Le radici filosofiche della catastrofe. Ontologia, guerra, politica e antiumanesimo in Levinas

La via dell’etica come filosofia prima

Nel caso di Emmanuel Levinas, ci si trova di fronte a un pensiero che trova il suo carattere distintivo e nucleo propulsivo nella messa in discussione, all’interno della tradizione filosofica occidentale, del primato dell’ontologia e nell’individuazione dell’etica quale orizzonte ultimo di senso. Etica che, dunque, nell’ottica del filosofo, si veste di una originale portata metafisica non indicando più una particolare disciplina in una certa relazione con le altre, bensì la struttura ultima del reale stesso.1 Si potrebbe parlare di «etica originaria», per usare un’espressione di Petrosino, nel tentativo di far emergere lo scarto irriducibile tra la riflessione levinasiana sull’etica e una concezione della stessa come filosofia seconda e come luogo dell’istituzione di leggi e precetti. Un’etica che, insomma, nell’accezione che si trova ad assumere, appartiene a quello che Heidegger aveva definito, nella Lettera sull’umanismo, il «pensiero che non procede per discipline».2

Come dichiarò lo stesso filosofo nel 1981 nei suoi colloqui radiofonici con Philippe Nemo:

Il mio compito non consiste nel costruire un’etica; tento soltanto di cercarne il senso. In effetti, non credo che ogni filosofia debba essere programmatica […]. Si può senza dubbio costruire un’etica in funzione di ciò che ho detto, ma non è questo il mio tema specifico.3

Quella levinasiana è, quindi, una riflessione filosofica che si interpreta innanzitutto come problema del senso, ricerca del senso del reale, dell’umano. Per Levinas si tratta, infatti, di costruire una filosofia che permetta di salvaguardare l’alterità d’altri, innanzitutto quella dell’altro uomo, senza ridurla alle categorie della soggettività conoscente o all’orizzonte dell’essere quale orizzonte della coscienza (modalità queste di affrontare l’alterità che, come avremo modo di esporre, inevitabilmente finiscono per negarla). Una filosofia che, allo stesso tempo, permetta di recuperare anche il senso vero della trascendenza, dopo la crisi della metafisica occidentale.4 Ci troviamo di fronte, allora, ad una speculazione che si sforza di riscoprire e rinnovare il significato di termini quali «alterità» e «trascendenza».

La vecchia via della trascendenza metafisica, criticata da Heidegger e dichiarata morta da Nietzsche, non è affatto ripresa, come pure non è percorsa la via dell’immanenza dominante la filosofia moderna che trova il suo apice in Hegel e continua in Husserl e nello stesso Heidegger. Levinas intende piuttosto, nel contesto della riflessione novecentesca e della storia della filosofia in generale, inaugurare una terza via in cui tanto l’alterità quanto la trascendenza significhino in termini etici e non più ontologico-metafisici.5 Il che equivale a dire che l’essere si presenta scisso in «Medesimo» e «Altro», si «produce come bontà», «come essere per altri (Autrui)»,6 oppure, per ricorrere al peculiare linguaggio di Altrimenti che essere, che la significazione dell’Essenza che si annoda nel «Detto» rimanda ad un «Dire anarchico» che positivamente significa come responsabilità per l’altro.7 In virtù di ciò, tutte le principali categorie filosofiche, prima fra tutte quella di soggettività, si colorano di un nuovo significato dovuto alla loro modulazione in chiave di relazione etica.

Il giudizio complessivo di Ferretti sulla parabola speculativa del filosofo ci sembra pienamente sottoscrivibile:

Un pensiero che, maturatosi in quel crogiuolo di idee che si è avuto nel passaggio dalla fenomenologia di Husserl all’esistenzialismo ontologico heideggeriano, si presenta come una delle proposte più originali e feconde della filosofia del Novecento, sfuggendo all’alternativa, in essa dominate, tra totalizzazione o frammentazione del senso, centralità del soggetto o morte dell’uomo, metafisica tradizionale o nichilismo.8

Un pensiero, ancora, che si sviluppa attraverso quel felicissimo e costante dialogo tra quelle che sono, al contempo, le fonti della formazione del filosofo e della cultura occidentale stessa: la filosofia e il commento della Scrittura.9 Questo, tuttavia, non significa affatto che si tratti di una riflessione fondata su dogmi di fede, poiché, sebbene sia innegabile l’ispirazione religiosa di concetti cardine del suo discorso, abbiamo a che fare con una filosofia che si regge tutta sulla forza del suo stesso procedimento fenomenologico-argomentativo. Nelle sue opere, Levinas ha cercato di tradurre nel linguaggio greco della filosofia le valenze umanamente universali scoperte nell’esperienza religiosa, riportando, allo stesso tempo, la filosofia a quella che ritiene essere la sua tradizione più valida. Negli scritti levinasiani risuona «il grido degli antichi profeti e quello delle vittime della violenza antisemita» come contestazione decisiva del corso prevalente della cultura occidentale, dove ha dominato l’ontologia totalitaria, la guerra ha rappresentato il momento risolutivo delle relazioni umane e l’altro è stato visto anzitutto come il nemico.10

Proprio l’esperienza della guerra e, soprattutto, dell’Olocausto rappresentano momenti decisivi nello sviluppo della filosofia di Levinas. Non a caso, Altrimenti che essere, opera del 1974, si apre con questa dedica:

Alla memoria degli esseri a me più prossimi tra i sei milioni di assassinati dai nazionalsocialisti. Accanto ai milioni e milioni di esseri umani di ogni confessione e di ogni nazione, vittime dello stesso odio dell’altro uomo, dello stesso antisemitismo.11

Si tratta di un passaggio di fondamentale importanza: la condizione dell’ebreo rappresenta, per il filosofo, la condizione dell’essere umano in quanto tale; dell’altro uomo che mi interpella con il suo volto comandandomi di non ucciderlo, esponendosi al contempo alla tentazione dell’omicidio, e di me stesso che mi scopro uomo quando avverto la chiamata ad una responsabilità incondizionata per il prossimo. L’ebraismo diventa, per Levinas, una categoria dell’umano, mentre l’antisemitismo si presenta come l’avversione per la prossimità dell’altro uomo, l’odio per l’altro uomo che rappresenta il vero volto del male.12 Infatti scrive:

L’antisemitismo non è né la semplice ostilità provocata da una maggioranza nei confronti di una minoranza, né soltanto una xenofobia, né un qualsiasi razzismo, foss’anche la ragione ultima di questi fenomeni da esso derivati. Perché esso è la ripugnanza suscitata dall’ignoto dello psichismo altrui, dal mistero di un’interiorità o, al di là di ogni agglomerazione di un insieme e di ogni organizzazione in un organismo, dalla pura prossimità dell’altro uomo, e cioè dalla socialità stessa.13

Le citazioni che abbiamo appena riportato ci rivelano un altro elemento di grande importanza per comprendere la filosofia di Levinas: la sua parabola intellettuale è fortemente legata al XX secolo e a quegli eventi che lo hanno attraversato scuotendo la nostra civiltà. Secolo breve che Levinas (1905-1995) ha attraversato tutto, registrandone i vari mutamenti con la sensibilità propria del suo pensiero. Secolo in cui mutano le basi della scienza, della tecnica e del pensiero influenzando fortemente la filosofia stessa e le modalità della sua ricerca; in cui si susseguono sconvolgimenti economici, sociali e politici. Secolo delle guerre mondiali e della Rivoluzione russa, della mondializzazione di economia e tecnica, e dell’avvento delle multiculturalità e del policentrismo.14 «Secolo segnato – per usare le parole di uno studioso quale Lissa – fondamentalmente dal primato se non dall’assolutezza della politica. Secolo, dunque, dell’umanesimo dei superbi, di un umanesimo disposto, cioè, a identificare esclusivamente l’uomo come potenza».15 Proprio per questo, il ’900 è finito per incappare, fin troppo spesso, in esplosioni di violenza generate dai progetti di predominio delle volontà nazionali che, quasi sempre, si sono irrigidite in sistemi di controllo totale della vita degli individui e delle società di cui erano espressione. Secolo in cui la razionalità si è interpretata principalmente come calcolo, e in cui a farla da padrone è una teoria politica che si congeda da preoccupazioni etiche. Secolo che, infine, nell’esperienze di Auschwitz, come in tutte le esperienze concentrazionarie che lo attraversano, e nelle catastrofi di Hiroshima e Nagasaki, ha portato la coscienza occidentale a sperimentare il sentimento di un’impresa antiumanistica che si attualizza nella storia, destinato a mettere in crisi l’umanesimo occidentale.16

Orbene, è esattamente sulla critica di Levinas alla tradizione filosofica occidentale che intendiamo soffermarci. Tradizione dominata da un’ontologia caratterizzata dalla tendenza generale alla totalizzazione, alla totalità della luce dell’abbraccio conoscitivo in cui racchiudere tutto l’essere. Critica che finisce per assumere una fondamentale portata storico-politica, mostrando come la ragione totalitaria si concretizzi nell’elevazione della storia universale a giudice dell’operato dei singoli, nella considerazione della guerra come strumento risolutivo del confronto politico, e nella giustificazione degli stessi regimi totalitari. Si mostrerà, insomma, come per Levinas, la strada che la filosofia fino al suo tempo ha percorso, costituendo i presupposti logico-ontologici dell’umanesimo occidentale, non solo conduce ai drammi del Novecento, ma, non consentendo di attribuire alcuna dignità specifica all’umano, trova proprio nell’antiumanesimo del pensiero contemporaneo il suo più coerente sviluppo.

