Il mito di Sisifo. Il dialogo tra Camus, Šestov, Fondane e Rachel Bespaloff

1. Un incontro nella Parigi occupata

L’incontro tra Albert Camus e Benjamin Fondane avviene in un volgere di tempo assai breve, in anni oscuri e drammatici. Il primo sta iniziando l’attività di resistenza, il secondo è un intellettuale ebreo.1

Tentando di ricostruire le tappe di questo incontro avvenuto in una Parigi quanto mai grigia, si può partire da una lettera datata settembre 1943 e indirizzata da Fondane a Camus stesso. Nella missiva Fondane parla di una “breve visita” effettuata da Camus presso l’appartamento del primo in Rue Rollin e si lamenta del fatto che “la visita non si sia ripetuta”. Dal momento che Fondane si scusa di un “troppo lungo silenzio” da parte sua, possiamo congetturare circa la data in cui tale visita sia avvenuta. Tra le date possibili, il 1942 (Camus era stato due settimane a Parigi nel gennaio di questo anno), il gennaio del 1943 (secondo le lettere di Jean Grenier à Jean Ballard del 17 e 23 gennaio Camus era rimasto due settimane a Parigi); tuttavia, la data più probabile per questo incontro è il giugno del 1943, durante un soggiorno di dieci giorni di Camus a Parigi. Fondane aveva letto Il mito di Sisifo (non senza qualche ritardo: non potendo procurarselo a Parigi, aveva domandato a Ballard, nel novembre 1942, di inviarglielo) e Lo straniero.

Quali furono le comuni amicizie che resero possibile questo, seppur breve, incontro? Diverse sono le intersecazioni: Jean Paulhan, Gabriel Audisio, Jean Ballard, Jean Grenier. Una di queste rimane sullo sfondo: si tratta dell’influenza che Lev Šestov ha avuto su entrambi gli autori. Su Fondane essendone il maestro,2 su Camus perché durante la stesura del Mito di Sisifo (fine 1938, inizio 1941) si è nutrito di letture šestoviane: Le pouvoir des clefs, le Revelations de la mort e La nuit de Gethsemani. Di più, Le pouvoir de clefs3 è una delle fonti di ispirazione di Il Mito di Sisifo, così come Šestov è uno dei bersagli polemici di Camus.4

Inoltre, Camus era strettamente legato ai Cahiers du Sud che leggeva assiduamente (Ballard aveva rifiutato di pubblicarvi le Nozze a Tipasa, ma grazie all’interessamento di Grenier, nel 1943 Camus riuscì a pubblicare il suo primo articolo: «Portrait d’un élu. Essai sur Le portrait de Monsieur Pouget de Jean Guitton»); in quegli anni, Fondane teneva sulla stessa rivista la sua rubrica “La philosophie vivante”; è dunque molto probabile che Camus abbia letto tutti gli articoli che ne facevano parte.

Infine, Jean Grenier. Nella citata lettera, Fondane si augura di rivedere presto sia Camus che Grenier (secondo la lettera scritta da Camus a Grenier il 7 ottobre 1943). Quest’ultimo, infatti, oltre ad essere come noto il maestro di Camus, era anche in contatto con Fondane sin dal 1938; data della sua prima lettera a Fondane in cui lo ringrazia per l’invio del Faux traité d’esthétique ed afferma di essere un attento lettore della suddetta “Philosophie vivante”. Inoltre, pur in una situazione così terribile, Grenier stava allora progettando un libro che raccogliesse le voci più autorevoli del pensiero esistenziale allora nascente. Senza che probabilmente i due sapessero l’uno della presenza dell’altro, Camus e Fondane facevano parte di tale progetto. All’inizio del febbraio 1944, Grenier espone questo proposito a Fondane il quale accetta definitivamente con una lettera datata 13 febbraio; egli scriverà in un mese Le Lundi existentiel et le Dimanche de l’histoire,5 sarà arrestato il 7 marzo, deportato (il 30 maggio) ed ucciso ad Auschwitz (il 2 o 3 ottobre 1944).

Alla pubblicazione, nel 1945, del volume collettaneo curato da Grenier, L’Existence, i saggi di Camus, Remarque sur la révolte, e di Fondane si succederanno in un nuovo, tragicamente muto, dialogo.

2. Echi šestoviani in Il mito di Sisifo

Tale dialogo a distanza si concentra intorno al Mito di Sisifo, opera che Fondane prende in considerazione appunto in Lundi existentiel. Il punto nodale è la concezione dell’assurdo. La definizione di assurdo che si può desumere dalle riflessioni di Fondane è più vicina ad una definizione tradizionale rispetto a quella di Camus. In Fondane l’assurdo è ciò che è immediatamente e manifestamente contrario alla ragione.

In Camus, l’assurdo assume una tonalità del tutto particolare che risulta essenziale schiudere per comprendere questa filosofia apparentata in una certa misura con l’esistenzialismo ma, anche, nettamente contrapposta ad esso. La scoperta dell’assurdo ha numerose cause, pur rimanendo sempre una presa di coscienza rara, personale ed incomunicabile.

Anche gli uomini secernono l’inumano. In certe ore di lucidità, l’aspetto meccanico dei loro gesti, la loro pantomima priva di senso rendono stupido tutto ciò che li circonda. Un uomo parla al telefono, dietro un tramezzo a vetri; non lo si ode, ma si vede la sua mimica senza senso: e ci si chiede perché mai egli viva. Questo malessere di fronte all’inumanità dell’uomo stesso, questa incalcolabile degradazione dell’immagine di ciò che siamo, questa «nausea», come la chiama un autore contemporaneo, sono pure l’assurdo. Parimente, l’estraneo che, in certi momenti, viene incontro a noi nello specchio, il fratello familiare e purtuttavia inquietante che noi ritroviamo nelle nostre stesse fotografie, è ancora l’assurdo.6

Esperienza inquietante, multiforme, può sorgere dalla coscienza nauseante del carattere meccanico dell’esistenza. Può sgorgare dalla certezza della morte: per quanto esperibile solo come morte altrui, questo «lato matematico», questo «aspetto elementare e definitivo dell’avventura» rivela, «alla luce del destino mortale»,7 tutta l’assurdità dell’avventura stessa. La sensazione assurda può altresì nascere dal sentimento paralizzante della estraneità e dell’ostilità della natura e del mondo nei confronti dell’uomo, il quale improvvisamente si sente straniero e minacciato. È appunto la presa di coscienza di una comunicazione impossibile tra il mondo e l’uomo; è l’intuizione di un legame che si regge su una mancanza di comunicazione tra essi ciò che disvela la dimensione dell’assurdo. Il mondo è popolato di irrazionali, ma non è propriamente assurdo.

