Cosa sono i paradossi deontici?

1. Introduzione

In genere, un paradosso viene considerato un controsenso aletico, ovvero una derivazione contraddittoria1 che, in genere, ma certo non soltanto, inverte il valore di verità di una determinata proposizione o ragionamento.2 In linea di massima, comunque, un paradosso comporta una contraddizione interna o logica oppure può minare una credenza comunemente accettata.3 In base a questa nozione, variamente condivisa dai più, si potrebbero considerare i paradossi deontici sulla falsariga aletica, e, dunque, considerarli degli analoghi normativi. Ma è davvero così? In realtà, avverte Conte un paradosso deontico è a tutti gli effetti un analogo deontico dei paradossi aletici se, e soltanto se, prescriva la propria inefficacia.4 Infatti, come i paradossi aletici mettono capo ad un’inversione dei valori di verità, a partire dal loro stesso contenuto, così i paradossi deontici mettono capo ad una contraddizione normativa, prescrivere la propria inefficacia pur valendo come prescrizioni efficaci, a partire dal loro specifico contenuto deontico. In questo senso, si potrebbero considerare i paradossi deontici degli analoghi normativi dei paradossi aletici, ad esempio di quello di Epimenide.

Tuttavia, ciò necessita di alcune riflessioni ulteriori. Mentre i paradossi aletici, via la propria caratteristica autoreferenzialità, danno luogo alla contraddizione in forza della quale «la mia affermazione è sia vera sia falsa, poiché se è vera, è falsa e se è falsa, è vera»,5 i paradossi deontici, via la propria caratteristica autoreferenzialità, danno luogo alla contraddizione in forza della quale la prescrizione è sia valida sia non valida, poiché se è valida, è invalida e se è invalida, è valida. Sin qui pare, dunque, che i due fenomeni siano perfettamente sovrapponibili. Ma è davvero così? In realtà, a ben guardare, questa definizione per via analogica non rende conto in modo adeguato dei diversi livelli di contraddizione attivati dai paradossi deontici. Pertanto, il suggerimento di Conte è senza dubbio interessante, ma non del tutto proficuo per gli scopi presenti. In modo particolare, i paradossi deontici non sono delle bizzarrie aletiche, ma vere e proprie contraddizioni normative. Ne consegue, allora, che mentre i paradossi semantici mostrano un bizzarro meccanismo di inversione dei valori di verità delle proposizioni, a partire dal valore di verità di partenza dei loro contenuti, i paradossi deontici sono più simili a delle antinomie logiche.6 Ovviamente, in questa sede l’aggettivo ‘logiche’ rimanda esclusivamente alla natura formale della logica. Pertanto, quando diciamo antinomie logiche facciamo espressamente riferimento alle contraddizioni formali della logica, e segnatamente a quel genere di contraddizione che riguarda un’antinomia tra le proposizioni di partenza e le proposizioni di arrivo all’interno di ragionamenti o catene di inferenze.7 D’altro canto, infatti, un’antinomia è tale se, e solo se, si dà un’incompatibilità tra due proposizioni contrarie.

Quindi, non è del tutto condivisibile la definizione analogica di paradosso deontico fornita da Conte, la quale, inoltre, appare come il tentativo di dare una ricostruzione analitica dei paradossi deontici piuttosto che tentare una spiegazione strutturale del loro verificarsi. I paradossi deontici sono, dunque, vere e proprie contraddizioni normative, e sotto questo aspetto appare calzante la definizione di D’Agostini dei paradossi logici come di contraddizioni resistenti,8 a seguito del loro coinvolgere il meccanismo vero – funzionale del riferimento semantico tale da risultare difficile eliminare la stessa contraddizione.9 Detto altrimenti, i paradossi sono delle contraddizioni che valgono come se fossero delle enunciazioni vere, oppure delle proposizioni false che si è costretti ad ammettere come se fossero vere. Nel caso dei paradossi deontici, però, il problema formale non è dato dal riferimento semantico, e, dunque, dal bizzarro gioco dei valori di verità contrari, quanto, e piuttosto, dalla loro specifica natura normativa. In altri termini, un paradosso deontico è una costruzione enunciativa la quale comporta una sorta di antinomia tra doveri o azioni contrarie da compiere entrambe.

