1. Gli scritti dell’Epistolario
«As Abelard said to Heloise, “don’t forget to drop a line to me, please”»1
Stupisce che una canzone degli anni Trenta del Novecento citi Abelardo ed Eloisa, amanti leggendari vissuti ben otto secoli fa? Non tanto. Stupisce la distorsione della storia2 semmai, perché da quello che ne sappiamo noi oggi Abelardo non chiese mai ad Eloisa di scrivergli.
Ma in fin dei conti non stupisce nemmeno lo stravolgimento storico: la fama dei due amanti medievali è così nota, decantata, studiata, falsificata e chiacchierata che le mistificazioni si perdono nei secoli che ci separano dal momento in cui i fatti accaddero. E la mole di quanto è stato insinuato, detto e scritto su Abelardo ed Eloisa è abbastanza grande da scoraggiare chiunque voglia dire la sua sulla vicenda. A che pro scrivere su Abelardo ed Eloisa? Si corre soltanto rischio di ripetersi e di cadere in banalità; che cosa ribadire oltre al fatto che furono amanti, abbastanza sfortunati, e che poi divennero coniugi altrettanto vittime della società e dei costumi dell’epoca? Dovremmo limitarci ad elogiare il loro Epistolario, un capolavoro letterario e connubio di amore e filosofia, e grazie tante.
Eppure più viene analizzata, più la vicenda di Eloisa e Abelardo sembra non esaurirsi mai, come se non riuscisse mai a finire di dire quel che ha da dire e ogni volta emergesse un dettaglio, una novità che spinge a rimettere in discussione quanto già assodato e a ricominciare daccapo. «Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso»3: l’Epistolario di Abelardo ed Eloisa rientra appieno nelle parole di Calvino.
La vicenda è arcinota: lui, una delle menti più brillanti del XII secolo, all’epoca dei fatti era un acclamato magister parigino di circa trentasette anni; lei, nipote del canonico della cattedrale di Notre-Dame, secondo la tradizione era una ragazza di diciassette, massimo diciotto anni e dalla personalità alquanto singolare. È una storia d’amore, di quelle vere. Si innamorano leggendo e studiando autori che amavano entrambi, poco dopo che lui è divenuto precettore di Eloisa per volere dello zio di lei, Fulberto. Non è difficile immaginare quelle due teste chine che alternavano occhiate ai libri e sguardi teneri tra loro.4 Divenuti amanti,5 vengono per forza di cose scoperti dopo pochi, intensi, mesi, dal momento che si incontravano proprio sotto il naso di Fulberto. Così Abelardo la rapisce e la porta da sua sorella Dionigia in Bretagna, dove Eloisa partorisce Astrolabio.
Fatto ritorno a Parigi, devono affrontare la triste realtà: Fulberto, irato e vendicativo, accetta dapprima la proposta di Abelardo di sposare la nipote, ma poi viene meno ai patti e si vendica dell’onta subita facendolo evirare.6 E così, il triste epilogo: a vent’anni Eloisa diventa una monaca disperata, anche Abelardo prende i voti e le loro vite si separano. Si rincontreranno, circa quindici anni dopo, quando Abelardo salverà Eloisa e le sue monache dalla cattiveria di Sugero7 di Saint Denis, che le aveva cacciate dal monastero dell’Argenteuil, donando loro il Paracleto.
Come è stato più volte sottolineato,8 senza la cattiveria di Sugero probabilmente oggi non potremmo leggere le lettere, che videro la luce proprio grazie a questa ripresa di contatti. Passati appunto quindici anni, Abelardo finse di scrivere un resoconto delle sue vicissitudini ad un amico ma inviò la lunga lettera ad Eloisa che, dopo aver appreso con angoscia le sorti del marito, gli rispose a più riprese dando vita a quello che P. Dronke ha definito un capolavoro della letteratura mondiale.
I manoscritti che compongono quello che noi oggi definiamo l’Epistolario di Eloisa e Abelardo sono dunque l’Historia Calamitatum di Abelardo, una vera e propria autobiografia, e poi tre lettere di lei e quattro di lui, a cui va aggiunta la Regola che Abelardo scrive, su richiesta di Eloisa, per lei e per le monache del Paracleto. In questo panorama occorre tenere presenti i tempi, dal momento che spesse volte si dimentica che la loro storia, gravidanza compresa, durò soltanto un paio d’anni, finendo nel 1118 circa; e che la fine dello scambio epistolare non coincise con la fine dei loro rapporti intellettuali, perché sono degli anni successivi i seguenti scritti: l’Epistola de Studio Litterarum, l’Inno Paraclitense, l’Expositio in Hexaemeron, i Problemata Heloissae e la Confessio Fidei ad Heloisam.
Per quanto riguarda la nostra Eloisa, oltre alle tre lettere inviate ad Abelardo possediamo quelle scritte a Pietro il Venerabile, abate di Cluny, dopo la morte di Abelardo e i Problemata: quarantadue questioni religiose che ella espose a suo marito una volta divenuta badessa del Paracleto e ripresi i contatti, di natura puramente religiosa, con lui. Come hanno notato I. Pagani, ma anche M. T. Fumagalli e P. Dronke, nessun dubbio di autenticità ha mai intaccato i Problemata o le lettere a Pietro di Cluny. Si è sempre e solo dibattuto relativamente all’originalità o meno del carteggio tra Abelardo ed Eloisa. Ciò è sicuramente dovuto al fatto che la vicenda d’amore è ricostruita soprattutto sulla base delle lettere più che degli altri scritti; ma è altresì vero che ripercorrendo le fonti medievali e moderne è facile notare come la parte che tutti, dai commentatori agli scrittori, dai traduttori ai cronachisti, hanno riportato per intero e dettagliatamente sia la storia d’amore, più che i quesiti in materia di fede esposti ad esempio nei Problemata Heloissa. Il dibattito, sorto come vedremo a partire dall’Ottocento, ha prodotto un ventaglio di ipotesi inestricabili, articolate in tre punti chiave: identità, paternità e datazione.
Il primo interrogativo mette in dubbio la natura stessa del testo, domandandosi se esso sia stato un scambio epistolare autentico oppure uno fittizio, ricostruito a posteriori. Una volta ricevuto il resoconto delle vicende di Abelardo, Eloisa ha davvero preso penna e calamaio per rispondergli, e così di seguito lui a lei, per ben sette volte? Infatti, l’ipotesi è che esso possa essere un trattato volutamente composto in forma dialogica ed epistolare, dietro il quale non si celano due esseri reali intenti a comunicare, bensì un unico scrittore.
È proprio questo il motivo per cui è scaturita la seconda querelle: chi è l’autore dell’Epistolario che strega lettori da ben nove secoli? È stato effettivamente scritto da questi due individui, un filosofo cinquantenne e la sua ex amante ormai trentenne? Accanto a coloro che rispondono affermativamente bisogna dire che ci sono anche altre tre correnti di pensiero: chi sostiene che l’intera opera sia stata composta dal solo Abelardo, chi opta per la sola Eloisa come autrice e chi, infine, vola ancora più alto: l’opera sarebbe stata scritta da un falsario, qualcuno che conosceva molto bene sia Abelardo ed Eloisa sia la loro storia e che ha composto il celebre epistolario.
Come se i quesiti appena esposti non fossero sufficienti, dubbi sono sorti anche a proposito del periodo di composizione: è davvero un’opera del XII secolo oppure è stata scritta successivamente? Opzione che confermerebbe, tra l’altro, l’inautenticità delle lettere e la loro riconducibilità a un fantomatico falsario ben informato sui fatti, o ben fornito di immaginazione.
Negli ultimi anni le ipotesi sono andate via via riducendosi e sembrano prevalere posizioni a favore dell’autenticità, da ultimo quella autorevole di Marenbon.9 Seguendo una strada già accuratamente battuta da studiosi del calibro di Gilson, di Luscombe, di Monfrin e molti altri, personalmente ritengo l’Epistolario autentico perché, come intendo dimostrare, le ragioni a favore dell’autenticità sono numericamente superiori e logicamente più attendibili di quelle pro falsità. Ma a quanti avessero incertezze circa l’autenticità ripropongo le parole di Gilson: «È impossibile che non sia autentico: è troppo bello».10
2. Le origini del dibattito
Il manoscritto originale dell’Epistolario è andato perduto, ma nonostante ciò esistono copie del XIII e XIV secolo che testimoniano la diffusione dei testi già all’epoca dei fatti.11 Una di queste copie apparteneva a Petrarca, che la ricoprì di annotazioni scritte di suo pugno in maniera così fitta che possiamo soltanto immaginare con quale dedizione leggesse il manoscritto.
Tuttavia, per avere un’edizione completa delle opere di Abelardo occorrerà attendere quella di Duchesne e d’Amboise del 1616, comprendente le lettere e destinata a rimanere l’edizione di riferimento per un paio di secoli. Anche nel Settecento ci furono edizioni e traduzioni, ma bisogna dire che sulla scia della traduzione di Bussy-Rabutin e delle molte versioni poetiche scaturite a seguito del «Eloise to Abelard» di Pope, l’immaginazione popolare aveva deformato un po’ la vicenda, discostandosi e di molto dall’edizione originale. Nel 1723 Don Gervaise tradusse l’opera abbastanza fedelmente all’originale, in Inghilterra il reverendo J. Berigton pubblicò una traduzione eccellente che rimase tuttavia semisconosciuta. L’elemento degno di nota e comune a queste edizioni è che nessuno degli autori che misero mano al testo dubitò mai della sua autenticità: se si voleva conoscere la storia di Eloisa e Abelardo si faceva riferimento soltanto all’Epistolario. È su quest’ultimo, infatti, che si basavano anche gli storici come Bayle nel Dictionaire historique e critique, o gli autori della Gallia Christiana e quelli della Historia littéraire de la France per raccontare la storia.
