale e l’autonomia della ragione pura pratica. Lascio da parte quest’ultima considerazione per constatare che per Kant è ugualmente eteronoma una determinazione della volontà che viene dalla legge naturale, dall’impulso, dall’inclinazione, dalla ricerca soggettiva della perfezione e una che proviene dalla volontà di Dio. Se ne deduce che il concetto di eteronomia può essere usato genericamente per riferirsi a tutti questi elementi oppure a uno di essi. Il significato più ristretto che assumo è quello di eteronomia morale in senso teologico. Mi pare infatti quello più pertinente per due motivi: in primo luogo se l’autonomia, nel suo significato positivo, consiste nel darsi una legge da sé, l’eteronomia consiste nel derivare questa legge da qualcos’altro o da qualcun altro che non sia la ragione umana. Ora, non è chiaro come si possa derivare una legge da impulsi, da inclinazioni o dalla ricerca soggettiva di perfezione; questi ultimi possono certamente rendere dipendenti la ragione e la volontà dell’uomo o possono orientarla, ma non possono mai fungere, come Kant stesso ha messo in evidenza, da principio di legislazione morale. Non ha semplicemente senso parlare di una «legge» dell’impulso, dell’inclinazione o della ricerca di perfezione, perché da essi non sorge alcuna obbligazione in senso morale. Allo stesso modo stanno le cose quando Kant parla della «legge naturale» quale principio eteronomo della morale, se con essa si intende una legge fisica. Una legge fisica non dà luogo ad alcuna normatività morale, bensì semplicemente determina l’agire dell’uomo come avviene nel caso di una macchina. Più che di eteronomia qui si dovrebbe parlare di determinismo tout court. Se invece il termine «legge naturale» si riferisse a una legge morale naturale, cioè a un determinato orientamento normativo che l’uomo riconosce presente nella natura e da cui ricava le ragioni fondamentali per l’agire morale, occorre porsi la domanda da dove essa scaturisca. La statuizione di una legge morale naturale senza la domanda riguardo alla sua causa è infatti filosoficamente triviale, e la risposta migliore a questa domanda, come sosterrò in seguito, è che questa causa si trova in un Dio creatore o ordinatore della natura. Questa risposta, tuttavia, ci indirizza nuovamente all’eteronomia morale di tipo teologico. L’alternativa più chiara sembra quindi quella tra l’autonomia della morale, intesa come la capacità razionale dell’uomo di darsi una legge morale universale, e l’eteronomia morale intesa come il riconoscimento di una legge morale che è comunicata direttamente o indirettamente a tutti da un Legislatore della natura. Secondo questo concetto di eteronomia morale il contenuto della legge morale, e dunque l’insieme dei precetti che indicano qualcosa come buono o malvagio, giusto o ingiusto, è identico alla volontà di Dio e trova la sua fondazione in quest’ultima.

Il secondo motivo per il quale il significato di eteronomia morale di tipo teologico mi pare più pertinente degli altri, è che è proprio esso a meritare oggi una difesa, mentre l’eteronomia morale in senso generico non ne ha affatto bisogno, dal momento che dopo Kant si è affermata in moltissime sue varianti. La storia dell’etica moderna, infatti, ha visto proliferare tutta una serie di teorie etiche che Kant avrebbe definito eteronome perché dipendenti da impulsi, inclinazioni o desideri soggettivi di perfezione (è il caso dell’edonismo nelle sue forme atomistiche o aggregazionistiche, dell’etica delle preferenze individuali, dell’etica del sentimento, dell’etica dell’autenticità ecc.) o dalla legge naturale comunque essa sia intesa (ovvero, sulla scorta del naturalismo scientifico, come insieme di costanti biologiche che guidano in modo deterministico o quasi-deterministico l’agire umano o, sulla scorta di un concetto normativo di natura umana, come insieme di tendenze naturali che indirizzano l’agire umano verso certi beni fondamentali e verso un’auto-perfezionamento). L’aspetto paradossale è che la proliferazione post-kantiana di etiche eteronome, in modo particolare per quanto riguarda il primo gruppo che ho indicato, è la conseguenza diretta di un certo modo di concepire l’autonomia della morale, che, a differenza di Kant, non lega più l’indipendenza del soggetto razionale alla legge morale che questi è in grado di darsi razionalmente, e quindi è costretta a subordinare l’affermazione astratta dell’autonomia del soggetto a impulsi, inclinazioni, desideri che sono propri di quest’ultimo, ma che, come Kant stesso ha rilevato, non fanno in alcun modo parte della sua ragione e quindi del suo essere una persona. Proprio per questo motivo, come ho detto prima, questo tipo di eteronomia non è in grado di produrre alcuna obbligazione di tipo morale in senso vero e proprio e quindi è da considerarsi spuria, come lo è, del resto, per lo stesso motivo, quella che si evince da una legge naturale intesa come insieme di costanti biologiche che caratterizzano l’animale uomo. Diverso è il discorso per l’eteronomia che deriva dalla legge morale naturale su cui tornerò in seguito. Il risultato è quindi che l’eteronomia morale è da intendersi, nel suo significato più appropriato, come eteronomia morale di tipo teologico e che è per questo tipo di eteronomia morale che oggi vale la pena di imbastire una difesa filosofica. A questo riguardo un’ultima chiarificazione di ordine terminologico: alcuni fra quelli che sostengono una fondazione teologica della morale preferiscono evitare il termine «eteronomia» e utilizzano piuttosto quello di «teonomia». Per esempio P. Tillich ha sostenuto che «teonomia è, in contrasto con eteronomia, la saturazione di forme autonome con un contenuto eteronomo» e aggiunto che «essa non sorge dalla rinuncia all’autonomia nel senso del concetto cattolico di autorità, ma dall’approfondimento dell’autonomia in se stessa fino al punto in cui essa rimanda oltre se stessa».7 Nel significato in cui lo intende Tillich, e altri dopo di lui, «teonomia» sembra essere un termine medio tra eteronomia e autonomia, capace di indicare una posizione teorica diversa rispetto all’alternativa rigida tra una legge divina che s’impone dall’esterno all’uomo e un’autonomia razionale assoluta. Se però questa posizione dia effettivamente luogo, come Tillich lascia intendere, a un superamento delle due posizioni antitetiche in una superiore che le conserva oppure prospetti una compatibilità tra l’eteronomia morale di tipo teologico e l’autonomia razionale o ancora dica soltanto di un’attenuazione dell’opposizione fra queste ultime è difficile dirlo. Non si può nemmeno escludere che, come accade nel caso del concetto di analogia inteso come termine medio tra univocità e equivocità, il modo con cui di fatto lo si intende determini una ricaduta entro uno dei due estremi che si vuole evitare. Già nella definizione che Tillich ne dà, l’idea di una saturazione di forme autonome con un contenuto eteronomo potrebbe apparire nient’altro che una variante dell’eteronomia, mentre l’idea di un approfondimento dell’autonomia che porterebbe a rimandare oltre se stessa, un’idea plausibile soltanto se si accetta l’assunto dialettico che guida la riflessione di Tillich, potrebbe apparire nient’altro che come una variante dell’autonomia. Più in generale si può osservare che se la teonomia è chiaramente in grado di distinguersi da posizioni autonome, difficilmente riesce a distinguersi da posizioni eteronome, perché il suo tratto qualificante è esattamente il ricorso a considerazioni che fuoriescono dall’orizzonte della autonomia normativa.8 Pur lasciando libertà, a chi lo desidera, di usare il termine «teonomia», per parte mia preferisco quindi attenermi a quello di «eteronomia», avendo già specificato che quella che ho in mente è una eteronomia di tipo teologico.