Dicevo che il mondo è assurdo; ma andavo troppo presto. Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell’uomo.8

L’assurdo non è né nell’uomo né nel mondo; piuttosto, esso si nutre sulla loro presenza parallela, cresce e si nutre in questo legame che non riunisce, che non armonizza, in un luogo che non è un luogo di comunicazione aperta dal momento che colui che solleva le domande non riceve indietro alcuna risposta: il mondo resta ostinatamente muto.

L’assurdo dipende tanto dall’uomo quanto dal mondo, ed è, per il momento, il loro solo legame. Esso li suggella l’uno all’altro come soltanto l’odio può vincolare gli esseri. È tutto ciò che posso chiaramente discernere in questo universo smisurato, in cui si svolge la mia avventura.9

Il problema centrale è rappresentato dalla dicotomia che esplode con tutta la inguaribile potenza del conflitto tra l’appello umano, l’insistenza umana a voler conoscere la propria ragion d’essere e l’assenza di risposte che si erge come un muro invalicabile contro questa necessità. La lacerazione tragica è ciò che sottolinea la condizione di un uomo che vive nel solo mondo per lui possibile senza poterne cogliere il senso profondo. L’assurdo non è un sapere; esso è, appunto, la coscienza sempre serbata di una frattura tra il mondo e l’uomo.

L’uomo assurdo potrebbe sfuggire al proprio stato solo trasfondendo del senso nel mondo o facendo tacere la propria interrogazione. Ma nessuna di queste soluzioni risulta realizzabile. Si potrebbe tentare di creare un senso, di credere che la vita possa essere indirizzata da progetti o da scopi. Ma, «dopo la scoperta dell’assurdo» «ogni cosa si trova smentita in modo vertiginoso dalla assurdità di una possibile morte».10

Altro tentativo potrebbe essere quello di accogliere delle prospettive religiose. Ma, per Camus, l’unica risposta soddisfacente deve mantenersi in una dimensione umana: «Io posso comprendere soltanto in termini umani».11 così l’uomo assurdo deve conservare questo stato di lacerazione con lucidità, deve ostinarsi a non ascoltare qualsiasi proposta atta a fornirgli una via di fuga da questo mondo, verso un altro mondo denso di significati e risposte. Deve rifiutare, quindi, le religioni che creano un senso ma trasferendolo su un piano ulteriore, al di là dell’umano; non deve, infine, seguire profeti che gli offrano di credere ciecamente alle loro rappresentazioni ultramondane. Dunque, il silenzio irragionevole del mondo non può essere negato e oltrepassato.

Intorno al tentativo di far tacere l’interrogare umano, con l’atto estremo del suicidio, è l’asse centrale intorno a cui ruota il Mito di Sisifo. Tuttavia, anche tale ipotesi viene esclusa perché a suo modo «il suicidio risolve l’assurdo» mentre, al contrario, questo non può né deve essere risolto.

C’è, in Camus, una sorta di sdoppiamento che descrive il movimento dell’uomo assurdo: l’accettazione dello stato di lacerazione ed il contemporaneo rifiuto di abdicare. Dall’assurdo sgorga una potenza che trova la propria realizzazione nella rivolta, unico modo di vivere mantenendosi nella dimensione dell’assurdo.

Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente. Ora, non si vivrà tale destino, sapendolo assurdo, se non si farà di tutto per mantenere davanti a sé quell’assurdo posto in luce dalla coscienza. Negare uno dei termini dell’opposizione di cui esso vive, significa sfuggirgli. Vivere è dar vita all’assurdo. Dargli vita è innanzi tutto saper guardarlo […] . Così, una delle sole posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell’uomo e della sua oscurità; che è esigenza di una trasparenza impossibile, e che mette in dubbio il mondo ad ogni istante […] . Tale rivolta non è aspirazione, poiché è senza speranza; è la certezza di un destino schiacciante, meno la rassegnazione che dovrebbe accompagnarla.12

Per questo Camus proporrà (in Lo straniero) lo spirito del condannato a morte: contemporaneamente coscienza e rifiuto della morte. Solamente la rivolta, allora, conferisce il suo senso alla vita, esalta l’uomo alle prese con una realtà che lo eccede e gli svela come la sua unica verità sia la sfida. Per Camus l’uomo assurdo, privandosi delle aspettative rivolte verso una vita eterna, si libera degli obblighi imposti da un improbabile futuro ricavando da ciò la propria libertà d’azione. La contrazione delle prospettive future apre un enorme campo di azione nel presente. L’uomo assurdo diventa sovrano di questo mondo abbandonato dagli dei e, contemporaneamente, della morale: il rifiuto delle religioni e di un futuro ‘immaginifico’non sfociano, infatti, in una istanza amorale o immorale. Il grido di Karamazov («Tutto è permesso») comporta più amarezza che gioia dal momento che non esistono più valori solennemente riconosciuti grazie ai quali orientare la nostra scelta umana e l’uomo assurdo sa di essere il suo solo ed unico fine. Tuttavia, «l’assurdo, dice Camus, non libera: vincola. E non autorizza ogni atto. Tutto è permesso non significa che nulla sia proibito».13

È appunto all’interno del campo delle possibilità e dei limiti che si esercita la libertà dell’uomo assurdo: egli sa che le conseguenze dei suoi atti ricadranno, semplicemente, su di lui ed è pronto ad assumersene la responsabilità. Tutto ciò vale, più in generale, per l’umanità intera poiché il movimento di rivolta fonda «la lunga complicità degli uomini alle prese con il loro destino» (L’homme revolté). Inoltre, nel senso dell’umanismo che Camus svilupperà dopo il Mito di Sisifo, la considerazione morale valuta gli atti dell’uomo assurdo a seconda che essi si adoperino, o meno, per l’umanità.

