Il silenzio di Dio. Prospettive etiche per l’ebreo contemporaneo

Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì o per un no Considerate se questa è una donna Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno Meditate che questo è stato Vi comando queste parole Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via Coricandovi alzandovi Ripetetele ai vostri figli O vi si sfaccia la casa La malattia vi impedisca I vostri nati torcano il viso da voi1

— Posso usare il tuo cucchiaio, Vladek?

— Certo, ma dov’è il tuo?

— Mi è caduto, e mentre mi stavo piegando, qualcuno l’ha rubato… ho anche versato quasi tutta la zuppa. Poi l’ho richiesta e m’hanno picchiato… tengo stretta la ciotola e la scarpa casca. Raccolgo la scarpa e mi cadono i pantaloni. Ma che posso fare? Ho solo due mani! Dio mio. Ti prego, Dio… aiutami a trovare uno spago e una scarpa giusta!

Ma Dio non veniva qui. Eravamo tutti soli.2

— Ecco, t’ho preso un cucchiaio.

— Un cucchiaio! Grazie, Vladek, grazie.

— Ed ecco una cintura… non uno spago… una cintura vera!

— Oh mio Dio!

— E un’altra cosa: un paio di scarpe di legno della tua misura!

«Gasp»

— Sob. Mio Dio, mio Dio… è un miracolo, Vladek. Dio mi ha mandato le scarpe tramite te.3

1. Introduzione

Il presente lavoro prende in considerazione la novità imposta alla teologia ebraica dell’evento Shoah, culmine dell’intera storia moderna della religione dei Patriarchi e dei Profeti, e che interpella costantemente anche la nostra coscienza di uomini occidentali, così tanto apparentati con chi ha subito l’atroce persecuzione nazista e così tanto «colpevoli», di complicità, di silenzio, di omissione, nei confronti di quanti hanno perpetrato suddetta persecuzione.

Ma cosa comporta davvero la Shoah per la teologia del popolo eletto? Per i contrattori dell’Alleanza? E, per estensione, cosa comporta anche per noi, uomini occidentali? La Shoah pone all’ebreo due domande, tanto fondamentali quanto inquietanti: 1) dov’è il Dio che promise di proteggere Israele?; e, (2) che cos’ha fatto Israele per meritare tutto questo? Il fatto che l’Olocausto di sei milioni di ebrei sia potuto accadere significa, per la coscienza ebrea, che qualcosa è cambiato nel corso della storia di Israele, e che tale cambiamento sia passato del tutto in sordina, che gli israeliti non si siano affatto resi conto del mutamento dell’Alleanza, dei termini del Patto che Dio stipulò con Abramo e con tutta la sua progenie.4

Il mutamento, per quanto occulto, impone all’ebreo di porsi due questioni, apparentemente slega te l’una dall’altra, ma in realtà intimamente connesse, in merito agli oggetti principali della fede ebraica: perché Dio non protesse Israele? E che fine hanno fatto le promesse di Dio da un lato e le preghiere degli israeliti dall’altro lato? Queste due questioni, relative al credo di Israele, il nocciolo più profondo e duraturo della millenaria coscienza ebraica, e della sua cultura, inerente al rapporto di reciprocità tra Dio e l’uomo, mettono in questione la natura stessa della fede ebraica, la fede stessa nel Dio dei Padri, la possibilità stessa di alzare ancora una volta lo sguardo verso il Cielo, di benedire ancora il nome dell’Altissimo, di pronunciare sulle proprie labbra parole di lode e gloria nei confronti del Signore …

L’accorgersi del male subito ad Auschwitz, un male ancora più difficile da comprendere se posto nell’ordine di idee della modernità, un male assurdo, del tutto privo di qualsivoglia comprensione, del tutto gratuito e senza provocazione, dispensato spontaneamente e con accanimento, elevato a mera routine burocratica, rendersi conto della sorda novità improvvisa che la Shoah ha gettato a piene mani sul Popolo eletto, del «tradimento» del Patto antico, del sovvertimento di gran parte delle categorie teologiche tradizionali, impose agli ebrei credenti di ripensare il theasurus teologico tradizionale, o per attingere ancora una volta alla sapienza antica, specialmente alla figura di Giobbe, provato senza giustificazione nelle carni, oltre che negli affetti e nei possessi materiali, oppure per sdoganare opzioni teologiche sinora confinate ai margini dell’ortodossia, e in misura maggiore capaci di fornire risposte convincenti al problema del male, una volta solo improvviso, eccezionale e singola re, adesso banale, quotidiano e di massa.

La necessità di trovare risposte soddisfacenti al male rappresentato da Auschwitz, incarnato nelle molteplici manifestazioni della Shoah, di giustificare l’azione di Dio, e di render conto dell’ingiusti zia subita da troppi ebrei, ha posto le basi per un rinnovamento della teologia ebraica, la quale non a caso distingue adesso tra un «prima» e un «dopo» Auschwitz, al fine di fare i conti, sino in fondo, con la Shoah, con il suo male, con la sua assurdità, etica, umana, storica, teologica. In molti hanno ripreso in mano l’antica storia di Giobbe, l’uomo probo provato sin nelle carni e senza essere consultato di ciò, tenuto all’oscuro delle «macchinazioni» tenute in Cielo, per trovare antiche risposte al problema eterno dell’uomo: si Deus est, cur malum? L’esistenza di Dio contraddice l’esistenza del male nel mondo. O, per dirla altrimenti, la presenza del male nel mondo, come condizione prima della finitudine umana, e materiale, contraddice l’esistenza di Dio. Questo è, in effetti, il nucleo profondo, e problematico, di qualsiasi teodicea, ossia di qualunque tentativo umano di spiegazione dell’origine del male nel mondo, della sua presenza mondana, del suo aver luogo e del suo colpire gli uomini, e tutto questo senza che Dio intervenga a proteggere i suoi eletti, i suoi prescelti, le sue creature.

Quanti oggi riprendono l’antica sapienza jobica5 si affidano ad opzioni ermeneutiche davvero temerarie, eleggendo le lamentazioni di Giobbe a messe in accusa di Dio stesso. Ma l’ardire di Giobbe, le sue stesse grida, non rasentano mai la blasfemia, non cadono mai nella tentazione idolatrica, nella negazione di Dio in quanto causa delle sue sofferenze. Il rovesciamento, allora, del testo jobico va considerato come l’estremo tentativo di trovare risposte nuove al problema del male, ma abbandonando un poco le usuali strade della teodicea tradizionale, e affidandosi, con coscienza o meno, alle svariate opzioni categoriali offerte dal sottobosco della teologia ufficiale, a quel calderone fervido e fruttuoso della Qabbalah, il sapere non ufficiale, il nerbo segreto della cultura ebraica di tutti i tempi.6 Secondo Scholem, ad esempio, esso presenta uno dei migliori tentativi di rendere concettualmente comprensibile la categoria teologica della creazione ex nihilo7 o anche uno dei tentativi più intimi, e seri, di risolvere il problema del male.8

E d’altra parte, quale altra opzione giuridica resta disponibile per giustificare un male che cade improvviso, in massa, e senza colpa apparente, su un intero popolo? L’ebreo crede fermamente nel principio della giustizia retributiva, ossia nell’idea in virtù della quale ciascun uomo riceve su questa terra tanta pena quanta colpa ha commesso.9 Questa è, infatti, la convinzione degli amici di Giobbe, non condivisa da quest’ultimo il quale, con rettitudine, lamenta con forza la sua onestà di fronte a Dio. Ma è solo nello stasimo finale che la contesa si ricompone.10 La medesima riconciliazione non appare riuscita ai nostri giorni.

Davanti alla Shoah si può restare in silenzio oppure, e questa è la posizione ufficiale del presente lavoro, si può cercare di parlare, di render conto comunque dell’immane presente in essa. Quanti si sono affidati a Giobbe hanno preferito la seconda scelta, cercare di comprendere il male, cercare di renderne conto, di darne una sia pur pallida spiegazione, umana e troppo umana, scomodamente umana, ma comprensibile nel suo anelito e nel suo orizzonte. Giobbe, però, non basta a quanti vivono con animo lacerato anche la sola ricostruzione della tragedia novecentesca che ha investito, e quasi fatto estinguere, un popolo antichissimo. Giobbe è stato così decostruito e reinterpretato, alla stregua di qualsiasi insieme di credenze fondamentali di una religione. Il problema, forse, non è Dio e nemmeno un corpus consolidato di conoscenze, di tradizioni, di soluzioni, teologiche, ma la stessa vicenda storica di un secolo ben preciso, di un periodo tra gli altri, il ’900, breve ma intenso, ed ancora privo di una coscienza storica adeguata, forse non ancora conclusosi se si pone mente alle influenze, talvolta anche profonde, che ancora esercita sui nostri destini mortali.

Quanto, in genere, si dimentica nel chiamare in causa Dio per il male del mondo, è la scomparsa dell’umanità, è l’esercizio esagerato della libertà umana, è l’arbitrio umano delle possibilità tecnologiche, è la dimenticanza dell’orizzonte etico della finitezza umana. Da questo sonno dell’umanità, e non dal preteso, quanto ingiustificato, sonno di Dio, deriva la catena di sofferenze ed ingiustizie che chiamiamo Shoah, assieme, forse, ad altre tragedie dimenticate e che hanno insanguinato la Terra, sino alle tragedie mute e senza nome che ancora toccano regioni nascoste del nostro Pianeta, e delle quali al momento solo in pochi parlano. Eppure, comunque, resta importante compiere questo viaggio nella coscienza ebraica, è rilevante, per ciascuno di noi, calarsi dentro l’inquieta e irriconciliata mentalità ebraica, anche per comprendere non solo come la cultura ebrea ha vissuto questi eventi luttuosi, ma anche come noi, che in essa non ci riconosciamo, abbiamo vissuto, ed interpretiamo oggi, questi eventi storici ai quali, vo lenti o nolenti, rimaniamo legati, sia per responsabilità civili sia per solidarietà umana nel riconosci mento della comune «radice che porta».