3. Perché difendere l’eteronomia morale

Per molti l’eteronomia morale di tipo teologico è una posizione priva di qualsiasi giustificazione filosofica. Essa porta con sé troppi problemi irrisolti e irresolubili, come l’esistenza di Dio, la diversità con cui le religioni intendono la natura di Dio, l’apparente assurdità e addirittura immoralità di molti comandamenti divini, per poter essere presa in considerazione. Dirò alcune cose su questi problemi in sede conclusiva. A mio modo di vedere la plausibilità dell’eteronomia morale di tipo teologico emerge innanzitutto dalle lacune delle altre fondazioni della morale e da qui vorrei iniziare. Nel suo famoso saggio Modern Moral Philosophy,9 E. Anscombe ha indirettamente posto le basi per il recupero dell’eteronomia morale di tipo teologico richiamando l’attenzione sul fatto che i concetti di obbligo e di dovere e l’idea stessa di qualcosa che è moralmente giusto o sbagliato dovrebbero essere dismessi nel contesto nella filosofia moderna semplicemente perché non sono realmente significativi. In questo contesto, a differenza di quello aristotelico, la definizione di qualcosa come moralmente giusto o sbagliato fa ancora l’effetto di un verdetto assoluto sull’azione così qualificata, tale da produrre un obbligo a compierla o ad astenersi da essa. Si tratta di una concezione legalistica della morale che si è formata in occidente a partire dall’assunto filosofico-religioso di un Dio legislatore. Se però viene meno questo assunto, come è accaduto nella filosofia morale moderna, quello che rimane è una descrizione fattuale dell’azione come giusta o sbagliata alla quale si accompagna nient’altro che quella che la Anscombe definisce «una certa forza vincolante […] meramente psicologica».10 Quest’ultima è il residuo della forza obbligante della legge divina, che è sopravvissuta, secondo l’efficace paragone della stessa Anscombe, come lo potrebbe essere la parola «criminale» in un contesto «in cui il diritto penale e i tribunali sono stati aboliti e dimenticati».11 Essa non è quindi sufficiente a produrre alcun obbligo, con il risultato che le nozioni di buono o cattivo perdono la loro significazione propriamente morale. A me pare che questo esito spieghi esattamente la strana e imbarazzante sensazione che spesso accompagna chi segue i dibattiti o i convegni di filosofia morale, e cioè che, pur sentendo affermare che si sta parlando di morale, sembra che in realtà non si stia parlando affatto di essa. La Anscombe, per questo motivo, era dell’opinione che fare filosofia morale a suo tempo non fosse molto fruttuoso, e addirittura che fosse il caso di rinunciare a farla, almeno fino a quando non avremmo avuto un’adeguata filosofia della psicologia in grado di rendere conto dei nostri concetti di dovere o di obbligo. A distanza di oltre cinquant’anni dalla sua formulazione questa opinione pare, se possibile, ancor più giustificata, dal momento che le trattazioni e le discussioni di filosofia morale sono nel frattempo esponenzialmente aumentate, senza però che il punto da lei messo in rilievo venga per lo più toccato. Se nel frattempo ci sia stata messa a disposizione un’adeguata filosofia della psicologia, è poi difficile dirlo: si può soltanto osservare che il presupposto naturalistico che guida buona parte delle ricerche attuali in ambito psicologico e cognitivo, e della filosofia della mente che vi si correla, non sembra il più adatto a illuminare le nozioni della filosofia morale.