Nel 183912 Guizot e sua moglie pubblicarono un saggio storico assieme alla traduzione di Oddoul del medesimo anno; nel 1845 Rémusat pubblicò la grande biografia di Abelardo, interamente fondata sulle lettere dell’Epistolario. Quattro anni dopo il Cousin diede alle stampe l’edizione magistrale delle opere di Abelardo, di cui le lettere costituiscono il primo volume.
Finora a nessuno era venuto in mente che il contenuto dell’Epistolario potesse essere un falso; il primo a sollevare la questione fu uno svizzero, Orelli, che nella sua traduzione del corpus nel 1841 avanzò l’ipotesi che mentre l’Historia Calamitatum era certamente autentica, lo stesso non poteva dirsi dello scambio epistolare, a suo avviso scritto da un amico di Abelardo ed Eloisa. L’ipotesi venne immediatamente respinta da figure come il Cousin.13
Tuttavia, una volta insinuato, il dubbio rimase, anzi, nel 1856 si rafforzò a seguito della pubblicazione di un articolo di L. Lalanne apparso nella Correspondance littéraire,14 in cui l’autore rilevava una discrepanza cronologica che analizzerò a breve e che mi limito a riportare: nel 1129 Abelardo tornò e donò ad Eloisa il Paracleto, ma nel 1133 Eloisa gli scrisse lamentando che egli non era più tornato da lei e non le aveva nemmeno scritto dal 1119, anno della loro separazione e presa dei voti. Facendo leva su ciò, Lalanne sosteneva sostanzialmente che Eloisa, possedendo le lettere sia proprie che di Abelardo, le avesse in secondo momento rielaborate a tal punto che quasi nulla sarebbe rimasto delle originali e che quanto leggiamo noi oggi fosse in pratica una versione romanzata, una composizione letteraria nuova, priva della spontaneità propria di una corrispondenza autentica tra i due amanti. Una insinuazione accolta in parte anche da Gréad, altro traduttore ottocentesco dell’Epistolario, secondo il quale sebbene non si avesse la certezza che fosse stata proprio Eloisa, sicuramente l’opera era stata rimaneggiata da qualcuno.
La questione cominciò ad assumere proporzioni europee quando nel 1883 in Germania S. M. Deutsch,15 che stava lavorando alle opere di Abelardo, affermò che l’Epistolario fosse interamente opera del magister, che lo riscrisse sulla base dei documenti autentici. La sua posizione venne ripresa e sostenuta nel 1913 anche da Schmeidler16: Abelardo volle raccontare la sua storia e quella di sua moglie romanzandola, perché il suo unico intento era trattare la questione della vita monastica, soprattutto del monachesimo femminile. La sua posizione venne rielaborata un ventennio più tardi da C. Charrier,17 la cui importanza non risiede tanto nell’aver ripreso le tesi pro falsità, quanto nell’aver provocato, in risposta al suo testo, l’Eloisa e Abelardo di Gilson.
Il contributo di Gilson è significativo per due motivi: primo, perché egli riuscì a confutare con estrema facilità non solo il contrasto meramente cronologico sollevato da Lalanne, ma anche altri contraddizioni minori connesse alla principale di cui si è detto e tutte alla base della posizione pro falsità; in secondo luogo, perché dalla somiglianza di stile tra le lettere non si poteva affatto dedurre che dietro ci fosse un’unica penna.
Eloisa fu allieva di Abelardo, è naturale che avesse ricevuto anche insegnamenti intellettuali e che sotto quella particolare luce gli scritti avessero elementi in comune; ma non bisognava dimenticare le profonde differenze di carattere e di tesi sostenute, prima tra tutte l’avversione di Eloisa per le nozze. Dunque sì, punti di contatto ce ne erano eccome, ma per la prima volta uno studioso riuscì a far emergere nettamente la figura femminile della storia, rivendicando una posizione, amorosa e filosofica insieme, che strideva in tutto e per tutto con quella di Abelardo. E per la prima volta in quasi cento anni di dibattito, nonostante la diffusione della tesi di Petrella18 secondo il quale l’Epistolario non apparteneva neppure al XII secolo, ma era stato composto almeno un centinaio di anni dopo la morte di Abelardo ed Eloisa, l’ago della bilancia tornava a pendere decisamente a favore dell’autenticità.
Uno studio che è d’obbligo ricordare è quello che fece Muckle nel 195319: egli evidenziò una differenza profonda tra le prime due lettere di Eloisa, passionali, accese e tutte rivolte all’amore per Pietro, rispetto alla terza, più fredda e interamente dedicata al suo ruolo di badessa alla guida della comunità del Paracleto. A suo parere Eloisa non avrebbe mai potuto ricevere le lettere di Pietro di Cluny o di papa Adriano IV poiché essi sarebbero rimasti scandalizzati dal contenuto delle prime due lettere ad Abelardo, che mal si addicevano a una badessa e guida spirituale. Dunque, o le lettere cominciarono a circolare soltanto molto dopo la morte di Eloisa, avvenuta nel 1164, oppure le prime due furono scritte successivamente e non per mano di Eloisa, che non avrebbe potuto lasciar diffondere una tale immagine di sé. Tuttavia l’idea di uno scrittore esterno è ritenuta al contempo da Muckle poco attendibile, e conclude così:
«Person, sinon un écrivain de génie, n’aurait pu peidre ainsi l’amour frustré et porter si profondément son regard dans le cœur d’une femme envoutée par un homme inaccessible, come apparait Heloise dans ces deux lettres qui ont posé tant de questions […] Je ne considère pas que l’on puisse arriver à une certitude sur cette question controversée».20
Il dibattito, sopitosi per circa un decennio, riprese negli anni Settanta del secolo scorso, quando nel 1972 l’americano J. Benton dichiarò che l’Epistolario è un falso, fabbricato al Paracleto molti anni dopo la morte di Eloisa. Benton notò incongruenze finora mai rilevate, come le divergenze sulle regole di vita adottate nell’abbazia di Eloisa e citazioni bibliche fatte in base a usi cronologici posteriori. Lo studio di Benton ha semplicemente riaperto la discussione e fatto sì che schiere di studiosi prendessero posizione; M. T. Fumagalli, P. Zerbi e D. Luscombe hanno in primis criticato il metodo positivista, troppo asettico e per nulla attento ai risvolti storici e psicologici della vicenda, tanto che Benton è ritornato in parte sulle sue affermazioni. La retractatio di Benton non ha dissipato i dubbi sull’autenticità, intaccata dai saggi di H. Silvestre che ritiene che le incongruenze sul piano culturale, psicologico e storico delle lettere siano palesi spie del fatto che furono composte tra XIII e XIV secolo, esattamente durante la polemica tra conservatori e progressisti in materia di morale, che avrebbero toccato il diapason in occasione della composizione del Roman de la Rose di Jean de Meun.
Infine, una posizione a se stante da tener presente è quella del medievalista P. Von Moos che, sulla scia di quanto aveva fatto G. Misch21 nel 1959, ha inquadrato la corrispondenza nell’ambito di un genere letterario sciolto dal problema della paternità dei testi. A suo avviso l’Epistolario veniva letto come un dialogo consolatorio che raccontava di una conversione esemplare: Abelardo ed Eloisa, vinti i tormenti della lussuria, trovarono entrambi la pace in Dio.
In questa intricata matassa di articoli, monografie, saggi e libelli di vario genere, ci sono tuttavia alcuni punti fermi su cui vorrei soffermare l’attenzione: il fatto, ben evidenziato dagli studiosi inglesi facenti capo a Luscombe,22 che l’Epistolario cominciò a circolare piuttosto tardi, tra il XIII e il XIV secolo e con un numero limitatissimo di copie.23 Ma circolò fin dal principio come un dossier organizzato, omogeneo e unitario, letto probabilmente senza fare riferimento all’Abelardo filosofo autore della Theologia Summi Boni o dello Scito te Ipsum, ma solo all’Abelardo compagno di Eloisa; tuttavia, nulla impedisce di pensare che il più antico codice, il ms. 802 di Troyes (datato tra XIII e XIV secolo) risalga a un modello esemplato nell’abbazia di Eloisa, quest’ultima prima responsabile della diffusione dei dossier epistolare.24
3. Quattro ragioni a sostegno della falsità
Tornando all’origine del dibattito, si è detto che fondamentalmente tutti gli autori pro falsità hanno costruito le loro argomentazioni facendo leva sulle discrepanze cronologiche notate da Lalanne nella prima delle tre lettere di Eloisa. In realtà sono diversi i passi della prima lettera che gettano ombre sull’autenticità dello scritto, ma il più dibattuto è il seguente:
«Perciò il tuo ormai lungo oblio riempì di non poco meravigliato turbamento i fragili inizi della nostra vita monastica, poiché né dalla reverenza verso Dio, né dall’amore verso di noi, né dall’esempio dei santi padri sei stato indotto a tentare di consolare me, vacillante e già consumata dal continuo dolore, con le parole quando ti ero vicina o con una lettera quando ti ero lontana».25
Sappiamo, perché lo scrive Abelardo stesso nella Historia Calamitatum e la cui autenticità non è dubbia, che egli incontrò diverse volte Eloisa al Paracleto da lui donatole. Per cui sembra a un primo sguardo assurdo che in questa frase, scritta dopo il trasferimento della comunità al Paracleto, Eloisa lo rimproveri di non averle scritto e di non essersi più visti. Insomma, sarebbe tutto cronologicamente falsato e dunque l’intera lettera inattendibile.