2. Dire Auschwitz: la facile retorica del «silenzio»

Non risulta possibile avvicinarsi al tema presente, così difficile, complesso, articolato su molteplici piani eterogenei, antropologico anche, senza provare quella che Minazzi chiama «ambiguità di fondo»:11 la sensazione in forza della quale per via della natura spaventosa, e senza eguali nella sto ria umana, della Shoah qualsiasi parola risulta alla fine impropria, non adeguata, a tratti anche blasfema, nel tentativo, certo vano, di render conto di quel che fu e che significò. Da un lato, infatti, si rischia di banalizzare l’evento, drammatico e luttuoso, e dall’altro di non possedere adeguate risorse, linguistiche e concettuali, per analizzare puntualmente un evento che mostra sin dall’inizio una colossale disimmetria tra il provarlo, ossia l’esperirlo direttamente, in prima persona sulla propria pel le, e il narrarlo, ossia cercare di esperirlo, e farlo esperire, indirettamente, solo in terza persona.

È sicuramente vero che abbiamo avuto la fortuna, questa sì, di non vivere in prima persona la sciagura della Shoah, ma forse per questo non possiamo parlarne? Si desidera davvero porre in questi termini l’intera faccenda? E se desideriamo parlarne, nel contempo, ciò annulla forse la valenza positiva che certamente desideriamo conseguire con l’intero progetto? Senza esserne testimoni, non è possibile parlarne? L’unico esito possibile appare allora quello del silenzio, del tacere innanzi all’enormità di quanto accaduto. Questa, però, ci si conceda appare più la resa dell’umanità di fronte a qualcosa prodotta, e prima ancora resa possibile, proprio dall’umanità stessa. Non un altro uomo, non un altro mondo, non propriamente un altro tempo, ha prodotto quella sequela tragica di dolore e di lutti, insensati, e gratuiti, che lungamente consegna a noi oggi ancora i suoi dolorosi frutti. Una resa, peraltro, forse gratuita, ma certo non spontanea: cadere in un mutismo probabilmente di comodo. Tacere vuol dire solamente evitare di prendere posizione, oppure per non giudicare in modo diverso dai «salvati» di quella tragedia o di quanti preferiscono annoverarsi tra di loro, pur appartenendo magari a generazioni posteriori, o anche un facile silenzio per non rischiare in prima persona magari l’inattualità di un proprio personale giudizio.

Non arrischiare e non contrastare sono, pertanto, le due facce, speculari, della stessa medaglia: tacere davanti alla Shoah. E v’è, certamente, un complesso di motivazioni eterogenee dietro a tale scelta. Ma non c’interessano né le intenzioni né gli alibi perché quella del silenzio ci appare più come una facile retorica che non prendere sul serio le domande che inevitabilmente, e seriamente, la Shoah pone a ciascuno di noi. Perché tacere piuttosto che parlare? Il rischio della banalità, del ripetere qualcosa di già detto, di non dire nulla di innovativo, il rischio, o il timore, di asserire qualcosa di scontato, anche di banale, è sempre presente, ma è questo un motivo valido per cadere nel silenzio? Dove termina il dovere, anche morale, della testimonianza? Del ricordo? La Shoah interpella la nostra responsabilità, mette in questione la nostra appartenenza allo stesso genere umano che la praticò. Tacere consente, invece, di evitare le questioni, molte scomode, molto difficili da prendere in considerazione, da valutare, da affrontare, restare in silenzio consente di non affrontare gli imbarazzi che inevitabilmente seguono il tremendum costituito da quell’evento, non a caso una vera e pro pria cesura per la cultura ebraica (e non solo).12 Forse dovremmo solo balbettare? Ma non lo faccia mo già ogni giorno? E perché quest’ultimo dovrebbe valere forse più di quello eventuale sulla Shoah?

Dell’esatto tenore di tale «retorica», la chiamiamo così perché non sapremmo fare altrimenti, appaiono le parole di Giuliani:

Raccontare è comunicare un senso. È più che scommettere che la propria parola arrivi sensata e credi bile all’altro: è un vero e proprio atto di fede. Dubitare di questa narrabilità è dubitare che il narrabile sia sensato e credibile. Se Auschwitz è il regno del non — senso […] ci troviamo dinanzi all’impossibilità strutturale di trovare un linguaggio che risponda ai caratteri propri di ogni linguaggio umano. Sia mo condannati al non-linguaggio, al silenzio perpetuo. La cifra del silenzio perpetuo è la stessa ci fra del non-senso: è la morte. Chi può negare che qui stia la radice di ogni scacco alla ragione e alla parola? Poiché Auschwitz fu la più grande «festa della morte» che l’uomo abbia allestito per l’uomo nel corso della storia (in così pochi anni!), questo luogo assurge […] a cifra del silenzio perpetuo. Nessuno simbolo ha diritto a rappresentarlo — cioè, nessun simbolo del senso. Dare un senso ad Auschwitz è idolatria, è blasfemia […] Auschwitz è e deve restare la cifra della negazione di ogni senso — umano o divino che sia.13

Innanzi all’enormità della Shoah certo è difficile pretendere di dire cose sensate e proporzionate a quanto accaduto, ma cercare di comprendere quel che accadde è un dovere, della stessa natura etica dell’invocare il silenzio: siccome non possiamo esprimere con parole sensate, adeguate all’evento, quel che successe, allora sarebbe eticamente preferibile tacere. Ma restare in silenzio è cosa facile, se non comoda, certo è più difficile al contrario cercare di addentrarsi in quest’enormità, pur nel massimo rispetto per le vittime, di gettare sprazzi di luce umana, ossia linguistica, comunicativa, nell’oscurità di tale evento drammatico. Di Auschwitz, oramai divenuto macabro simbolo della Shoah, non solo si può parlare, ma si deve parlare; se appare difficile trovarne un senso, questo non vuol dire che non ce l’abbia di per sé, ma che ancora vada cercato nei meandri più profondi dell’umanità.

Cercare un senso è non solo umanamente doveroso, ma anche moralmente lecito, giusto. Anche perché tolto il linguaggio, com’è possibile intenzionare in maniera morale gli eventi che viviamo?

Riteniamo allora che, per quanto difficile, della Shoah non solo si possa, ma si debba anche par lare, pensare, vagliare, giudicare. Ed è la nostra umanità, a meno che non sia andata perduta nella medesima follia inscenata in quella occasione, a chiedercelo. E seriamente.

3. Tremendum e storia

L’indagine sulla natura del male, per come storicamente si è verificato ad Auschwitz, evoca domande antiche e prive di risposta. La mente può benissimo andare alla prova jobica, se non altro perché proprio la figura di Giobbe viene a vario titolo chiamata in causa non appena la coscienza ebraica si chiede il perché della Shoah, il famoso problema di ogni teodicea: Si Deus est unde malum?14 Problemi analoghi incontra la conoscenza storica, per così dire spiazzata dall’enormità di quanto accaduto durante il XX secolo.

La ricostruzione storica è resa oggi difficile non tanto dalla venuta meno delle ideologie, le gran di «metanarrazioni» che innervavano la cultura occidentale moderna,15 ma dalla grande domanda di storia che le culture moderne richiedono, necessitando la messa in opera di tante costruzioni ad uso e consumo delle richieste,16 con conseguente messa tra parentesi della verità storica.

Peraltro, il declino delle grandi ideologie, non ultima quella marxista, ha portato ad uno strano fenomeno di «pessimismo» sull’evoluzione dei fenomeni storici.17 Il che, molto probabilmente, si lega alla natura intimamente ottimista di tale ideologia secondo la quale un futuro migliore, rispetto al presente, non solo era possibile, ma lo si poteva costruire grazie alla collaborazione degli uomini. Se tale opzione assiologica viene meno, scomparendo dall’orizzonte culturale, e politico, dei più, viene meno anche l’atteggiamento umano che ad essa si accompagnava, ossia l’ottimismo, lasciando il campo al suo avversario, il pessimismo. Certo è pur vero che viviamo in tempi bui, difficili, costellati da fughe in avanti o indietro al co spetto dell’incertezza del futuro, attraversati da indecifrabili moti d’inquietudine che caratterizzano quasi tutti gli strati della società civile. Ma, forse, questo è solo un aspetto della condizione postmoderna di cui facciamo quotidianamente esperienza, forse proprio l’assenza di sedimentazione, la veloce transizione verso stati posteriori di organizzazione sociale e storica, prima ancora che noi ci si possa abituare, la cosiddetta «condizione liquida», induce a temere per il futuro, provoca ansia, paura, in certezza, inquietudine sul proprio destino.18 Ad ogni modo, ogni volta che ci accostiamo all’argomento presente, proviamo spaesamento, turbamento. E forse è anche questo sentimento che ci induce a preferire il silenzio rispetto alla parola. Ma di Auschwitz, così come della Shoah, è preferibile parlare, piuttosto che tacere. Anche per tenta re di «sciogliere quel disagio, quel terrore e quella fascinazione che ci sorprendono a contatto con quel «passato che non vuole passare» — quel nostro scomodo passato, divenuto ormai, letteralmente, carne della nostra carne, e per questo ancora e sempre carico di passioni, sentimenti, problemi».19

Allora, prima di addentrarci in quel difficile groviglio di motivi, di azioni, di agenti, di eventi, che chiamiamo Shoah, dedichiamo un po’ di spazio al discorso sul «silenzio» condotto da Giuliani, e del quale troppo poco è stato detto nella sezione precedente. Egli è profondo conoscitore della «filosofia ebraica» e del dibattito teologico relativo al dopo Shoah. Pertanto, la conclusione del silenzio è esclusivamente sensata all’interno di un ragionamento molto più complesso, rispetto alla quale è però opportuno non solo fare luce ma anche render conto in maniera più completa.