Per questo più interessante sembra proprio la ripresa di una teoria morale fondata sulla legge divina che la Anscombe non ha prospettato in modo diretto probabilmente perché, come ha sostenuto S. Evans,12 in un contesto filosofico secolare come quello in cui ella scriveva, una simile ripresa non poteva apparire plausibile. Alcuni elementi rendono però oggi la situazione diversa: in primo luogo il fatto che nel panorama filosofico anglo-americano esistono espliciti tentativi di rendere la legge divina centrale per una teoria etica, tentativi che sono noti sotto la denominazione di Divine Command Theory (da ora in poi DCT). Le prime formulazioni di questa teoria, quelle di R. Adams13 e Ph. Quinn,14 risalgono agli Settanta del secolo scorso e sono state nel frattempo riconsiderate,15 dando vita a ulteriori formulazioni, come quelle di J. Hare16 e dello stesso S. Evans, e a una consistente discussione che ha visto aggiungersi recentemente altri autori.17 In secondo luogo si è manifestato, più in generale, nella filosofia analitica della religione un rinnovato interesse per il rapporto tra morale e religione, che si esplicita principalmente nella riformulazione dell’argomento morale per l’esistenza di Dio e nel tentativo di mostrare che il teismo è in grado di giustificare, a differenza dell’ateismo o del naturalismo, l’oggettività dei valori morali.18 Infine se è vero, come qualcuno ha osservato, che la diffidenza contemporanea verso la tematizzazione del rapporto tra morale e religione dipende da alcuni fattori,19 quali la crisi della metafisica, l’affermarsi del non cognitivismo etico e una generale indifferenza verso la religione, unita all’idea che il metodo scientifico sia l’unico a offrire una conoscenza valida, è possibile affermare che ciascuno di essi non possiede più l’evidenza che sembrava possedere alcuni decenni fa.20 Allo stato attuale delle cose non siamo quindi al punto zero in cui si trovava la Anscombe, e appare possibile articolare l’intuizione fondamentale espressa nel suo saggio. Come ho detto in precedenza, questa articolazione trova il suo punto di partenza in una certa concezione della morale che è implicitamente o esplicitamente presente nel costume dei popoli, a dispetto della diversità delle opzioni teoriche che la mettono in discussione, e dalla constatazione che una teoria morale fondata sulla legge divina ne offre la giustificazione più plausibile. Questa concezione della morale presenta alcune caratteristiche fondamentali.21 in primo luogo la formulazione di giudizi morali riguarda qualcosa che è buono o malvagio, giusto o ingiusto, in sé. Far soffrire senza motivo gli altri, uccidere l’innocente, mentire sono azioni malvagie perché lo sono in sé, non perché qualcuno dice lo che lo siano. Allo stesso modo allevare i propri figli e educarli o dar da mangiare agli affamati sono azioni buone in sé, non perché siamo abituati a compierle. Il carattere oggettivo della bontà o della malvagità di simili azioni spiega l’universalità dei corrispondenti giudizi morali e la loro forza prescrittiva nella vita delle persone, che essi non avrebbero se fossero semplicemente un prodotto culturale o una convenzione sociale. Naturalmente questo non significa che tale oggettività sia sempre riconosciuta né che la bontà morale oggettiva escluda un’inclinazione soggettiva verso di essa. In secondo luogo i giudizi morali hanno un carattere binario, emettono cioè quello che la Anscombe chiamava un «verdetto» su ciò che è buono o cattivo, giusto o sbagliato, tale da produrre un’obbligazione a fare qualcosa o a evitare qualcosa; una volta che si è compreso che qualcosa è giusto lo si deve fare, e se è sbagliato lo si deve evitare. Essi chiamano quindi l’agente a una responsabilità di fronte ai propri atti, alle loro conseguenze e al merito o al castigo che ne risulta. In terzo luogo i giudizi morali sono universali, tali quindi da applicarsi a tutti quelli che sono in grado di comprenderli. In quarto luogo essi sono in genere finalizzati alla fioritura dell’essere umano o al suo benessere tanto individualmente quanto collettivamente.

Se assumiamo questa concezione di morale e consideriamo lo spettro delle teorie etiche contemporanee vediamo che nessuna di esse è in grado di giustificarla adeguatamente. Per esigenze di sintesi riduco questo spettro a cinque opzioni fondamentali a loro volta estremamente semplificate: a) per le teorie etiche che muovono da una visione naturalistica del mondo il sorgere di giudizi morali oggettivi rimane semplicemente qualcosa di inesplicabile. A. Ritchie ha parlato a questo proposito di un gap esplicativo che muove dalla seguente questione: «Come fanno gli esseri umani, che si sviluppano in un universo fisico che non è plasmato da una qualche forza intenzionale, ad avere la capacità di apprendere norme morali oggettive?».22 La distanza tra l’esistenza di norme morali oggettive e una realtà concepita materialisticamente non sembra infatti superabile, se non ammettendo l’autonomia ontologica di entità non materiali e quindi venendo meno al presupposto teorico fondamentale del naturalismo. Queste teorie etiche sembrano necessariamente profilare una decostruzione della morale nella forma nietzschiana o in quella della «teoria dell’errore» di J. Mackie e quando non arrivano a questo esito non sono in grado di giustificare né l’oggettività dei giudizi morali, né l’obbligatorietà della morale (se non equivocandola con le costrizioni esteriori provenienti dalla società, dall’ambiente, dalla natura biologica) né la sua universalità; b) per le teorie etiche che appartengono alla famiglia dell’espressivismo, la morale non possiede alcuna oggettività, perché dipende da moventi soggettivi, possiede una forza vincolante di tipo meramente psicologico, quale quella richiamata dalla Anscombe, e non garantisce di principio alcuna universalità e fioritura dell’umano; c) il costruttivismo etico riesce prima facie a guadagnare una universalità dei giudizi morali, ma, quando prova a fondare quest’ultima, non sembra poterlo fare senza dar luogo a un superamento del mero proceduralismo o del contrattualismo in direzione di un intuizionismo morale e in ultimo di un realismo morale che contraddice gli assunti stessi del costruttivismo. Costruttivismo e realismo morale sono due posizioni antitetiche e fra esse non esiste alcuna compatibilità, per quanto non manchi chi, come la Korsgaard, prova a sostenere qualcosa del genere;23 d) la teoria etica kantiana in linea teorica è in grado di dare conto di tutte le caratteristiche della morale sopra richiamata, ma soltanto, come dirò tra breve, essendo intesa come una forma di eteronomia morale di tipo teologico e infine e) un’etica delle virtù derivante da una forma di naturalismo etico è in grado di spiegare l’oggettività, l’universalità della morale e la sua rilevanza in ordine alla fioritura dell’essere umano, ma non l’obbligazione che ne deriva, a meno che non si connetta ad una legge morale naturale.