Le riflessioni contenute nel Mito di Sisifo non sarebbero forse state possibili senza la meditazione da parte di Camus sulle preoccupazioni che innervano l’opera di Šestov. Quest’ultimo «per tutta un’intera opera di una straordinaria monotonia, teso perennemente verso le identiche verità, dimostra senza stancarsi che il sistema più stringato, il razionalismo più universale finiscono sempre per urtare contro l’irrazionale del pensiero umano. Nessuna della evidenze ironiche, delle contraddizioni senza valore, che disprezzano la ragione, gli sfugge. […] egli scova, chiarisce ed esalta la rivolta dell’uomo contro l’irrimediabile». Lo smascheramento di una ragione divinizzata, la rivolta contro il razionalismo e lo scientismo (più che contro la ragione), la netta affermazione che muoversi solo entro il campo delle evidenze esautori di fatto l’unicità della vita, riducendola a generalizzazioni in cui si perde tutta la sua enigmaticità, la scelta della lotta disperata contro appunto il muro delle evidenze appaiono come problematiche che, pur con tutte le differenze del caso, pungolano la riflessione di Camus e vi riecheggiano.

L’accettazione dell’assurdo è contemporanea all’assurdo stesso. Provarlo significa accettarlo; e tutto lo sforzo logico del suo pensiero consiste nel metterlo alla luce per far scaturire, nello stesso tempo, l’immensa speranza che trascina seco. Ancora una volta, questo atteggiamento è legittimo. […] . So che il razionalista trova l’atteggiamento di Šestov irritante; ma io sento altresì che egli ha ragione contro il razionalista e voglio soltanto sapere se resta fedele ai comandamenti dell’assurdo.14

La ricerca di Camus lo porta a decidere per il negativo: Šestov tradisce il senso autentico dell’assurdo ammettendo, e anzi gettandovisi d’un balzo, la trascendenza, optando per la fede.

Il pensiero di Šestov è quanto mai complesso: a ben vedere, il filosofo russo non si stanca mai di ricordare che la sua esigenza si muove non tanto nel tentativo di nientificare la ragione, quanto di lottare contro una ragione onnipotente per lasciare spazio ad una dimensione altra, alla «seconda dimensione del pensiero» che, negli scritti meno polemici, non disintegri la ragione ma la integri, affiancandola, con pari dignità, nel tentativo, mai esaustivo, di dire ciò che la ragione non può dire. In Šestov, tale seconda dimensione finisce con l’identificarsi con una opzione religiosa che però non si configura come certezza e conforto, ma come dubbio e pungolo. Ora, tutto ciò risulta inaccettabile per Camus. Non che egli compia lo stesso errore di tanti divinizzando la ragione, soltanto, per lui è fondamentale rifiutare la ricaduta religiosa latu sensu del pensiero šestoviano: situare fuori dall’orizzonte umano ragioni e speranze in grado di dare un senso alla vita significherebbe risolvere l’assurdo, farne il criterio dell’altro mondo e trasformarlo in un «trampolino per l’eternità». Così la «lotta è evitata. L’uomo integra l’assurdo e, in tale comunione, fa sparire il carattere essenziale, che è opposizione, strazio e divorzio. Questo salto è un modo di sottrarsi».15

Al contrario, l’uomo deve ostinarsi a vivere solamente con ciò che sa: con la coscienza di un confronto senza speranza tra lui ed un mondo che non è né razionale né irrazionale, ma soltanto irragionevole. Se la ragione, in Husserl, non ha più limiti «l’assurdo, al contrario, fissa i propri limiti, in quanto la ragione è impotente a calmare l’angoscia»; se per Kierkegaard un solo limite è sufficiente alla negazione dell’assurdo, nondimeno, per l’uomo assurdo, «tale limite mira soltanto alle ambizioni della ragione».16

Il tema dell’irrazionale, quale è concepito dagli esistenzialisti, è la ragione che si confonde e si libera negando se stessa. L’assurdo è la ragione lucida, che accetta i propri limiti. È al termine di questo difficile cammino che l’uomo assurdo riconosce le sue vere ragioni.17

Data questa idea di ragione relativa, è naturale che Camus rifiuti il pensiero di Šestov. Tutto ciò, non conduce tuttavia Camus a credere che la realtà sia totalmente ed automaticamente conoscibile grazie all’inchiesta razionale. «Per Šestov la ragione è vana; ma, al di là di questa, vi è qualche cosa. Per uno spirito assurdo, la ragione è vana; ma non vi è nulla al di là di essa». Dunque, l’assurdo in Camus rimane al di qua dei limiti della ragione fornendo della stessa un’idea fondamentalmente relativa e, come chiarirà la Remarque sur la révolte, ed etica: versante etico/pratico, fondativo capace di far uscire l’uomo dalla condizione dell’assurdo e di permettergli di costituire una comunità umana. Altro motivo per cui l’analisi di Camus non poteva che scontrarsi con una teoria drasticamente ostile alla morale (prodotto e collante delle evidenze razionalistiche) come quella di Šestov.18

3. Il dialogo tra Camus e Fondane

Sulle tracce di Šestov si muove Benjamin Fondane con la sua idea di assurdo come è ciò che è impossibile, ciò che non dovrebbe o non potrebbe esistere. Proprio per questa ragione, secondo Fondane, tale idea dell’assurdo dovrebbe essere rivalutata. Accettare l’assurdo (ed agirvi, con la poesia, ad esempio) significa sfuggire dalla morsa dell’unico possibile concepibile, di ciò che si presenta come tale (vale a dire, quello costruito sull’asse delle leggi razionali e di quelle morali che si innestano le une sulle altre, rafforzandosi vicendevolmente) ed aprirsi alle prospettive di un impossibile che è vero spazio del grido irrassegnato dell’esistente. «Contrariamente a Camus, per il quale l’assurdo è una situazione esistenziale, Fondane designa con questo termine sia un atto, sia una categoria logica».^[19]

Dunque, in Fondane, l’assurdo assume la doppia connotazione di una negazione del potere omninvasivo della ragione e di un’affermazione di un’altra e diversa dimensione del prisma umano afferrabile solo a seguito di uno sfondamento dei limiti imposti dalla ragione.