Pertanto, i paradossi deontici sono simili ai paradossi aletici senza però far proprio un ancor problematico riferimento vero – funzionale. Quest’ultimo, senza voler per forza aprire una lunga e complicata parentesi storiografica, è in genere liquidato dai più con una tacita presupposizione in virtù della quale «There is thus an important sense in which the deontic modalities unlike the alethic, epistemic and existential ones have no logical connexions with matters of fact (truth and falsehood)».10 Allora, i paradossi deontici sono equiparabili ai paradossi semantici nella sola dimensione della contraddizione o antinomia. Ma che genere di contraddizione? Abbiamo già detto che non equivale a quella vero – funzionale dei paradossi semantici, ma si tratta pur sempre di una contraddizione. La posizione che, a tal riguardo, si avvicina di più alla nozione di contraddizione deontica o normativa è senza dubbio quella proposta da Nowell Smith e Lemmon i quali, subito dopo aver negato recisamente qualsiasi analogia tra le contraddizioni deontiche e le contraddizioni logiche, nel senso classico del termine, precisano come la natura specifica dei paradossi deontici sia quella di risultati inferenziali «not only surprising, but unpalatable».11 In questo modo, allora, si comincia a delineare l’assetto normale al cui interno si sviluppano i paradossi deontici, ovvero la forma di ragionamenti che concernano i principi della logica deontica ed eventuali situazioni concrete. Il meccanismo inferenziale conduce in alcuni casi, particolari e decisivi, alla contraddizione tra principi e conclusioni correttamente derivate.

Ma per comprendere appieno la portata di questa delimitazione, è bene avere le idee chiare. Infatti, la logica deontica può, grosso modo, venir considerata una branca della logica volta a catturare entro forme logiche ben formate il comportamento razionale dei concetti normativi, quali ‘dovere’, ‘obbligo’, ‘permesso’, ‘facoltà’, e simili….12 Essa, dunque, vorrebbe mappare il funzionamento razionale dei concetti normativi o, per dirla à la von Wright, la razionalità stessa del linguaggio normativo.13 Ora, per far ciò, la logica deontica si è servita di un linguaggio logico, segnatamente il linguaggio proposizionale di primo livello, e di un insieme di teoremi e principi. E pazienza che per il fondatore della disciplina, essa derivasse dalla logica modale, costituendosi, dunque, quale logica delle intensioni normative delle proposizioni deontiche.14 La storia ufficiale della logica deontica ha seguito uno sviluppo divergente dai voleri del suo fondatore. Ebbene, una volta che un calcolo specifico è stato istituzionalizzato, i critici hanno sollevato delle obiezioni le quali hanno assunto la forma di una qualche sorta di contraddizione tra una proposizione che è possibile derivare all’interno del calcolo stesso e dei principi dello stesso. In breve, allora, i paradossi deontici sono contraddizioni derivabili correttamente entro calcoli deontici dati; ovvero, per dirla altrimenti, delle antinomie scaturenti da catene inferenziali. Il problema, però, è che, nel caso dei paradossi deontici, dette antinomie hanno delle conseguenze importanti dato che le contraddizioni non riguardano esclusivamente delle proposizioni contrarie, ma addirittura condotte alternative d’azione le quali vengono implicate contemporaneamente all’interno di singoli ragionamenti.

2. I paradossi deontici

In base all’esame sin qui condotto, emerge come i paradossi deontici siano simili ai paradossi logici, ma denotino una loro dimensione particolare. Ha certamente ragione Feldman quando asserisce che i paradossi deontici non siano dei veri e propri paradossi, almeno nel pieno senso del termine, ma che si tratti di situazioni ove si verificano casi di incoerenza tra l’insieme delle premesse adottate, e formalmente valide, e l’insieme delle rappresentazioni derivate, e formalmente invalide.15 caso Il, dunque, dei paradossi deontici è ben più complesso, e non assimilabile alle contraddizioni semantiche o aletiche della tradizione logica. Un esempio potrebbe essere il seguente:

  1. è obbligatorio: compiere l’azione (A);
  2. è obbligatorio: compiere l’azione (A), oppure l’azione (non-(A));
  3. è obbligatorio: (compiere l’azione (A) o l’azione (non-(A));
  4. è obbligatorio: (compiere l’azione (A)) o è obbligatorio: compiere l’azione (non-(A));
  5. è obbligatorio: compiere l’azione (non-(A)).

Come si vede abbastanza chiaramente, il problema nel ragionamento presente riguarda la compresenza di due obbligazioni contrarie, ovvero compiere l’azione (A), qualunque essa sia, e compiere l’azione non – A, qualunque essa sia. Infatti, l’azione (A) e l’azione non – A sono tra loro confliggenti. Pertanto, a rigore, non dovrebbero figurare entrambe, come variabile di un operatore deontico, all’interno del medesimo ragionamento. La derivazione finale, dunque, ossia la stringa (5) contraddice la premessa iniziale, ovvero la stringa (1): mentre la prima dichiara l’obbligatorietà dell’azione contraria ad (A), la seconda dichiara l’obbligatorietà dell’azione (A). Come ben insegnava Aristotele, delle due l’una: o si dà (1), vale a dire l’obbligatorietà dell’azione (A), o si dà (5), vale a dire l’obbligatorietà dell’azione non – (A). Ma seguiamo ora per un attimo lo sviluppo formale del medesimo ragionamento:

  1. OA
  2. OAA
  3. O(A∨∼A)
  4. OA∨O∼A
  5. O∼A

Com’è facile osservare, la conclusione (5) contraddice la premessa (1). Infatti, mentre quest’ultima prescrive l’obbligatorietà di A, la conclusione prescrive l’obbligatorietà di non – A. Le proposizioni (1) e (5) sono, dunque, incompatibili e il quadro complessivo che ne deriva è di una conclusione tanto sorprendente quanto indesiderabile. Eppure, l’inferenza (5) è del tutto corretta all’interno dello schema deontico di riferimento. Allora, com’è possibile che un sistema logico possa dar luogo a situazioni di contraddittorietà? E com’è possibile che un ragionamento conduca a risultati tanto imbarazzanti quanto difficilmente risolvibili in termini razionali? Quello appena visto è il caso del ben noto paradosso di Ross;16 a tutti gli effetti, però, un antesignano di tutti i posteriori paradossi deontici, una sorta di proto – paradosso deontico dato che anticipa di un decennio circa la genesi ufficiale della logica deontica moderna. La formulazione originale del primo risale al 1941, mentre la data di nascita della logica deontica è il 1951. E nonostante ciò, Ross mette in risalto la difficoltà da parte della logica deontica a mappare in maniera formalmente adeguata la razionalità delle proposizioni normative. Possiamo aggiungere che il paradosso di Ross illumina la struttura responsabile della folta schiera di paradossi deontici, vale a dire il malfunzionamento formale delle catene inferenziali che adoperino concetti deontici. Dopo il 1951 la gran massa dei paradossi deontici può venir raggruppata in due gruppi:

  • i paradossi deontici che riguardano l’iterazione dei concetti normativi;
  • i paradossi deontici che riguardano il connettivo ‘condizionale’ all’interno delle inferenze con concetti normativi.

Sono esempi del gruppo (A) i seguenti paradossi:

  • (A1) il paradosso di Ross;
  • (A2) il paradosso dell’obbligo derivato;
  • (A3) il paradosso di Åqvist.

Ovviamente, l’elenco (A1) – (A3) non è esaustivo della vasta e complessa gamma dei paradossi del tipo (A), esattamente come la riduzione dei paradossi deontici ai due gruppi qui presenti, il gruppo (A) e il gruppo (B), non è punto esaustiva e completa dell’insieme straordinario, oltre che affascinante, delle antinomie della logica deontica. Il paradosso di Ross è già stato discusso in precedenza. Passiamo adesso agli altri due paradossi del primo gruppo. Il paradosso dell’obbligo derivato, al netto delle sue varie presentazioni, presenta la forma seguente:

  • (A2.1) vige il principio seguente: è obbligatorio (se p, allora q);
  • (A2.2) è obbligatorio (se p, allora q) equivale a: non è permesso: (p e non – q);
  • (A2.3) se non è permesso: p, allora non è permesso: p e non q;
  • (A2.4) se non è permesso p, allora è obbligatorio: se p, allora q.

L’ultima stringa è strana perché sembra suggerire che l’obbligo di q a partire da p derivi dal non essere permessa l’azione p. Come si vede, allora, il caso presente è sicuramente più complesso del paradosso precedente dato che coinvolge su più livelli l’iterazione dei concetti normativi. Ma mettiamo tra parentesi la formulazione linguistica e volgiamo lo sguardo alla sua versione simbolica:

  • (A2.1) è valido il principio seguente: O(p⊃q);
  • (A2.2) O(p⊃q)≡ ∼P(p∧∼q);
  • (A2.3) ∼Pp⊃∼P(p∧∼q);
  • (A2.4) ∼Pp⊃O(p⊃q).

La stringa (A2.4) è quantomeno sospetta dal momento che, pur ottenendosi correttamente per sostituzione dalle stringhe precedenti e in conformità ai principi stessi del calcolo deontico, afferma che il compiere un atto vietato ci obbliga a fare qualsiasi altra cosa. Per cui, ad esempio, ammesso che il furto sia un atto proibito, il compierlo ci obbliga a commettere un altro atto, ad esempio l’omicidio.17 Al riguardo, è illuminante, tra gli altri, Prior quando scrive che «doing of what is forbidden commits us to the doing whatsoever».18 Ora l’analogia tra il paradosso dell’obbligo derivato e il paradosso di Ross è evidente solo che, nel primo caso, dal divieto di compiere una certa azione deriva l’obbligo di compierne una terza, mentre nel secondo caso dall’obbligo di compiere una certa azione deriva l’obbligo di compiere quella stessa azione o una qualsiasi altra. Nell’uno come nell’altro caso, l’imbarazzo è evidente. Infatti, perché mai un ragionamento dovrebbe condurre ad una tale antinomia? Veniamo ora al paradosso di Åqvist:

  • (A3.1) è obbligatorio: compiere non (A);
  • (A3.2) è obbligatorio: compiere (A e B);
  • (A3.3) è obbligatorio: compiere (A)

Nel caso presente, la contraddizione è lampante! Infatti, l’ultima stringa dichiara un obbligo esattamente contrario all’obbligo di partenza. La contraddizione tra la stringa (A3.3) e la stringa (A3.1) è tanto evidente quanto imbarazzante. Com’è possibile che accada ciò? Come mai dall’obbligo di compiere l’azione non – (A) derivi l’obbligo di compiere l’azione (A)? Un obbligo e due azioni contrarie… Passiamo adesso alla sua presentazione formale:

  • (A3.1) O∼A;
  • (A3.2) O(A∧B);
  • (A3.3) OA.