Crisi dell’umanesimo: ontologia, guerra e politica

La crisi dell’umanesimo non rappresenta, semplicemente, la mesa in discussione di una certa idea, o di un certo aspetto tra tanti della cultura occidentale; essa è, piuttosto, crisi dell’identità stessa dell’Occidente. Proprio su una ben precisa idea di umanità le società con essa identificate hanno costruito la loro legittimazione a esercitare un ruolo preminente nella storia. Si tratta dell’idea dell’uomo come immagine e sintesi della realtà, dell’uomo fine in sé, che esercita un ruolo decisivo nell’universo in virtù della ragione e della libertà di cui sarebbe dotato, e che gli permetterebbero di cogliere il senso della realtà che lo circonda e di agire consapevolmente.17 Di questa crisi Levinas, non ne è semplice testimone, ma, sulla scia di altri pensatori come Heidegger, ne ha colto le sue più intime ragioni.

In una pagina particolarmente significativa dell’opera Umanesimo dell’altro uomo, così si esprime il filosofo francese:

La crisi dell’umanesimo della nostra epoca nasce, forse, dall’esperienza dell’inefficacia umana che la stessa abbondanza dei mezzi per agire e la vastità delle nostre ambizioni non fanno che mettere in risalto. Nel mondo in cui le cose sono tutte in ordine, […] in cui la scienza prolunga la topografia della percezione e della prassi, anche se ne trasfigura il senso, […] in tutta questa realtà alla diritta il controsenso delle grandi imprese mancate – in cui politica e tecnica riescono giusto alla negazione dei progetti che le ispirano – rivela l’inconsistenza dell’uomo, zimbello delle sue opere. I morti insepolti nelle guerre e nei campi di sterminio avvalorano l’idea di una morte senza avvenire, rendendo tragicomica la cura di sé e illusoria la pretesa dell’animal rationale in un posto privilegiato nel cosmo, la sua capacità di dominare e integrare nell’autocoscienza la totalità dell’essere.18

Come nota acutamente l’autore, che le azioni possano trovano intralcio nella tecnica stessa destinata a renderle efficaci; che la scienza, «nata per contenere il mondo» e permettere in esso il dispiegarsi di un’esistenza umana felice, lo «abbandoni alla disgregazione»; che la politica e l’amministrazione ispirate all’ideale umanistico non facciano che conservare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la guerra, rappresentano tutti singolari capovolgimenti dei nostri progetti ragionevoli.19 Inversioni, queste, che non possono che gettare un’ombra di passività sulla causalità, sulla libertà umana e quindi sulla soggettività trascendentale stessa, attorno a cui l’uomo occidentale ha costruito la sua identità. Soggettività che nella tradizione occidentale si è intesa, appunto, come unità originaria dell’appercezione – Io penso, o per essere più precisi Io penso che penso– , come spontaneità e atto: questo proprio perché essa essendo «l’attualità della presenza, può diventare spontaneità dell’immaginazione, far presa sulla forma temporale del dato, dirsi atto».20 L’Io che si dà esattamente in questo esercizio intemporale di attualità è l’io libero dell’umanesimo classico.21 Esso è perfetta coincidenza con sé, piena autocoscienza. La coscienza, argomenta Levinas, si definisce come modo d’essere tale che «aver principio ne è la nota essenziale», ovvero come esistere quale origine e muovendo da un’origine verso l’avvenire, di cui azione e libertà non sono altro che articolazione di tale modo d’essere.22 L’incominciare è «il prodigio del presente»,23 la coscienza, in cui ogni contenuto è stato presente, e perciò è presente, rappresentabile o rammemorabile, è l’esclusione di un passato che non sia mai stato presente. L’Io, allora, in questo contesto non può che porsi come il movimento di ritorno all’origine stessa, movimento che ne è l’essere stesso, il «porsi del sé».24 La coincidenza dell’Io con sé è il fatto di essere «l’origine dell’origine»,25 libertà.

Alla prova dei fatti, però, come abbiamo sopra sottolineato, nel mondo tutto avviene come se l’Io, l’identità per eccellenza, fonte di tutte le identità, non riuscisse più a coincidere con sé, venisse meno. Così argomenta Levinas in L’ontologia è fondamentale?:

La commedia comincia con il più semplice dei nostri gesti. Essi comportano tutti un’inevitabile goffaggine. Allungando la mano per avvicinare una sedia, ho spiegazzato la manica della mia giacca, ho rigato il parquet, ho lasciato cadere la cenere della mia sigaretta. Mentre facevo quello che volevo fare ho fatto mille cose che non ho voluto. L’atto non è stato puro […]. Quando la goffaggine dell’atto si volge contro lo scopo perseguito siamo in piena tragedia.26

Dal punto di vista dell’Io, ogni atto umano finisce per essere un vero e proprio «atto mancato»27 che lo contraddice. Certo, Levinas riconosce che da lungo tempo gli uomini si erano resi conto di una tale alienazione, di una tale incapacità di realizzarsi attraverso le proprie opere. Ma dal XIX secolo, con Hegel, si era trovato un senso a questa alienazione, riconoscendogli un carattere meramente provvisorio e che, come tale, avrebbe dovuto condurre a un «sovrappiù di coscienza e di chiarezza al compimento delle cose»28 (la celebre teoria dell’eterogenesi dei fini). Soprattutto con Marx, trovando le deviazioni della volontà un significato attraverso l’alienazione sociale, era possibile nell’esaltazione delle speranze socialiste rendere possibile l’idealismo trascendentale.29 L’uomo del Novecento, come spiega Levinas, però, vive un’angoscia molto più profonda di quella derivante dalla presa d’atto del controsenso delle opere umane, un’angoscia che trova la sua radice nell’«esperienza delle rivoluzioni inghiottite nel gorgo della burocrazia e della repressione e delle violenze totalitarie che si spacciano per rivoluzioni».30 «Perché in esse – sostiene il filosofo con un affermazione particolarmente emblematica – si aliena la disalienazione stessa».31 Viene meno la speranza stessa di un tempo e di una condizione storico-sociale in cui il soggetto, in pace con gli altri, possa realizzare pienamente se stesso dispiegando completamente le sue potenzialità.

Un’impotenza e una passività ancora maggiore, tuttavia, l’uomo del Novecento l’avrebbe sperimentata sui campi di battaglia delle due guerre mondiali, e, ancor di più, durante la Seconda in cui si colloca l’esperienza dei campi di sterminio. Così Lissa su questo punto: «la guerra mise il soggetto umano di fronte allo specchio della sua impotenza, e l’obbligò a gettare uno sguardo acuto sul fondo oscuro del suo essere e a prendere atto di quanto estesa sia l’area di passività che vi si annida».32 L’uomo sui campi di battaglia si trova ad essere ridotto a mero oggetto sacrificale, a mezzo di una volontà impersonale di potenza. Così Levinas perentoriamente afferma in Totalità e infinito:

Ma la violenza [della guerra] non consiste tanto nel ferire e nell’annientare, quanto nell’interrompere la continuità delle persone, nel far loro recitare delle parti nella quali non si ritrovano più, nel far loro mancare, non solo a degli impegni, ma alla loro stessa sostanza, nel far compiere degli atti che finiscono con il distruggere ogni possibilità d’atto. Come la guerra moderna, tutte le guerre si servono da sempre di armi che si rivoltano contro quelli che le possiedono. Essa instaura un ordine nei confronti del quale nessuno può prendere le distanze. […] La guerra non manifesta l’esteriorità e l’altro come altro; essa distrugge l’identità dello Stesso. […] In essa gli individui sono ridotti a portatori di forze che li comandano a loro insaputa.33

Tutto questo, poi, in maniera ancora più amplificata si presentava agli uomini che avevano vissuto la terrificante esperienza dei campi di sterminio. In essi il soggetto si trovava ad essere sottoposto ad una pressione formidabile che lo riduceva al nudo fatto di esistere, spogliandolo, così, della sua stessa soggettività di soggetto, impedendogli di essere qualcuno e disintegrandone la libertà.34 L’esperienza concentrazionaria aveva esposto le sue vittime ad una violenza tale da averli spogliati della loro «pelle umana», gli aveva fatto sperimentare «una condizione inferiore a quella delle cose».35 Una condizione di passività così profonda che non poteva che rendere assurde e derisorie le metafisiche dell’uomo occidentale, incentrate sulla celebrazione della libertà, di una libertà che non resiste, come si era rivelato, alla sofferenza e soccombe alle torture e alla disciplina rivelatesi più forti della morte.36