Su queste due ultime opzioni teoriche vorrei soffermarmi più distesamente. L’etica deontologica kantiana, nel novero delle teorie etiche moderne, è quella che meglio riesce a rendere conto dell’obbligazione morale, ma soltanto se si risolve la fondamentale ambivalenza che la connota. In un passaggio dello scritto della Anscombe al quale mi sono riferito, si osserva giustamente che l’idea «che ci possa essere una legislazione ‘per se stessi’» è assurda, perché, si aggiunge, «ciò che qualcuno fa per se stesso può essere ammirevole ma non è darsi una legge».24 Se per evitare l’eteronomia morale di tipo teologico si assume, come Kant fa, che il legislatore sia l’uomo stesso, ne deriva che l’obbligazione morale è a tutti gli effetti un’auto-obbligazione, ma questo appare appunto assurdo, perché nessuno può realmente imporre un obbligo a stesso senza fondarlo su qualcos’altro o su qualcun altro da sé. Ogni dovere che noi imponiamo a noi stessi può essere tolto senza che ci sia reale contraddizione, essendo noi stessi gli artefici del dovere e del suo toglimento. Per questo motivo l’auto-obbligazione kantiana, come ha notato H. Krämer,25 fa l’effetto della manovra tentata dal barone di Münchhausen per tirarsi fuori dal pantano e come essa è destinata dall’insuccesso. Per evitare questa obiezione si può sostenere che Kant ha concepito la legge morale come un Faktum della ragione, oggettivandola a livello trascendentale, ma questo rimedio è peggiore del male, perché mette in discussione l’intera l’impresa della sua filosofia critica. Come ha affermato D. Henrich, il fattuale appartiene all’ambito dell’esperienza, «mentre la ragione deve esigere la trasparenza del proprio capire».26 Se la legge morale è un Faktum, essa è qualcosa che la ragione scopre senza esserne l’artefice; in quest’ultima vi è quindi un qualcosa di opaco che impedisce alla legge morale di essere realmente espressione dell’autonomia razionale dell’uomo. A mio avviso questa fondamentale ambivalenza dell’etica kantiana dipende dal fatto che essa rappresenta una parziale secolarizzazione dell’etica teologica, nel senso che conserva tutti i tratti di quest’ultima, compreso quello dell’obbligatorietà della legge morale, senza però più farli dipendere dall’esistenza di un Legislatore superiore all’uomo. Perché essa acquisisca una coerenza o la si secolarizza completamente, come è accaduto in prevalenza in età contemporanea, dovendo però abdicare all’idea di legge morale, oppure la si fa tornare nell’alveo di un’etica teologica, rinunciando così alla contrapposizione con l’eteronomia di tipo teologico. La famosa definizione kantiana della religione come «la conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti divini»27 offre peraltro una chiara indicazione in questa direzione, perché, se la si assume sgravata dalla polemica kantiana contro la fede chiesastica, può essere intesa proprio nel senso di un’identità materiale tra la legge morale e i comandamenti divini.

Per quanto riguarda un’etica delle virtù che poggia su una forma di naturalismo etico la lacuna che esso sembra avere è proprio quella di non rendere adeguatamente conto del carattere imperativo dei giudizi morali. La ripresa di un’etica delle virtù di tipo aristotelico dopo duemila anni di influenza sulla morale esercitata da parte del cristianesimo non può avvenire in modo ingenuo. Il «verdetto» emesso dai giudizi morali non è semplicemente riferito soltanto all’orientamento normativo presente nell’azione umana, qualora essa si volga verso dei beni che sono anche dei fini naturali che permettono la fioritura dell’essere umano, ma al fatto che da essi scaturisce in ogni caso un’obbligazione. Se l’etica cristiana ha apportato una novità rispetto a quella antica, essa non riguarda tanto il contenuto, quanto le condizioni della sua realizzabilità. Essa ha reso edotti di quello che J. Hare ha chiamato il «moral gap»,28 cioè la consapevolezza della distanza esistente tra l’idea del bene e la capacità di realizzarlo. È per questo motivo che la forza di attrazione che il bene esercita naturalmente su di noi non basta se quest’ultimo non si presenta anche come dovere, e un simile dovere emerge soltanto se il bene assume la forma di una legge. La riformulazione dell’etica aristotelica nel quadro del teismo cristiano (in particolare quella realizzata da Tommaso d’Aquino) ha mirato a mettere in rilievo questo aspetto mediante la dottrina della legge morale naturale, per la quale l’imperativo a fare il bene e a evitare il male risuona nella coscienza dell’uomo come un riflesso dell’ordine sulle cose voluto da Dio. Com’è noto, anche in questo caso, la secolarizzazione moderna della legge morale naturale ha finito per espungere il suo fondamento metafisico-teologico, con il risultato di produrre una profonda crisi del concetto stesso. La ripresa di questa dottrina che è in atto da alcuni decenni manifesta prevalentemente motivazioni di tipo pratico e politico,29 come argine posto al carattere talora arbitrario delle leggi positive o come sfondo indefinito su cui stagliare la normatività dei diritti umani che non si riesce a fondare in altro modo, ma se ci si impegna con una sua giustificazione filosofica il teismo pare essere il candidato migliore per offrirla. Le altre opzioni infatti, per i motivi richiamati poc’anzi, non riescono rendere conto fino in fondo del suo essere una «legge».