Com’è evidente, la conclusione (A3.3) contraddice la premessa (A3.1), vale dire che dalla stringa iniziale si deriva una conclusione a dir poco paradossale, ossia dall’obbligo di non compiere una certa azione deriva l’obbligo di compiere l’azione contraria. In modo particolare, la conclusione presente si deriva dalla stringa (A3.2) e dal seguente principio valido in logica deontica:

(PLD1)├A → B/├OA → OB.

È anche chiaro come i paradossi presenti, ovvero quelli del gruppo (A), siano tutti accomunati da una difficoltà di fondo, vale a dire far funzionare il linguaggio logico prescelto maneggiando in maniera adeguata l’iterazione degli operatori deontici. Ma, come si evince dai casi precedenti, ciò non avviene. Inoltre, il paradosso di Åqvist può essere considerato un paradosso cerniera tra i due gruppi, nel senso che mentre mette a fuoco in maniera più esplicita le difficoltà dei paradossi del primo gruppo indica già le difficoltà dei paradossi del secondo gruppo, ovvero render conto di eventuali situazioni condizionali da gestire per il tramite del linguaggio logico prescelto. Ma mentre nel caso del gruppo (A) si tratta di una difficoltà interna al sistema delle interdefinizioni tra i concetti deontici,19 e della loro correlata iterazione all’interno di formule concatenate, nel caso del gruppo (B), invece, si tratta di una difficoltà esterna al linguaggio logico adoperato. In altri termini, che le formule deontiche non sono in grado di render conto dei ragionamenti normativi in contesti reali non è una difficoltà interna al simbolismo formale adoperato dalla logica deontica; è, se si vuole, una difficoltà nella messa alla prova con contesti reali. Sono esempi del gruppo (B) i seguenti paradossi:

  • (B1) il paradosso di Chisholm;
  • (B2) il paradosso del Buon Samaritano;
  • (B3) il paradosso dell’Imperativo contrario al dovere.

Ovviamente, l’elenco (B1) – (B3) non è certo esaustivo della vasta e complessa gamma dei paradossi del tipo (B), esattamente come la riduzione dei paradossi deontici ai due gruppi qui presenti, il gruppo (A) e il gruppo (B), non è punto esaustiva e completa dell’insieme straordinario ed affascinante delle antinomie della logica deontica. Veniamo ora al paradosso di Chisholm.20 Quest’ultimo può venir espresso nella forma che segue:

  • (B1.1) OA;
  • (B1.2) O(A⊃B);
  • (B1.3) ~A⊃O~B;
  • (B1.4) ∼A.

La conclusione (B1.4) non è puntualmente la negazione della premessa (B1.1), come invece dovrebbe essere trattandosi di antinomie logiche, ma mostra comunque un effetto sgradito della formalizzazione deontica. Infatti, da un obbligo a compiere una certa azione si deriva infine un’azione comunque contraria a quella di partenza. Anche la non derivazione di un’obbligazione in quest’ultimo caso suona piuttosto sbagliata. In realtà, il paradosso di Chisholm ci dice una cosa fondamentale, ovvero che la logica deontica non è in grado di gestire situazioni condizionali o, se si preferisce, ordini diversi di obbligazioni. Detto altrimenti, solo nel caso in cui l’azione A e l’azione ∼A vigano nello stesso tempo e per lo stesso agente si dà il problema. Ma pur potendo distinguere tra tempi di azione e destinatari diversi delle obbligazioni, la logica deontica non compie dette distinzioni. Da qui, dunque, sorgono i problemi.

Questi ultimi sono ancor più ardui nei casi successivi. Infatti, il paradosso del Buon Samaritano dice quanto segue:

  • (B2.1) (A∧B) ⊃B;
  • (B2.2) FB;
  • (B2.3) F(A∧B).