Tale sfondamento non porta Fondane in una regione ove si trovino tutte le risposte. Così come la ragione non ha la soluzione così pure questa altra dimensione (dove la lama della ragione non può penetrare e dissezionare, perché le mancano i mezzi financo linguistici che, al contrario, la poesia potrebbe avere in Fondane) è sfuggente, difficilissima da comprendere e da esprimere, ma non per questo meno degna: tale è la rivendicazione di Fondane. Dunque, rimane sempre un margine oscuro che non si lascia cogliere, che resiste ad ogni tentativo. Si tratta precisamente della roccia, del masso, del muro contro cui, šestovianamente, non possiamo che sbattere la testa, ricominciando ogni volta.

Ma è così difficile far comprendere che la filosofia esistenziale non inizia prima ma solo a partire dall’istante in cui ogni insegnamento finisce, in cui il Sapere non risponde più alle nostre domande, in cui gli ussari con la spada sguainata hanno trionfato definitivamente?19

Di fronte al masso, Camus, coerentemente alla propria opzione, afferma che esso va preso sulle proprie spalle e che bisogna esserne felici; che, al contrario affidarsi, alle religioni, alle divinità significherebbe risolvere l’assurdo, appellarsi all’irrazionale, ad un telos che non esiste, abbandonare la corretta attitudine razionale, vale a dire la saggezza di una ragione relativa e pragmatica.

Mi si dice ancora che l’intelligenza deve sacrificare il proprio orgoglio e che la ragione deve inchinarsi. Ma se pure riconosco i limiti della ragione, non la nego fino a tal punto, poiché ammetto i suoi poteri relativi.20

Si tenta, insomma di capire se si può vivere con ciò che si sa solamente e senza appel.

Nel momento in cui l’uomo si confronta con la rivelazione del non senso della sua esistenza nel mondo, due sono le scelte possibili: vivere sulla soglia e approvare tale coscienza dell’assurdo o superare la soglia stessa. Ciò non significa, tuttavia, sopprimere necessariamente la coscienza dell’assurdo. In effetti, né Šestov né Fondane arrivano a trovare la pace; piuttosto, si impegneranno coscientemente in una lotta disperata che sanno persa in partenza. È qui, per Fondane, il vero assurdo perché, al contrario di Camus, per lui:

Ogni accettazione, ogni fedeltà, ogni rassegnazione scaccia l’assurdo dal reale o lo impregna di intelligibilità. È vero che Camus non arriva fino a questo punto e, lo si vedrà dopo, neanche Hegel; essi non chiedono a Sisifo di immaginarsi felice, chiedono a noi di immaginarlo tale. Il che è molto più semplice! E salvaguarda la possibilità di una filosofia che vada «alla ricerca della pace», distogliendosi, come diceva Jaspers, dalla «incessante inquietudine» dei Sisifi, che si chiamino Kierkegaard o Nietzsche. Camus conclude il suo libro con un colpo da maestro; ma, per poter fare ciò, bisognava trascurare l’opinione di Sisifo medesimo.21

Sisifo si immagina felice, noi lo immaginiamo felice: in questo modo egli diviene veramente un mito, evapora «a beneficio della ragione universale» e l’assurdo si trova ad essere riassorbito nel concetto, in Hegel.

È impossibile porre l’Assurdo con il consenso della ragione universale […]; bisogna ignorare questo consenso; per questo motivo, per Šestov come per Kierkegaard, l’Assurdo non è al di qua, ma al di là della Ragione; non è l’assurdo che essi fuggono ma sarebbe ugualmente inesatto pretendere che sia la ragione o la «serietà»; dal momento che essi lottano contro, si richiamano ad un qualcosa che trascende la serietà. Ci si può, certo, rifiutare, come fanno tutti, di seguire su questa via Kierkegaard e Šestov, ma allora non si può non seguire Hegel; e allora come mantenere, in sua compagnia, «l’Assurdo»?22

Dopo aver oltrepassato il limite non si entra in contatto con un Dio rassicurante; l’oltrepassamento del limite non offre allo spirito né la propria «soddisfazione», né la pace o la calma morale. Un limite è «una tortura ed un pungolo» dove l’uomo grida la propria rivolta, la propria protesta contro un mondo «che non ha né porte né finestre»23 ed in cui si soffoca.

Il Dio di cui parlano Šestov e Fondane non risponde all’interrogare umano, non spiega niente, non rende chiaro e intelligibile niente, non può cancellare l’assurdo; al contrario, in certe frasi di Šestov egli sembra essere l’assurdo stesso in rapporto agli schemi razionali e morali umani. Dio è sì l’al di là, ma un al di là silenzioso, assente. Scrive Fondane in un taccuino di appunti del 1943:

Siamo in un’epoca (o, forse, sta per finire) dominata da questa assenza di Dio. Ma, con assenza, non intendo privazione. Con assenza, intendo un foro, una incompiutezza, una nostalgia di, una presenza d’assenza, qualcosa come un niente solido, sostanziale, creatore di atti. Tutto ciò che abbiamo scritto, pensato, edificato si proponeva un solo scopo: riempire un fossato, riempire il foro che l’assenza di Dio ha aperto nel nostro universo.24

«Il loro giudaismo, frondista e sovversivo, non si definisce né attraverso una pratica né attraverso un’osservanza, si chiama: irrassegnazione. »25 Del resto, la filosofia esistenziale è nata a seguito della morte di Dio; essa è sorta da un mondo in cui l’uomo ha ucciso Dio senza rendersi contro della grandezza spropositata di tale azione, un mondo in cui l’uomo ha sacrificato Dio alla pietra, al nulla. In questo mondo svuotato di Dio, l’urgenza religiosa di Fondane non è né praticante né mistica. Primariamente, essa reclama un arretramento della ragione eletta a nuova divinità perché proprio rimanere in questa posizione significherebbe il suo vero suicidio.