Veniamo, così, ad un punto cruciale del discorso. Infatti, come non poteva apparire sospetta la funzione della libertà a coloro che avevano patito gli effetti del suo concreto agire nel momento stesso in cui si vedevano negato il diritto ad esercitarla? L’umanesimo, che tale libertà aveva sostenuto nel suo slancio conquistatore, non poteva non essere ritenuto responsabile dello scatenamento delle violenze della guerra.37 Esso, animato dall’idea che non fosse necessario dare importanza alle differenze, poiché tutti siamo uomini, e che l’unica cosa da evitare fosse la guerra come supremo male, non si curava del fatto che, allo stesso tempo, si affermasse la vittoria del diritto e della civiltà. Anzi, trascurando nei fatti tali aspetti finiva proprio per rivelare un carattere inumano, se è vero, come è vero per un grande teorico dell’umanesimo tradizionale come Herder, che umanità significhi migliorare la convivenza, «procurare e facilitare per ciascuno individuo il massimo e mutuo influsso benefico di ogni uomo sull’altro».38 Inoltre, proprio la guerra, le sue stragi, dimostrano quanto quelle differenze tra gli uomini nel concreto contassero, e quanto la libertà in fin dei conti fosse astratta, a meno di non fondarsi sulla libertà degli altri, da rispettare nella loro diversità.39 La Seconda guerra mondiale rappresenta, dunque, per Levinas una vera e propria cesura nella storia occidentale, un’interruzione nella continuità delle generazioni nelle modalità in cui esse hanno costruito la loro identità. Una cesura che separandoci da tutta la tradizione precedente, provocando una sorta di surplus, di intensificazione della coscienza critica, ci offre anche la possibilità di comprendere quest’ultima, rivelandocela come il luogo in cui si esercita l’influenza del dispiegarsi dell’ontologia della totalità.40

Infatti, gran parte della filosofia occidentale ha interpretato il sapere, la teoria, come intelligenza o logos dell’essere, ovvero come una relazione tra l’essere conoscente e l’essere conosciuto tale che l’alterità di questo rispetto all’essere conoscente svanisce. Ed è a tale concezione del sapere come intelligenza degli esseri, come acutamente spiega Levinas, che spetta il titolo generale di ontologia.41 In quest’ottica, il processo conoscitivo rappresenta l’affermazione stessa della libertà del soggetto conoscente che non incontra niente che possa limitarlo. «L’ontologia che – sostiene il filosofo – riduce l’Altro al Medesimo [all’Io], promuove la libertà che è identificazione del Medesimo, che non si lascia alienare dall’Altro».42 Si chiariscono, così, affermazioni emblematiche ed enfatiche di Levinas quali:

Alla filosofia preme di riassorbire ogni Altro nel Medesimo e neutralizzare l’alterità […]. La filosofia sorge come una forma sotto la quale si palesa il rifiuto di impegnarsi nell’Altro, l’attesa preferita all’azione, l’indifferenza verso gli altri, l’allergia universale della prima infanzia dei filosofi. L’itinerario della filosofia resta sempre quello di Ulisse la cui avventura nel mondo non fu mai che un ritorno all’isola natia - compiacimento del Medesimo, sconoscimento dell’Altro.43

Questo ritorno all’isola natia, per restare nell’immagine omerica proposta, si attua precisamente mediante il ricorso ad un terzo termine, cioè intenzionando l’essere conosciuto attraverso un terzo termine neutro che non è a sua volta un essere. In esso si attenuerebbe «lo choc dell’incontro» tra il Medesimo e l’Altro.44 Questo terzo elemento di riferimento, nella storia della filosofia ha assunto varie forme: esso può apparire come concetto, e in tal caso l’individuo esistente abdica a favore del generale pensato; può chiamarsi sensazione come luogo in cui si confondono qualità oggettive e affezione soggettiva; e può, infine, manifestarsi come l’esse distinto dall’ens, essere che non è un ente e che corrisponde «all’opera nella quale l’ente dà prova di sé, e non è un niente».45 In quest’ultima accezione del termine medio come essere, esso viene a coincidere con la luce in cui gli enti diventano intellegibili. La filosofia occidentale essendo stata, dunque, per lo più un’ontologia si è dispiegata, nella sua storia, come «una riduzione dell’Altro al Medesimo, in forza dell’interposizione di un termine medio e neutro che garantisce l’intelligenza dell’essere».46

Levinas mostra come questo primato del Medesimo si sia affermato a partire da Socrate, la cui lezione è consistita nel sostenere che non riceviamo nulla da altri se non quello che è già in noi. In tale non-ricevere consisterebbe l’essere libero. La libertà, allora, troverebbe il suo senso ultimo nella permanenza nel Medesimo, che è la Ragione.47 Che la ragione sia, in fin dei conti, la manifestazione di una libertà che ingloba l’altro, non è qualcosa di sorprendente poiché, appunta Levinas, «fu detto che la ragione sovrana conosce solo se stessa e che nient’altro può limitarla».48 L’alterità diventa, così, tema o oggetto, e in ciò consiste la sua riduzione al Medesimo. Conoscere ontologicamente significa «sorprendere nell’ente affrontato ciò per cui non è questo ente», «ma ciò per cui si tradisce in qualche modo, si consegna, si dà all’orizzonte nel quale si perde e appare, dà presa, diventa concetto».49 Diventa evidente allora che, nella tradizione filosofica, conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a partire da niente o a ridurlo a niente, privarlo dell’alterità, non attribuire all’altro alcun valore o dignità propri. La metafora con cui la filosofia ha principalmente espresso questo processo è quella della luce,

illuminare significa privare l’essere della sua resistenza, perché la luce apre un orizzonte e vuota lo spazio – consegna l’essere a partire del niente. La mediazione (caratteristica della filosofia occidentale) ha senso solo se non si limita a ridurre le distanze.50

Infatti, sottolinea Levinas, affinché la mediazione riesca nel suo obiettivo di riduzione dell’alterità, essa non può consistere in una mera riduzione della distanza che separa l’Io da un essere esteriore e, in quanto tale, infinitamente distante. La mediazione rischierebbe di trovarsi a fronteggiare uno spazio, in effetti, incolmabile. È necessario, dunque, che si produca una sorta di tradimento, perché l’essere esterno conosciuto si consegni ad un intermediario, e così si lasci ridurre.51 Tale tradimento rispetto alle cose avviene nella loro concettualizzazione; rispetto ad esse «l’opera dell’ontologia consiste nel cogliere l’individuo (che solo esiste) non nella sua individualità, ma nella sua generalità (la sola di cui ci sia scienza)». Per quanto riguarda, invece, gli uomini, e qui si evince ancora più chiaramente l’inumanità della concezione ontologica della relazione con l’altro uomo, la resa si ottiene «attraverso il terrore che fa cadere l’uomo libero sotto il dominio di un altro».52 In ogni caso, la relazione con l’altro si attua, come abbiamo visto, attraverso un terzo termine che trovo in me. L’ideale di verità emerso a partire da Socrate si fonda sull’autosufficienza dell’Io, sulla sua identificazione di ipseità, sul suo egoismo. Levinas, tirando le somme delle analisi finora svolte in alcune pagine fondamentali di Totalità e infinito, giunge ad affermare: «la filosofia è un’egologia».53

Nel Novecento, con l’avvento della metodologia di riflessione propriamente fenomenologica e della sua specifica forma di mediazione, il filosofo riconosce una modalità ancora più evidente dell’imperialismo ontologico:

Qui è l’essere dell’ente che è il medium della verità. La verità che concerne l’ente presuppone l’apertura preliminare dell’essere. Dire che la verità dell’ente dipende dall’apertura dell’essere significa dire, in ogni caso, che la sua intellegibilità non dipende dalla nostra coincidenza con esso ma dalla nostra non-coincidenza.54

«Non-coincidenza», ci sembra, nel senso di un superamento della nozione tradizionale di verità quale adaequatio rei et intellectus. L’ente risulterebbe compreso nella misura in cui il pensiero lo trascende, per misurarlo all’orizzonte dell’essere in cui si profila. Tutta la fenomenologia, a partire da Husserl, non sarebbe altro che «la promozione dell’idea di orizzonte, che per essa svolge un ruolo equivalente a quello del concetto nell’idealismo classico».55 L’orizzonte, l’essere dell’ente, se da una parte sostiene la non coincidenza dell’ente e del pensiero, dall’altra, tuttavia, è una fosforescenza, una luminosità. L’esistere stesso dell’ente si converte in intelligibilità; l’espressione di Levinas è particolarmente suggestiva: «la sua indipendenza è una resa per irradiamento».56 La Ragione riesce, in tal modo, ad impadronirsi dell’esistente, in questa ambiguità tra il lasciarlo essere e il comprenderlo a partire dall’essere, in virtù cioè del vuoto e del niente dell’esistere quale orizzonte di luminosità. Questo a partire dall’essere, dall’orizzonte, è proprio l’appello indirizzato all’intelligenza. In una pietra miliare della filosofia novecentesca quale Essere e tempo, ritiene il filosofo di Kaunas, si è sostenuta forse una sola tesi: «l’essere è inseparabile dalla comprensione dell’essere (che si sviluppa come tempo), l’essere è già appello alla soggettività».57

Heidegger, agli occhi del filosofo lituano, rappresenta il diretto punto d’approdo della tradizione ontologica con la sua tendenza totalizzante, al punto tale che egli l’avrebbe, addirittura, riassunta ed esaltata. La filosofia heideggeriana è assunta a simbolo dell’ontologia occidentale.58 Nel filosofo tedesco, il primato dell’ontologia assume la portata di un’affermazione sull’essenza della filosofia:

[…] subordinare la relazione con qualcuno che è un ente (la relazione etica) a una relazione con l’essere dell’ente che, impersonale, consente il possesso, il dominio dell’ente (a una relazione di sapere), subordina la giustizia alla libertà. Se la libertà connota il modo di rimanere il Medesimo in seno all’Altro, il sapere […] contiene il senso ultimo della libertà.59

Una libertà che, così intesa, non può che opporsi alla giustizia che implica degli obblighi nei confronti degli Altri. L’ontologia heideggeriana è l’affermazione del «primato della libertà rispetto all’etica».60 Certo, trattandosi di una libertà messa in opera dall’essenza della verità, Levinas riconosce che essa non possa coincidere con un principio di libero arbitrio, è una libertà che nella sua stessa affermazione conduce al suo scacco (allo sbiadire della soggettività nella totalità luminosa dell’essere). Si tratta, infatti, di una libertà che sorge da una obbedienza all’essere: «non è l’uomo che sostiene la libertà, è la libertà che sostiene l’uomo».61 Ma, in ogni caso, la dialettica che concilia libertà e obbedienza nel concetto di verità presuppone, ancora, il primato del Medesimo. La relazione ontologica con l’ente consiste nel neutralizzarlo per comprenderlo e impossessarsene. La relazione con l’altro uomo non può attuarsi nel conseguimento della pace, poiché tematizzazione e concettualizzazione ne sono, esattamente, la soppressione o il possesso. Ciò è reso manifesto ancor più considerando la definizione ontologica di libertà offerta da Levinas: «mantenersi contro l’altro, malgrado ogni relazione con l’altro, garantire l’autarchia di un io».62 Io penso equivale ad Io posso, ad uno sfruttamento della realtà. Il giudizio negativo di Levinas si esprime con la massima chiarezza:

L’ontologia come filosofia prima è una filosofia della potenza. Essa porta allo stato e alla non-violenza della totalità, senza premunirsi contro la violenza di cui vive questa non-violenza e che appare nella tirannia dello Stato. La verità che dovrebbe riconciliare le persone esiste qui anonimamente. L’universalità si presenta come impersonale e qui si rivela un’altra inumanità.63

Filosofia della potenza che non mettendo in questione il medesimo non può che essere, al contempo, filosofia dell’ingiustizia.64 In Heidegger, in particolare, sebbene sia presente una denuncia della sovranità dei poteri tecnici dell’uomo, essa si accompagna all’esaltazione dei poteri pre-tecnici del possesso. La conseguenza di ciò, per Levinas, non può che essere la tirannia: «tirannia che non è l’estensione pura e semplice della tecnica a degli uomini reificati. Essa risale a degli “stati d’animo” pagani, al radicamento al suolo, all’adorazione che degli uomini ridotti in schiavitù potevano consacrare ai loro padroni».65

A questo punto, emerge chiaramente la connessione tra primato della guerra e ontologia occidentale. Una soggettività che costruisce la propria identità come coscienza che tutto riduce a sé, come libertà progettuale che non si mette in discussione davanti a nulla; che costruisce la propria identità a partire dall’essere, non può che, per realizzare se stessa, riconoscere nell’altro uomo un ostacolo, un nemico da sottomettere o eliminare, fino ad arrischiare la sua stessa persistenza.66 Infatti, ricorrendo al linguaggio di Altrimenti che essere (in cui si nota che il punto di riferimento critico principale è, ancora, proprio Heidegger), l’Essenza, il processo di realizzazione dell’essere, si esercita come persistenza in sé, interessamento, e tende, facendosi temporalizzazione dell’esserci, a colmare tutti gli intervalli che potrebbero interrompere la continuità del suo fluire. L’essenza permette all’esserci, all’uomo, di sussistere solo in quanto interessato alla conservazione di sé, come conatus essendi, senza di cui verrebbe meno lo svolgimento dell’essenza stessa.67 Ma, se l’essere solo così può stendere la sua trama, inevitabilmente esso si drammatizza in un bellum omnis contra omnes, nella molteplicità degli egoismi incompatibili che, prima o poi, non possono che ricorrere alla guerra. «L’essenza, così, è l’estremo sincronismo della guerra».68 Il conflitto tra gli uomini perde ogni connotato di accidentalità, diventa l’evento necessario del processo d’intensificazione e d’espansione attraverso cui l’essere realizza tutte le sue possibilità.69 Non è un caso che nella primissima pagina di Totalità e infinito, in cui Levinas intende proprio fare i conti con la filosofia della totalità che ha dominato il pensiero occidentale, si trovino affermazioni quali: «l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra» e «la guerra si produce come l’esperienza pura dell’essere puro».70

L’umanesimo tradizionale, fondato su una tale soggettività intesa come potenza ed egoismo, rivela il suo vero volto. Così Giuseppe Lissa:

La preoccupazione per l’altro uomo dalla quale sembra prendere avvio l’umanesimo moderno, assume una configurazione peculiare che rivela quali siano i veri tratti che la connotano fin dall’origine. Nel momento in cui, nella guerra, il rapporto libertà-legge si sbilancia a favore della prima, si vede che essa non nasce dalla sollecitudine ma dal timore per l’altro e che tende, quindi, ad instaurare con lui una relazione mediata più dall’insidia che dal rispetto. […] Tutti e due i termini di questa relazione [l’io e l’altro] vengono allora dislocati su di un piano sul quale si limitano reciprocamente e sono indotti o a sottomettere l’altro o a sopprimerlo.71

L’altro è cercato solo nelle sue debolezze che lascia emergere. È cercato per essere piegato, asservito o annientato. L’azione violenta che l’io a questo scopo compie, lo condanna, però, ad una estrema solitudine, «il violento non esce fuori di sé»,72 prende e possiede. L’esperienza della guerra mostra all’esserci ancorato alla sua libertà quale sia il suo punto d’approdo: l’esito è il non senso di una soggettività insulare, sovrana ma assolutamente sola. Una soggettività che, abolendo ogni norma etica, può tutto quello che il calcolo del suo interesse gli suggerisce.73

Dal primato che la guerra acquista, come momento risolutivo delle relazioni umane, nel contesto dell’ontologia della totalità, deriva anche il primato di quella che Levinas definisce «l’arte di prevedere e di vincere con tutti i mezzi la guerra»,74 ovvero la politica. Politica che si impone, così, come l’esercizio stesso della ragione, la quale si oppone all’etica liquidandola come pura ingenuità.75 Certo, la ragione, proprio attraverso la politica, è in grado di dirigere la libertà alla pace, di moderare l’impulso di potenza attraverso la prudenza, ma l’equilibrio che instaura è sempre instabile. La pace ragionevole è calcolo, mediazione e politica attraverso cui la «lotta di tutti contro tutti si fa scambio e commercio».76 La legge politica è «il culmine e la consacrazione della lotta per il riconoscimento».77 La politica instaura una totalità, un ordine, ma esso resta vacillante poiché fondato su un soggetto che pensa solo a se stesso e che, se decide di limitarsi, lo fa solo nell’attesa di una ricompensa futura. È questa speranza che lo persuade ad integrarsi in una totalità e lo porta, alla fine dei giochi, a fondare il suo senso in essa, sacrificando il suo presente.78

Gli uomini, che attraverso la prassi politica si inseriscono in una totalità, riescono così ad ottenere anche una giustificazione del loro essere. Sospendendo il loro slancio espansivo, orientano il conatus essendi in una direzione in cui ragione e volontà vanno a coincidere. Tale identificazione è la premessa stessa dell’inserimento del soggetto nella totalità. Esso, infatti, finisce per riconoscersi come una ragione particolare la quale non è altro che il riflesso di un’unica ragione universale impersonale.79 Nel circolo di questa totalità, il soggetto inquadra ogni alterità come oggetto della sua visione e della sua azione. Incomincia, così, un processo di autoidentificazione che lo porta ad annettere ogni cosa, fino a far coincidere i suoi confini con quelli della totalità stessa. Un processo, però, al cui termine la libertà è definitivamente tolta, non è altro che il riflesso di un ordine universale.80 La concretizzazione diretta di una simile situazione non può che essere lo stato totalitario, il totalitarismo che si configura come un’organizzazione in cui alla libertà è consentito esercitarsi solo come slancio sacrificale. Un’organizzazione che mira a sottomettere alla sua regolamentazione ogni ambito della vita e in cui il soggetto, non avendo più alcun senso e dignità per sé, attinge il suo significato dall’organizzazione stessa.81 Il «segreto» dell’esistenza, così come afferma Levinas, ovvero la riserva di senso ineguagliabile di ogni persona, la sua stessa libertà, è rimosso.82 È questa la grande violenza, la negazione del valore del singolo e insieme mancato riconoscimento della libertà altrui, su cui si fonda la non-violenza politica che emerge dal pensiero della totalità.