4. L’eteronomia morale come etica dei comandi divini

La tesi che il contenuto dell’obbligazione morale è identica ai comandi divini identifica il nocciolo dell’eteronomia morale di tipo teologico e da qui conviene muovere per spiegarne il significato. Come ho detto, questa tesi muove dall’assunto del teismo e in particolare del teismo cristiano, ma l’idea che ciò che è giusto sia da identificare con l’ordine voluto da un Dio o dal Divino è un’idea primordiale che s’incontra in molte culture e religioni antiche e nella riflessione filosofica appare già con Eraclito, per il quale «le leggi umane traggono alimento dall’unica legge divina» (DK 22 B 114).30 Com’è noto, il dilemma se il bene debba essere fatto perché è bene o perché Dio o gli dèi lo vogliono ha ricevuto la sua formulazione classica nell’Eutifrone di Platone (XII 9e-10e). Da qui in avanti si è continuamente presentata nella storia del pensiero occidentale l’alternativa tra una posizione volontaristica che identifica il bene con la volontà di Dio e una che rifiuta questa posizione come incoerente. Di solito chi sostiene la posizione volontaristica lo fa invocando l’assoluta sovranità di Dio e il dovuto atteggiamento di abbandono e di devozione dell’uomo nei confronti di quest’ultimo, chi la rifiuta presentando una molteplicità di motivi quali l’implausibilità dell’idea che azioni moralmente malvagie diventino buone soltanto perché Dio lo comanda, l’ostacolo che ne deriverebbe a un’autentica adorazione di Dio o ancora il fatto che, se Dio può considerare buona la menzogna o l’omicidio, le basi intere della moralità sarebbero minate. Se l’eteronomia morale di tipo teologico fosse da identificare con la tesi del volontarismo, per la quale qualsiasi cosa che Dio comanda è buona per il solo fatto che la comanda, essa sarebbe indifendibile. Contro questa tesi, come ho detto, sono state sollevate molte obiezioni ma almeno due sono a mio giudizio decisive: la prima è che la violazione di principi morali fondamentali equivale a quella di verità logiche necessariamente vere. Certe azioni sono sempre malvagie, anche se questo non esclude che in qualche caso si debba farle. Se Dio può trasformare a piacimento ciò che è malvagio in qualcosa di buono per il solo fatto che così comanda, si dovrebbe dire che l’essenza delle cose è a disposizione della volontà arbitraria di Dio, così che anche la sua essenza lo sarebbe, ed egli avrebbe l’arbitrio di non essere Dio. Allo stesso modo tutte le proposizioni, anche quelle false, potrebbero essere rese vere da Dio, e questo farebbe sì che non esisterebbe più alcuna distinzione tra proposizioni vere e proposizioni false, con il risultato che ogni conoscenza verrebbe privata di fondamenta, compresa quella che ci dice di obbedire ai comandi Dio. Le seconda obiezione è che la volontà e il comando di Dio non creano da soli l’obbligazione ad obbedire, bensì deve esserci un motivo antecedente che rende possibile l’obbedienza. Come in ambito politico è la giustizia che dà all’uno il diritto di comandare e all’altro l’obbligo di obbedire, così è anche in ambito teologico, dove è la natura di Dio, che si presume buona e giusta, a produrre l’obbligo di obbedire alla sue leggi.