Con il pensiero esistenziale, non si tratta affatto dell’abbandono della conoscenza, di un sacrifizio del inteletto, ma infine della ricerca di una conoscenza vera che non si distolga da niente di ciò che è, si tratti del «malheur» o del «discontinuo».26

La tormentata tensione religiosa di Fondane si incarna nella irrassegnazione e nel conseguente tentativo, con la poesia, di riempire quella cavità che è l’assenza di Dio, facendogli, con il poco di forze concesse all’essere umano, un po’di posto per costruire uno spazio di comunicazione (che non è confortante, visto che tutt’altro che semplice è qualsiasi comunicazione). In questo spazio anche l’uomo, il poeta che ‘rianima’il proprio Dio vivifica anche se stesso: i due protagonisti di questa lamentevole Storia che ci obbliga solamente entro il suo possibile ed il suo impossibile, che tutto esaurisce, tutto divora per infine tutto vomitare.

C’è in Fondane, una nostalgia che, però, non è quella di un luogo dove o di un tempo in cui tutto potrebbe essere stato (ed essere nuovamente) risolto: si tratta, piuttosto, della nostalgia di un’ampiezza umana vivente al più elevato grado di pienezza della realtà. Il salto non è verso il riposo e la fusione in Dio; al contrario, l’oltrepassamento del limite permette l’assoluta apertura alle possibilità, la disponibilità all’ascolto ed al rischio conseguente, l’ostinata decisione alla lotta. Una lotta accanita, opposta ad ogni stanchezza, che non mira ad «un ritorno alla fede perduta per […] stanchezza, bisogno di sicurezza, di riposo» e che, al contrario, si muove «per orrore del riposo, della sicurezza, della certezza».27

Uno dei fili conduttori di Lundi existentiel è il concetto di Legge. Partendo da una citazione dallo Hegel della Vita di Gesù, «Sabbatum propter hominem factum est et non homo propter Sabbatum», Fondane vi riconosce «il pensiero più audace e sconvolgente della concezione giudaico-cristiana del mondo»: «è la Legge che è stata fatta per l’uomo e non l’uomo per la Legge».28 Si intende, qui, con Legge un significato sfaccettato ma che, nella riflessione di Fondane, può sintetizzarsi come segue: il rigore dello svolgimento razionale, la necessità morale e, nel cuore del testo, il destino individuale con la ripresa de Il processo di Kafka29 e della parabola sulla legge. Ciò che preme a Fondane è di dimostrare come molti autori che si definiscono esistenzialisti finiscono col tradire le fonti stesse a cui dicono di rifarsi.

Conviene, infatti, domandarsi (prima di decidere del suo trionfo su Hegel) se la filosofia esistenzialista del nostro tempo prolunghi, almeno, il pensiero principale dei suoi iniziatori o se essa non abbia mantenuto solo il termine esistenzialista per un pensiero che, nella sua essenza, intende sottomettere il suo insegnamento alla ragione universale, quale che sia, peraltro, il nome che gli si dà. Importa poco che le apparenze siano contro Hegel; ma di più se non sono che apparenze. La nuova filosofia pensa che l’uomo sia fatto per la Legge (quale che sia il contenuto di questa Legge) o, tutto al contrario, che la Legge sia fatta per l’uomo (l’uomo e non la «persona» o qualche altro succedaneo chimico)? Il «successo» ha arriso a coloro che prolungano il vecchio pensiero che proclamò Gesù o a coloro che, con Hegel, proclamano il niente assoluto dell’uomo davanti a qualcosa: Storia, Legge, Ragione, Spirito, o addirittura Dio?30

Pur dichiarandosi solidali con Kierkegaard e con Nietzsche essi li seguono solo fino ad un certo punto. Quando si ritrovano smarriti, in loro compagnia, in un luogo che è un non-luogo, troppo vasto come il mare aperto di Nietzsche, allora essi indietreggiano: privati del conforto dello spazio, del tempo, del logico, sentono le loro mani vuote, non hanno il coraggio di entrare nella “dimensione della tragedia” e si riaffidano al concetto, alla legge. Decidono, perciò, di definire non più l’esistente ma l’esistenza, la sua essenza. Dunque, Fondane tenta di smascherare tale movimento attraverso la descrizione e la critica dei mezzi con cui la legge, razionale, riemerge. Da una critica preliminare a Hegel il cammino di Fondane arriva a denunciare tutti quegli autori che, per quanto sotterraneamente, finiscono, di nuovo, per abbracciare le certezze rassicuranti di Hegel: Jaspers, Camus, la seconda generazione esistenzialista non hanno vinto su Hegel.

In questo, Fondane non è solo. Rachel Bespaloff, anch’ella antica discepola di Šestov, aveva affermato qualche tempo prima: «la fenomenologia esistenziale, per la responsabilità di un Gabriel Marcel, di un Heidegger, di uno Jaspers, opera una manovra insidiosa che le renda la terra ferma; l’esistente si eclissa e cede il posto all’Esistenza».31

E, Fondane le fa eco:

Un grande fossato separa allora le filosofie che trattano della e vertono sulla esistenza dalle filosofie che trattano della e vertono sulla conoscenza proprio dal punto di vista dell’esistenza incondizionata, storica e per questo non valida per tutti. È della massima urgenza mettere in chiaro questo: se, prima che svanisca (se non lo è già), si tenga a distinguere il significato tanto originario quanto originale della filosofia esistenzialista propriamente detta e del ruolo che ha avuto, o che ha mancato di avere, all’interno del dramma della Conoscenza. Bisognerebbe decidersi sul cammino da seguire: vogliamo realmente sapere cosa la Conoscenza pensa dell’esistente o, piuttosto, per una volta, ciò che l’esistente pensa della Conoscenza?32

4. Rachel Bespaloff, «Il mondo del condannato a morte»

Rachel Bespaloff si occuperà in modo più specifico di Camus, affrontando la sua intera produzione nell’articolo «Le monde du condamné à mort», pubblicato postumo33 su Esprit nel 1950.34