Al totalitarismo, tuttavia, e questo è un passaggio di grande interesse e tutt’altro che scontato del filosofo di Kaunas, nemmeno il liberalismo riesce a fornire una vera e propria alternativa. Così, in Etica e infinito, Philippe Nemo commenta alcune pagine di Totalità e infinito:

Una società rispettosa della libertà non potrebbe avere quindi a fondamento semplicemente il liberalismo, teoria oggettiva della società secondo la quale quest’ultima funziona meglio quando si lasciano andare le cose in modo liberale. Un tale liberalismo farebbe dipendere la libertà da un principio oggettivo e non dal segreto essenziale delle vite. La libertà sarebbe allora del tutto relativa: basterebbe dimostrare oggettivamente la maggiore efficienza di un certo tipo di organizzazione, sul piano politico o economico, perché la libertà resti senza voce.83

In effetti, per Levinas, il liberalismo non fa che rispondere alla concezione totalitaria della società ricalcandone lo stesso linguaggio. Sebbene l’accento si sposti dalla totalità, come unica scaturigine di senso, agli individui e sulle garanzie preliminari, la struttura del ragionamento non cambia. Il segreto dell’esistenza non si salva, è fatto dipendere da una «teoria oggettiva della società secondo la quale quest’ultima funziona meglio quando si lasciano andare le cose in modo liberale».84 Il liberalismo offre un discorso che ha il sapore di un’autosmentita, poiché non è la libertà e la responsabilità per l’altro a fondare la società, ma la libertà a dipendere da un certo tipo di organizzazione, ossia da un sistema di efficienza. Nel caso allora si trovi un’organizzazione più efficace, questa libertà potrebbe essere tranquillamente negata, in quanto bollata di inutilità.

All’uomo che costruisce la sua identità sullo sfondo dell’ontologia occidentale, quale ontologia della totalità, non si offrono che due alternative: o si mantiene indipendente nella sua libertà che non si mette in discussione e utilizza la ragione come strumento di calcolo per raggiungere i suoi scopi nella lotta con le altre libertà, scegliendo la guerra e i rischi che comporta; o si integra con gli altri in una totalità costruita politicamente sottomettendosi all’ordine di una ragione impersonale di cui diviene strumento, elemento di un calcolo ideale, articolazione di un sistema.85 In entrambi i casi l’etica è negata, nel primo resa derisoria e nel secondo assorbita dalla politica. In entrambi i casi l’altro uomo è sempre colui che deve essere negato, più che riconosciuto e rispettato come fondamento della mia libertà stessa.

Seguendo il discorso di Levinas, dunque, emerge come l’umanesimo occidentale, in virtù della sua concezione di soggettività, fondata sulla tradizione dell’ontologia della totalità, come libertà e potenza, conduce nei fatti a conseguenze la cui inumanità non può che confutare quell’umanesimo stesso. L’idea di dignità, di una posizione privilegiata dell’uomo nel mondo, è resa illusoria; sarebbe illusoria l’idea stessa di un mondo in cui il soggetto possa realizzare pienamente se stesso nella pace con gli altri. L’Io, come autocoscienza, come libertà che si definisce esattamente come egoismo, come autarchia e permanenza presso di sé, negando ogni alterità, non può che trovare nella violenza e nella guerra l’archetipo della relazione interumana. Primato della guerra e conseguente primato della politica che, come mostrato, aprono al soggetto solo due strade. La prima, quella di una soggettività che, arrischiandosi per realizzare se stessa, persevera nel conflitto e giunge al non senso di un Io tanto sovrano e quanto irrimediabilmente solo. E la seconda, quella, forse ancora più pericolosa, della precaria sospensione del conflitto e della costruzione politica di una totalità in cui, sotto il velo della pace, lo sfruttamento è conservato nella modalità della riduzione dell’io e degli altri a elementi del calcolo ideale della ragione impersonale dello Stato.

L’antiumanesimo delle scienze umane e il secondo Heidegger

Parallelamente, e in stretta connessione, alla già delineata crisi dell’umanesimo, frutto della spiazzante sensazione di un uomo zimbello delle sue opere, del controsenso delle grandi imprese mancate, della guerra e dei campi di sterminio che hanno reso evidente quanto sia ampia l’area di passività che si annida nel soggetto, nel contesto delle scienze umane, si afferma una vera e propria posizione antiumanistica nello studio dei fatti umani. Queste scienze, infatti, cercando di comprendere l’umano proprio a partire dalle sue opere che, come in precedenza si è mostrato si rivelano sempre come una sorta di atti mancati, arrivano a contestare la consistenza stessa del soggetto, dell’autocoscienza in vista della comprensione della realtà, in vista dell’acquisizione della verità. L’identità stessa sarebbe uno scacco, «l’interiorità non sarebbe rigorosamente interiore, “Io è un altro”; tutto ciò le spinge a ricercare il senso della realtà in un mondo privo di tracce umane, che non falsa i significati, puro d’ogni ideologia».86 Così scrive Levinas, nella pagina immediatamente successiva alla lunga citazione di Umanesimo dell’altro uomo con cui abbiamo aperto il paragrafo precedente:

Ma l’autocoscienza stessa si disintegra. La psicoanalisi attesta l’instabilità e la fallacia della coincidenza con sé del cogito, che pur doveva porre fine alle diavolerie del genio maligno e restituire all’universo, divenuto in ogni parte sospetto, la bella sicurezza di una volta. La coincidenza in cui, da Cartesio in poi, l’essere è, si rivela agli Altri (e a cose fatte al soggetto medesimo [attraverso le scienze umane stesse]) come presa nel gioco e negli inganni di pulsioni, influenze, linguaggi che compongono una maschera chiamata persona, la persona o, a ragione, nessuno, un personaggio dotato di consistenza puramente empirica. E quindi, il mondo fondato sul cogito appare umano, troppo umano – al punto da far cercare la verità dell’essere, in una oggettività, in un certo senso superlativa, pure di ogni ombra di “ideologia”, senza più tracce umane.87

A conclusioni del genere, secondo Levinas, si arriva inevitabilmente se si presuppone che l’Io, la sua interiorità, si manifesti completamente nelle sue opere, oggettivandosi, in un certo senso, in esse e rendendosi, così, conoscibile a partire da esse. Come acutamente fa notare Ferretti, il punto di riferimento critico di Levinas in queste analisi è quella lunga tradizione filosofico-scientifica che trova uno dei suoi maggiori esponenti in Wilhelm Dilthey.88 Dilthey che, nel suo tentativo di fornire un fondamento rigorosamente scientifico alle Geisteswissenschaften (scienze delle spirito che sono proprio le scienze umane), l’aveva rinvenuto in quel circolo ermeneutico Erlebnis-Ausdruck-Verstehen (esperienza vissuta-espressione-comprensione), proprio sulla base dell’idea che l’interiorità umana, sempre fuggevole nella sua diretta esperienza vissuta, potesse essere studiata con quella stabilità e sicurezza richiesta dall’indagine scientifica grazie alla sua oggettivazione nelle opere del soggetto.

Per il filosofo di Kaunas, tuttavia, le cose non sono così semplici, anzi sulla base delle sole opere la manifestazione dell’io rimane, a suo avviso, altamente ambigua e si carica facilmente di equivoci.89 «Soltanto con gli atti l’io non arriva all’esterno».90

Le linee di senso che l’attività traccia nella materia si caricano immediatamente di equivoci, come se l’azione, proseguendo il proprio disegno, fosse senza riguardi per l’esteriorità, senza attenzione. Mettendo in atto ciò che ho voluto ho realizzato molte cose che non avrei voluto- l’opera nasce tra gli scarti del lavoro. L’operaio non tiene in amano tutti i fili della propria azione. Si esteriorizza con degli atti che sono in un certo senso già atti mancati. Se le sue opere mettono in campo dei segni, questi devono essere decifrati senza il suo aiuto. […] Le opere hanno un destino indipendente dall’io, si integrano in un sistema di opere.91

Le opere, infatti, come suggerisce l’ultima frase della citazione, entrano inevitabilmente in una trama di relazioni simboliche, in un sistema, innanzitutto quello del mondo economico – le opere «possono essere scambiate, cioè si situano nell’anonimato del denaro»92 – , che via via finisce per estendersi alla totalità del mondo storico. Proprio alla luce di tale sistema totale, che fa apparire le sue stesse opere al soggetto estranee, l’io sarebbe inteso e giudicato non in virtù di sé, in virtù della sua individualità «originaria e originale».93 Per Levinas, dunque, tentare di dedurre la soggettività solo a partire dalle sue opere vuol dire «mal comprenderla e tradirla».94 È, sostanzialmente, un altro modo di non rispettare e tenere conto di quel segreto dell’esistenza, localizzando la soggettività a partire da una totalità impersonale, e non dal suo vero essere che dà tono alle sue intenzioni, che viene, così, nascosto e frainteso riportandolo ad altre istanze.