Queste obiezioni, che riprendo nella formulazione che di esse ha dato in età moderna R. Cudworth,31 sono state riprese molte volte in seguito. Per esempio da P. Geach, per il quale che certe azioni siano sempre cattive è qualcosa che noi sappiamo a prescindere da una rivelazione di Dio, perché mentre sappiamo che una rivelazione di Dio che permettesse la menzogna sarebbe priva di valore (com’è accaduto nel caso della critica alle divinità del politeismo antico), proprio il sapere che una menzogna è cattiva ci consente di esaminare il valore di verità di un’eventuale rivelazione.32 La conclusione di Geach è che «la conoscenza di Dio non è quindi un prerequisito del nostro possesso di alcuna conoscenza morale».33 Anche R. Swinburne, per risolvere il dilemma dell’Eutifrone, distingue tra azioni che sono obbligatorie in modo necessario e azioni che lo sono in modo contingente. Le prime sono tali anche per Dio, perché hanno la stesso statuto di verità logiche che nemmeno Dio può negare senza contraddizione. L’uomo può venire meno a ciò che è moralmente necessario per debolezza del carattere o per ignoranza, ma questo non vale per Dio. Del resto, il fatto che Dio non possa fare ciò che è logicamente contraddittorio o omettere ciò che è moralmente necessario non costituisce una limitazione della sua onnipotenza, qualora questa non sia intesa nel senso di un arbitrio assoluto, né lo rende meno degno di essere adorato perché «che il potere di un essere non possa essere esercitato in modi autocontraddittori sicuramente non lo priva della sua dignità».34 Ci sono poi azioni che sono obbligatorie, ma in modo contingente, il che significa che Dio può renderle tali, comunque questa sua volontà si manifesti. I sostenitori odierni della DCT hanno per lo più recepito queste obiezioni. R. M. Adams ha sostenuto che per quanto non sia da escludere la possibilità logica che Dio comandi qualcosa di moralmente erroneo, come un atto crudele, non si può pensare che egli faccia qualcosa del genere, poiché si presuppone che egli ami le sue creature. Quando quindi si afferma che qualcosa è moralmente sbagliato si deve intendere che qualcosa è «contrario ai comandi di un Dio che ama».35 Questa precauzione non è però sufficiente, se come accade nel caso del primo Adams, una teoria dei comandi divini è sviluppata in un contesto metaetico non naturalistico e non cognitivistico, che viene motivato, altrimenti, con il rischio di sottoporre la volontà di Dio a un criterio morale esterno. In modo più persuasivo S. Evans ha sviluppato una versione della DCT dove si «presuppone che ci siano verità etiche che non dipendono dalla volontà divina».36 Questo presupposto, in effetti, consente di giustificare il carattere oggettivo delle obbligazioni morali e di non confondere il significato delle espressioni «obbligazione morale» e «comando divino». Per la DCT è chiaro che esse si riferiscono alle medesima realtà, ma appunto il loro significato non è identico. Ciò ha come importante conseguenza che la conoscenza delle obbligazioni morali non dipende dalla conoscenza di Dio e quindi che la tesi della fondazione della morale in Dio non è una tesi epistemologica, bensì ontologica. Ciò che è moralmente necessario può essere conosciuto senza avere una conoscenza previa di Dio, per quanto si possa sostenere che la conoscenza dell’oggettività dell’obbligazione morale rappresenti una forma implicita di conoscenza di Dio e della sua legge morale.

Dal punto di vista metafisico questa concezione non implica una subordinazione di Dio a un mondo di valori oggettivi che hanno una sussistenza ontologica indipendente da Dio stesso. Il teismo cristiano, a partire da Agostino,37 ha concepito le forme platoniche, e dunque il mondo dei valori, come atti della mente divina, ricomponendo quindi il possibile dissidio tra il bene e Dio. L’unità tra il bene e Dio implica che nulla di ciò che è buono stia “al di fuori” di Dio, e che sia Dio a istanziare valori morali nella propria mente, così come a renderli attuali nella realtà creata. Ciò che è buono è dunque buono in sé, ma poiché la creazione del mondo dipende in ultimo da una decisione di Dio, l’attualizzazione dei valori nel mondo è espressione della sua volontà e questo è il motivo per il quale essi sono percepiti dall’uomo come comandi che generano un’obbligazione. Come ha notato K. Ward il termine «comando» non è felice, perché dà l’impressione dell’ordine dato da un superiore, anziché, com’è in questo caso, della volontà dell’essere divino finalizzata alla realizzazione di certi beni.38 L’idea che i comandi di Dio sono finalizzati al bene restringe significativamente quella che si può chiamare la «discrezione» di Dio a proposito di quello che comanda, anche se non la elimina in nessun modo. Rimangono certamente beni morali contingenti che Dio può comandare o meno e soprattutto rimane la scelta fondamentale di Dio di attualizzare un mondo che è caratterizzato da certi beni anziché da altri. Questa versione della DCT risulta quindi estremamente persuasiva: il nesso tra oggettività dei valori morali e comandi divini permette ai valori morali di essere percepiti come obbligazioni. Un mondo di valori impersonali, sullo stile di quello platonico, non consente alla morale di avere questa proprietà perché eserciterebbe soltanto una forza attrattiva, ma nessuna obbligazione. Esso offre ottime ragioni per fare il bene, ma non per doverlo fare. Allo stesso modo soltanto un comando divino assicura che certe azioni siano «assolutamente proibite» e non soltanto «genericamente indesiderabili» oppure proibite per un senso del dovere che è introiettato a livello psicologico per la pressione sociale, culturale, ideologica. Al tempo stesso il nesso che lega i comandi divini all’oggettività dei valori morali permette che questi ultimi siano conosciuti anche in forme che non sono quelle esplicite di una rivelazione di Dio diretta o veicolata da una comunità religiosa. Come ho detto in precedenza, l’idea di legge morale naturale viene giustificata al meglio nel contesto del teismo, ma ancora una volta se è vero che la legge morale naturale dipende ontologicamente da Dio, non altrettanto è vero che essa dipende da quest’ultimo epistemologicamente. I precetti della legge morale naturale e quindi i comandi di Dio, in una forma imperativa spesso attenuata, possono essere ricavati dall’esame delle inclinazioni naturali, da un concetto normativo di natura umana, dall’ascolto della coscienza come organo interiore che discerne il bene dal male e dallo stesso costume morale presente nella società. In questo caso, come ha suggerito Adams,39 si deve parlare più che di «comandi» divini, cioè di atti linguistici diretti, della «volontà» di Dio percepita in modo indiretto. Così intesa, una eteronomia morale di tipo teologico non ha difficoltà a rendere ragione del carattere universale delle obbligazioni morali, perché esse non riguardano alcuni anziché altri, bensì tutti quelli che ne vengono a conoscenza nella pluralità di modi poc’anzi ricordata, così come non ha difficoltà a rendere conto del carattere benefico per l’uomo delle obbligazioni morali. Qualora si assuma che la volontà di Dio, in virtù della perfezione morale di Dio, sia orientata al bene e in modo particolare, almeno per riguarda l’uomo, all’acquisizione di una serie di beni fondamentali che permettono a quest’ultimo la sua fioritura, un’eteronomia morale di tipo teologico si accorda perfettamente con un’etica delle virtù o con un’etica del benessere in cui facendo il bene e la cosa giusta anche ci si realizza come persone. In ultima istanza un’eteronomia morale di questo tipo è in grado di rendere ragione dell’autonomia umana, se con questo termine s’intende non la creazione dal niente della legge morale o dei valori morali da parte dell’uomo, bensì la ricerca del bene e delle ragioni per farlo, unita allo sforzo di plasmare la propria vita secondo queste ragioni.