Secondo la tesi che in questo lungo articolo Bespaloff sviluppa, il pensiero di Camus sgorga, innestandovisi, da una domanda fondamentale alla quale lo scrittore tenta di rispondere lungo il corso della sua intera opera servendosi dello strumento del «realismo criptico». La questione centrale è: «quale è il valore che si conserva agli occhi del condannato a morte che rifiuta la consolazione del soprannaturale? ».35 Per sviluppare tale ipotesi interpretativa, Bespaloff muove da un altro concetto cardine: quello della morte cui il condannato va incontro. Ora, lo sfondo entro cui Camus opera e vive è caratterizzato in maniera asfissiante da questo «clima della morte violenta» in cui, come mai prima, l’idea della morte è collegata in modo «esclusivo a quella di un parossismo di crudeltà arbitraria». La generazione di Camus e di Sartre è stata strappata dall’ideale di «umanismo tragico» di uno Shakespeare, per esempio, in cui la morte era «giudice della grandezza». Oggi «il fumo dei forni crematori ha fatto tacere il grido magico che […] non poteva esaurire le sue modulazioni. Ormai, nella vicinanza con la morte, le suppliche rimpiazzano l’estasi ed il sadismo la voluttà». Camus, dunque, porta in sé e mantiene davanti ai suoi occhi un’immagine della morte che «né il culto dei morti, né la religione della gloria, né la fede nella vita immortale seguono in questi inferni» sono capaci di seguire nel suo multiforme inferno, perciò, a Camus e a noi «non resta che la morte nuda, in una bufera di fredda violenza».36

Con questa immagine che invade gli occhi e sulla scia di Nietzsche, Camus dichiara come solo valore «il puro atto di vivere»: «la vita è sufficiente» e la rivolta è la modalità attraverso cui si giunge a comprendere l’unicità di tale valore. «La vita come passione, sfida, rifiuto ostinato di ogni consolazione soprannaturale, amor fati».37 Tuttavia, diversamente dalla rivolta romantica,38 la rivolta moderna, sebbene ne sia erede,

deve, al punto in cui è giunta, porsi la questione di ricominciare. Un istinto sicuro ha guidato Camus quando egli ha scelto il mito di Sisifo. Ha compreso, con Nietzsche, che la prova suprema dell’assurdo è la ripetizione, il ricominciare sino alla morte.39

Secondo Bespaloff, Camus è un «poeta moralista e non poeta romanziere» perché non possiede «i doni di una immaginazione visionaria che crea miti e mondi».40 Il campo dell’etica in Camus è dunque quello in cui «un uomo condannato con e tra altri uomini ugualmente condannati» passa dall’affermazione della libertà individuale (quella dichiarata in Il mito di Sisifo) ad uno sforzo comune, ad un «noi impegnato in un’impresa disperata» (è La peste a compiere il passaggio dall’individualità al “noi”).

Egli definisce la libertà attraverso la rivolta e la lucidità — detto altrimenti, attraverso ciò che la limita poiché la rivolta si scontra con l’irreparabile e la lucidità con l’irrazionale. Strana libertà la cui massima è: «come se». Essa ha concesso tanto alla necessità che non le resta più che fare «come se» fosse la libertà. Ma Camus lo sa bene, e lo confessa. […] Egli si è dunque dato la sola libertà compatibile con il mondo del condannato a morte.41

In un’ottica cristiana va, evidentemente, in tutto altro modo: dalla rassegnazione infinita, nasce la fede, l’agonia disvela un Dio amoroso pur sradicando, ma proprio l’essere “gettati” in questo sradicamento è aprirsi a Dio e alla libertà che viene dalla grazia.

Secondo Bespaloff, tuttavia

La questione non riguarda l’opposizione di queste due etiche. […] In più di un senso, l’etica decristianizzata è erede del cristianesimo, non fosse altro che per aver dato al tema della condanna a morte, che è quello della passione, una importanza primordiale. Essa ha iniziato con la sfida, le resta da compiere la paradossale fusione della rivolta (nel tempo) e dell’accettazione (nell’eterno). […] . Tutte le contraddizioni di Camus, stanno nel fatto di voler ridurre la libertà alla libertà d’azione nella storia, mentre è attraverso la storia che egli cerca «la libertà nella salvezza».42

Il compito che Camus sembra proporsi è quello di costruire una sorta di, per così dire, santità laica e laicizzata.

Il santo è semplicemente l’uomo capace di accedere al sacrificio della propria vita per amore degli uomini. Le frontiere del sacro si spostano per coincidere ormai con quelle dell’umano puramente umano, in modo tale che l’adoratore e l’oggetto adorato si ricongiungono nella persona del condannato a morte.43

Laddove la santità consisteva propriamente nel superare, e non nell’evitare, determinati ostacoli, in una parola, la disciplina (di partito, militare, ecc.) e, quindi, sempre passando per «organizzazioni di combattimento che hanno come scopo il trionfo di una forza sull’altra», a ben vedere «queste limitazioni concrete, con quanto di ingiustizia, di fanatismo e di violenza esse comportano, sono la condizione ineluttabile dell’oltrepassamento eroico o religioso».44

Il problema contro cui Camus si scontra è che, secondo Bespaloff, il santo non si separa mai completamente dal malheur, lo riconosce rimanendovi.

Per quanto Camus si sforzi di naturalizzare l’ascetismo, il suo eroe ha appena fatto il primo passo sulla via della santità, che ha già ristabilito le categorie religiose del peccato e del rimorso. […] . Divenire santo significa accettare le estreme conseguenze di questo «minuto di risveglio», dovesse anche tutto ciò contraddire lo stato di veglia della ragione. L’ideale di una santità ragionevole suppone, a torto, che queste contraddizioni si risolveranno da sole nell’atto del sacrificio.45

Ostinatamente deciso a rimanere su un piano esclusivamente umano, riluttante verso qualsiasi trascendenza, Camus «mette la felicità individuale al di sopra dello spirito di abnegazione; ma, per vincere la catastrofe, subordina la felicità al sacrificio».

Tutto ciò non deve, però, far credere che Bespaloff consideri la traiettoria di Camus come una evoluzione rettilinea e priva di conflittualità «dall’indifferenza alla rivolta, dall’accettazione rivoltosa alla santità».46

Piuttosto, ella mette in evidenza come la nota della scrittura di Camus sia quella di una ricerca sofferta di un punto di equilibrio tra le tensioni che animano la sua opera. La descrizione delle contraddizioni presenti in Camus significa, per Bespaloff, palesarne tutta la ricchezza e la verità. Senza citare Šestov, ella lo evoca affermando che Camus è «di quelli che cercano gemendo» (tale è il senso della ricerca per Šestov che fa delle parole di Pascal il proprio vessillo), «discepolo dei grandi pensatori esistenziali che lo hanno formato»; parlando di «muri troppo spessi» perché la voce gemente li oltrepassi; confrontandolo con Giobbe.