Le scienze umane proseguendo, allora, su questa via rifiutata da Levinas, colgono attraverso le sue opere, l’io immerso in una totalità anonima storico-sociale da cui attingerebbe il suo senso fuori di sé. Per esse, non c’è nulla di più dubbio di un Io, perfettamente identico a sé, che ascolta ed esamina se stesso, e in cui si fonderebbe la ricerca della verità.95 L’uomo come interiorità perde ogni importanza. In quest’ottica, afferma il filosofo, «noi siamo non ciò che abbiamo coscienza di essere, ma il ruolo che sosteniamo in un dramma di cui non siamo più gli autori, figure o strumenti di un ordine estraneo»;96 un ordine forse guidato dall’intelligenza, intelligenza però che, nelle coscienze «si rivela solo per la sua astuzia».97 Nessuno può più, insomma, trovare la legge della sua azione «in fondo al suo cuore».98 Per Levinas, la psicoanalisi, in particolare, arriva a distruggere il linguaggio stesso:

Non si può più parlare. Non perché non si conosca l’interlocutore, ma perché non riusciamo più a prendere sul serio le sue parole, perché la sua interiorità è puramente epifenomenica. Non ci contentiamo più delle sue rivelazioni che prendiamo per un dato superficiale, per un’apparenza menzognera ignara della sua menzogna. Nessuno è identico a sé. Gli esseri non hanno identità. I volti sono maschere. Noi cerchiamo dietro i volti che ci parlano l’orologeria delle anime e le sue molle microscopiche.99

La sociologia, allora, ricerca le leggi sociali come una sorta di influssi indesiderati a cui obbediscono i nostri gesti; filologia e storia arrivano a contestare il potere stesso di essere stati autori del proprio discorso. La psicoanalisi, distruggendo il linguaggio nella sua funzione di espressione attribuitagli dalla coscienza di sé, riesce a distruggere l’io stesso che si identifica dall’interno.100 La riflessione del cogito non è più in grado di garantire la certezza di ciò che io sono e «a mala pena può garantire la certezza della mia stessa esistenza».101 Il fatto che, per la psicoanalisi, la coscienza chiara e distinta di un fatto psicologico non sia altro che il simbolismo di una realtà totalmente inaccessibile a se stessa, che essa esprima una realtà sociale o un’influenza storica totalmente distinta dalla sua propria intenzione, getta un sospetto di fondo «sulla più irrecusabile testimonianza dell’autocoscienza».102 Afferma Levinas: «Il cogito perde così il suo valore di fondamento. Non è più possibile ricostruire la realtà partendo da elementi che, indipendenti da ogni punto di vista e indeformabili dalla coscienza, permettendo una conoscenza filosofica».103 Il mondo reale si trasforma in un mondo poetico, in un mondo, cioè, senza inizio in cui «si pensa senza sapere ciò che si pensa».104 Da un discorso da persona a persona, impossibile perché determinato dalle condizioni degli interlocutori, si passa ad un discorso che fornisce la condizione della condizione. Discorso senza interlocutori, in cui essi vi figurano solo come momenti, e legato ad una ragione impersonale che sopprime ogni alterità (dell’io e dell’altro) poiché una ragione non può essere altra per una ragione.105

Le scienze umane, con questa presa di posizione antiumanistica, si presentano come la forma più corrosiva di scetticismo nell’epoca in cui vive il filosofo. Scetticismo che, però, come fa notare Levinas, non è possibile, non è sufficiente, respingere con la classica confutazione formalistica per cui contestare il valore del soggetto è, insieme, affermare il valore del soggetto che contesta.

Fatto sta che la “confutazione" formalistica che pretende di trionfare sul relativismo soggettivistico […] non sfugge alla contestazione scettica che rinasce dalle sue ceneri come se si trattasse, qui, di un discorso senza parole ultime, come se il logos che, per sua natura, è inizio, origine ἀρχή fosse, qui, continuamente sommerso da un che di pre-originario; come se la soggettività non fosse più libera di aderire a un termine che le si presenta, ma da una passività più passiva di quella stessa della recettività.106

La confutazione del relativismo, dello scetticismo, nella sua forma tradizionale non tiene conto, insomma, della crisi stessa che deve superare, presupponendo di possedere quello stesso logos che essa ha perduto.107

Queste scienze, da parte loro, facendosi portatrici di idee quali la morte dell’uomo e la morte di dio, vogliono esprimere, innanzitutto, al di là della volgarizzazione di queste idee, una verità di ordine metodologico. Esprimo uno stato della ricerca caratterizzato da un’esigenza di rigore che porta di studiosi a diffidare di un Io che si autoidentifica, ma «resta indifferente di fronte alle illusioni della sua classe e ai fantasmi della sua nevrosi latente».108 Per queste scienze, la formalizzazione si rende necessaria per addomesticare la proliferazione selvaggia dei fatti umani che, nel loro contenuto, offuscano la vista del teorico. «Lo studio dell’uomo irretito in una civiltà e in un’economia divenute planetarie, sostiene Levinas, non può limitarsi ad una presa di coscienza: la sua morte, la sua rinascita, la sua trasformazione si svolgono, ormai, fuori di lui».109 Di qui, sorgerebbe anche l’avversione per il tono predicatorio dell’umanesimo occidentale che, alla luce della concreta situazione storico-sociale di violenze e sfruttamento in cui vive l’uomo, ha ormai rivelato il suo carattere illusorio e di copertura ideologica di tale situazione. Ogni rispetto per il mistero umano si denuncia come ignoranza e oppressione. Attribuire una qualche nobiltà all’uomo giungerebbe ad un discorso più insostenibile delle posizioni nichilistiche.110

Nelle scienze umane la nostalgia del formalismo logico e delle strutture matematiche, che tanto hanno successo nelle scienze della natura, nella comprensione dell’uomo le porta a preferire le identità matematiche, riconoscibili dal di fuori, alla coincidenza di sé con sé. Queste, allora, elaborano una teoria strutturalista in cui il soggetto, ormai «si esclude dall’ordine delle ragioni».111

Lo psichismo e le sue libertà (in cui si svolge peraltro il pensiero investigante dello scienziato medesimo) non sarebbe che un espediente di cui si servono le strutture per connettersi in un sistema e per mostrarsi alla luce. Non è più l’uomo, con una sua vocazione, che ricerca o possiede la verità; è la verità che suscita l’uomo (senza dipendere da lui!).112

Come fa notare Lissa, si arriva ad un oggettivismo portato alle sue estreme conseguenze. «Il reale è calcolato come se questo calcolo e la scienza» si costruissero in un cervello che si presenta come «un campo nel quale si svolgono le operazioni dei numeri».113 Abbiamo a che fare con una razionalità scientifica, costruita attorno al paradigma della calcolabilità, strettamente legata alla tecnica, che bolla come retorico qualsiasi discorso che non sia traducibile tecnicamente. Da questo punto di vista, secondo lo studioso, emerge una profonda connessione tra politica e la scienza del XX secolo: «quel che le accomuna è il disinteresse per l’umano cui le costringe ad approdare il tipo di umanesimo che regge e orienta il loro slancio conquistatore».114 Proprio nell’espressione «non è più l’uomo, con una sua vocazione, che ricerca o possiede la verità» ma «è la verità che suscita l’uomo»,115 Levinas ci offre la sintesi più diretta dell’antiumanesimo di cui si fanno portatrici le scienze umane. L’interiorità si dissolve nella totalità di strutture matematiche da cui trae il suo senso. «Tutto l’umano è fuori».116 Una concezione che per Levinas, in una sola parola, vuol dire materialismo.

Di particolare interesse, inoltre, è la profonda convergenza che il filosofo riconosce, nel pensiero contemporaneo, tra la chiamata in causa della soggettività da parte delle scienze umane e il «pensiero filosofico più influente»117 del ‘900, il pensiero ontologico di Martin Heidegger.118 Per il filosofo tedesco, la nozione di soggettività trascendentale dipenderebbe da un determinato orientamento della filosofia europea, dalla metafisica che, ormai, sarebbe giunta alla fine.119 L’identità irriducibile, l’io, la coscienza, lo psichismo, il soggetto non sarebbero altro che metafisica; come lo è la stessa concezione per cui è l’atto culturale umano a stendere sull’essere la luce dell’interiorità, tracciandovi linee di senso.120 Per Heidegger, infatti, è l’essenza dell’essere, il processo dell’essere, il dischiudersi di un certo senso e di una certa luce che non attingono nulla dal soggetto. L’essenza è manifestazione, apertura come mondo, come ospitalità. Anche qui, l’uomo non esprime nessun foro interno. L’essere significherebbe per sé proprio perché al suo andamento appartiene il manifestarsi, il divenire fenomeno.121 La fenomenicità, l’esibizione dell’essenza, sarebbe per Levinas, una costante della tradizione filosofica. L’essenza allora rimanda necessariamente alla coscienza, al soggetto, ma, al contempo, lo subordina totalmente alla ricezione della sua manifestazione (ciò soprattutto con Hegel e Heidegger). Tutto ciò che il soggetto potrebbe mettere di suo è oscuramento, in quanto differenze dall’essere che si mostra, la soggettività non è niente.122

L’uomo, stando nell’apertura dell’essere, la cui essenza è «patenza»,123 è colui che dice l’essere, e lo dice sia nell’apertura che nell’oblio, ed è proprio nell’oblio che si chiude come monade, si fa coscienza e vita psichica. La metafisica non sarebbe stata altro che la storia di questo oblio.124 Un oblio che concludendosi, con la filosofia di Heidegger, comporterebbe la perdita di consistenza del mondo interiore stesso. Il secondo Heidegger, in particolare, spostando il centro della sua attenzione dall’analitica esistenziale allo studio del linguaggio quale evento dell’essere, contesta radicalmente il mondo interiore come le scienze umane. Per il pensatore tedesco, chiarisce Levinas:

pensare, dopo la fine della metafisica, è rispondere al linguaggio silente dell’invito, rispondere al fondo di un ascolto, alla pace che è il linguaggio originario, stupire di tal silenzio e di tale pace. Semplicità e stupore che sono anche sopportazione e attenzione estrema del poeta e dell’artista: è, nel senso proprio del termine, serbare il silenzio. La poesia e l’opera d’arte serbano il silenzio, lasciano essere l’essenza dell’essere, come il pastore serba il suo gregge. L’essere richiede l’uomo come una patria o un suolo richiede i suoi propri autoctoni.125