E. McLeod26 riporta la diatriba assieme a diverse traduzioni, fondamentali per sciogliere l’apparente contraddizione del passo.
«Quel n’est donc pas mon étonnement de voir que depuis longtemps déjà vous avez mis en oubli l’œuvre commencée à peine et encore mal assurée de notre conversion. Sentiment de respect pour Dieu, d’amour pour nous, exemples de Saint Pères, rien, quand mon ame chancelle, quand le poids d’une douleur invéterée l’accable, rien ne vous a inspiré la pensée de venir me fortifier par vos entretiens ou de moins de me consoler de loin par une lettre».
Diversamente dalla libera traduzione di Gréard, Moncrieff sceglie di rendere così il passo:
«Wherefore to no little amazement thine oblivion moves the tender beginnings of our conversation, that neither by reverence of God, nor by love of us, nor by the exemples of the holy Fathers hast thou been admonished to attempt to confort me, as I wawer and am already crusched by prolonged grief, either by speech in thy presence of by letter in thine absence».
Mentre la traduzione di Gréad è più libera, quella letterale di Moncrieff suggerisce che Abelardo non sia mai andato a visitare Eloisa. Ma «tutti e due, traducendo movit come se il verbo fosse un presente invece che un perfetto, sottintendono con questa frase che Eloisa esprima uno stupore attuale per un’attuale trascuranza. Molti altri traduttori hanno fatto lo stesso».27
La prima persona a rendersi conto della sfumatura fu, guarda caso, una donna: la signora Guizot sostenne, infatti, che Eloisa qui non stesse rimproverando Abelardo per non essere andato a trovarla, bensì per non essere stato presente né al momento della sua conversione né successivamente, evitando sia di farle visita sia di scriverle. Effettivamente, sono passati quasi quindici anni dalla conversione ed Eloisa non ha saputo più nulla del marito, per cui è logico pensare che una volta ripresi i contatti ella gli fece immediatamente notare queste mancanze nei propri confronti.
Ogni contraddizione scompare se il passo viene interpretato in questo modo: esso è riferito al passato, Eloisa porta avanti quello che lo stesso Abelardo definisce «il tuo antico lamento contro Dio», ripensando unicamente a come lui l’aveva trattata, non rincuorandola né quando ella era presente né quando lo aveva lasciato per entrare all’Argenteuil. E infatti, le prime parole vertono proprio sull’abbandono, per poi concentrarsi sui difficili inizi della loro conversione, alludendo dunque a mancanze da parte di Pietro circoscritte a quel triste periodo.
Una mistificazione simile accade in un altro passo della medesima lettera:
«Dimmi se puoi una sola cosa: perché dopo la nostra conversione, che tu solo decidesti, io sono giunta per te ad un tale grado di indifferenza e di oblio da non essere confortata con parole, quando sei presente, né consolata con una lettera quando sei assente… ».28
Come prima, Eloisa lamenta l’assenza di Abelardo; ma la soluzione è la medesima che abbiamo visto per il passo precedente: ella si rammarica del fatto che le visite di Abelardo non erano per veder lei, non erano intime ed affettuose come avrebbero dovuto e come lei desiderava che fossero, dal momento che egli non si informò mai del suo stato d’animo né, per quel che ne sappiamo, cercò mai di aiutarla in qualche maniera. Quello che occorre sempre tenere a mente è che Eloisa era sposata con Pietro e che prima ancora erano stati amanti: avevano raggiunto un livello di intimità che non poteva ritenersi appagato dal semplice rapporto tra maestro e allieva o tra benefattore e monache; qualunque donna si sarebbe aspettata un interesse rivolto solo a lei, una domanda diretta esclusivamente a lei.
Ci sono poi altre obiezioni, minoritarie, già affrontate magistralmente da Gilson e risolte: nella prima lettera ad Eloisa, Abelardo le scrive che le invierà il Salterio da lei richiesto29 e tuttavia nelle lettere di Eloisa non si trova nessuna richiesta di questo oggetto. Motivo per cui si ritiene di trovare in questa discrepanza la prova che la corrispondenza non sia autentica. La soluzione è più semplice del previsto: Eloisa può tranquillamente aver richiesto il Salterio durante una delle visite di Abelardo al Paracleto. Oltretutto, non meno importante è evidenziare che Abelardo usa il perfetto, requisisti, e non il presente, requiris, che è la forma usata quando ci si riferisce a un fatto appena accaduto. L’uso del perfetto denota invece una richiesta non molto recente.
Se quanto detto non fosse sufficiente, occorre tenere presente la vita di Abelardo, che dal 1127 è abate del monastero di Saint-Gildas di Rhuys, in Bretagna: «I costumi dei monaci erano turpi e indomabili, e ciò era ben noto a tutti. […] Ognuno di loro manteneva se stesso, le sue concubine, i figli e le figlie con i beni che possedeva […] rubavano anche e portavano via tutto quello che potevano».30 Abelardo aveva appena avuto che fare con una comunità così ostile che alcuni dei monaci avevano addirittura tentato di avvelenarlo col calice della messa, per cui è abbastanza probabile che avesse scordato la richiesta di Eloisa e che questa gli fosse tornata in mente soltanto una volta ripresi i contatti con lei.
Infine, l’ultima polemica volta a convalidare la tesi dell’inautenticità dell’Epistolario fa leva sulla famosa espressione «antico lamento contro Dio», usata due volte da Abelardo nella prima lettera ad Eloisa e riferita alle sue lamentele contro Dio per il modo della loro conversione. Ciò, si afferma, è in contrasto con l’affermazione per cui Eloisa non gli avesse mai scritto prima del suo dolore perché Abelardo, usando il termine «antico», sembrerebbe alludere a un lamento che lei gli ha rivolto più e più volte, magari in lettere che sono andate perdute e che non possiamo leggere.
Tra le obiezioni finora analizzate questa è sicuramente la più debole: è chiaro che Abelardo sta alludendo al momento della presa dei voti avvenuta molti anni prima, altrimenti perché definirlo «antico»? L’impressione che si ha leggendo la lettera è che Abelardo apprese con irritazione il messaggio di Eloisa, perché convinto che ormai dopo tutti quegli anni l’amarezza di lei fosse svanita, non avendone più parlato dal 1118. Tesi sostenuta dall’intero tono degli scritti di Abelardo che molti studiosi31 hanno sottolineato: mentre Eloisa sembra essere rimasta ferma al momento della separazione e della presa dei voti, sognando ancora di poter concedersi ad Abelardo invece che a Dio, le lettere di Pietro sono una continua esortazione a volgersi a Dio, a sublimare quanto accaduto tra di loro, a smetterla di tornare sulla loro storia d’amore, all’«antico lamento» appunto.
A discolpa di Abelardo si può sottolineare come egli sia ormai diventato un ultra cinquantenne, cominci a sentirsi vecchio e ad accusare i primi malanni dell’età: tutti elementi che lo spingono a dirigere i suoi pensieri alla salvezza ultraterrena. Eloisa è ancora una donna integra, per giunta giovane e meno rivolta alla salvezza della propria anima.
Tuttavia una lettura attenta delle parole di Pietro suggerisce che, nonostante la freddezza apparente evidenziata all’unisono dagli studiosi, egli provasse ancora amore nei confronti di sua moglie. Nelle lettere di Abelardo ci sono alcune piccole cose a mio parere degne di essere evidenziate: la tenerezza e il rispetto autentici quando le scrive «penso che a una donna come te Dio ha dato tutte le capacità»; oppure quando le confessa: «io ti appartengo», o la prega «conserva la memoria di me». Certamente, in confronto ad Eloisa le sue non sono altro che piccole parole messe lì e che quasi si perdono in uno scritto colmo di citazioni sante. Ma sono quelle «parole al posto di cose» che non poteva darle più e in questo modo Pietro adempie alla richiesta fattagli da Eloisa stessa.
4. Sei ragioni per ritenere l’Epistolario autentico
4.1. I testimoni di Abelardo: Folco de Deuil e Roscellino di Compiègne
Dunque i fattori a sostegno della falsità dell’epistolario sono piuttosto deboli; al tempo stesso mi sembra che gli elementi a sostegno dell’autenticità della storia e degli scritti siano numericamente superiori. Tra questi, sono sicuramente fondamentali le testimonianze coeve ai fatti appena esposti. Sono essenzialmente sei gli autori cui possiamo fare affidamento per provare non soltanto che Abelardo ed Eloisa sono esistiti, ma anche che i fatti si sono svolti più o meno come essi li hanno riportati negli scritti.