L’operatore deontico ‘F’ sta per vietato. Ne consegue, pertanto, che se il Buon Samaritano aiuta Pinco Pallo che è stato derubato e se derubare è vietato, allora è vietato derubare e aiutare Pinco Pallo. La cosa è più che sospetta. Infatti, mentre la stringa (B2.1) esprime, sia pur malamente, una situazione condizionale, la stringa finale distribuisce il divieto su entrambe le situazioni inizialmente previste, ovvero che si aiuti chi eventualmente è stato derubato. Per Artosi, «andando in soccorso della vittima di una aggressione, il Buon Samaritano compie paradossalmente un’azione proibita».21 Ovviamente, il nome prescelto per questo paradosso è oltremodo azzeccato. Ma la cosa sorprendente è che non appena si introducano eventuali situazioni fattuali di carattere condizionale, la logica deontica conduca a inferenze del tutto contraddittorie. È, tuttavia, evidente come tutti i paradossi del gruppo (B) abbiano una forte aria di famiglia, presentando dei funzionamenti formali molto simili. Ciò è dovuto, in buona parte, al seguente principio valido in logica deontica:

(PLD2) [(Op)∧(p⊃q)]⊃Oq.

Nelle parole di Feldman, «if a state of affair is obligatory, then everything it entails is also obligatory».22 Questo, però, vale forse in astratto, di certo non vale egualmente per le situazioni reali.

La difficoltà presente diviene palese nel caso del paradosso dell’Imperativo contrario al dovere. Quest’ultimo ha la forma seguente:

  • (B3.1) O∼A;
  • (B3.2) A;
  • (B3.3) A⊃OB;
  • (B3.4) O(∼A⊃∼B).

Per quanto criptico nella sua presentazione, il presente paradosso inferisce dall’obbligo a compiere l’azione contraria ad A l’obbligo a compiere l’azione contraria a B nel caso in cui si verifichi l’azione contraria ad A. La cosa è, ovviamente, assai controversa. Con le parole di Artosi, si inferisce la situazione in virtù della quale Cappuccetto Rosso deve andare dalla nonna e Cappuccetto Rosso deve non andare dalla nonna.23 Come nei casi precedenti, è abbastanza chiara la natura del problema, ovvero non distinguere tra casi concreti ed obbligazioni ideali. Infatti, è la stringa fattuale (B3.2) che dà avvio alla derivazione infausta. Verificandosi la circostanza A, il formalismo logico distribuisce l’obbligatorietà iniziale sulle due casistiche, vale dire non A e non B.

Adesso è il momento di compiere alcune riflessioni riguardo ai paradossi qui presentati. Anzitutto, i paradossi del gruppo (A) denotano un certo imbarazzo ad applicare le interdefinizioni normative a situazioni reali. Ne consegue, così, un’ostica applicazione della semantica alla logica deontica. Infatti, per cosa stanno le formule deontiche considerate? Senza aprire qui un’inutile parentesi riguardo alla diatriba sull’esistenza o meno di contraddizioni reali, i paradossi deontici sono la spia di parecchi difetti formali della logica deontica, primo fra tutti una sostanziale macchinosità del formalismo adoperato e, di conseguenza, un pesante imbarazzo semantico. Invece, i paradossi del secondo gruppo mostrano una difficoltà ancora più grave. Infatti, tutti i paradossi del gruppo (B) difettano nel gestire tempi, destinatari e gerarchie diverse di obblighi e divieti. Ma questa difficoltà non attiene al significato specifico da attribuire alle formule deontiche in questione, quanto, e piuttosto, alla radicale semplicità del linguaggio logico adoperato. L’imbarazzo deriva dalla sintassi deontica, e non dal significato che le si può attribuire. Una sintassi di questo tipo, infatti, non consente di gestire, almeno in modo che possa dirsi adeguato, situazioni ove vigano relazioni di tipo causale e rimandi di ordine condizionale. Di conseguenza, il verificarsi di situazioni di questo tipo mette in difficoltà la logica deontica la quale, suo malgrado, finisce con l’incorrere in derivazioni tanto sorprendenti quanto inaccettabili.

Da una breve considerazione, emerge allora come nei paradossi del gruppo (A) fallisca la semantica che viene applicata alle enunciazioni deontiche, mentre nei paradossi del gruppo (B) fallisca la sintassi delle stesse enunciazioni deontiche. Infatti, i paradossi del primo gruppo non appaiono in grado di render conto dello specifico significato delle formule deontiche adoperate. Invece, i paradossi del secondo gruppo non sembrano in grado di render conto dei meccanismi condizionali all’interno delle formule deontiche che li adoperano.