Camus, quando ci svela «la nostra spaventosa e meravigliosa esperienza, la nostra nostalgia dell’equilibrio nella verità», resta nel vero.

In compenso, il pericolo che gli fa la posta è quello di slittare dall’etica alla morale, dall’esistente all’esistenzialismo, di installarsi sulle posizioni dei nuovi razionalisti che non la smettono di sotterrare il dio che non hanno assassinato. Il solo rimprovero che gli si possa muovere, è proprio quello che egli rivolge, a torto, a Kierkegaard e a Dostoevskij quando li accusa di aver inclinato verso l’edificazione e la predicazione. […] . Se Camus si ferma ad una saggezza, rischia di andare ad ingrossare il coro degli amici di Giobbe. Che resti, dunque, nella sua vocazione di pensatore «assurdo», quello da rimettere tutto in questione, senza posa.47

Pensatore dell’assurdo che ne assume l’ossessività e vi lotta contro. E la lotta di Camus contro l’assurdo è «lotta per la fede, per il significato, per la possibilità di respirare nell’inferno di inutili ripetizioni», tentativo di non rassegnarsi alla «futilità della storia», del presente in cui «il mito di Sisifo succede al mito di Satana».

Sisifo, nemico degli dei, non pretende di essere il loro rivale, egli non abbandona l’ingrato dominio che essi gli hanno assegnato e del quale egli è il padrone e lo schiavo. […] . Sisifo non può e non vuole essere rassicurato. Non vi è per lui né l’abisso né l’empireo. La pietra che egli fa rotolare verso la sommità non ricade mai più in basso dei piedi della montagna dove egli la ritrova. Essa ha preceduto la Croce, si vuole che essa le succeda. Ma è sempre il medesimo uomo piegato sotto il medesimo fardello. Ci si può domandare se la libertà abbia vinto in ciò, se veramente Sisifo risalendo la china sia più libero del cristiano che porta la sua croce. […] . Si può immaginare Sisifo felice, ma la gioia è per sempre fuori dalla sua portata. Camus lo sa meglio di chiunque altro, ed è per questo che non si tranquillizza affatto vicino a Sisifo. È per questo che egli non si tranquillizzerà mai.48

Tre sono, infine, le anime che convivono in Camus, creando in lui quella coesistenza così paradossale di fusione e contraddizione. Egli è romantico e mediterraneo per la sua nostalgia inesauribile del finito, scettico in quanto artista e, contemporaneamente, «seriamente, virilmente appassionato», tanto da potere, proprio in virtù di tale feconda complessità, conciliare, per quanto instabilmente, «l’insegnamento dei classici e quello di Kierkegaard, di Dostoevskij e di Šestov».

Si leggano queste righe da Il mito di Sisifo riportate da Bespaloff a conclusione del suo saggio:

Ma si può concepire un’altra specie di creatori, che procederebbero per giustapposizione. Può sembrare che le loro opere non siano in rapporto fra loro. In una certa misura, sono infatti contraddittorie; ma, considerate nel loro complesso, riprendono la loro ordinata disposizione. In tal modo, è dalla morte che prendono il loro senso definitivo. Esse acquistano la loro più viva luce dalla vita stessa dell’autore. A questo punto, la serie delle sue opere non è che una collezione di sconfitte. Ma se queste conserveranno tutte la stessa risonanza, il creatore avrà saputo riprodurre l’immagine della propria condizione e far echeggiare lo sterile segreto di cui è detentore.49

Parole che, secondo Bespaloff, si confanno meravigliosamente a Camus stesso: «Cancelliamo la parola “sterile” e non potremmo concludere meglio se non con questo giudizio di Camus su se stesso».50


  1. Per una ricostruzione più completa si veda: Olivier Salazar-Ferrer, «Fondane et Camus», in (a cura di) Monique Jutrin, Rencontres autour de Benjamin Fondane, poète et philosophe, Parole et Silence, Paris 2002, pp. 29-47. ↩︎

  2. Mi permetto di rimandare a Alice Gonzi, «Lev Šestov incontrato e narrato da Benjamin Fondane», in Humanitas, numero monografico dedicato a L. Šestov, 64 (3/2009). ↩︎

  3. «Occorre credere che gli uomini, questi eterni Sisifo, si rimetteranno, di nuovo, […] a rotolare pazientemente l’immenso masso della storia e si sforzeranno, proprio come poco prima, di issarlo, nei tormenti, sulla cima della montagna». Lev Šestov, Les Pouvoir des clefs, («Potestas clavium»), J. Schiffrin, Paris 1928, XXXIII. ↩︎

  4. Con tutti i debiti che, tuttavia, Camus gli riconosce: «Se le premesse dell’esistenzialismo si trovano, come credo, in Pascal, Nietzsche, Kierkegaard o Šestov, allora io sono d’accordo con esse». Albert Camus, Essais, Gallimard, Paris 1977, p. 1926. ↩︎

  5. Il testo sarà solo successivamente pubblicato autonomamente in un’opera che conterrà anche gli articoli redatti da Fondane per la rubrica “Philosophie vivante”. Benjamin Fondane, Le Lundi existentiel et le Dimanche de l’histoire, Editions du Rocher, Monaco 1990. ↩︎