Il primo di questi è Folco de Deuil, un priore dell’abbazia di Deuil appunto, di cui non sappiamo quasi nulla eccetto che scrisse una Epistola ad Abaelardum32 un paio di anni dopo la fine della storia con Eloisa, pare per consolarlo del triste epilogo. «In fact with the notable exception of Georg Misch, scholars have read Folco’s letter so carelessly that they have taken it for a well-disposed and serious attempt to console Abelard for his calamities».33
In realtà Folco è malevolo e tagliente e non si fa scrupoli a descrivere Abelardo sia come un ciarlatano dal punto di vista intellettuale, nonché come un libertino che prima di incontrare Eloisa se la sarebbe spassata con un gran numero di donne.
«Di quello che, come dicono, fu la causa della tua rovina, cioè del tuo amore per le donne e delle insidie sensuali con cui esse catturano i debosciati che ricercano la loro compagnia, mi sembra meglio non parlare anche per non dire cose che contrastano con la dignità de nostro ordine […] Tutto quello che non spendevi per i minuti bisogni quotidiani, lo consumavi buttandolo nella voragine senza fondo dei piaceri della carne […] La prova, mi sembra, la tua estrema povertà: giacché quando ti capitò la nota disgrazia, di tanto denaro messo insieme non possedevi che i panni che avevi addosso».34
La stessa castrazione di Abelardo, evento indubbiamente tragico, è narrato nelle righe successive come una farsa crudele: tutta la città pianse la perdita della virilità del magister, sicuramente le donne, descritte intente a strapparsi i capelli dal dolore, ma anche i canonici e i vescovi, lasciando intuire che Abelardo fosse dedito al sesso anche con uomini. Le parole di Folco tramutano la tragicità con cui Abelardo racconta l’episodio in una sorta di storiella divertente, giusta punizione divina per un Don Giovanni traviato dalla lussuria. Mentre dal punto di vista intellettuale essa trasuda invidia riga dopo riga: frotte di studenti affrontavano la selvaggia foresta del sud della Francia per giungere nel nord e poter ascoltare le lezioni del grande magister; lezioni che Folco non riesce proprio a capire che cosa avessero di straordinario, data la mania di Abelardo di indagare tutto, Scritture Sacre comprese, con quella dannata Logica.
Ma, seppur con questi toni, la lettera di Folco testimonia diversi elementi importanti: che Abelardo ed Eloisa furono i protagonisti di una vicenda che culminò con l’evirazione di lui e che la storia era già famosa e chiacchierata dalle persone loro coeve. Questo comporta sicuramente un ricamare sopra gli eventi come avviene tutt’oggi nei piccoli paesi di provincia, ma le chiacchiere sono sempre ancorate a una realtà di fatti storicamente determinati.
Inoltre conosciamo bene le date di nascita e morte di Abelardo, 1079 — 1142, non soltanto grazie alla Historia, ma anche ai resoconti dei Concili di Soissons, 1121, e Sens, 1140, la cui condanna per eresia raggiunse Abelardo a Cluny nel luglio del 1142; ma egli era già morto l’aprile dello stesso anno, come testimonia Pietro il Venerabile. In aggiunta a ciò conosciamo molte altre date della sua vita che sono coerenti tra di loro e soprattutto con l’incontro con Eloisa, avvenuto nel 1115, quando egli era all’apice della sua carriera di logico e magister parigino. Tutto questo per dire che, con un margine di oscillazione di qualche anno, la lettera di Folco composta nel 1118 è attendibile e cronologicamente coerente con gli eventi della vita di Abelardo. Essa quindi conferma, con una testimonianza esterna agli amanti leggendari ma loro contemporanea, gli eventi.
La seconda testimonianza importante è rappresentata da Roscellino, rimasto celebre per la sua posizione di estremo nominalismo all’interno della diatriba sulla natura degli Universali. Roscellino fu uno dei maestri di Abelardo e intorno al 1120 scrisse anche lui una Epistola ad Abaelardum; L’ostilità tra Roscellino ed Abelardo non era un mistero, anzi, è ben conosciuta fin dal XII secolo, per cui non stupiscono le sue parole amare: così come ha perso il suo pungiglione e non può più pungere alcuna donna, allo stesso modo Abelardo sta perdendo la sua capacità di pungere con la lingua, o meglio, con l’efficacia delle sue argomentazioni logiche. Insomma, al declino fisico, si affianca di pari passo quello intellettuale e anche morale. Infatti, Pietro ha perso ogni barlume di moralità, seducendo una ragazza più giovane e tradendo la fiducia che Fulberto aveva riposto in lui, credendolo moralmente incorruttibile oltre che un modello di castità. Al tempo stesso Roscellino fornisce un’immagine di Eloisa non troppo pudica, parlando di lei come di una prostituta, magistralmente esperta nell’ars amandi:
«You don’t even send the money to your whore, to pay for your debauchery, you still take it to her yourself. While you could enjoy her, you paid in advance; now you sin even more, rewarding her for the past debauches rather than buying future pleasures».35
Ora, nella seconda lettera dell’Epistolario, vale a dire la prima scritta da Eloisa, ella non esita a dichiarare che avrebbe di gran lunga preferito essere chiamata amica o sgualdrina o addirittura scortus, piuttosto che moglie di Abelardo. Il termine scortus è sicuramente forte, indicando nemmeno l’amante ma proprio la prostituta, come whore appunto: ma il contesto in cui ella scrive queste parole disambigua la questione. Eloisa sta infatti cercando di prendere le distanze dallo status di moglie, legame che presuppone obblighi e doveri verso il marito e che lei aborrisce perché ciò a cui aspira è un amore puro e scevro di qualunque pretesa, un amore disinteressato come quello descritto da Cicerone nel De Amicitia. Dunque enfatizza questo legame di amore che tutto dà senza nulla chiedere in cambio caricando un po’ i toni del linguaggio: avrebbe preferito essere la prostituta e non la moglie di Abelardo, se ciò fosse servito a non perderlo. Di più: lo status di moglie non aggiunge nulla al loro amore e non importa se agli occhi della società ella sia considerata amante, prostituta o moglie di Abelardo perché è sufficiente che in cuor suo lei stessa sappia che lo ama disinteressatamente. Oltretutto l’opposizione tra lo status di moglie e concubina, inserito tra l’altro in pagine di grande autoumiliazione, è un topos classico presente anche in Ovidio, ben noto alla badessa.
Tornando a Roscellino, non è un casuale che sia lui che Folco accusino Abelardo di immoralità, presentandosi al contempo essi stessi come divulgatori e sommi esempi di moralità: le fabliaux medievali erano solite concludersi con un insegnamento morale da tenere a mente. È interessante notare come due individui, che non risulta abbiano brillato per integrità morale, facciano la predica e mostrino cotanta indignazione per la vicenda sessuale intercorsa tra i due amanti. Ma, prendendo le distanze dal motivo per cui sia Folco che Roscellino furono così taglienti con Pietro, quello che in questa sede ci interessa è che i loro scritti testimoniano l’autenticità dei protagonisti e dell’intera vicenda. Lo stesso episodio dell’evirazione, affermano entrambi, era molto diffuso e conosciuto: «Avevi abbandonato le membra alla quiete e al sonno, e non ti apprestavi a fare del male ad alcuno, quando ecco che mani empie e ferro mortale non esitarono a spargere il tuo sangue innocente, senza motivo».36
Sulla notorietà della storia, in particolare dell’evirazione come punizione, ricalca anche Roscellino: «Ma Dio della vendetta, il Signore, Dio della vendetta agì come volle, privandoti solo di quella parte con la quale avevi peccato. […] E non è necessario per insultarti inventare qualcosa, com’è tua abitudine, ma basta ripetere ciò che è noto da “Dan a Beersheba”. Del resto la tua infamia è ben nota e anche se la lingua tace la grida la realtà dei fatti».37
Nessuno dei due accenna ad altri personaggi connessi ad Abelardo ed Eloisa, nessuno sembra pertanto che potesse conoscerli così a fondo da scrivere minuziosamente la loro storia, nessuno sembra avesse motivo per farlo. Oltretutto, sappiamo38 che Abelardo fu bersaglio di attacchi e polemiche per gran parte della sua vita, ponendosi, fin dalla giovinezza come un personaggio avverso alla tradizione e ai costumi della propria epoca. Non stupisce dunque che, per il suo carattere e i suoi insegnamenti così nuovi e moderni, egli potesse attirarsi l’odio anche di Roscellino e di Folco.
4.2. I testimoni di Eloisa: Ugo Metello e Pietro il Venerabile
Per quanto riguarda Eloisa occorre ricordare la corrispondenza che ella tenne con due persone a lei coeve: Ugo Metello e Pietro il Venerabile. Il primo,39 un canonico della cattedrale di Toul in Lorena, scrisse due lettere alla badessa e tuttavia sembra che non abbia ricevuto risposta.
Ci sono stati dubbi sulla datazione di queste epistole: in un primo momento si è pensato che le lettere di Metello fossero tarde, del 1150 circa. Al contrario Lobrichon e Mews hanno dichiarato che esse furono scritte tra il 1131 e il 1135 per via di allusioni a due fatti che stavano accadendo in questi anni: il rifiuto di Eloisa di accettare la benedizione abbaziale e lo scontro tra Abelardo e Bernardo di Clairvaux, storicamente molto importante. Metello seguì con passione lo scontro che oppose Abelardo a Bernardo, provando anche ad inserirvisi ma non riuscendo a destare l’interesse dei due filosofi scrisse ad Eloisa, la cui fama non era inferiore a quella di Bernardo o di Abelardo.