In realtà, e a ben guardare, tanto i paradossi deontici del gruppo (A) quanto i paradossi deontici del gruppo (B) denotano un problema comune che attiene ad un limite strutturale della logica deontica, vale a dire il linguaggio proposizionale adoperato. Tant’è che felicemente, anche se con una notevole punta d’ironia, osserva Artosi come la storia della logica deontica sia stata una storia «di come i paradossi sono stati scoperti e rimediati con misure che hanno a loro volta dato origine a nuovi paradossi».24 E da questo punto di vista è certamente corretto, anche se davvero poco rassicurante. D’altro canto, proprio questa storia così paradossale è stata ben presente al fondatore moderno della stessa disciplina se è vero che in tempi recenti ha considerato la sua stessa creatura un labirinto.25

3. Fallimenti deontici

Se un sistema formale presenta molti paradossi questo non depone certo a favore della sua bontà. Tuttavia, il fatto che molti paradossi siano stati scoperti, discussi, emendati, e che di ulteriori siano sopraggiunti, denota invece una certa vitalità. Al riguardo, anche in questo caso con indiscutibile ironia, Hintikka parla di una serie di esempi istruttivi e divertenti di errori.26 E sicuramente le cose stanno così. Tuttavia, è possibile aggiungere anche qualche altra affermazione più costruttiva. Anche perché, senza aderire a forme più o meno velate di dialeteismo, «no contradictions are true».27 Ma il rinnovato interesse intorno ai paradossi deriva dal «processo di formalizzazione della matematica e della logica»28 una tendenza di lunga durata, e che ha coinvolto i primi trent’anni del XX secolo e che ha avuto il suo importante ruolo nella genesi stessa della logica deontica riguardo alla «exclusive meaningfulness of factual assertoric treatment of other types of prima facie non – assertoric statements such as imperatives».29 Da questo punto di vista, infatti, non sarebbe quest’ultima una fonte inesauribile e meravigliosa di sorprendenti paradossi, ma la sua giovane età a suggerire di vederci chiaro riguardo alla sua dichiarata finalità di render conto della razionalità delle proposizioni normative.

Quali sono, dunque, i fattori che comportano il fallimento dell’impresa deontica? Per Castañeda, ad esempio, v’è una soluzione unica per tutti i paradossi deontici, tanto semplice quanto radicale, vale a dire adoperare la nozione di pratizione in forza della quale si eliminano alla radice tutte le ambiguità di fondo delle proposizioni deontiche, cassando tutti i possibili paradossi deontici…30 Infatti, le formule deontiche non vertono più, ed ambiguamente, su proposizioni normative, piuttosto vaghe, a dire il vero, ma su azioni da compiere. D’altro canto, Pizzi precisa come proprio i paradossi deontici hanno il merito di mostrare una forzatura di fondo dell’intera logica deontica, ovvero mentre gli operatori deontici sono operatori proposizionali, ciò su cui vertono non sono affatto proposizioni, ma azioni da compiere31 Con questa indicazione è ora possibile dirimere la questione, “smontando”, per così dire, la logica deontica. Infatti, i paradossi deontici, in quanto veri e propri fallimenti della logica deontica, sino al punto di minarne qualsivoglia fiducia o attendibilità, mostrano i limiti strutturali della logica deontica. In altri termini, tanto i paradossi del gruppo (A) quanto quelli del gruppo (B), per come visto in precedenza, illustrano abbastanza bene le difficoltà della logica deontica e reggere il confronto con un ragionamento che mappi, sia pure brevemente, la complessità di una ponderazione pratica in contesti reali. È in questo setting che la logica deontica manifesta un comportamento goffo, impacciato, macchinoso, inadeguato. Ma per quale ragione? Pur essendo una sofisticata costruzione formale, ha un limite nascosto, che von Wright ha rilevato, e che fa riferimento alla distanza tra l’apparato formale adoperato e i contesti reali ove operano concetti e inferenze deontici32 Questo scarto produce i malfunzionamenti qui presenti, e che abbiamo indicato come delle antinomie logiche all’interno di ragionamenti che adoperino proposizioni normative. Ora, mentre il linguaggio utilizzato è proposizionale, le fattispecie reali che vorrebbe gestire sono reali; il primo ha una sintassi e una semantica proposizionale, le seconde non sono proposizioni, ma azioni. Ne conseguono le contraddizioni normative qui discusse, sia pure in maniera parziale e certamente non esaustiva. Queste ultime denunciano i limiti del linguaggio proposizionale adoperato dalla logica deontica. Infatti, mentre quest’ultimo cerca di cogliere un certo significato delle nozioni normative, e delle loro correlate razionalità, questo stesso significato è del tutto speciale, e non ordinario; in altri termini, il linguaggio proposizionale è una costruzione formale che vale solo all’interno di una cornice ideale ed altamente rarefatta, proprio quando, al contrario, avrebbe il bisogno di saper mappare la razionalità delle nozioni normative in contesti reali, ovvero tutti quelli non ideali, rarefatti, sofisticati, del tutto razionali. È proprio questa limitazione strutturale a generare i paradossi deontici.33 Tuttavia, questo limite, che abbiamo appena indicato in termini generali come una limitazione strutturale, presenta un profilo molto più denso, complicato e plurilivello. Sarebbe, forse, più corretto dire che si tratti di più limiti, ma siccome ineriscono tutti al tipo di linguaggio logico utilizzato, resta la valida la cornice generale qui espressa, ovvero che il limite strutturale sofferto dalla logica deontica consiste nelle caratteristiche proprie del linguaggio proposizionale utilizzato. Volendo semplificare, la logica deontica, almeno nella sua versione standard, adopera un linguaggio proposizionale elementare, e, di conseguenza, poco propenso a gestire i ragionamenti normativi in setting reali e a mapparne la razionalità pratica. Lo scarto tra la razionalità a tavolino del linguaggio logico prescelto e la complessità delle situazioni reali è causa probabile di paradossi deontici. Ma tutto ciò ha luogo perché il linguaggio proposizionale della logica deontica è:

  • (M) Monadico: ciascun operatore deontico regge una, ed una sola, variabile proposizionale;
  • (A) Assoluto: le catene inferenziali non ammettono connessioni di causa ed effetto che possano generare meccanismi condizionali e/o livelli di obbligazioni/permessi;
  • (I) Ipersemplificato: il linguaggio usato mappa il comportamento formale di enunciati indicativi.

La monadicità del linguaggio proposizionale adoperato rende bene l’idea della macchinosità della logica deontica. Infatti, le costanti proposizionali deontiche sono ad un solo posto.34 e già il dover gestire una coppia di variabili genera imbarazzi. Secondo Di Bernardo, ad esempio, la logica deontica ha dovuto modificare celermente la propria natura monadica per ovviare «alcuni paradossi in cui essa incorre».35 Il linguaggio proposizionale adoperato, peraltro, avendo una natura assoluta, e trattando i propri simboli formali in maniera assoluta, non riesce a gestire in modo adeguato le situazioni condizionali. Se si tiene conto del fatto che tutti i ragionamenti pratici in setting reale hanno natura condizionale, ecco spiegato come mai possano avere luogo i paradossi deontici del gruppo (B).36 soprattutto se, com’è nel caso proprio della logica deontica, il calcolo logico non disponga degli strumenti idonei per gestire nessi causali e clausole condizionali, così come di un’eventuale distinzione gerarchica tra obblighi e situazioni fattuali correlate, come, ad esempio, nel caso di obblighi primari e secondari oppure di obblighi supplementari in caso di violazione degli obblighi iniziali.37 Infine, mentre il linguaggio proposizionale rende conto del comportamento formale di enunciati indicativi, la logica deontica vorrebbe render conto di azioni.38 Lo scarto tra la struttura intensionale del primo e la finalità della seconda rende conto dell’eccessiva semplificazione cui mette capo la logica deontica. Infatti, quest’ultima pare fallire il proprio obiettivo per eccessiva semplicità della sintassi logica adoperata. Quest’ultima è incapace di render conto delle azioni pratiche in setting reali, e segnatamente agendo a partire dalla distinzione tra il formalismo logico e le intuizioni normative39 mentre si limita ad essere una logica di proposizioni normative.40


  1. Cfr. D. Palladino – C. Palladino, Breve dizionario di logica, Carocci, Roma, 2005, p. 92: «un risultato sorprendente, ma ottenuto con un ragionamento rigoroso». ↩︎

  2. Cfr. G. Priest, Logica, Codice, Torino, 2012, p. 52: «“Questa proposizione non è vera”: qual è il suo valore di verità? Se è vera, allora deve verificarsi ciò che afferma, ossia che non è vera. Ma se non è vera, allora è in linea con quanto afferma, e quindi è vera. In entrambi i casi, sembrerebbe che la proposizione sia contemporaneamente vera e non vera, e ci ritroviamo in una contraddizione. Il problema non è tanto che una proposizione possa avere valori V e F, quanto che possa sia essere V, sia non essere V». ↩︎

  3. Cfr. G. Lolli, Il riso di Talete. Matematica e umorismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 69. ↩︎

  4. Cfr. A. G. Conte, Ricerca d’un paradosso deontico. Materiali per una semantica del linguaggio normativo, “Rivista internazionale di Filosofia del Diritto”, 1974, 51, p. 493. ↩︎

  5. Cfr. M. Clark, I paradossi dalla A alla Z, Raffaello Cortina, Milano, 2004, p. 131. ↩︎

  6. Cfr. A. Cantini – R. Bruni, Paradoxes and Contemporary Logic, “Stanford Encyclopedia of Philosophy”, online: https://plato.stanford.edu/entries/paradoxes-contemporary-logic/↩︎

  7. In ciò seguiamo la distinzione compiuta, per l’appunto, tra paradossi ed antinomie logiche compiuta da D. Palladino – C. Palladino, op. cit., p. 92. Mentre queste ultime sono definite a p. 10 e sgg. come la possibilità di dimostrare una proposizione e la sua negazione↩︎