5. Le obiezioni all’eteronomia morale

Un’eteronomia morale di tipo teologico, e in genere un’etica religiosa, deve scontare una serie di obiezioni canoniche.40 Fra esse vorrei selezionarne quattro: a) la credenza nell’esistenza di Dio considerata come non filosoficamente dimostrabile; b) il disaccordo fra le religioni riguardo alla natura di Dio e alla sua rivelazione; c) la tesi che la religione, se non intende eliminare l’autonomia dell’uomo, può offrire soltanto un fondamento motivazionale alla morale; d) il carattere intollerante di una morale fondata su Dio. Risponderò a esse in modo estremamente sintetico per motivi di spazio.41La prima obiezione pare la più forte, ma in realtà è la più debole. Se è vero che non sussistono argomenti conclusivi riguardo all’esistenza di Dio, nemmeno esistono argomenti conclusivi riguardo alla sua non-esistenza. La filosofia ha sempre elaborato argomenti a favore o contro l’esistenza di Dio e per quanto sia possibile attribuire un valore di probabilità maggiore o minore a una delle due tesi, quella contraria, dal punto di vista razionale, non potrà mai essere considerata del tutto fuori gioco. Un ateo come R. Dawkins, per esempio, ritiene di assegnare una probabilità infima all’esistenza di Dio, ma riconosce di non poterla escludere del tutto.42 Un teista ha quindi, come minimo, qualche ragione per credere nell’esistenza di Dio e di conseguenza per obbedire alla sua volontà. Chiedersi invece perché dovremmo obbedire a Dio una volta che se ne sia ammessa l’esistenza, è qualcosa, come ha osservato P. Geach, di «folle».43 Se Dio ha creato il mondo e lo governa, e il nostro destino dipende da lui, la domanda è senza senso. La seconda obiezione è da considerare con maggiore attenzione: le religioni intendono la natura divina in modo diverso e questa diversità è un problema reale riguardo alla verità o meno di queste rappresentazioni. Le une sono vere e le altre false? Oppure sono tutte vere ovvero tutte false? Come ho affermato in precedenza, una eteronomia morale di tipo teologico muove da una certa concezione di Dio che è quella del teismo, secondo la quale, per riprendere la formula anselmiana, Dio è ciò di cui non è possibile pensare il maggiore. Come tale essa non è semplicemente un’etica religiosa, che si origina dai precetti di una religione determinata, e nemmeno soltanto un’etica teologica, bensì è il frutto di una combinazione tra il concetto di Dio elaborato dalla teologia filosofica e la rappresentazione di Dio che emerge dalle religioni monoteistiche. Si tratta del concetto prevalente di Dio che si ha in Occidente e che trova significative consonanze in altri ambiti culturali e religiosi. In ogni caso pare essere il concetto di Dio più filosoficamente consistente, anche qualora la questione della sua esistenza rimanesse controversa. Se lo si assume, il problema della diversità delle concezioni religiose sulla natura di Dio viene ridimensionato e con esso anche il problema della diversità dei comandi che ne può venire. Su quest’ultimo punto, tuttavia, si può constatare che fra le cosiddette «religioni mondiali» esiste un diffuso consenso su quali azioni siano buone o malvagie e che questo consenso si estende al costume morale delle società e quindi anche a un etica non-religiosa.

I conflitti tra un’etica religiosa e una secolare sembrano infatti riguardare non tanto valori fondamentali che sono comuni ad entrambi, bensì l’interpretazione di questi valori e la loro applicazione in una situazione specifica. La terza obiezione, a mio modo di vedere, è quella più insidiosa. Nella sua formulazione più pertinente è stata svolta da W. L. Frankena, il quale ha contestato che la morale dipenda logicamente dalla religione. La sua tesi è che non si inferiscono conclusioni etiche da premesse che non sono etiche, per cui chi intende dedurre una conclusione da un fatto senza introdurre una premessa che sia di tipo etico, cioè che non contenga un «dovrebbe», sta commettendo «un errore logico».44 Per fare un esempio, in un’etica teologica si può pensare che l’obbligo di amarci gli uni gli altri sia dedotto direttamente dal fatto che Dio ci ama, mentre invece esso dipende dalla premessa «dovremmo amare quelli che Dio ama», che è una premessa etica, non teologica. Per quanto dunque la morale possa dipendere della religione dal punto di vista motivazionale (o anche storico e psicologico), non c’è una dipendenza logica. L’argomento di Frankena è una variante dell’argomento della fallacia naturalistica humeana e della sua ripresa nell’open question argument di Moore; tuttavia, come oramai per lo più viene fatto notare nelle discussioni odierne di filosofia morale, la validità di questo argomento dipende da una teoria referenziale del significato, dove il significato di un termine è confuso con il suo riferimento.45 Più in generale, l’open question argument apre un divario incolmabile tra fatti e valori che permette l’attribuzione della proprietà della bontà a qualsiasi fatto naturale, il che appare implausibile, perché esiste evidentemente un limite nel classificare come buoni certi fatti naturali.46 In ogni caso, come ho detto in precedenza, l’eteronomia morale di tipo teologico ammette che la morale dipenda dalla religione, cioè dall’esistenza di Dio, ontologicamente, non epistemologicamente, sicché essa è coerente con una concezione che rifiuti una dipendenza logica dell’una dall’altra, per quanto una volta che si sia riconosciuto la dipendenza ontologica risulta difficile negare quella logica. Infine, riguardo all’ultima obiezione, bisogna osservare che l’intolleranza non è un tratto specifico dell’etica religiosa, bensì qualcosa che caratterizza anche l’etica secolare. Anche in un’etica secolare il «verdetto» che caratterizza la morale è operante nella misura in cui certe azioni sono tollerate ma altre non possono esserlo. Riguardo a queste ultime, anche un’etica secolare risulta intollerante. Semmai l’obiezione dovrà essere riformulata stabilendo un presunto nesso tra etica religiosa e assolutismo morale, ma anche a questo riguardo non si può affermare che l’etica religiosa abbia l’esclusiva. Certe convinzioni morali possono essere fatte valere in modo assoluto anche al di fuori di una motivazione religiosa, dando luogo a varie forme di intolleranza o di violenza, né si può affermare indistintamente che la religione è sempre portatrice di violenza, perché in alcuni casi (come quello del pacifismo radicale) è vero esattamente il contrario. Si può forse affermare che la religione offre il paradigma originario di un’etica assolutistica, fondandosi essa stessa sull’assoluto, ma anche questo non è sempre vero, qualora si consideri la rilevanza che un’etica prudenziale e perfino una casuistica possiedono all’interno delle etiche religiose. Se invece il nesso che si stabilisce tra etica religiosa e assolutismo morale indicasse genericamente il carattere incondizionato che la morale consegue quando ha una fondazione eteronoma, allora è esattamente questa tesi che nel presente saggio si è voluto difendere.