Egli si rivolge alla badessa dichiarando che entrambi sono accomunati dalla condivisione di beni di sommo valore: la vicinanza intellettuale ad Abelardo, definito «grande maestro della nostra milizia», con esplicito riferimento agli anni di insegnamento impartiti alla giovanissima Eloisa. Per quanto riguarda Metello stesso egli afferma che, sebbene avesse scritto ad Abelardo criticandolo su alcune questioni, tuttavia non può non ammettere l’acutezza delle riflessioni di Pietro e dunque proclamarsi suo discepolo.
Nel seguito del suo scritto Ugo si congratula con la badessa per le sue virtù virili, che la rendevano migliore di qualsiasi donna, sottolineando come egli ed Eloisa avessero in comune una cultura vasta e profonda, paragonabile a quella dei principali letterati del loro tempo. Metello calca sugli autori più noti alla badessa: Ovidio, Orazio e Cicerone, di cui ella sapeva riconoscerne i passi a memoria, senza bisogno del sostegno di riferimenti scritti e dei quali è evidente la profonda devozione di entrambi.
La figura di Metello, spesso non tenuta in considerazione dagli studiosi per il semplice fatto che le sue sono lettere mute, prive delle risposte di Eloisa, secondo me è importante addirittura più di quella di Pietro il Venerabile. Infatti, è Metello il primo a confermare il legame tra Abelardo ed Eloisa nella maniera in cui lo conosciamo noi moderni: se Roscellino e Folco avevano marcato il legame sessuale e oltraggioso dei due amanti, Metello parla di militia ed è facilmente intuibile che sia una militia intellettuale oltre che amoris, definizione che doveva suonare familiare ad Eloisa, abituata a leggere poeti latini e dunque a rapportare tale locuzione alla poesia di Tibullo o Properzio. Metello conferma gli anni giovanili di Eloisa, fatti di studio e di legame con Abelardo, poco importa se tale legame fu sessuale o meno e tuttavia Abelardo stesso ci conferma che lo fu.
Metello è il primo dotto professore contemporaneo ad elogiare Eloisa e a giudicarla da pari a pari: il primo, se si esclude Abelardo, a confermare quanto appare nella Historia Calamitatum: «per ricchezza letteraria era eccelsa».40 Se queste lodi in principio avrebbero potuto essere giudicate prive di oggettività in quanto pronunciate dal marito, ora trovano conferma nella figura di un canonico che non aveva alcun motivo per encomiare una donna che Roscellino non si era fatto scrupoli a definire whore.
Infine Ugo cita gli autori latini familiari ad Eloisa e all’origine dell’erudizione che la rese famosa in tutta la Francia, risultando di fatto come il solo che non si limita a dichiarare tale sapere ma lo mostra portandovi delle prove. Sono pochi gli studi esistenti volti a rilevare assonanze e rimandi ai classici nelle lettere della badessa;41 uno studio un pochino più accorto delle parole di Eloisa mostra immediatamente l’approfondita conoscenza di Seneca e degli autori citati da Metello, in particolare di Ovidio, dal momento che soprattutto le prime due lettere di Eloisa contengono intere frasi provenienti dalle Heroides ovidiane.42 È proprio in questo contesto che Metello dichiara come Eloisa abbia superato il sesso femminile: lo ha fatto «scrivendo, componendo versi e dando un senso nuovo alle parole comuni grazie ad associazioni ardite. Ancora meglio hai superato la debolezza femminile e ti sei indurita di una forza virile».43
Di fronte a uno slancio così appassionato ci si aspetterebbe che Eloisa abbia risposto ringraziando: invece non lo fece, o almeno non possediamo nessun documento in cui si possibile rintracciare una risposta di Eloisa a questa e alla seconda lettera inviatale da Ugo. Un fatto che personalmente mi stupisce e che ritengo possa avere la seguente spiegazione: nonostante la cultura e l’elevatezza spirituale ed intellettuale della badessa, ella non intrattenne mai corrispondenze al di fuori di quella con Abelardo. Le lettere che scambierà con Pietro il Venerabile verranno scritte dopo la morte dell’amato ed esclusivamente in funzione di lui: Eloisa vuole notizie del suo Pietro e si rivolge al Venerabile che aveva accolto Abelardo presso Cluny, dove poi egli era morto. L’assenza di scambi epistolari con altri intellettuali testimonia la perseveranza dell’amore di Eloisa per Pietro, in linea con quanto si legge in un passo della sua prima lettera e in apertura della terza: «Al tuo comando senza indugiare mutai sia l’abito sia l’animo, per dimostrarti unico possessore sia del mio corpo sia del mio animo» e «Al suo nella specie, la sua nell’individuo».44 Unicum e singulariter denotano questa profonda devozione.
Il silenzio di Eloisa nei confronti di Metello ha pertanto una ragione molto semplice: così come Abelardo fu il suo unico amante, parallelamente ella lo considera il suo unico interlocutore intellettuale: avrebbe potuto rivolgere a molti intellettuali che la stimavano i quarantadue quesiti che compongono il corpus chiamato Problemata Heloissae, scritto proprio negli stessi anni delle lettere di Ugo Metello, eppure li rivolgerà soltanto a Pietro.
La seconda lettera inviatale da Ugo presenta toni meno accesi e si sofferma sul sacrificio di Eloisa, che ha volontariamente rinunciato alla fama che la sua cultura avrebbe potuto garantirle anche in un mondo prettamente maschile e, come San Paolo, in nome della vera filosofia si è ritirata in monastero. È interessante però notare che mentre nell’incipit dello scritto Metello dichiara la spontaneità di Eloisa nel prendere i voti, poche righe dopo scrive:
«Desiderate soltanto piacere a Dio, perché piacere a lui significa vivere la vera vita e spiacere a lui è peggio della morte. Che vi piaccia allora piacere a Dio. E come fare? Facendo sì che vi dispiaccia quel che dispiace a Dio. Le vostre parole sono dolci alla mia gola. Dolci quanto? Più dolci del miele e del favo del miele».45
Andando oltre la mera retorica lusinghiera che si evince con facilità, è interessante notare come nelle lettere inviate ad Abelardo in quegli anni Eloisa adoperi espressioni pressoché identiche alle parole di Metello.
Nella prima dichiara: «Nessuna ricompensa per loro [le fatiche religiose] devo aspettarmi da Dio, per amore del quale, finora, non risulta che io abbia fatto nulla»; e nella seconda «Ma Dio lo sa, in ogni momento della mia vita, temo ancora di offendere più te che Dio, desidero piacere più a te che a Lui. All’abito religioso mi ha tratto il tuo comando, non l’amore per Dio», a cui si aggiunge poco dopo «E tanto più pericolosa è per me la tua lode di me, quanto più è gradita, e tanto più io ne vengo catturata e me ne compiaccio, quanto più in ogni cosa mi sforzo di piacerti».
Se paragonate a queste frasi di Eloisa, quel «vi piaccia piacere a Dio» di Metello sembrerebbe aver colto il dissidio interiore della badessa. L’incontinentia di Eloisa non segue la tradizione paolina per cui “vedo il bene, lo approvo, ma pecco con le mie azioni”: essa si configura come rovesciata “vedo il bene e in apparenza faccio il bene, ma in realtà faccio male questo bene perché il mio animo non riesce davvero a volerlo”. Metello morì nel 1157 e sembra che scrisse ad Eloisa subito dopo aver contattato anche Abelardo, dunque prima del 1142, anno della morte di Pietro. Forse le sue lettere giunsero prima che Eloisa scrivesse ad Abelardo e perciò lei riprese questa riflessione; ma la difficoltà di datare le lettere di Metello rende praticamente impossibile confermare o smentire questa profonda influenza.
Come anticipato Pietro il Venerabile intrattenne una breve corrispondenza con Eloisa a seguito della morte di Abelardo, avvenuta il 21 aprile 1142. L’Epistolario del Venerabile contiene tre lettere: una sua risposta ad una epistola, andata perduta, in cui Eloisa era venuta a conoscenza della morte di Abelardo e si apprestava a chiederne notizie all’abate del monastero dove suo marito aveva trascorso gli ultimi mesi della sua vita; la risposta di Pietro di Cluny, Epistola CXV, risalente al 1144, è la più importante delle tre missive, a cui seguì una breve risposta di Eloisa e poi l’ultima lettera di Pietro di Cluny alla badessa.
La lettera di Pietro di Cluny non è la prima testimonianza al di fuori dei testi abelardiani, come alcuni studiosi hanno sostenuto, dell’esistenza di Eloisa da parte di una figura a lei coeva; abbiamo già visto che ci sono due lettere scritte e inviate da Metello. Non concordo con gli studiosi nel considerare quelle del Venerabile più autorevoli di quelle di Metello; certamente sono lettere scritte da un grande intellettuale dell’epoca a una donna, di cui non celebra soltanto la cultura ma ricorda anche i trascorsi giovanili con Abelardo, ma non sono più utili di quelle di Metello e sicuramente offrono meno informazioni di quelle dateci da Ugo.
L’epistola può dividersi in due parti: una sorta di esortazione spirituale e sostegno ad Eloisa e una conseguente consolatio in mortem per la perdita del marito.