  6. Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2009, p. 18. ↩︎

  7. Ibidem. ↩︎

  8. Ivi, p. 23. ↩︎

  9. Ibidem. ↩︎

  10. Ivi, p. 53. ↩︎

  11. Ivi, p. 48. ↩︎

  12. Ivi, pp. 50-51. ↩︎

  13. Ivi, p. 64. ↩︎

  14. Ivi, p. 34. ↩︎

  15. Ivi, p. 35. ↩︎

  16. Ivi, p. 46. ↩︎

  17. Ibidem. ↩︎

  18. Il problema è evidentemente enorme: quando il dialogo tra Camus e Fondane si instaura, a Parigi si sta organizzando la resistenza, l’azione resistenziale necessità di un pensiero forte e di valori forti, di una morale energica a cui potersi senza indugi riferirsi. Ovviamente, la critica alla morale di Šestov e di Fondane non può che urtare contro tali urgenze, così come l’idea di superare il concetto etico-razionale di Bene per trovare Dio (assoluto, al di là del bene e del male) e la feroce critica alle pretese assolute della ragione sono percepite come pericolose dagli intellettuali del dopo guerra. Camus che, avendo ricevuto da Grenier il volume L’Existence, ha dovuuto leggervi il testo di Fondane sembra rispondere sia a lui che a Šestov nelle pagine de L’uomo in rivolta. «Il sentimento dell’assurdo quando, per prima cosa, si pretenda di derivarne una regola d’azione, rende l’assassinio per lo meno indifferente e, conseguentemente, possibile. Se a nulla si crede, se nulla ha senso e se non possiamo affermare nessun valore, tutto è possibile e niente ha importanza. […].Si possono attizzare i forni crematori, come anche ci si può consacrare alla cura dei lebbrosi ». Albert Camus, L’Homme révolté, Gallimard, Paris 1951, p. 419. In un contesto così complesso, tutto ciò che sembra precludere all’irrazionalismo viene visto con sospetto, perché è credenza comune che i fascismi, i totalitarismi siano nati proprio da radici irrazionalistiche e su queste si siano innervati potentemente. Due annotazioni: circa la morale, in realtà, per Šestov il peccato non è contro la virtù, ma contro la fede; sul dibattito circa la genesi dei totalitarismi, per Fondane, essi sono sgorgati dal seno del razionalismo più aggressivo che tutto misura e rende numero, financo gli esseri umani. ↩︎

  19. B. Fondane, Le Lundi existentiel, cit., p. 63. ↩︎

  20. A. Camus, Le Mythe de Sisyphe, cit., pp. 38-39. ↩︎

  21. B. Fondane, Le Lundi existentiel, cit., p. 37. ↩︎

  22. Ivi, p. 36. ↩︎

  23. Ivi, p. 61. ↩︎

  24. Monique Jutrin, «Benjamin Fondane : un “Ulysse juif”», in Foi et Vie, décembre 2001. Disponibile su http://fondane.com/ all’interno della sezione: Documents. ↩︎

  25. Ibidem. ↩︎

  26. B. Fondane, Le Lundi existentiel, cit., p. 53. Le «anime pericolose che vogliono rompere con ogni tranquillità» (ivi, p. 60) vivono una crisi che è anche filosofica. C’è, per Fondane, la possibilità di una filosofia del tutto diversa: contemporaneamente: «L’impertinente inquietudine, la sacra ipocondria potrebbero non essere degli “stati d’animo” come la pace, la soddisfazione dello spirito, l’intelligibile, ma strumento di ricerca, i prolegomeni del metodo? Mantenere l’inquietudine nell’esistente — non potrebbe essere questo il ruolo del filosofo?». Ivi, p. 62. ↩︎

  27. Ivi, p. 60. ↩︎

  28. Ivi, pp. 11-12. ↩︎

  29. Kafka è un ulteriore tema che avrebbe potuto arricchire il dialogo tra Camus e Fondane, il quale pur non avendo potuto leggere il capitolo che Camus aveva dedicato a Kafka in Il mito di Sisifo (nella prima edizione al suo posto figurava Dostoevskij ed il suicidio), ne dà una lettura esistenziale facendo rifermento, soprattutto, al finale de Il processo per opporre il possibile esistenziale alla serietà della Storia. ↩︎

  30. B. Fondane, Le lundi existentiel, cit., p. 19. ↩︎

  31. R. Bespaloff, Cheminements et Carrefours, (1938), Vrin, Paris 2004, p. 81. ↩︎

  32. B. Fondane, Le Lundi existentiel, cit., pp. 22-23. ↩︎

  33. Rachel Bespaloff, nata nel 1895, si era infatti suicidata nel suo esilio statunitense il 6 aprile del 1949. Tra le sue opere, oltre il già citato Cheminements et carrefours, ricordiamo: De l’Iliade, New York 1943, trad. it., Dell’Iliade, Città aperta, Traina (En) 2004; per un quadro più esaustivo del suo pensiero si rimanda a L. Sanò, Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2007. ↩︎

  34. Rachel Bespaloff, «Le monde du condamné à mort», in Esprit, n. 163, janvier 1950, pp. 1-26. ↩︎

  35. Ivi, p. 1. ↩︎

  36. Ivi, p. 3. ↩︎

  37. Ivi, p. 5. ↩︎

  38. Bespaloff confronta Julien Sorel e Mersault su tale punto, utilizzando come metro anche il concetto, degradato nel presente, della volontà di potenza che caratterizza la personalità eroica. Ed è proprio «l’ideale della grande personalità» che è andato perdendosi lungo il tragitto che dal Romanticismo arriva ad oggi; è tale perdita che fa di Julien Sorel il punto più elevato della rivolta e di Mersault quello più basso. ↩︎

  39. Ivi, pp. 5-6. Circa l’assurdo, per Bespaloff, in Camus, l’assurdo «non è né una concezione filosofica feconda, né una categoria filosofica utile. Con ogni evidenza, l’assurdo in Camus, ben più che una concezione del mondo è una ossessione da cui, del resto, nessuno di noi può dirsi indenne». Ivi, p. 25. ↩︎

  40. Ivi, p. 9. ↩︎

  41. Ivi, p. 11. ↩︎

  42. Ivi, p. 12. ↩︎

  43. Ivi, p. 15. ↩︎

  44. Ibidem. ↩︎

  45. Ibidem. ↩︎

  46. Ivi, p. 17. ↩︎

  47. Ivi, p. 13. ↩︎

  48. Ivi, pp. 25-26. ↩︎

  49. A. Camus, Il mito di Sisifo, cit., pp. 110-111. ↩︎

  50. R. Bespaloff, «Le monde du condamné à mort», cit., p. 26. ↩︎