Giuliani sostiene come ad Auschwitz non solo non si facciano domande, ma anche non si chiede conto del «perché» delle cose. La cancellazione della ricerca della ragione intima, e segreta, delle cose rende Auschwitz «il luogo dove “non ci sono perché”».20 La disumanizzazione, ordita dai nazisti, conduce alla negazione di qualsiasi differenza tra mondo umano e mondo materiale. Se così stanno le cose, però, ecco che da Auschwitz dilegua anche il senso, ossia la sfera del significato, così profondamente umano. L’incarnazione del male, se si vuole, confonde il pensiero, così legato a metafore quali «luce», «ragione», «significato», «questi rincorre un senso, una causa, un perché — appunto — e, al dunque, il male è senza senso e privo di cause».21 Perduto ogni orizzonte di senso, l’evento Auschwitz diventa di conseguenza incomunicabile: è forse possibile comunicare il male? È forse possibile comprendere il male? Ogni

linguaggio, ad Auschwitz, è stato ipotecato e non è più riscattabile: quella facoltà tipicamente umana di comunicare — sottraendo dall’indistinto le cose, creando con esse una vegetazione di significati — ebbene questa facoltà è stata infettata per sempre.22

Tipicamente, il linguaggio serve ad ordinare, a sistemare, a cogliere relazioni tra eventi, tra cose, tra significati, secondo specifici criteri, quali adeguatezza, significanza e credibilità. Ma Auschwitz è, di per sé, smisurato, asimmetrico e incredibile. Da qui l’assenza di qualsiasi possibilità comunicativa sulla Shoah: quale linguaggio è capace di render conto del disordine, del male, dell’incredibile? Lo scacco per il linguaggio si riverbera, in negativo, anche sul pensiero: quale pensiero è capace di render conto del non commisurato, del fuori scala, dell’incomprensibile?

Se fuori scala, allora la Shoah segna il punto di non ritorno tra un «prima»e un «dopo». La locuzione «dopo Auschwitz» indica, pertanto, la cesura tra una dimensione semantica antecedente, non più recuperabile, e una dimensione semantica posteriore, quella al cui interno viviamo.23 Pensare «dopo Auschwitz» è diverso da come si pensava prima di tale evento. Parlare «dopo Auschwitz» è profondamente diverso da come si parlava prima di tale evento. L’aver intaccato le capacità umane di comprensione, e di parola, modifica in profondità pure la natura stessa del pensiero, di quella particolare curvatura della cultura umana alla quale sta a cuore penetrare le ragioni profonde della realtà.

Se così è, allora anche il discorso teologico subisce i contraccolpi di tale stato di cose. Così, pensare Dio «dopo Auschwitz» è del tutto diverso da come lo si faceva in precedenza. Ma ciò va collocato nelle giuste coordinate. Infatti, secondo Giuliani

Auschwitz costituisce il più sistematico tentativo di cancellare dal mondo il popolo ebraico e la sua memoria. La Shoà è la più grande tragedia mai avvenuta nella storia del popolo ebraico. Con Auschwitz la storia e il nome di Israele hanno rischiato di essere annientate per sempre.24

E tuttavia non si trattava di un popolo qualsiasi, ma del popolo «della Bibbia, è il popolo dell’alleanza di Abramo, è il popolo della Torà».25 La garanzia vivente, e storica, della Redenzione futura. In merito, risulta interessante porre mente alle inequivocabili parole di Levi:

L’intera storia del breve «Reich Millenario» può essere riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima.26

Pertanto, l’accanimento nazista contro gli ebrei assume un significato teologico ben preciso: un rovesciamento della Creazione umana. È come se i nazisti volessero sostituirsi a Dio, creando una nuova razza eletta, e benedetta, quella ariana, in luogo di quella storica degli ebrei. Il loro progetto assurge, pertanto, ad Anti — creazione, in un moto di rivolta contro Dio stesso, e il suo progetto.

Ma tale tentativo, contrario al volere divino, chiama in causa direttamente Dio stesso: dov’era Dio durante la Shoah? Se ciascuna sciagura, se ciascuna sofferenza ingiusta, se qualsiasi malattia può portare gli uomini ad interrogarsi sul ruolo divino nella creazione, proprio il silenzio divino, per non parlare del mancato intervento diretto, davanti allo sterminio del Suo popolo, in mancanza di una rottura esplicita delle promesse di Alleanza, pone l’interrogativo angosciante: cos’ha fatto Dio men tre il suo popolo veniva cancellato? Come sostiene pure Giuliani:

Il pensiero ebraico dopo Auschwitz è stato costretto ad interrogarsi su Dio e a cercare nuove categorie per situarsi nella storia. Hitler ha costretto gli ebrei a «pensare Dio», e a pensarlo come un problema. Li ha costretti a pensare alla propria diversità. E a mettersi alla ricerca di categorie diverse da quelle che Auschwitz ha corrotto: una nuova navigazione per metafore è richiesta, perché solo la metafora e il simbolo permettono di trasmettere la «parola segreta» dei sei milioni di ebrei uccisi, di reggere il silenzio di Dio davanti ai forni crematori, di dire l’indicibile e pensare l’impensabile.27

Dello stesso tenore sono certamente le parole della Dal Maso secondo la quale

Ad Auschwitz, Dachau, Bergen Belsen, Chelmo … sono morti milioni di ebrei, quindi non un popolo qualsiasi, ma persone appartenenti ad un gruppo sociale ben definito (almeno nell’ideologia nazista), universalmente noto per il proprio personalissimo rapporto con Dio. I nazisti hanno cercato di elimina re dalla faccia della terra Israele, il popolo eletto di JHWH, il popolo della Bibbia. La Shoah va considerata inevitabilmente anche un fatto religioso. Riguarda la fede. Anzi, possiamo dire che mette in discussione la fede, costringe a ripensare la fede religiosa, il legame tra Dio e la creazione, lo stesso Dio. Durante lo sterminio, infatti, il potente Dio d’Israele non è intervenuto, non ha fatto sentire la propria voce, non ha dispiegato la sua mano forte sui nemici del popolo, li ha anzi lasciati liberi di agire impunemente. Perché? Dov’era Dio ad Auschwitz?28

La messa al centro del conseguente dibattito «religioso», circa la natura di Dio, chiama in causa ciascuno di noi, nessuno può sentirsi esentato dal prendere parte allo stesso dibattito, di partecipare alla discussione umana inerente al rapporto tra Dio, il Creatore, e l’umanità, la creatura. Proprio per ché riguarda ciascuno di noi, proprio perché ha a che fare con la natura stessa di cui tutti noi siamo fatti, nessuno escluso, il silenzio è da evitare, pur nella più certa consapevolezza che la natura di non testimoni diretti né di membri della medesima comunità perseguitata conserva il concreto rischio della banalizzazione, della mera teoria, del balbettio circa le questioni massime che tale eventum implica. Proprio per questo motivo, forse, è preferibile cercare di parlare di Auschwitz, della Shoah, cerca re di capire cosa sia successo, andare alla ricerca di un «perché» che magari non chiarirà tutto ma sicuramente è del tutto umano cercare. Anche perché solo ricollocando la Shoah entro il dominio del la storia si potrà evitare di banalizzarla o di mitizzarla. In questo, bisogna attenersi all’atteggiamento consigliato da Galasso:

Storico: cioè, non dato una volta per tutte, non immobile nella sua struttura e nelle sue condizioni, e quindi sottoposto a un mutamento perenne a una modificazione continua, a un movimento inarrestabile; storico appare ed è tutto quel che l’uomo conosce del mondo, dell’universo in cui si ritrova.29

Interrogare il passato attraverso le domande che sorgono nel presente consente anche di non irrigidire la comprensione del passato entro forme prestabilite. Allo stesso modo, però, la dinamica diacronica impedisce al tempo stesso di scorgere una finalità certa nell’evoluzione storica. Pertanto, ci appare tanto lontano il tentativo compiuto da Spengler di prevedere il futuro corso degli eventi storici.30 Al riguardo, infatti, nessuna prognosi storica è davvero possibile. Solo lo sporgersi all’indietro consente di ravviare alcune ragioni capaci di offrire una comprensione, anche solo parziale, degli eventi passati. Da questo punto di vista, infatti, s’interpreta nella maniera migliore il compito dello storico. Fare storia significa sempre e comunque interpretare il passato.31 La deontologia della ricerca storica, pertanto, esige che si rispetti il vincolo tra verità e certezza, nonostante le ovvie difficoltà che l’argomento Shoah inevitabilmente comporta. Da questo punto di vista, peraltro, non sembra che l’epistemologia storica dica qualcosa di diverso dall’epistemologia generale: non si danno certezza priva di verità e una verità non certa.32 Per quanto, ovviamente, quello del fondamento delle conoscenze resti un problema costitutivamente aperto e di difficile, se non impossibile, soluzione.