  8. Cfr. F. D’Agostini, Paradossi, Carocci, Roma, 2010, p. 21. ↩︎

  9. Ibidem↩︎

  10. Cfr. G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 1951, p. 15. ↩︎

  11. Cfr. P. H. Nowell – Smith – E. J. Lemmon, Escapism: The Logical Basis of Ethics, “Mind”, 69, 1960, p. 290. ↩︎

  12. Cfr. T. Mazzarese, Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam, Padova, 1989, p. 3. ↩︎

  13. Cfr. G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 237, 1951, p. 1. ↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. Cfr. F. Feldman, A Simpler Solution to the Paradoxes of Deontic Logic, “Philosophical Perspectives”, 4, 1990, p. 309: «Some of deontic logic’s stickiest problems are revealed by the so-called “paradoxes of deontic logic”. None of these is, strictly speaking, a paradox – no one purports to derive a contradiction from a bunch of seemingly uncontroversial premises. Instead, the general form is this: some system of deontic logic has been proposed. A critic then describes a possible situation and produces a set of ordinary language sentences. The sentences would presumably be true if the situation were occur. The critic next indicates the systematic representations of these sentences. He points out that the systematic representations do not have the logical features of the ordinary language sentences they are intended to represent. In the most typical case, the problem is that the original set of sentences is consistent, whereas the representations are inconsistent». ↩︎

  16. Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 89. ↩︎

  17. Cfr. R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), “Verifiche”, 4, 1982, p. 336. ↩︎

  18. Cfr. A. N. Prior, The Paradoxes of Derived Obligation, “Mind”, 63, 1954, p. 64. ↩︎

  19. Cfr. M. Frixione–S. Iaquinto–M. Vignolo, Introduzione alle logiche modali, Laterza, Roma – Bari, 2016, p. 54. ↩︎

  20. Cfr. R. M. Chisholm, Contrary–to–Duty Imperatives, “Analysis”, 24, 1963, pp. 33 – 36. ↩︎

  21. Cfr. A. Artosi, Il paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 70. ↩︎

  22. Cfr. F. Feldman, op. cit., p. 315. ↩︎

  23. Cfr. A. Artosi, op. cit, p. 149. ↩︎

  24. Cfr. A. Artosi, op. cit., p. 139. ↩︎

  25. Cfr. G. H. von Wright, Norme… op. cit., p. 5. ↩︎

  26. Cfr. J. Hintikka, Deontic Logic and its Philosophical Morals, in J. Hintikka, Modes for Modalities, Reidel, Dordrecht, 1969, pp. 191-2. ↩︎

  27. Cfr. R. M. Sainsbury, Paradoxes, Cambridge University Press, Cambridge, 2009, p. 151. ↩︎

  28. Cfr. N. Falletta, Il libro dei paradossi. Una raccolta di contraddizioni appassionanti, rompicapi avvincenti e figure impossibili, Longanesi, Milano, 2005, p. 9. ↩︎

  29. Cfr. N. Rescher, The Logic of Commands, Routledge and Kegan Paul, London, 1966, p. vi. ↩︎

  30. Cfr. J. Favazzo, Hector-Neri Castañeda, “Aphex”, 17, 2018, online: http://www.aphex.it/public/file/Content20180122_APhEx,172018ProfiliFavazzoCastaneda.DEF.pdf. ↩︎

  31. Cfr. C. Pizzi, Logica Deontica, “Enciclopedia Italiana”, 1993, contenuto online: http://www.treccani.it/enciclopedia/logica-deontica_%28Enciclopedia-Italiana%29/↩︎

  32. Cfr. G. H. von Wright, Norme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, p. 5. ↩︎

  33. Cfr. B. Hansson, An Analysis of Some Deontic Logics, “Noûs”, 1969, p. 373. ↩︎

  34. Cfr. S, Galvan, Introduzione alle logiche filosofiche II: applicazioni filosofiche della logica deontica, Pubblicazioni dell’ISU, Milano, 1987, p. 2. ↩︎

  35. Cfr. G. Di Bernardo, Is–Ought Question e logica deontica, in U. Scarpelli (cur.), «La logica e il dover essere», “Fascicolo monografico della Rivista di filosofia”, 1976, p. 171. ↩︎

  36. Cfr. M. A. Brown, 2001, Conditional and Unconditional Obligations for Agents in Time, in M. Zakharyaschev, K. Segerberg, M. De Rijke, H. Wansing, Advances in Modal Logic. Volume 2, CSLI, Stanford, 2001, p. 121. ↩︎

  37. Cfr. G. H. von Wright, Norme … op. cit., p. 35. ↩︎

  38. Cfr. Føllesdal, F., Hilpinen, R., 1971, Deontic Logic: An Introduction, in Hilpinen, R., 1971. Deontic Logic: Introductory and Systematic Readings, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht – Holland, p. 13. ↩︎

  39. Cfr. G. H. von Wright, On the Logic of Norms and Action, in R. Hilpinen, New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, p. 7. ↩︎

  40. Cfr. N. Rescher, Topics in Philosophical Logic, Reidel, Dordrecht, 1969, p. 321. ↩︎