L’intero tono della lettera del Venerabile ha aperto al dibattito critico46 circa la compatibilità tra l’Eloisa che emerge dalle sue righe e quella di cui si legge nell’Epistolario, l’Eloisa ribelle che dichiara la sua innocenza nei confronti degli atti impuri commessi con Pietro. Ma ai fini di questo scritto ci interessa dimostrare l’autenticità della vicenda narrata nell’Epistolario, motivo per cui riporto la parte finale della lettere del Venerabile:
«Venerabile e carissima sorella nel Signore, questi al quale, dopo il congiungimento carnale, ti sei unita con il vincolo tanto più forte, quanto più perfetto, della carità divina, con il quale e sotto il quale a lungo hai servito il Signore, questi, io affermo, egli scalda nel suo seno, al tuo posto e come una seconda te stessa e per sua grazia lo conserva per restituirtelo alla venuta del Signore […] Serba dunque memoria di lui nel Signore».47
Poche righe prima di questa citazione egli scrive «il tuo Pietro»: il Venerabile ricorda il doppio legame che unì Eloisa ad Abelardo, in principio carnale e successivamente spirituale.
Non vedo perché dubitare ancora dell’Epistolario, alla luce anche delle parole dell’abate di Cluny, che inizia la sua lettera elogiando la cultura per cui Eloisa era famosa; Pietro conferma completamente tutti gli aspetti della vicenda.
La risposta di Eloisa è stata giudicata deludente dalla critica: ella si limita a ringraziare e a ricordare la visita del Venerabile al Paracleto in occasione della traslazione del corpo di Abelardo, espressamente voluta da Eloisa; ma a mio parere il testo è significativo perché è qui che per la primissima volta Eloisa menziona Astrolabio, suo figlio. Lo fa con naturalezza, come se fosse chiaro e risaputo che la sua vicenda culminò con la gravidanza; Eloisa chiede al Venerabile di intercedere per Astrolabio e di aiutarlo a sistemarsi come ultimo grande favore a lei e ad Abelardo. Mi sembra l’ennesima e quasi petulante conferma che si può portare a riprova che l’Epistolario sia autentico.
Nonostante ciò ci sono studiosi che hanno adoperato proprio il carteggio tra Eloisa e Pietro il Venerabile per tornare a intaccare la vicenda. Infatti, secondo J. Benton48 l’Epistolario sarebbe un falso non solo perché al Paracleto non si adottò la regola che Abelardo aveva formulato per Eloisa e le sue monache,49 ma anche perché il comportamento ivi adottato differiva da tutti i monasteri femminili della zona, guidati oltretutto, da badesse sessantenni e non giovani come la nostra Eloisa. Anzi lo studioso attacca aspramente il bigottismo della maggior parte degli studiosi che a suo avviso ritengono l’Epistolario autentico perché conforme allo stile compositivo del XII secolo e per via dell’autorità di E. Gilson.50
Ora, secondo il Vecchio Testamento per divenire badessa occorreva avere sessant’anni; ma per il Concilio di Calcedonia soltanto quaranta. Quando Eloisa diventò badessa pare che ne avesse trentacinque: dico pare perché non siamo certi che sia nata nel 1101 come vuole una tradizione consolidatasi, che vorrebbe che quando Eloisa morirà, il sedici maggio del 1164, ella avesse la stessa età di Abelardo quando morì, ovvero sessantatré anni.
Da un passo tratto dall’inizio della lettera CXV di Pietro il Venerabile a Eloisa si evince che egli era di qualche anno più giovane di lei, nato sicuramente tra il 1092 e il 1094 e dunque occorre retrodatare la nascita di Eloisa, spostarla al 1090 circa. Per cui ella aveva superato i vent’anni quando incontrò Abelardo — infatti il Venerabile scrive che lui nel 1114 aveva vent’anni mentre Eloisa era più grande — e quando nel 1129 Abelardo le donò il Paracleto lei aveva trentanove anni.
La semplice lettura della lettera di Pietro il Venerabile, è sufficiente per affossare la prima parte della costruzione di Benton, mentre leggendo le lettere VII e VIII di Abelardo in parallelo con i cartulari del Paracleto riusciamo ad affossare la seconda parte.
Per quanto riguarda la Regola per le monache del Paracleto, Abelardo scrisse che esse potevano mangiare carne tre volte a settimana, andando contro la norma tradizionale che riteneva che la carne aumentasse il desiderio sessuale e dunque andasse consumata con parsimonia. Buona parte dell’argomentazione di Benton contro l’autenticità fa leva sul fatto che tra le spese del Paracleto — dunque però ammette l’esistenza di documenti paraclitensi quindi cade la sua prima tesi, ovvero che non esistesse un Paracleto e che esso fosse un’appendice del monastero di S. Denis51 — non compaiono spese per la carne e siccome le monache non soltanto non adottarono, secondo Benton, la regola scritta da Abelardo ma seguirono una regola immaginaria diversa da quella di tutti gli altri monasteri, siamo di fronte a testi completamente falsi.
Il Paracleto esistette, ci furono due ratificazioni papali: nel novembre del 1131 il papa Innocenzo II confermò con un privilegio il possesso dell’Oratorio della Trinità, Paracletus, da parte di Eloisa. Successivamente, nel 1147 il papa Eugenio III fece redigere una lista dei possedimenti del Paracleto; poi possiamo concordare con Benton quando afferma che non fu Abelardo il donatore del terreno e può essere plausibile che i benefattori fossero più di uno, tra cui egli menziona Simone di Nogent e Milone di Nogent.
Per quanto riguarda il consumo della carne al Paracleto, sembrerebbe che Abelardo abbia dato una Regola diversa da tutti gli altri monasteri e questo implicherebbe l’inautenticità dell’Epistolario. A mio avviso invece questa presunta unicità rafforza l’autenticità dell’Epistolario e conferma la figura straordinaria di Pietro. Guardando alla sua vita sappiamo che si scontrò praticamente con tutti i principali intellettuali dell’epoca per quella sua smania di affrontare anche le Sacre Scritture con il rigore della logica: sappiamo che fu accusato tre volte di eresia e tutti i suoi scritti si pongono in maniera avversa alla tradizione, non da ultimo l’Etica, scritta assieme alla moglie Eloisa. Non faccio personalmente fatica a credere che avesse elaborato una regola sui generis, anzi, proprio perché stiamo parlando di Abelardo e non di Bernardo52 ritengo ciò assolutamente plausibile.
Altre “stranezze” che invece confermano l’indole di Pietro si possono riscontrare in altri passaggi della Regola. Tra questi, quello che merita attenzione è il passo in cui afferma che la badessa alla guida del monastero debba essere saggia e insegnare attraverso le azioni, non con le parole; non mi sembra affatto un passaggio anomalo che possa gettar perplessità sulla Regola, dal momento che nell’Etica Abelardo spiega che contano sicuramente più le azioni che le parole e contano le azioni mosse da un’intenzione retta, la cui rettitudine è ciò che Dio scruta in ognuno di noi e ciò per cui ci giudica.
4.3. Ottone di Frisinga e Guglielmo Godell
La quinta testimonianza, molto breve, è offerta da Ottone di Frisinga, che rappresenta una fonte importante non soltanto per confermare la vicenda d’amore, ma anche le successive vicissitudini dottrinali, fatte di accuse di eresia e condanne, cui Abelardo andò incontro. Nelle Gesta Friderici, composte grosso modo negli anni cinquanta del XII secolo, anche Ottone allude brevemente all’evirazione: «Ove, trattato non bene in un’occasione piuttosto nota, si fece monaco nel monastero di San Dionigi».53 Sicuramente è un accenno rapido e stringato, ma questa può dirsi cifra stilistica di Ottone, che narra gli eventi a ritmo serrato. Nonostante la sua sinteticità è significativo che non abbia omesso il momento dell’evirazione, momento di non ritorno dell’intera vicenda: Abelardo prende i voti, Eloisa pure e dopo quindici anni di silenzio sboccerà la corrispondenza oggetto di questo saggio.
Il sesto testimone coevo è un cronista di origine inglese che viveva nella diocesi di Sens, William Godell, che molti studiosi tendono a dimenticare quando si parla di testimoni di Abelardo ed Eloisa. È vero che la maggior parte dei cronisti contemporanei e subito successivi si concentrarono molto sulla questione della vita monastica, soprattutto femminile, ritagliando minor spazio per la passione della scandalosa storia; ma essi rimangono comunque preziose testimonianze.
Godell, probabilmente qualche anno dopo la morte di Eloisa, raccolse documenti provenienti da Cluny e dal Paracleto e produsse un’immagine duplice di Abelardo. Da un lato, monaco ortodosso sinceramente pentito del traviamento lussurioso, dall’altro filosofo profondamente legato ad Eloisa e guida, fisica e spirituale, per lei e per la comunità del Paracleto. Come ha ben evidenziato I. Pagani,54 se il testo non è corrotto Godell rappresenta l’unica testimonianza di una conoscenza dell’Epistolario antecedente alla seconda metà del XIII secolo. E a proposito di Eloisa, Godell scrive:
«Egli mise a capo delle monache come badessa la moglie di un tempo, una religiosa assai colta nelle lettere sia ebraiche che latine, di nome Eloisa. Questa donna veramente sua amica gli serbò dopo la morte grande fedeltà, pregando per lui assiduamente. In questo luogo ora riposano entrambi sepolti in maniera onorevole davanti al santo altare».55
Per Godell Eloisa è una badessa estremamente colta, afferma la conoscenza del greco antico e dell’ebraico e già basterebbero questi elementi da sé; ma sopratutto è l’amica di Abelardo, unita a lui da un legame di profondo affetto.