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  1. Cfr. Schneewind (1998). ↩︎

  2. Kant (1989), p. 42. ↩︎

  3. Ibidem. ↩︎

  4. Ibi, p. 43. ↩︎

  5. Cfr. Kant (1982), p. 144. ↩︎

  6. Cfr. ibi, p. 156. ↩︎

  7. Tillich (19312), p. 1128. ↩︎

  8. Devo l’osservazione, e il relativo chiarimento del fatto che la teonomia è una semplice variante terminologica dell’eteronomia, a Daniele Bertini. ↩︎

  9. Cfr. Anscombe (2008). ↩︎

  10. Ibi, p. 65. ↩︎

  11. Ibi, p. 53. ↩︎

  12. Cfr. Evans (2013), p. 12. ↩︎

  13. Cfr. Adams (1981), pubblicato per la prima volta nel 1973. ↩︎

  14. Cfr. Quinn (1978). ↩︎

  15. Cfr. in modo particolare Adams (1999). ↩︎

  16. Cfr. Hare (2009). ↩︎

  17. Fra essi conviene almeno ricordare Baggett e Walls (2011), Murphy (2011), Ritchie (2012), Yandell (2012). ↩︎

  18. Un buon quadro d’insieme di questa discussione emerge da Wainwright (2005). ↩︎

  19. Cfr. Sessions (1985). ↩︎

  20. Cfr. Byrne, 1992. ↩︎

  21. Cfr. per una descrizione della morale in questo senso la prima parte di Swinburne (1989). ↩︎

  22. Ritchie (2012), p. 4. ↩︎

  23. Cfr. Korsgaard (2013). ↩︎

  24. Anscombe (2008), pp. 60-61. ↩︎

  25. Krämer (1983), p. 187. ↩︎

  26. Henrich (1960), p. 93. Per un’analisi critica dell’etica kantiana che ne mette in evidenza le spesso sottaciute incoerenze e oscurità, cfr. Sala (2009). ↩︎

  27. Kant (1985), p. 168. ↩︎

  28. Cfr. Hare (2002), pp. 34 ss. ↩︎

  29. Il senso e i profili di questa ripresa del concetto di legge naturale emergono bene dalla raccolta di scritti curata da George (2003). ↩︎

  30. Cfr. Brague (2005), p. 47. ↩︎

  31. Cfr. Cudworth (1731). ↩︎

  32. L’idea che Dio non possa mentire ha valore dirimente anche per disambiguare dal punto di vista etico un episodio biblico come quello del sacrificio di Isacco richiesto ad Abramo da Dio (Gn 22), che prima facie pare essere una conferma del volontarismo assoluto. Questo episodio va infatti inteso come una prova a cui Abramo si sottomette nella consapevolezza della promessa fatta a lui da Dio in precedenza (Gn 12 e 17) riguardo alla numerosità della sua discendenza, una promessa che, si crede, Dio non possa infrangere. Cfr. Copan (2011), pp. 45 ss. ↩︎

  33. Geach (1969), p. 120. ↩︎

  34. Swinburne (1981), p. 130. ↩︎

  35. R. M. Adams (1981), p. 87. ↩︎

  36. Evans (2013), p. 26. ↩︎

  37. Cfr. Rist (2002), p. 38 ss. ↩︎

  38. Cfr. Ward (2013), p. 105. ↩︎

  39. Cfr. Adams (1999), p. 258. ↩︎

  40. Una lista esaustiva si trova in Ledalcano (2006). ↩︎

  41. Un risposta più esaustiva riguardo ad alcune di queste obiezioni l’ho offerta in Aguti (2013). ↩︎

  42. Cfr. Dawkins (2007). ↩︎

  43. Cfr. Geach (1969), p. 126. ↩︎

  44. Cfr. Frankena (1981), p. 18. ↩︎

  45. Cfr. Stewart (2009), pp. 230-231. ↩︎

  46. Cfr. Foot (2007). ↩︎