4. Il concetto di Dio «dopo Auschwitz»

Insistere sul silenzio della parola davanti ad Auschwitz è un modo per sottolinearne l’enormità, la profonda dissimmetria tra linguaggio ordinario e evento unico nel suo genere durante il corso seco lare della storia. La difficoltà nel trovare parole adeguate, formule comprensibili, mediazioni esatte consiste, in ultima istanza, nella difficoltà anche solo a pensare qualcosa come Auschwitz, a rintracciarne un senso. Stare davanti ad Auschwitz è, in altri termini, il provare l’impotenza del linguaggio, come scarto tra un «prima» e un «dopo» Auschwitz, come un solco improvviso nella continuità storica.33 In breve: il

linguaggio applicato alla Shoah non è adeguato, perché ciò che è accaduto eccede e nega ogni possibilità di comunicazione; non ha più alcun significato, poiché non può essere inserito in un ordine di senso; non è credibile, dal momento che è in-credibile quello che è successo.34

Auschwitz è per la cultura ebraica certamente il novum che interrompe la sequela storica, instaurando un regime, di senso, di pensiero, di linguaggio, profondamente diverso dal precedente. La Shoah interpella direttamente la coscienza ebraica: che fine hanno fatto le promesse di Dio? Come asserisce Küng:

Vengono qui in luce i seguenti elementi fondamentali della fede israelitica: l’iniziativa è di Dio, con il quale l’uomo non è né diventa una cosa sola, ma deve agire «davanti» a lui e sottometterglisi «totalmente» […] Ma tra il Dio potente e l’uomo eletto viene stabilita da Dio un’alleanza eterna, cioè un rapporto di reciprocità tra Dio e l’uomo che deve essere suggellato dal segno dell’alleanza, dalla circoncisione. La duplice promessa, connessa all’alleanza, fatta alla discendenza di Abramo: essi formeranno un grande popolo, che sarà il popolo di Dio: ad essi verrà data in eredità la terra promessa, il paese di Canaan.35

Una promessa che consiste in una reciprocità tra Dio e l’umanità, e che prevede la pubblicità del l’elezione nel popolo ebraico e l’assicurazione della posterità nella forma di un popolo e di una terra,36 una promessa rinnovata con Isacco,37 Giacobbe,38 Mosè.39 Di questa sfida si fa carico la teologia ebraica posteriore alla Shoah con un ventaglio di opzioni che, grosso modo, è possibile riassumere sinteticamente in tre posizioni diverse:

  1. la teologia indifferente alla novità costituita dalla Shoah;
  2. la teologia che persegue a pensare Dio come veniva fatto prima della tremenda esperienza del la Shoah;
  3. la teologia che pensa Dio tenendo conto della modifica dell’Alleanza a seguito dei luttuosi eventi della Shoah.

La posizione (a) raggruppa tutte quelle personalità le quali non ritengono affatto che la Shoah interrompa la storia di Israele, richiedendone così categorie, concettuali, di pensiero e di linguaggio, diverse da quelle usuali. La posizione (b) raggruppa quelle poche personalità, in primis quella di Buber, le quali non vedo no la novità di Auschwitz e perseguono a parlare e a pensare Dio secondo le normali coordinate del la secolare cultura ebraica. Infine, la posizione (c) raggruppa quelle personalità le quali ritengono che la Shoah interrompa la storia di Israele, provocando la necessaria, oltre che dolorosa, ricerca di nuove categorie, concettuali, linguistiche, teologiche, che rendano possibile salvare l’identità ebraica e consegnarla al futuro. La differenziazione nelle varie posizioni (a) — (c), seppure possa certamente apparire parziale e semplicistica, rende conto della mancanza di univocità tra le varie voci ebraiche.

Il fronte, d’altra parte, non è affatto monolitico e semmai rende conto esclusivamente di una sottodivisione ancor più radicale tra:

  1. la teologia ebraica che pensa Dio nel solco della tradizione, attingendo alla sua storia anche per fare i conti con l’evento Shoah; e,
  2. la teologia ebraica che pensa Dio secondo opzioni ermeneutiche innovative, recuperando, però, alcune categorie appartenenti alla tradizionale cultura ebraica, ma decisamente eterodosse (come lo chassidismo o la metafisica luriana).

Forse, la distinzione tra le prime tre posizioni è funzionale a cogliere la differenza più radicale tra i due modi 1. e 2. di fare teologia ebraica oggi, dopo la terribile esperienza della Shoah che pone domande radicali al credente in Dio.40 Ciò, infatti, richiede che lo stesso ponga in discussione i presupposti, così come i fondamenti medesimi, della sua fede. Il dibattito teologico ebraico, pertanto, si concentra sull’opportunità, o meno, di accogliere opzioni ermeneutiche nuove all’interno del corpus culturale tradizionalmente accettato e riconosciuto come valido.

Il «danno» della persecuzione nazista è stato di aver intaccato la profonda fiducia che l’uomo ebreo nutre nei confronti della Divinità che gli ha promesso, da tempo immemorabile, di essere al suo fianco, di camminare insieme a lui, di garantirgli la sua protezione. Certo questa è una condizione comune nella sfera religiosa occidentale, la presenza di Dio nel quotidiano,41 ma ancora più pro fonda appare nella mentalità ebraica. Motivo questo del profondo ripensamento teologico contemporaneo. Di tale dibattito costituiscono sintesi egregie sia il volume della Dal Maso sia la breve introduzione a profili biografici di Giuliani. Entrambi introducono, infatti, il lettore italiano alle tematiche in questione.

Sulla modalità (i), seguiremo tanto Dal Maso quanto Giuliani mentre, ad esemplificazione della modalità (ii), prenderemo in considerazione più da vicino la speculazione di Jonas che è quella che più lucidamente affronta temerariamente il discorso della presenza del male in Dio, e che, dunque, consente di spiegare in termini nuovi il sorgere del male nel mondo e come mai sia stata possibile la Shoah stessa.

La studiosa afferma come la Shoah costituisca un tornante importante, ed ineludibile, della coscienza umana, non solamente ebrea, intorno ad alcune delle questioni ultime, come il significato del «male» nell’esperienza personale e l’esistenza di Dio. Infatti,

Il male, il dolore, la sofferenza toccano le sfere più profonde dell’animo umano, costringono a porsi domande sul senso dell’esistenza, chiamano in causa le credenze più radicate […] ci sono eventi che chiamano in causa direttamente Dio. Auschwitz è uno di essi. Nei campi della morte, infatti, Dio ha taciuto, non è intervenuto, non si è fatto sentire. O almeno, non lo ha fatto in modo eclatante e-o chiaramente visibile. . .42

L’esperienza di «abbandono» di moltissimi ebrei, reclusi nei campi della morte, della famigerata «Soluzione finale» (del problema ebraico),43 sbeffeggiati, torturati, offesi, recita la medesima pesante litania sull’assenza di Dio, sul tradimento della promessa fatta sul Sinai, a più riprese riconfermata nel corso della storia. Dov’era Dio ad Auschwitz? Perché s’è nascosto? Perché ha taciuto? La natura e la portata di questa stessa esperienza pone in questione alcune verità secolari sull’umano, sulla sua natura, sulla sua sofferenza e sul suo rapporto con Dio. Per questo motivo,

è possibile e legittimo proporre una teologia dopo Auschwitz, ossia chiedersi cosa possiamo dire di Dio dopo quell’evento. Ma possiamo «ragionare» su di Lui (ammesso che sia possibile) secondo le tradizionali categorie teologiche?44

Questo appare, allora, il nodo del problema della teologia ebraica post eventum, dopo la ferita della Shoah: cosa resta della fede nel Dio di Israele? Nel Dio dell’Esodo? Nel Dio di Isaia? Del Dio dell’Alleanza? E tale rapporto lo si può ancora tematizzare secondo le categorie canoniche? Il fatto stesso che i nazisti si siano accaniti non su un popolo qualunque, ma su quello eletto per eccellenza, fa assumere alla questione dei contorni ancor più radicali. Come scrive, infatti, la Dal Maso:

La benedizione accordata da JHWH ad Abramo si è trasformata in maledizione, la vita promessa in morte, la numerosa discendenza in sterminio di massa, la circoncisione, simbolo di appartenenza etnica e religiosa, in mezzo per smascherare l’ebreo ed ucciderlo.45

Proprio questa cura maniacale nel cercare ovunque l’ebreo ed annientarlo in quanto ebreo connota la persecuzione nazista nei termini di un sinistro progetto di anti-creazione, di umana sostituzione della razza ariana in luogo di quella israelitica eletta da Dio. Una ragione in più per incrinare la se colare fiducia nella teologia tradizionale, ma anche nei confronti della teodicea classica. Com’è possibile infatti conciliare questi nuovi eventi con l’insieme consolidato di credenze? In breve, vengono meno gli orizzonti di senso che in genere si associavano alle precedenti possibilità, comunicative ed ermeneutiche, del linguaggio umano. Come sostiene ancora Dal Maso:

La dissoluzione delle possibilità semantiche del linguaggio, dunque, si estende anche alle capacità in terpretative del pensiero umano. Il teologo non può ricorrere ai consueti modelli ermeneutici, poiché essi si rivelano inaccettabili e troppo fragili innanzi alla portata deflagrante dell’evento-Shoah.46

Se la teodicea interpretava tradizionalmente il male, o la sofferenza, come funzione di un maggior bene per le vittime, davanti ad Auschwitz non è più possibile pensarla in questi termini, immediatamente questa stessa possibilità interpretativa dilegua, scolorisce, svanisce.

Sempre la teodicea classica considerava i mali come punizioni divine ai comportamenti umani. Ma anche tale opzione ermeneutica perde di senso, oltre che di mordente, quando si osserva che è arduo anche solo immaginare la colpa di sei milioni di ebrei la quale, proprio per trovare giustificazione, deve chinare il capo al principio di proporzionalità: a tanta colpa, tanta pena. E tuttavia scorrendo la storia umana, non emerge una colpa tanto grave da giustificare una simile sanzione, una punizione tanto tremenda e incommensurabile in termini umani. Ecco allora come emerga, pertanto, con forza, e dovizia di casi, la crisi della teodicea, divenuta col tempo incapace di render conto davvero delle concrete sofferenze umane. Secondo Dal Maso ciò deriva non tanto da una sua incapacità, ma dal rischio, sempre risorgente, di arroccarsi entro i dorati confini della torre d’avorio, distanti dalla vita, e dalla storia. Infatti,

non Dio ha fallito ad Auschwitz, ma la fiducia in una religione chiusa in se stessa e incapace di confrontarsi con la realtà. Auschwitz non ha prodotto «rivoluzioni» all’interno dell’ebraismo: nei campi di sterminio, i credenti sono rimasti tali, i non credenti hanno visto confermato il loro ateismo; tuttavia, esso ha evidenziato in molti ebrei il bisogno di interrogarsi sulla propria identità sociale e religiosa, facendo emergere la necessità di riscoprire una dimensione spirituale nuova, magari problematica e non priva di dubbi, ma autenticamente ed intellettualmente onesta. La consapevolezza del fallimento della teodicea, si traduce dunque in una coraggiosa critica rivolta alla religione tradizionale.47

D’altra parte, siamo troppo spesso abituati a considerare simili prese di posizione in termini atei, dimenticando, però, come proprio la storia ebraica mostri precedenti illustri, in primo luogo Giobbe.