Le fonti non si arrestano certo qui; anzi, il Chronicon di Godell rappresenta un modello per gli scritti, datati intorno agli anni Venti del XIII secolo, di Roberto di Auxerre e Guglielmo di Nangis e che non intendo analizzare per due motivi: primo, Eloisa è morta da quasi cinquant’anni quando essi scrivono le loro cronache, ma soprattutto l’immagine di Eloisa che da queste scaturisce è già intrisa di quei tratti da romantic legend, per usare le parole del Dronke, che troveranno sempre maggior diffusione, sopratutto nei due secoli successivi.56
Quanto esposto fin qui aveva lo scopo di evidenziare come i motivi e le testimonianze a sostegno dell’autenticità dell’Epistolario siano a mio parere più cospicui e convincenti di quelli addotti per giustificarne la falsità. Al tempo stesso concordo con J. Monfrin quando dichiara che coloro che hanno sostenuto la falsità dell’Epistolario non hanno avanzato alcun fatto storicamente valido per cui esso debba considerarsi inautentico. Le uniche critiche riguardano presunte quanto facilmente confutabili incoerenze interne al dossier, tale per cui si è dibattuto all’infinito soltanto su questo punto: e come è vero che tale incoerenze interne non sono la prova che sia un falso la coerenza non basta per provare l’autenticità, ecco perché si sono rivelate fondamentali le sei testimonianze esterne al corpus.
È sicuramente vero che il primo manoscritto completo dei codici dell’Epistolario, ms Troyes 802, acquistato da Roberto de’ Bardi il 21 marzo 1346 dal Capitolo della Cattedrale di Notre-Dame, appartiene al XIII secolo ed è stato sottolineato come lo scenario si sposti dal Paracleto a Parigi, dove esso fu trovato e conservato. Un fatto che, lungi dal gettar ombre, potrebbe avere molteplici spiegazioni e va comunque tenuto a mente che la storia d’amore ebbe luogo proprio a Parigi. Ma se dovessimo dubitare dell’autenticità di un documento perché non si possiede un manoscritto coevo ai fatti, o perché sembra assurdo ritrovarlo a Parigi e non al Paracleto dove morì Eloisa, o a Cluny dove morì Pietro, allora dovremmo dichiarare falsa buona parte della letteratura e della filosofia antiche.
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Ella Fitzgerald, Just one of those things, 1954. La canzone è stata scritta da Cole Porter nel 1935. ↩︎
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In realtà è Eloisa che si lamenta per il fatto che Abelardo non le ha fatto avere sue notizie per ben quindici anni e per lo stato di sconforto e solitudine in cui lui l’ha abbandonata. ↩︎
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Italo Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 1995 ↩︎
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Nel Medioevo doveva essere una situazione inconsueta innamorarsi leggendo, dato lo scarso numero di donne che potevano o riuscivano a studiare. Eppure questo divenne un topos, basti ricordare la vicenda di Paolo e Francesca, intenti nella lettura di Lancillotto e Ginevra, quando ebbe inizio per loro l’amore. Perché questo? Perché «il libro possedeva già, come oggetto, una carica emotiva al di là delle parole contenute». Fumagalli, 2014, p. 41. ↩︎
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Molto è stato detto a proposito della sovrapposizione di piani, quello intellettuale e quello amoroso, nella vicenda di Abelardo ed Eloisa. Mentre dal punto di vista amoroso gli studiosi concordano, anche e soprattutto per ammissione di Abelardo stesso, che essi erano due novellini e che quello che avevano scoperto era un piacere nuovo per entrambi, dal punto di vista intellettuale la questione è più complessa e rimando alla seconda parte di questo scritto. ↩︎
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L’agguato raccontato da Abelardo stesso è confermato sia da Folco de Deuil che da Roscellino e non rappresenta una novità, in quanto castrazione e accecamento rappresentavano vendette tradizionali per le offese sessuali. Mews 1999 p. 58 e Clanchy 1997, p. 184. Secondo Ferroul la mutilazione interessò i testicoli e non il pene. Ferroul 1997 pp. 135 e ss. Diversi sono i pareri sulla partecipazione o meno di Fulberto al complotto: secondo alcuni egli venne addirittura privato dei suoi beni dal vescovo per aver preso parte alla vendetta, come scrive Folco de Deuil. Ma la maggior parte degli studiosi concorda nel sostenere che Fulberto fu soltanto il mandante, come del resto narra Abelardo. ↩︎
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Nel 1125 a seguito di conflitti politico -religiosi si ebbe la caduta di Stefano di Garlandia, che venne privato delle cariche e dei beni; approfittando di questo momento di caos, Sugero, tramite un sinodo tenutosi nella primavera del 1129 assieme al re, al legato pontificio Matteo di Albano, all’arcivescovo di Reims e ai vescovi Stefano di Parigi, Joscelino di Soissons e Goffredo di Chartres, riuscì a ottenere l’espulsione delle monache dall’Argenteuil. Come motivazione addusse il comportamento scandaloso di queste e la necessità di punire così i loro vizi. In base a presunti e antichi diritti attribuì il monastero a Saint-Denis. Una decisione che venne confermata dal re e poi dai papi Onorio II e Innocenzo II. Questa vicenda non fu un fatto isolato: soprattutto di fronte a monasteri femminili furono innumerevoli i tentativi da parte delle istituzioni di appropriarsi di essi sulla base di antichi diritti, come accadde ad esempio a Saint-Èloi di Parigi o Saint-Jean di Laon. Bautier 1989, pp. 41 e ss; Mews, 1999, p. 63. ↩︎
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Gilson, 1970, Marenbon 1997, Mews 1999. ↩︎
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Marenbon 1997, pp. 82 e ss. ↩︎
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Gilson 1970, p. 17. ↩︎
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Orelli, Magistri Petri Abaelardi epistola quae est Historia Calamitatum suarum, 1841, Prefazione. Il codice più antico è il ms. 802 di Troyes, chiamato semplicemente T, comprende l’Historia Calamitatum, le lettere, la Regola ed è stato messo in circolazione a metà del XII secolo come un tutto unitario. Secondo J. Monfrin e D. Luscombe esso è stato composto al Paracleto, forse da Eloisa o forse da qualcuno che ha raccolto i documenti perché interessato a far sì che la storia non andasse perduta. L’ipotesi di Von Den Steinen secondo cui questo corpus rimase al Paracleto per più di un secolo non è da rigettare a priori: ma resta comunque il manoscritto più antico, sia che si diffuse subito sia che rimase al Paracleto. Gli altri codici sono così ripartiti: C ed E non contengono la Regola ma ci sono in aggiunta: la lettera di Folco di Deuil ad Abelardo, le lettere di San Bernardo contro Abelardo, i Capitula condannati a Sens; A e Y aggiungono a quanto contiene T anche un dossier delle opere abelardiane come il Dialogus, l’Apologia, la Lettre à l’évéque de Paris; infine il manoscritto J, in cui non c’è la Regola ma è l’unico codice che contiene la lettera di Pietro il Venerabile ad Eloisa scritta dopo la morte di Abelardo e la Confessio Fidei ad Heloisam. ↩︎
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Per una ricostruzione sistematica e organica del dibattito sull’autenticità dell’Epistolario si veda J. Monfrin, Le problème de l’authenticité de la correspondance d’Abélard et d’Heloise, in Pierre Abélard Pierre Le Vénérable, 1972, pp. 410 e ss. ↩︎
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Ap. Op., I, pp 2-3. ↩︎
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«Quelques doutes sur l’authenticité de la correspondance amoureuse d’Heloise et d’Abélard», in Corrispondance Littéraire, I, n.2, pp. 27-33. ↩︎
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S.M.Deutsch, Peter Abaelard, 1883, p. 43. ↩︎
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B. Schmeidler, Der Briefwechsel zwischen Abalard und Heloise eine Falschung?, 1913. ↩︎
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C. Charrier, Heloise dans l’histoire et la légende, 1933. ↩︎
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E.D.Petrella, «Sull’autenticità delle lettere di Abelardo ed Eloisa», in Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, serie II, XLIV, pp. 554-567 e 606-618. La tesi di Petrella sarà ripresa e approfondita da G. Moore nel 1925 ↩︎
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J.T. Muckle, The Personal Letters between Abelard and Heloise, 1953. ↩︎
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J.T. Muckle, The Personal Letters between Abelard and Heloise, 1953 p. 67. La citazione è riportata da J. Monfrin, Le problème de l’authenticité de la correspondance d’Abélard et d’Heloise, in Pierre Abélard Pierre Le Vénérable, 1972, p. 412. ↩︎
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G. Misch, Geschichte der Autobiographie, 1959, pp. 523-719. ↩︎
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D. Luscombe, From Paris to Paraclete: the Correspondence of Abelard and Heloise, in Proceedings of the British Academy, LXXIV, 1988, pp. 247-283. ↩︎