Lasciar essere l’essenza dell’essere, il che vuol dire, ancora, che è la verità a suscitare e possedere l’uomo, senza dipendere da lui: un radicale antiumanesimo. L’idea secondo cui l’uomo abbia un posto privilegiato nel mondo, che sia un’eccezione, non sarebbe che l’ultimo strascico della metafisica e dell’umanesimo che essa sostiene. Le scienze umane e Heidegger, come Levinas spiega, approdano o al trionfo dell’intellegibilità matematica (in cui il soggetto non sarebbe che il rigiro di strutture logico-matematiche), o al radicamento dell’uomo nell’essere (in cui la soggettività non è altro che un momento del disvelamento dell’essenza). D’altra parte, come sottolinea Ferretti, il pensiero heideggeriano costituisce per Levinas la sintesi e l’esaltazione della tendenza totalizzante dell’ontologia occidentale.126 Ci sembra, allora, di poter sostenere che, in virtù della profonda convergenza delle due posizioni, questa contestazione della soggettività, questo antiumanesimo del pensiero contemporaneo rappresenti, per il pensatore di Kaunas, lo sviluppo più coerente di quel pensiero della totalità su cui si fonda l’umanesimo tradizionale stesso, e che proprio nelle sue logiche conseguenze smentisce quest’ultimo come retorico e illusorio. Infatti, proprio nella Prefazione ad Umanesimo dell’altro uomo, si può leggere così:

Eppure, se il soggetto libero – nel quale l’uomo dell’umanesimo riponeva la sua dignità – è solo una modalità dell’“unità logica” dell’“appercezione trascendentale” – un modo privilegiato dell’attualità che non può che essere altro che la sua fine – come stupire se […] l’Io scompariva dietro – o dentro – l’essere in atto che avrebbe avuto per missione di costruire? L’intellegibilità ultima è, più che mai, l’attualità dell’essere in atto, la coerenza dei termini in atto […]. Il sistema. [Dunque] il soggetto pensante che cerca questo adattamento intellegibile si interpreta, nonostante la laboriosità e la genialità della sua invenzione, come un rigiro che il sistema dell’essere adotta a questo fine, un rigiro che fanno i suoi termini o le sue strutture per stiparsi, per raggrupparsi in un grande presente, e così risplendere di verità in ogni punto, per apparire. Il soggetto lascia essere l’essere.127

Certo, il soggetto per la funzione che gli compete si manifesta a sua volta, si manifesta a se stesso e alle scienze umane, ma non ha alcuna vita dotata di senso fuori dalla verità a cui provvede e in cui si mostra. L’uomo, sul piano ontologico, non avrebbe, pertanto, nessun senso in sé, nessuna dignità, l‘animal rationale dileguerebbe nella totalità dell’essere e delle sue strutture logico-formale.

Nonostante tutte queste considerazioni, per Levinas, non sarebbe detta l’ultima parola sulla soggettività e sull’umanesimo. Questi potrebbero assumere un senso diverso proprio a partire dalla smentita che l’essere infligge alla libertà, e tale libertà potrebbe trovare un nuovo senso partendo da quella passività in cui sembra apparire l’inconsistenza dell’uomo. Si tratta però, ovviamente, di un concetto diverso di passività; una passività al di là della coscienza e del sapere, anteriore al piano ontologico in cui si manifesta l’essere. Il merito dell’antiumanesimo contemporaneo è stato proprio quello, per Levinas, di aver contestato radicalmente l’idea di persona, scopo e origine di sé, mostrando la smentita che l’essere gli impone, aprendo la strada alla significazione di una passività anteriore al logos.128 Una passività pre-originaria, an-archica da cui far rinascere l’uomo individuandovi la sua soggettività più autentica, e in cui troverebbe senso e fondamento la coscienza stessa. Una passività concepibile attraverso il modo eccezionale in cui gli altri, che mi vengono incontro come volto, mi mettono in discussione, addossandomi una responsabilità per cui io non ho preso alcun impegno, che, anzi, precede qualsiasi impegno (responsabilità che non è coscienza di una responsabilità). Una responsabilità indeclinabile che non umilia, ma convoca il soggetto davanti al suo sé più proprio, affermandone l’unicità. È, esattamente, su questo ripensamento della passività del soggetto, che positivamente significa come responsabilità per l’altro, che si colloca il tentativo levinasiano di ridare senso alla soggettività e così rifecondare l’umanesimo stesso.


  1. Così Levinas in Totalità e infinito: «L’opposizione tradizionale tra teoria e pratica verrà superata a partire dalla trascendenza metafisica nella quale si stabilisce una relazione con l’assolutamente altro o la verità, e di cui l’etica è la via regale». E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2019, p. 27. ↩︎

  2. Ci sembra particolarmente interessante e illuminante, infatti, il riferimento operato da S. Petrosino alle analisi svolte da Heidegger nella Lettera sull’umanismo, pur tenendo ferme le profonde differenze tra i due pensatori, per meglio determinare l’accezione levinasiana del termine etica. Cfr. S. Petrosino, Emmanuel Levinas. Le due sapienze, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 82-83 e M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, pp. 89-93. ↩︎

  3. E. Levinas, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, tr. it. di F. Riva e M. Pastrello, Castelvecchi, Roma 2012, pp. 90-91. ↩︎

  4. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 2010, p. 15. ↩︎

  5. Cfr. Ivi, p. 16. ↩︎

  6. E. Levinas, Totalità e Infinito, cit. alla nt. 1, pp. 313-314. ↩︎

  7. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 2018, pp. 5-11. ↩︎

  8. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, p. 14 ↩︎

  9. «Noi occidentali dalla California agli Urali, nutriti sulla Bibbia almeno altrettanto che sui presocratici». E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, tr. it. di A. Moscato, Il nuovo melangolo, Genova 1998, p. 148. ↩︎

  10. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, pp. 14-15. ↩︎

  11. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nt. 7, p. V. ↩︎

  12. Ivi, pp. 32-33. ↩︎

  13. E. Levinas, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, tr. it. di G. Lissa, Guida, Napoli 1986, p. 279. ↩︎

  14. Cfr. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra. Percorsi levinasiani, Guida, Napoli 2003, p. 11. ↩︎

  15. Ibidem↩︎

  16. Cfr. Ibidem↩︎

  17. Cfr. E. Capozzi, L’autodistruzione dell’Occidente. Dall’umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo, Historica – Giubilei Regnani, Roma – Cesena 2021, p. 8. ↩︎

  18. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 103. ↩︎

  19. Cfr. Ivi, p. 134. ↩︎

  20. Ivi, p. 21. Questo in virtù del funzionamento stesso dell’intenzionalità, quale struttura della coscienza, interpretata primariamente in termini teoretici, come rappresentazione, atto oggettivamente. Ciò conduce, infatti, all’affermazione che l’oggetto della coscienza, distinto dalla coscienza, sia quasi un suo prodotto, come senso dato da essa, come risultato della Sinngebung. L’essere esterno, in un primo momento esterno, si dà a quello che lo incontra come se fosse interamente dominato da esso. Nel momento stesso in cui diventa propriamente oggetto di una coscienza, è come se fosse opera di questa stessa, in virtù degli atti intenzionali che gli donano un significato. La rappresentazione è annullamento della distinzione tra interno ed esterno, come persistenza nel Medesimo e suo esercizio libero. L’intenzionalità come rappresentazione è un movimento che parte dal Medesimo senza che nulla la anticipi. Pura spontaneità al di qua di ogni attività. Puro presente che esclude ogni passività. L’Io sarebbe presente superlativo, l’identità del Medesimo inalterabile nei suoi rapporti con l’altro. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, pp. 123-127. ↩︎

  21. Cfr. Ibidem↩︎

  22. Cfr. Ivi, p. 111. ↩︎

  23. Ibidem↩︎

  24. Ivi, p. 112. ↩︎

  25. Ibidem↩︎

  26. E. Levinas, L’ontologia è fondamentale? in Id., Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, tr. it. di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 2019, pp. 31-32. ↩︎

  27. Su questo punto la posizione di Levinas è particolarmente ferma. La stessa espressione, infatti, oltre che comparire in L’io e la totalità (in E. Levinas, Tra noi, cit. alla nt. 26, p. 58), compare anche in Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, p. 180 e in Altrimenti che essere, cit. alla nt. 7, dove pure senza usare l’espressione la concezione è la medesima. Tutto ciò ci sembra assolutamente giustificato dal fatto che, come chiaramente spiega S. Petrosino, non ha senso applicare alla riflessione del filosofo il celebre schema interpretativo che distingue tra un primo e un secondo Levinas. Si tratta. Infatti, di una riflessione che si sviluppa attorno a dei nuclei teorici fondamentali che, durante la vita del filosofo, restano invariati. «Forse si può ricondurre l’intera riflessione levinasiana – dice Petrosino – ai suoi due testi principali tesi: Totalità e infinito. Saggi sull’esteriorità e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza. Anche in questo caso, tuttavia, non ha senso opporre semplicemente un prima a un poi, come se il poi completasse ciò che prima era insufficiente o incompleto». S. Petrosino, La fenomenologia dell’unico. Le tesi di Levinas, in E. Levinas, Totalità e Infinito, cit. alla nt. 1, p. XVI. ↩︎