La coscienza ebrea, infatti, ha sempre fatto i conti con Dio, ossia con l’altra parte del rapporto teandrico, ritualizzato ed esteriorizzato dalla fede. Giacobbe stesso lottò personalmente con Dio, ricevendone da un lato la conferma dell’Alleanza e dall’altro lato una ferita che lo rese claudicante. Ma è con Giobbe che la «protesta» umana sale sino a Dio. Egli osa elevare voci contro il proprio Dio per le sofferenze ingiuste che egli subisce, la perdita della famiglia, la perdita di ogni bene terreno, la perdita della salute fisica. Nello smarrimento in cui si trova, al cospetto della feroce esperienza personale dell’abbandono da parte di Dio, cosa dovrebbe fare Giobbe? Prestar fede agli ami ci, e riconoscere così una colpa che non ha? Prestar fede alla moglie e perdere la fede? La coerenza gli appare l’unica strada percorribile, ma quest’ultima è possibile ad un’unica condizione: chiedere conto a Dio del male nel mondo. La Shoah ha, così, ispirato una parte dei teologi ebrei a rileggere le verità di fede dell’ebraismo alla luce dei nuovi signa temporum, al cospetto della vicenda ineludibile di Auschwitz. Come ricorda Dal Maso:

Il Dio biblico, inoltre, è un Dio personale, vivo, coinvolto nella sua creazione, desideroso di intervenire nella vita dell’uomo. È un Dio d’amore che si propone all’uomo secondo varie modalità: signore, amico, sposo, padre, giudice, promessa. Il pensiero umano gli ha assegnato attributi irrinunciabili: Egli è buono, giusto, onnipotente, unico. Non è il motore immobile dei filosofi, non è un Dio lontano ed in differente, che si è limitato a dare il primo input, per poi rifugiarsi in un olimpo immoto ed irraggiungibile. La storia che ha voluto, è anche la sua storia, quindi è una storia sacra, che costruisce assieme al suo popolo, attraverso la sua voce; il male umano, la sofferenza del creato lo toccano da vicino; quando l’uomo piange, lo fa anche Dio. E tuttavia, nonostante il profondo coinvolgimento di Dio nella sua creazione, Egli rimane irraggiungibile, eternamente «al di là», misterioso, enigmatico.48

La natura del rapporto tra Dio e l’umanità è complessa ed ostica da comprendere: da un lato Egli prende parte alla storia umana, non solo perché, con la Creazione, le ha dato inizio, ma anche per ché a più riprese interviene nelle vicende del Mondo, modificandone il corso, i dettagli, i particolari, i percorsi esistenziali di singoli uomini, e dall’altro lato, comunque, resta separato dall’umanità, dal la sua storia, dalle sue vicissitudini.

Il rapporto teandrico, specie nella coscienza ebraica, vive di quest’ambiguità di fondo, il mondo è fatto per Dio, ma Gli resta sostanzialmente estraneo; Dio ama le sue creature, ma le lascia esistere. Il credente presta sincero assenso a quanto legge nella Bibbia:

Dio si è sottomesso volontariamente all’alleanza con Israele, promettendo e chiedendo eterna fedeltà. Tuttavia, mentre la lealtà di Dio resta salda in ogni occasione, quella umana spesso viene a mancare, abdica al patto in nome di idoli falsi e passeggeri, sprofondando nel peccato.49

Ma la fede è, e resta, sempre un rischio, è sempre in pericolo, poggiante com’è su alcuni presupposti a dir poco enigmatici. Ad esempio, come sostiene a seguire Monica Dal Maso:

Il Signore ha promesso prosperità e felicità all’alleato, una discendenza numerosa, una terra da abitare … Da dove ha origine, allora, il dolore?50

Il problema della fede giudaica è così doloroso perché in qualche modo mette in discussione la natura stessa del Patto, la fedeltà stessa all’Alleanza, la sicurezza nella reciprocità dei contraenti. Infatti,

Auschwitz ha messo in discussione la validità dell’alleanza divina e, di conseguenza, anche la fondatezza della fede. Il Dio del patto, che ha promesso di proteggere il suo popolo e di assicurargli una discendenza numerosa, non è intervenuto.51

Dio non ha soccorso Israele nel momento del bisogno, non ha mostrato fedeltà al Patto, non ha onorato l’Alleanza, proprio nel momento in cui il Suo popolo soffriva a causa della sua fedeltà ebraica. Pertanto, diviene ragionevole porsi il problema di Dio dopo la Shoah, ha senso porsi in senso teologico il problema di un Dio postosi nell’ombra della storia, come ritiratosi dal mondo umano, oltremodo silenzioso ed ancor più enigmatico nel suo aver distolto lo sguardo dai destini umani. Come asserisce ancora Monica Dal Maso «Si può ancora credere in Dio malgrado Auschwitz? ».52

La tentazione dell’ateismo è facile, e in molti l’hanno scelta come valida alternativa agli angoscianti quesiti teologici posti dalla Shoah. Ma, forse, la ricerca ebraica al riguardo è più sottile, e meno banalmente ateistica.

La Shoah ha solo confermato attese, ed opzioni, già esistenti, il credente ha creduto nel valore della prova suprema alla quale è stato chiamato e l’ateo ha trovato conferme alla sua negazione di Dio. Il porsi la questione teologica dopo la Shoah vuol dire, molto più problematicamente, vedere se le fonti stesse della fede in Dio, ossia la Bibbia, offra strumenti per inquadrare l’eventum in questione all’interno della canonica rete di significati teologici. Vero che la Shoah sia un unicum nella storia del popolo ebreo, pur avvezzo a persecuzioni di varia misura e gravità, ma nella sua tradizione esistono esempi di prove altrettanto ardite, pur nella singolarità dei personaggi investiti.

Il credente ebreo non rifiuta semplicemente Dio dopo la Shoah, ma è spinto a trovare nuova linfa alla propria fede, a cercare nuove conferme alle ragioni del cuore, capaci di contrastare la brutale e tremenda esperienza personale che si sta vivendo. In altri termini, ascoltare nuovamente le parole di Dio dopo un periodo, più o meno lungo, di silenzio, sentire la vicinanza di Dio nuovamente dopo un periodo, più o meno esteso, di abbandono. Ecco la questione della fede ebraica che cerca di interpretare teologicamente la Shoah nel solco della storia millenaria del popolo eletto. In questo modo, la teologia ebraica, ma in senso ancor più pregnante l’intera cultura ebrea, fa i conti sino in fondo con la sciagura, storica, umana, culturale, religiosa, psicologica, della Shoah, in un confronto serrato, arduo e doloroso. Qui torna in gioco la figura di Giobbe. Come l’antico padre biblico, anche l’ebreo moderno, colpito direttamente nella sua identità e nella sua fede, chiede conto a Dio, alza la voce verso il suo partner divino affinché soddisfi le sue richieste, non per negarne natura, finalità, fedeltà, onnipotenza, bontà, ma per riceverne forza nuova, conferme inattese, vicinanza rinnovata. Pur, ovviamente, nella certezza che il problema del male resterà per sempre un enigma, un mistero, e che le domande al riguardo resteranno sempre senza una risposta adeguata, come peraltro accadde da sempre nella storia umana. Auschwitz arricchisce in termini di problematicità la fede in Dio, non la fa perdere, se davvero la si possiede, ma la rinnova in termini nuovi, più profondi, ancor più autentici. Come aggiunge Dal Maso:

La fede ebraica, dopo Auschwitz, non può che essere accolta nel suo aspetto più drammatico e contraddittorio, dal momento che pone come punto di riferimento quel Dio che viene messo sotto accusa dal credente. È una fede aporetica, che non nega la speranza, ma è consapevole che si tratta pur sempre di una speranza disperata, priva di illusioni, vincolata all’enigmaticità dell’incontro-scontro con Dio.53

E non è forse questo quel che fanno gli amanti? Litigano per riappacificarsi, si cercano senza trovarsi, e si trovano proprio quando cessano di cercarsi. Da questo punto di vista la figura di Giobbe, che si staglia su tutte le vicende dell’esilio israeliti co, prima e dopo la Shoah, è doppiamente emblematica:

  1. Giobbe è simbolo di una fede dialettica che chiede conto a Dio ma non diventa mai negazione di Dio;
  2. Giobbe consente di interpretare il malum mundi sia nel tempo passato che nel tempo presente dato che la sua esperienza personale si presta anche alle opzioni ermeneutiche attuali.