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Una strana coincidenza evidenziata da Luscombe vuole che anche diverse opere di Abelardo, in particolare lo Scito te Ipsum, il trattato di etica, circolassero pochissimo, come testimonia anche la lamentela di Guglielmo di S. Thierry, che aveva avuto difficoltà a reperirne una copia per poter criticare le tesi eretiche ivi esposte. Una scarsa notorietà che trova conferma anche nel fatto che sono sopravvissuti e giunti sino a noi soltanto cinque manoscritti del trattato: due risalenti al XII, uno al XIV e uno al XV secolo. È interessante rilevare che quest’ultimo contiene anche un ammonimento rivolto al lettore, in cui si dice che l’insegnamento di Abelardo era foriero di elementi pericolosi e che bisognava leggere il testo con cautela. Sicuramente il fatto che l’opera fosse incompiuta non aiutò la sua circolazione: interrompendosi dopo l’inizio del secondo libro, essa poteva dar adito all’idea che anche la teoria esposta fosse monca e indegna di esser studiata. E lo Scito te Ipsum, sebbene scritto alla fine della vita di Pietro, contiene tesi che videro la luce nei felici anni parigini e cui sicuramente contribuì il legame e confronto con Eloisa. Accolgo l’opinione di M. Dal Pra (Si veda l’Introduzione alla traduzione dello Scito te Ipsum da lui tradotta e curata nel 1976) che vede Eloisa coautrice delle opere di Abelardo; in particolare il suo contributo riguardò l’ambito etico, le cui opere circolarono meno degli scritti di grammatica e teologia e furono sempre osteggiati e attaccati dalle voci dell’autorità religiosa tradizionale, incarnata in primis da Bernardo di Chiaravalle e dal suo segretario Goffredo di Auxerre. ↩︎
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J. Monfrin, Le problème de l’authenticité de la correspondance d’Abélard et d’Heloise, in Pierre Abélard Pierre Le Vénérable, 1972, pp. 414 e ss. ↩︎
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I. Pagani, Epistolario, Lettera II, p. 243 ↩︎
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Eloisa, p. 211. Si vedano Gréard, Op. Cit., p. 75. S. Moncrieff, op. cit., p. 45. ↩︎
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Mc Leod, 1951, pp. 211-212. In particolare cfr. Oddoul, op. cit. I, p. 76 e Jacob, Lettres d’Abélard et d’Heloise, p. 128. ↩︎
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Pagani, Epistolario, Lettera II, p. 251. ↩︎
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«Ad hoc autem praecipue psalterium quod a me sollicite requisisti […] mittere maturavi». Epistolario, p. 257. ↩︎
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Pagani, Abelardo ed Eloisa, Epistolario, p. 213. ↩︎
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Dronke, 1986. Le risposte di Abelardo alle sue lettere sono tristissime: molti studiosi le hanno trovate inadeguate, gli è stata rimproverata non solo freddezza, ma anche eccessivo controllo. Interessante l’opinione di Gilson, che invece giudica le risposte del Maestro Palatino perfette: Eloisa rivendica i suoi diritti di sposa e Abelardo le chiede di usare per lui quelli di sposa di Dio; lei gli chiede consigli e lui risponde di pregare Dio perché li salvi con la sua grazia. ↩︎
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Si veda Mc Laughlin 1967, p. 407. ↩︎
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Dronke, 1976, p. 26. Il testo si trova in p. L. 178, 372-3. ↩︎
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Abelardo, Storia delle mie disgrazie, a cura di F. Roncoroni, p. 456 e ss. ↩︎
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Dronke, 1976, p. 27. ↩︎
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Folco de Deuil, Epistola ad Abaelardum, col.374.: ↩︎
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Roscellino, Epistola ad Abaelardum, p. 78. ↩︎
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È proprio Abelardo che nella Historia Calamitatum narra tutte le sue disavventure, compresi i tentativi di ucciderlo. Ma per non cadere in un circolo vizioso e tentare di dimostrare l’autenticità dell’opera a partire dal contenuto dell’opera stessa, mi limito a ricordare la figura di Bernardo di Chiaravalle, testimone di quanto Abelardo fosse avverso al mondo intellettuale e religioso della propria epoca e quanto egli dovette sempre lottare contro svariati nemici: Guglielmo di Champeaaux, Anselmo di Laon, lo stesso Bernardo, affrontando ben due Concili, Soissons e Sens, per rifuggire dall’accusa di eresia. A cui si aggiungono i già citati tentativi di avvelenamento da parte dei monaci di Saint Gildas. ↩︎
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C. Mews, Hugh Metel, Heloise, and Peter Abelard: the letters of an augustinian canon and the challenge of innovation in twelfth century Lorraine, in Viator, XXXII, 2001, pp. 59-91. Il contributo di Mews resta a mio avviso il più completo, ma altrettanto fondamentale sono le riflessioni di Lobrichon nel suo Eloisa. ↩︎
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I. Pagani, Abelardo ed Eloisa, Epistolario, p. 135. ↩︎
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Fondamentali gli scritti di Peter Dronke, Intellectuals and Poets in particolare e p. Von Moos. ↩︎
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Questo lavoro di paziente confronto delle opere di Eloisa coi testi latini iniziai a svolgerlo per la mia tesi magistrale. In questa sede non mi dilungherò su di esso perché non è questo lo scopo del qui presente scritto, ma auspico di farlo presto in quanto può gettar luce sul background culturale di Eloisa nonché sulla sua conoscenza del greco antico, nel XII secolo sconosciuto ai più, Abelardo compreso. ↩︎
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La lettera intera si trova in Lobrichon, Eloisa, pp. 77 e 78. ↩︎
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I Pagani, Abelardo ed Eloisa, Epistolario, p. 245 e p. 333. Per quanto riguarda il significato di questo famoso incipit adoperato da Eloisa concordo con la spiegazione del Dronke, Donne e Cultura nel Medioevo, p. 129: «Eloisa vuol significare che ella è sua con la concretezza che l’individuo singolo ha al di sopra delle sue caratteristiche di specie, cioè di appartenerti alla specie». ↩︎
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Ugo Metello, Lettera 16 a Eloisa, in Mews, Hugh Metel, cit. pp. 59-61. ↩︎
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Si veda a Schmid, 1994. Un dibattito che a mio parere risulta sterile perché Pietro di Cluny imposta la lettera in maniera canonica, prodigandosi in elogi e consolazioni alquanto tradizionali e convenzionali. Poniamoci nella sua ottica e nel suo compito: esprimere cordoglio e fornire notizie circa la morte di Abelardo. Egli sicuramente non conosceva i dissidi di Eloisa, le sue condizioni dietro l’apparenza di badessa. ↩︎
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I. Pagani, Abelardo ed Eloisa, Epistolario, p. 770. ↩︎
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J. Benton, Fraud, fiction and borrowing in the correspondance of Abelard and Heloise, in Pierre Abélard Pierre Le Vénérable, 1972, pp. 469-511. Egli ritiene che nel XIII secolo uno o due falsari, con lo scopo di mutare le istituzioni in vigore al Paracleto - lo stesso di cui Benton ha dichiarato poche pagine prima mai esistito perché non esiste una «Storia del Paracleto» né alcun ritrovamento archeologico - scrissero le otto lettere conservate nel Manoscritto Troyes. I falsari avrebbero adoperato: testi autentici di Abelardo che noi non conosciamo perché andati perduti (es. Ehortatio ad fratres et commonachos); materiale falso del XII secolo; aggiunte, sempre false, del XIII secolo. ↩︎
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Dopo la terza lettera di Eloisa troviamo due lettere: la VII, anche conosciuta come L’origine del monachesimo femminile e la VIII, ovvero La regola per le religiose: sono entrambe risposte alle richieste fattegli da Eloisa nella terza lettera di lei, che corrisponde alla VI della raccolta secondo la classificazione Muckle. ↩︎
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J. Benton, Fraud, fiction and borrowing in the correspondence of Abelard and Heloise, in Pierre Abélard Pierre Le Vénérable, 1972, p. 472. ↩︎
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Benton si fonda sulla mancanza di un documento che attesti il passaggio di Eloisa dall’Argenteuil al Paracleto nel 1129 e inoltre sottolinea che i monaci di Saint Denis scrissero il necrologio non solo di Abelardo, ma anche di Eloisa. E al contempo negli obituari dell’Argenteuil compare soltanto il nome di Abelardo e non quello di Eloisa. ↩︎
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Bernardo criticò i monaci di Cluny perché mettevano la scorza di limone sulle uova e ciò a suo avviso era uno spreco e uno scandalo, figurarsi se poteva prescrivere una regola che ammettesse la lussuriosa carne. ↩︎
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Ottone di Frisinga, Gesta Friderici Imperatoris, I, 49. ↩︎
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I. Pagani, Epistolario, Introduzione, p. XII. ↩︎
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La citazione si trova in Buytaert-Mews 1987, p. 291 ed è riportata in parte anche da I. Pagani nell’Introduzione all’Epistolario, p. XIII. ↩︎
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A tal riguardo mii limito a ricordare il famoso passo all’origine della leggenda romantica secondo la quale Abelardo avrebbe aperto le braccia per accogliere il corpo di Eloisa nella sua tomba: «Infatti, a quanto si dice, ella, inferma ormai agli estremi, ordinò di essere deposta dopo la morte nella tomba del marito. E così, quando morta venne portata presso la tomba aperta, il marito, che era defunto molti giorni prima di lei, sollevò le braccia e l’accolse, e le richiuse abbracciandola» La citazione del Chronicon Turonense è riportata integralmente da p. Dronke, 1976, p. 51. ↩︎