  28. Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 134. ↩︎

  29. Cfr. Ivi, pp. 134-135. ↩︎

  30. Ivi, p. 135. ↩︎

  31. Ibidem↩︎

  32. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, pp. 78-79. ↩︎

  33. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggi sull’esteriorità, cit. alla nt. 1, p. 20 ↩︎

  34. Cfr. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, p. 79. Sempre Lissa, nelle pagine successive, fa notare che queste sono le esperienze fondamentali che condussero Levinas a sviluppare le profonde e fondamentali analisi di Dall’esistenza all’esistente, in cui il filosofo mostra come il volto del male non possa essere più inteso nella dialettica tra essere e nulla, e, quindi, come mancanza d’essere, ma rappresenti l’esistenza stessa, l’essere nel suo anonimato. L’il y a nel linguaggio levinasiano. A partire da ciò il filosofo poté prendere posizione contro l’ontologia heideggeriana, mostrando che nell’esistenza umana l’orrore dell’essere è molto più profondo e originario dell’angoscia di fronte alla morte. Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, tr. it. di F. Sossi, Marietti, Genova 2019, pp. 10-20. ↩︎

  35. Cfr. E. Levinas, Difficile Libertà, tr. it. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2017, p. 26 e p. 201. ↩︎

  36. Cfr. Ivi, p. 198. ↩︎

  37. Cfr. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, p. 71. ↩︎

  38. L’affermazione compare nelle Lettere per la promozione dell’umanità (1793-1797) qui citate indirettamente attraverso M. Russo (a cura di), Umanesimo. Storia, critica, attualità, Le lettere, Firenze, 2015, p. XXVIII. ↩︎

  39. Cfr. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, pp. 68-69. ↩︎

  40. Cfr. Ivi, pp. 95-96. ↩︎

  41. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, p. 40. ↩︎

  42. Ibidem↩︎

  43. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, pp. 64-65. ↩︎

  44. Cfr. Id., Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, p. 40. ↩︎

  45. Ibidem↩︎

  46. Ivi, p. 41. ↩︎

  47. Cfr. Ibidem↩︎

  48. Ibidem↩︎

  49. Ibidem↩︎

  50. Ivi, p. 42. ↩︎

  51. Cfr. Ibidem↩︎

  52. Cfr. ibidem↩︎

  53. Ibidem↩︎

  54. Ibidem↩︎

  55. Ibidem↩︎

  56. Ivi, p. 43. ↩︎

  57. Ibidem. Proprio a partire da questa concezione, come vedremo, si sviluppa la contestazione dell’interiorità del soggetto da parte di Heidegger. ↩︎

  58. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, pp. 111 e 291. ↩︎

  59. E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, p. 43. ↩︎

  60. Ibidem↩︎

  61. Ibidem. Proprio su questo aspetto Levinas, come proveremo a illustrare più avanti, coglie nella filosofia heideggeriana una profonda e rischiosa portata antiumanistica, che conduce l’uomo a dileguare nella totalità dell’essere come mero rigiro delle sue strutture logiche. ↩︎

  62. Ivi, pp. 43-44. ↩︎

  63. Ivi, p. 44. ↩︎

  64. Cfr. Ibidem↩︎

  65. Ivi, pp. 44-45. È in base a ciò che Levinas legge con continuità la filosofia di Heidegger e la sua adesione al nazismo, la cui forze consisterebbe proprio nel risvegliare sentimenti elementari di fondo. Heidegger avrebbe, in un certo senso, elaborato una filosofia che giustifica e può fondare la dottrina nazionalsocialista. D’altra parte, se è vero che Heidegger riassume ed esalta la tendenza di fondo dell’ontologia occidentale, non è assurdo per Levinas sostenere che la nostra tradizione filosofica conduca esattamente a quei drammi che si sono consumati nel Novecento (su questo cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, pp. 30-31). ↩︎

  66. Cfr. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, p. 98. ↩︎

  67. . Cfr. Ivi p. 97. ↩︎

  68. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nt. 7, p. 7. ↩︎

  69. Cfr. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, p. 96. ↩︎

  70. E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, p. 19. ↩︎

  71. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, pp. 99-100. ↩︎

  72. E. Levinas, Difficile Libertà, cit. alla nt. 35, p. 23. ↩︎

  73. Cfr. Ivi, pp. 20-23. ↩︎

  74. E. Levinas, Totalità e Infinito, cit. alla nt. 1, p. 19. ↩︎

  75. Cfr. Ibidem. ↩︎

  76. Cfr. Id., Altrimenti che essere, cit. alla nt. 7, p. 7. ↩︎

  77. Id., Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, p. 62. ↩︎

  78. Cfr. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, p 102. ↩︎

  79. Cfr. Ivi, p. 105. ↩︎

  80. Cfr. Ibidem. ↩︎

  81. Cfr. Ivi, p. 95. ↩︎

  82. Cfr. E. Levinas, Etica e Infinito, cit. alla nt. 3, p. 83. ↩︎

  83. Ivi, p. 84. ↩︎

  84. Cfr. F. Riva, La distrazione da sé, ovvero: la prossimità, il sociale, in E. Levinas, Etica e Infinito, cit. alla nt. 3, p. 35. ↩︎

  85. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, pp. 191-192. ↩︎

  86. Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 135. ↩︎

  87. Ivi, p. 104. ↩︎

  88. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, p. 160. ↩︎

  89. Cfr. Ibidem. ↩︎

  90. E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, p. 180. ↩︎

  91. Ibidem. Secondo Levinas, questo carattere di atto mancato delle opere umane deriverebbe, tra l’altro, dalla costituzione stessa della volontà umana, dal fatto di essere una volontà incarnata di cui, per l’appunto, il corpo ne costituirebbe la struttura ontologica. ↩︎

  92. Ibidem↩︎

  93. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, p. 160. ↩︎

  94. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 1, p. 180. ↩︎

  95. Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 104. ↩︎

  96. E. Levinas, L’io e la totalità, cit. alla nt. 27, p. 52. ↩︎

  97. Ibidem↩︎

  98. Ibidem↩︎

  99. Ibidem↩︎

  100. Cfr. Ivi, pp. 52-53. ↩︎

  101. Ivi, p. 52. ↩︎

  102. Cfr. Ivi, p. 53. ↩︎

  103. Ivi, p. 53. ↩︎

  104. Ibidem↩︎

  105. Ibidem. Come fa notare Levinas, la condizione affinché ciò avvenga è che l’interlocutore stesso sia ridotto ad un concetto del discorso. Questa è la situazione dell’uomo dedotto dalle sue opere, quella di un uomo passato e morto che si riflette totalmente in esse. La storia è necrologio, giudizio della posterità, giudizio di uomini non nati dato su uomini morti. Assoluta impersonalità. Su questo aspetto insiste particolarmente F.M. Cacciatore nel saggio In contumacia. Storia e filologia in Levinas, in S. Facioni, S. Labate, M. Vergani (a cura di), Levinas inedito. Studi critici, Mimesis, Milano – Udine, 2015. Lo studioso fa notare come, in Levinas, ci sia un’inclinazione persistente a inquadrare la storia entro il sapere oggettivo di scienze umane quali filologia e storiografia e, quindi, come l’ambito in cui le esistenze particolari si perdono nella contabilità cronologica. ↩︎

  106. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 105. Proprio su questo aspetto dello scetticismo che rimanda a qualcosa di pre-originario che sommerge la libertà del logos, come una passività radicale, vedremo come Levinas riconosce anche un ruolo positivo all’antiumanesimo delle scienze umane per aver spianato la strada alla sua concezione di soggettività, denunciando quella dell’umanesimo tradizionale. ↩︎

  107. Cfr. Ivi, pp. 105-106. ↩︎

  108. Cfr. Ivi, p. 131. ↩︎

  109. Ivi, p. 132. ↩︎

  110. Ibidem↩︎

  111. Cfr. Ivi, p. 133. ↩︎

  112. Ibidem↩︎

  113. Cfr. G. Lissa, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit. alla nt. 14, p. 94. ↩︎

  114. Ivi, pp. 93-94. ↩︎

  115. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 133. ↩︎

  116. Ibidem↩︎

  117. Ivi, p. 136. ↩︎

  118. «Penso che un uomo che inizia a filosofare nel Ventesimo secolo non può non attraversare la filosofia di Heidegger, sia pure per uscirne. Il suo pensiero è un grande avvenimento del nostro secolo». Queste le parole di Levinas su Heidegger in Etica e Infinito, cit. alla nt. 3, p. 63. ↩︎

  119. Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 136. ↩︎

  120. Cfr. Ivi, pp. 136-137. ↩︎

  121. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, p. 291. ↩︎

  122. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nt. 7, pp. 165-169; e cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, pp. 290-291. ↩︎

  123. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 137. ↩︎

  124. Cfr. ibidem↩︎

  125. Ivi, p. 28. ↩︎

  126. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit. alla nt. 4, pp. 110-111. ↩︎

  127. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit. alla nt. 9, p. 23. ↩︎

  128. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nt. 7, p. 161. ↩︎