La Shoah non pone, dunque, definitivamente in discussione la fede in quanto tale, ma solamente la fede poco convinta, la fede ingenua, la fede che non sa reggersi nel confronto, nel dialogo, nel di battito, e che appare inevitabilmente incapace di reggere il duro urto con la realtà materiale. Infatti, aggiunge Dal Maso:

Ciò non significa che gli ebrei debbano abbandonare la fiducia in Dio e nel patto. Anzi […] è necessario rifondare l’alleanza a partire dall’uomo. A causa del silenzio mantenuto nei campi di sterminio, JHWH ha perso i suoi diritti di «partner anziano», trasferitisi ora all’umanità. Se Dio tace, l’iniziativa passa all’ebreo, cui tocca l’onere di portare il maggior peso dell’alleanza.54

Tuttavia questa posizione resta minoritaria all’interno del campo ebraico, cedendo il passo a posizioni certo più radicali ma anche più sentite. Infatti, se da un lato la tremenda esperienza della Shoah invita a riflettere sulla natura della propria fede in Dio, dall’altro sconforta circa le reali possibilità di una ripresa del dialogo tra Dio e l’uomo. Infatti,

Auschwitz, evento epocale, è dunque la manifestazione più drammatica del travaglio vissuto dalla fede ebraica che, da una parte, non può smettere di avere fiducia nell’attiva presenza di Dio nella storia umana, dall’altra, deve fare i conti con il Suo mancato intervento nei campi di sterminio. La Shoah ha bruscamente interrotto l’incontro millenario e colloquiale tra Dio e l’uomo, e costringe a dubitare sulle effettive possibilità umane di elevarsi con la ragione al di sopra dell’esistenza terrena, per tentare di comprendere i complessi meccanismi dell’agire divino.55

Quale risposta dare allora alle tensioni intime alla fede che la Shoah comporta? La tentazione è di abbinare l’incapacità tutta umana di poter parlare di quanto accaduto con il silenzio di Dio davanti allo sterminio del Suo popolo, lo stesso che proprio Lui aveva elevato. Per Fackenheim l’unica risposta possibile è il tiqqun ha’olam, ossia la riparazione del mondo. Detto in breve, preso atto del silenzio di Dio, l’uomo deve tacere con Dio e procedere, tramite l’azione attiva, a interventi di aggiustamento del corso delle cose. Infatti,

La fine della diaspora (galut) è l’unica legittima risposta (teshuvah) alla Shoah; il popolo ebraico scampato dallo sterminio ha scelto di resistere alla più grande tragedia della sua storia, ha deciso di continuare a vivere, di mettere al mondo bambini ebrei, impedendo così la realizzazione del sogno-in cubo di Hitler, che aveva mandato a morire fanciulli innocenti per togliere all’ebraismo ogni speranza di sopravvivenza.56

L’opera di ricostruzione del mondo avrebbe, secondo Fackenheim, anche la precisa finalità di rifondare uno Stato di Israele che possa costituire un baluardo futuro contro qualsiasi nuova tentazione di liquidare gli ebrei del mondo. In realtà, il concetto del Tiqqun, viene ripreso da quel formidabile serbatoio di cognizioni e di sa pere spirituale che è la Qabbalà. Infatti, si parla di riparazione spirituale del mondo solo se si intende la Creazione come «rottura dei vasi»,57 rendendo, pertanto, necessario recuperare «i frammenti dei kelim in tutto l’universo»,58 ripristinando alla fine la «Sacra unità».59 Un’idea ripresa da Luria per il quale, infatti, bisogna riparare la «macchia provocata da quella rottura».60

A questi tentavi, più o meno moderati, di rispondere alle sollecitazioni indotte dalla Shoah, la coscienza ebraica ha anche risposto in maniera radicale, soprattutto nella forma dell’ateismo, ma anche in quella della cosiddetta colpevolezza di Dio. Come riporta Dal Maso:

Pur non giungendo a considerare Dio l’artefice del male e della sofferenza che troppo spesso colpisco no l’umanità, secondo Eckardt Dio va ritenuto il maggior imputato della loro esistenza […] di fronte ad Auschwitz, è necessario chiamare in causa Dio, chiedergli di giustificare se stesso e il proprio operato.61

Viene così ripreso in considerazione Giobbe per rilevare come innanzi alle sue proteste, Dio non risponda affatto. Come riprende Dal Maso: «Giobbe non ha la pretesa di emettere sentenze: ha solo domande, non riesce a trovare delle risposte».62 Da questa prospettiva, allora, il silenzio di Dio invita i credenti a chiedere conto direttamente a Lui del Suo operato. Ma questa prospettiva, avverte giustamente Dal Maso, rischia di

capovolgere i tradizionali ruoli affidati al Creatore e alla creatura, di distruggere l’equilibrio che essi hanno stabilito fin dall’inizio dei tempi, di soggiacere alla tentazione del serpente di biblica memoria, che suggeriva all’uomo la possibilità di essere sicut Deus.63

La tentazione sussiste, e si lega anche alla testimonianza delle vittime, al loro sdegno, anche alla loro rabbia. Ma ciò rischia di equivocare sui ruoli dei due partner del rapporto teandrico. L’uomo non ha il potere di giudicare Dio né tanto meno di penetrarne le intime motivazioni in considerazione degli eventi terribili accaduti al Suo popolo eletto. Allora, una strategia alternativa è consistita nel battere sentieri teologici alternativi a quelli riconosciuti, abilitando opzioni teologiche sinora considerate eretiche. È il caso dello chassidismo, inteso come ultima propaggine del misticismo ebraico, storicamente concorrente del cosiddetto razionalismo ebraico di fine XIX secolo,64 ma soprattutto della metafisica luriana, che consentono di considerare l’azione di Dio come un’opera di autolimitazione divina per favorire la vita autonoma delle creature. In questo modo, infatti, Dio non sarebbe artefice diretto del male del mondo, la cui responsabilità sarebbe esclusivamente d’origine umana. Così, Dio si nasconde perché si autolimita. Senza questo atto di autolimitazione divina non esisterebbe il mondo. In altri termini, «Dio si è ritratto; limitando la sua essenza infinita, ha creato un «vuoto» riempito poi con le cose create».65 Ciò significa che il mondo costituisce una realtà a sé stante, con sue regole e una sua possibile evoluzione. Ma anche che la sua legge intima è la finitezza, ossia la limitatezza, e, quindi, la possibilità stessa del male, del dolore, della sofferenza, della malattia, della morte. Questa opzione teologica consente di spiegare in parte il comportamento di Dio durante la Shoah:

Il Dio che si nasconde inoltre non cessa di essere il Dio che redime; Egli volge il suo sguardo non per indifferenza o crudeltà, ma per consentire all’uomo di essere autenticamente libero […] il male, come in Cohen, è frutto della libertà umana.66

Il punto focale della discussione teologica ebraica è la libertas dell’essere umano, la responsabilità delle sue scelte e azioni. Dio ha creato l’uomo libero e non viene meno a questo suo atto origina rio, lasciandolo libero, anche a costo che, proprio a causa delle sue incaute scelte e azioni, l’uomo arrechi danno, offesa, ad altri. Infatti, aggiunge ancora Dal Maso:

è piuttosto l’umanità a non aver capito che il male dipende esclusivamente dalle proprie capacità auto decisionali, a non aver saputo mettere in pratica in modo retto il dono della libertà. Come Auschwitz ha ampiamente dimostrato.67

Se l’uomo è comunque responsabile della sua libertà, allora

deve accettare il silenzio divino, il nascondimento del volto di Dio, considerandoli non come segni del la sua assenza, ma piuttosto come modalità diverse, più intime e discrete, meno eclatanti, di essere presente nella vita quotidiana.68

Forse, allora, come sostiene ancora Küng, il problema dopo Auschwitz non è di Dio, ma dell’uomo, e lo è nella misura in cui l’uomo non appare più in grado di ascoltarlo, di scorgerlo dietro le mille apparenze della vita quotidiana. Infatti,

è definitivamente crollata la fede della modernità in idoli come la ragione, il progresso, la cultura, la razza, la classe e — l’umanità, Dio — una proiezione dell’uomo?69

Per il teologo tedesco non è nemmeno proponibile una teologia dell’Olocausto, la Shoah non pone affatto un problema teologico in quanto non è Dio causa del male di Auschwitz, ma l’uomo stesso, l’essere umano al termine della parabola della modernitas, e dei suoi relativi idoli che hanno distolto l’attenzione della fede dal Suo oggetto designato verso oggetti mondani transitori. Alla dialettica modernitas — fede non si sottrae nemmeno l’ebraismo, così corroso durante il XX secolo dalle comuni tendenze secolarizzanti e da una sostanziale immanentizzazione di qualsiasi orizzonte umano. È, però, giunto il momento di discutere la posizione radicale di Jonas, che riprende temi ed echi presenti nella tendenza non canonica della mistica ebraica nei secoli precedenti, kabbalah e metafisica luriana in primo luogo. Secondo il noto filosofo tedesco, Auschwitz impone un problema teologico non eludibile, nono stante le inevitabili difficoltà che ciò possa comportare, ed effettivamente comporta.70 Evidentemente insoddisfatto dalle risposte che è possibile dare all’evento Auschwitz, Jonas si è assunto l’improbo compito di tentare di dare una risposta soddisfacente alla questione, presentando un «frammento di teologia speculativa»,71 un canovaccio di idee a partire dalle quali re — interpretare la natura di Dio che, nel corso della Shoah, e per suo inesplicabile mezzo, ha mostrato aspetti prima nascosti della sua divinità. Come asserisce Dal Maso:

Con la consapevolezza che i risultati di una tale ricerca potrebbero rivelarsi sorprendenti, Jonas è anche perfettamente conscio che si tratta semplicemente di un tentativo, una proposta, un balbettio, e non ha alcuna pretesa di giungere alla verità assoluta.72

Dopo la parentesi moderna della secolarizzazione, è bene tornare a pensare Dio. A partire da questo presupposto, cosa offre di nuovo l’esperienza storica? Jonas stesso si chiede:

che cosa ha aggiunto Auschwitz a ciò che da sempre siamo in grado di sapere sulle proporzioni delle cose spaventose e terribili che gli uomini sono capaci di commettere verso i loro simili?73

Auschwitz riapre il discorso sulla responsabilità umana, sui confini incerti e gravi della libertà delle creature, e scoperchia ancora una volta il vaso di Pandora: come mai il male nel mondo? Jonas riesuma, dunque, anche la figura ebraica paradigmatica di qualsiasi discorso di teodicea, ossia Giobbe. Tuttavia il filosofo tedesco scorge una differenza importante tra i tempi biblici e quelli più vicini a noi: mentre in precedenza era possibile spiegare la genesi del male con l’infedeltà del popolo di Dio, ora ciò non è più possibile perché un male così enorme, così impensabile, così gratuito, come la Shoah, non è spiegabile con il riferimento a colpe commesse dal popolo ebreo. Infatti, nei «lunghi secoli di fedeltà che seguirono, nessuna colpa poteva essere invocata per giustificare il dolore».74

La scomparsa della biblica corrispondenza tra colpa e pena, anche temporale, che in precedenza retribuiva con giustizia ogni erranza rispetto al Patto, pone un problema rilevante: come giustificare con giustizia, o in riferimento alla giustizia divina, tanto male? Se gli ebrei non hanno più adorato idoli né falsi dei, come mai Dio ha reso possibile che tanta gratuita sofferenza si abbattesse su di loro? L’alternativa offerta dagli amici di Giobbe viene ancora una volta rifiutata: gli ebrei non hanno commesso peccati tali da violare il vincolo della fedeltà all’Alleanza. Allora, perché la Shoah? Come mai Auschwitz? Secondo Jonas, proprio l’enormità dell’evento Auschwitz scalza qualsiasi precedente parametro di misura, fa impallidire qualsiasi categoria di senso con la quale si potrebbe tentare di illuminare la triste vicenda secolare degli ebrei avviati allo sterminio. Infatti,

Nulla di tutto ciò può essere di una qualche utilità per comprendere l’evento che ha nome Auschwitz. Non vi è più posto per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza, e neppure per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione.75

Auschwitz riscrive la tavola dei valori umani. E, dunque, fornisce nuovi spunti per pensare a Dio. Infatti, «quale Dio poteva permetterlo? ».76 Secondo Jonas è doveroso adesso «cercare una nuova risposta all’antico interrogativo di Giobbe».77 Per farlo, però, è bene compiere un discorso temerario su Dio e sul suo Progetto creati vo. In questa sede, Jonas ricorre ad un mito che, pur non avendo la pretesa di descrivere esattamente cosa accadde, allude alle movenze divine agli inizi dei tempi. Il filosofo tedesco ricorre a idee eterodosse in teologia ebraica, considerando l’atto creativo di Dio un atto di auto — riduzione divina, liberamente scelto e voluto. La Creazione, cioè, ha origine da una sorta di auto — limitazione di Dio il Quale si comprime per fare spazio alla Creazione. In questo originario atto di compressione, Jonas scorge la genesi della creazione, ma anche della libertà. Croce e delizia della creazione sono la morte, come limite temporale alla libera espansione delle creature, e amore, come limite spaziale alla libera espansione delle creature. Allora la condizione finita di ogni creatura è l’orizzonte stesso del male nel mondo. Dio, però, non è indifferente alla Sua stessa creazione, ma vi partecipa pur rispettando l’originario desiderio di creare libere le creature. Per questo motivo, Jonas parla di un «Dio sofferente».78 Infatti,

non incontriamo forse nella Bibbia ebraica un Dio che si sente ignorato e misconosciuto dall’uomo e che di ciò si rattrista?79

Ma la Sua sofferenza in qualche modo getta luce su un altro aspetto della divinità. Per Jonas, in fatti, Egli è anche «un Dio diveniente»80 nel senso che è «un Dio che si cala nel tempo, anziché possedere un’essenza perfetta destinata a restare identica a se stessa nell’eternità».81 Dio diviene perché non resta separato dalla Sua creazione, ma, al contrario, «viene toccato da ciò che accade nel mondo».82 Il «tocco» del mondo implica che la relazione con quest’ultimo, in qualche modo, alteri la natura propria di Dio, Che, dunque, è sottoposto ad una sorta di divenire storico. Infatti, se

Dio quindi è in una qualche relazione con il mondo […] ciò significa che l’Eterno si è «temporalizzato» e che muta progressivamente attraverso le realizzazioni del processo cosmico.83

Ora, se Dio è sofferente e diviene, allora si tratta, a tutti gli effetti, di «un Dio che si prende cura»,84 una divinità, cioè, vicina alla sua genesi di tutte le cose, è un Dio «che non è lontano e di stante e chiuso in se stesso, ma coinvolto in ciò di cui si preoccupa».85 Un Dio siffatto rischia in proprio nella relazione con la Sua creazione finita. Il mondo non è perfetto e questa sua condizione, sia pure involontariamente, la fa scontare al suo Creatore, al contrario, di natura perfetta.

La paradossalità del rapporto teandrico, alla base di qualsiasi religione positiva, è tutta qui nella sproporzione del rapporto tra due nature diversissime eppure congiunte nello stesso destino, nella tensione/sintesi di infinito e di finito. Ma è, giunti a questo punto, che sorgono i rilievi più ostici a questa nuova caratterizzazione della divinità. Infatti, un Dio siffatto, sofferente, che si prende cura, che diviene, è ancora un Dio onnipotente? Per Jonas,

affermiamo a questo proposito, per legittimare la nostra immagine di Dio, di dover rinunciare alla dottrina tradizionale della assoluta, illimitata onnipotenza divina.86

A questo punto, dunque, le strade dell’ortodossia si separano dai passi di Jonas il quale, invece, preferisce arrischiarsi in un discorso temerario su Dio, sui suoi attributi, espungendone dal novero bimillenario quello relativo alla potenza. Per Jonas, Dio non è onnipotente. Al di là delle argomentazioni che presenta, di ordine logico e ontologico, quel che rileva in questa sede è l’argomentazione propriamente teologica e che è bene seguire puntualmente. Egli scrive come

La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non-comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. Di fronte all’esistenza nel mondo del male morale o anche solo del male meramente fisico, dovremmo sacrificare la comprensibilità di Dio alla coesistenza in lui degli altri due attributi. Solo di un Dio totalmente incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e cooriginariamente assolutamente onnipotente e che, nonostante ciò, sopporta il mondo così com’è. Più in generale, i tre attributi in questione — bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità — sono fra loro in rapporto tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo. Questo è allora il problema vero: quali sono i due concetti veramente irrinunciabili, fondamentali per il nostro concetto di Dio e quale è il terzo che deve essere escluso?87

Il problema che scaturisce da Auschwitz è se continuare a pensare Dio con le categorie, concettuali e teologiche, tradizionali. Infatti, quella esperienza mette a dura prova gli attributi che usualmente si attribuiscono a Dio, ossia

  1. bontà
  2. potenza
  3. comprensibilità.

Si tratta, cioè, di qualità che competono a Dio in misura assoluta dato che Dio è assoluto. Sono, allora, bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità assoluta. Si tratta, però, di proprietà incompatibili le une con le altre, al massimo solo due posso coesistere l’una accanto all’altra, ma una va proprio espunta, di una bisogna proprio fare a meno. A quale rinunciare? Il discorso jonasiano che segue è semplice quanto stringente:

Il concetto di un Dio totalmente nascosto è conseguentemente inammissibile per la fede ebraica. Ma certamente Dio dovrebbe essere incomprensibile se con la bontà assoluta gli venisse attribuita anche l’onnipotenza. Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile […] Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male. E poiché abbiamo concluso che il concetto di onnipotenza è in ogni caso un concetto in sé problematico, questo è l’attributo divino che deve venir abbandonato.88

Il ragionamento precedente verte sulla difficoltà di porre in relazione tre diversi, e canonici, attributi divini:

  1. l’onnipotenza;
  2. la bontà;
  3. la comprensibilità.

Partendo da questa relazione asimmetrica, Jonas conclude che se possiamo considerare Dio buono e comprensibile, per poter spiegare la presenza del malum mundi, dobbiamo, per forza, rinunciare al l’attributo (1): il male è nel mondo perché Dio non è affatto onnipotente. Nelle stringenti parole di Jonas:

di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature, fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, venga meno alla re gola che si è imposto di trattenere in sé la propria potenza e che intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto […] Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo. Per ragioni che in modo decisivo derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata […] ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo: un Dio che nell’urto con gli eventi mondani rivolti contro di lui, non ha reagito […] bensì continuando con muta perseveranza la realizzazione del suo fine incompiuto.89

Solo se impotente, Dio non può intervenire nella storia umana. Questa sembra essere la conclusione di Jonas, una tesi molto controversa che affonda nel retroterra non ufficiale della cultura ebraica, in quell’idea dello Tzimtzùm, apice della mistica luriana, che postula l’arretramento di Dio per fare posto alla Creazione e a partire dal quale mai e poi mai Dio potrà revocare il suo originario assenso. Come aggiunge, d’altra parte, lo stesso Jonas: «Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza».90 Nel suo atto originario di creazione della storia e dell’umanità, Dio si è ridotto, rinunciando per sempre alla sua potenza. In altre parole, ha scelto volontariamente di divenire impotente innanzi alla sua stessa Creazione. Infatti,

Solo con la creazione dal Nulla possiamo avere l’unicità del principio divino in uno con la sua autolimitazione, che dà spazio all’esistenza e all’autonomia di un mondo. La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta — una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso — un atto infine dell’autoalienazione divina.91

Jonas, per tematizzare il difficile discorso intorno alla giustizia divina, dopo la Shoah, non attinge più al repertorio teologico consolidato, ma ad opzioni decisamente eretiche secondo le quali nel momento stesso della Creazione, Dio si è contratto in sé stesso, liberando spazio alla finitezza. Come asserisce anche Turoldo:

La proposta teologica di Jonas si allontana dall’ortodossia ebraica ma, come Jonas stesso nota, trova un supporto nel potente flusso sotterraneo della Qabbalah, riscoperto nel Novecento da Gershom Scholem. In particolare, il mito di Jonas si richiama all’idea dello Tzimtzùm, che si trova al vertice del pensiero di Yitzchàq Luria e che intende la creazione come una sorta di contrazione da parte di Dio, per lasciare spazio alla sua creatura. Anzi, il mito di Jonas va persino oltre lo Tzimtzùm, costituendone, in qualche modo, una estremizzazione.92

L’opinione di Turoldo trova riscontro nelle parole stesse di Jonas il quale annota, in margine al suo discorso «temerario» sulla natura divina, come il «mito porta alle estreme conseguenze l’idea dello Tzimtzùm, concetto cosmogonico centrale nella Qabbalah luriana».93 La contrazione di Dio in sé stesso rende possibile l’esistenza di una realtà ulteriore ad Esso. Come aggiunge, infatti, sempre Jonas:

Senza questo ritrarsi in se stesso, nessuna realtà diversa sarebbe stata possibile al di fuori di Dio e solo un’ulteriore contrazione consente alle cose finite di restare in se stesse, di non perdere nuovamente l’essere che è loro proprio nel divenire «tutto in tutto».94

Sin qui l’opzione luriana,95 vertice speculativo della teologia ebraica marginale e non ufficiale, ma Jonas va anche oltre. Infatti, «Il mio mito va ben oltre questa concezione. La contrazione è totale; in quanto «l’intero» infinito si aliena nel finito, grazie al proprio potere».96 In qualche modo, e radicalmente, Jonas concepisce l’atto originario e creativo di Dio come ritrazione di Quest’ultimo dal mondo stesso, dalla medesima Creazione, lasciando che quest’ultimo possa evolvere e svilupparsi in maniera del tutto arbitraria, ossia libera ed indipendente, vincolandola esclusivamente al richiamo «morale» della responsabilità: prendersi cura di sé stesso. Ciò se da un lato rende conto della spiccata curvatura etica di molti autori d’origine ebraica dal l’altro fornisce una chiave di lettura universale non soltanto della Shoah, ma anche dell’intera sto ria umana costellata e caratterizzata dalla sofferenza, dal dolore, dal male, dall’ingiustizia banale ed arbitraria. Infatti,

Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare. E l’uomo può dare, se nei sentieri della vita si cura che non accada o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo.97

La chiave ermeneutica proposta da Jonas consente di rispondere in maniera nuova all’antica do manda di Giobbe, di sortire nuove interpretazioni circa la classica contesa del giusto con Dio. Nelle stesse parole di Jonas:

tale è anche ogni risposta alla domanda di Giobbe. La mia risposta tuttavia è diametralmente opposta a quella del libro omonimo della Bibbia. Mentre essa si richiama alla sua rinuncia alla pienezza di potenza del Dio creatore, la mia si richiama alla sua rinuncia alla potenza.98

E tuttavia, comunque,

l’una e l’altra intendono lodare e glorificare Dio: la rinuncia avvenne infatti acciocché noi potessimo essere. Anche questa, almeno così a me pare, è una risposta a Giobbe: il fatto che in lui Dio stesso soffre.99

Come detto in precedenza, la proposta teologica di Jonas, decisamente eretica nel contenuto, e problematica da un punto di vista squisitamente teologico, affonda le proprie radici in quel sottobosco teologico che è la Qabbalah ebraica.100 Così,

Jonas propone di pensare Dio dopo Auschwitz a partire dal mito della creazione del mondo secondo la qabbalah: per rendere possibile l’esistenza del mondo e dell’uomo, Dio ha alienato la propria infinità, si è contratto (Tzimtzùm), ripiegandosi su di sé, sprofondando nella parte più nascosta ed intima del proprio essere, per lasciare spazio alla creazione.101

Emerge, così, una nuova idea di Dio, nettamente diversa, e distante, da quella comunemente tra mandata e narrata nel Libro:

l’immagine di un Dio che rischia con l’uomo, che soffre con le sue creature, che prova forti sentimenti … pena, odio, rancore, pentimento, ira, amore … è un Dio che diviene insieme con l’uomo, si è temporalizzato, si prende cura, si preoccupa.102

L’idea di un «Dio debole» è molto ricorrente nelle prospettive teologiche del XX secolo, non esclusivamente quelle ebraiche, ma anche cristiane. Forse, molto in parte, ciò è anche dipeso dalla necessità di fare i conti con la sciagura della Shoah, ma soprattutto dalla progressiva erosione mora le e spirituale che nelle coscienze degli uomini occidentali ha operato la secolarizzazione, facendo mettere tra parentesi qualsiasi possibile assenso nei confronti delle narrazioni religiose, instillando non tanto il dubbio, quanto piuttosto l’incredulità, non tanto la negazione, quanto piuttosto il distacco. Ad ogni modo, il discorso di Jonas è puntuale e netto nella sue argomentazioni. Infatti,

Dio ha rinunciato alla propria onnipotenza nel momento in cui si è contratto per fare spazio alla creazione. Dio potrebbe essere onnipotente, fa parte della sua natura: ha scelto di non esserlo per permette re all’uomo di essere pienamente libero e responsabile della propria esistenza.103

Questo Dio così debole, così impotente davanti alla potenza immane della sua stessa creazione, lo rende, per così dire, certamente «più umano» dal momento che si tratta di «un Essere che condivide il destino delle vittime e soffre con loro»,104 è un «Dio in esilio, un rifugiato nel mondo, impotente ed abbandonato come tutti i profughi».105 Questo stesso Dio, così tratteggiato, «ha bisogno dell’uomo, cui tocca ormai la realizzazione del tiqqun, la restaurazione dell’unità originaria spezzata dalla «rottura dei vasi». L’uomo è pienamente responsabile della creazione».106

Da «alleato», perché a ciò scelto dall’alto, l’uomo diviene «compagno» delle sorti del mondo stesso, responsabile e chiamato in causa direttamente via la debolezza che Dio si è imposta liberamente. Questo Dio, pertanto, ha «affidato all’uomo l’incarico di compiere miracoli»,107 abdicato, una volta e per tutte, alla sua originaria potenza.

Cosa comporta, pertanto, la Shoah per la teologia ebraica? È ancora possibile fare teologia dopo Auschwitz? Secondo Turoldo viene meno la possibilità di una teodicea, ossia di un discorso sulla giustizia in grado di render conto del male nel mondo. Infatti,

Jonas sostiene che se il male esiste, allora Dio non può essere insieme buono, onnipotente e comprensibile. Per questo, egli sceglie di sacrificare l’attributo dell’onnipotenza, spinto anche dalla presunta contraddittorietà di questo concetto.108

Dopo Auschwitz bisogna «negare alla radice ogni possibile teodicea».109 Motivo in più per riconoscere come

il lascito teologico più importante di Jonas non sia tanto l’idea del Dio impotente, da più parti contestata, ma l’idea di un Dio che si affida totalmente all’uomo, rendendolo responsabile della sua creazione.110

La presente appare, così, più una «teologia della responsabilità»111 che una teologia della divinità depotenziata.

Questi riflessi, comunque, si riverberano anche sulla cultura non ebraica, come quella cristiana, ad esempio, elettivamente tanto legata alla prima, eppure anche così distante, così diversa. Come sostiene ancora Giuliani:

La Chiesa oggi non può fare teologia come se la Shoà non fosse stata […] è costretta a riconsiderare le antiche riflessioni sulla passione di Cristo alla luce della morte dei sei milioni di ebrei.112

Se così è, però, il piano semantico della questione Shoah si sposta dal cielo in terra, da Dio, e dal la sua presunta indifferenza, agli uomini.

È una questione di responsabilità che interpella direttamente la libertà umana, così come la sua stessa responsabilità. Come avverte anche Fackenheim, il

male è banale a motivo non della natura dei crimini ma delle persone che li commettono.113

La banalità di una persona, dunque, è avvertibile nella misura in cui fa buon uso della libertà di cui dispone, ed è responsabile di ciò nella misura in cui rende conto del risultato delle sue azioni, del suo stesso arbitrio.

Ciò induce a pensare che sia possibile spiegare la Shoah facendo riferimento esclusivamente agli attori umani i quali lo hanno pensato ed inscenato. Ci ricorda al riguardo Minazzi,

La «banalità del male» coincide appunto con tutta questa burocratica gestione del genocidio, perpetrata da funzionari nazisti capaci di prostituire la propria coscienza, mettendola a tacere, invocando la cieca fedeltà cadaverica nei confronti degli ordini del loro Führer.114

Il male, secondo la felice e nota intuizione della Arendt, si era burocratizzato, divenendo vera e propria

«routine», lavoro quotidiano ed amministrativo ed esattamente entro questa «banalità quotidiana» il nazista ha saputo resistere a tutte le tentazioni della coscienza morale ordinaria per trasformarsi in un freddo e preciso esecutore di un crimine di cui si era fatto, in tutti i sensi, complice consapevole e con corde.115

Costituisce un esempio profondo di ciò, la descrizione che la Arendt compie dell’imputato Eichmann:

Le sue azioni erano criminose soltanto guardando retrospettivamente, e lui era sempre stato un cittadino ligio alla legge, poiché gli ordini di Hitler — quegli ordini che certo egli aveva fatto del suo meglio per eseguire — possedevano «forza di legge» […] Chi dunque gli veniva ora a dire che avrebbe dovuto comportarsi diversamente, ignorava o aveva dimenticato come stavano le cose a quell’epoca.116

Chiunque si sarebbe aspettato un uomo eccezionale, pur nella dedizione al male, qualcosa di simile ad un titano maligno, e invece Eichmann deludeva qualsiasi attesa di trovarsi dinanzi un individuo dotato di una statura fuori dell’ordinario.

Invece, appariva estremamente normale, un grigio burocrate dei giorni nostri, non in possesso di nulla di eccezionale, di particolare, di rilevante. Compiva il male alla medesima stregua di una normalissima funzione amministrativa, il Führer ordinava, lui faceva di tutto per esaudirne i desideri. Quest’immagine per nulla poetica dell’uomo qualsiasi dedito al male è, se si vuole, ancor più in quietante dato che ammette che compiere il male non richieda chissà quale dote speciale, e che tutti, chi più chi meno, siamo, nostro malgrado, capaci di incredibili nefandezze. E anche questa circo stanza serve a descrivere l’insieme di possibilità dell’evento qui tematizzato: la Shoah fu una norma le manifestazione della banalità del male. Il sonno della coscienza morale ordinaria ha così reso possibile la stessa burocratizzazione del «male», rendendolo anche una banalissima routine amministrativa, una gestione materiale di procedure senza alcun investimento assiologico. Un decadimento della coscienza morale stessa, uno svuotamento diretto dell’umanità. Indagando la maniera con la quale i vari interpreti hanno cercato di comprendere la Shoah all’in terno dei loro particolari reticoli epistemici, Minazzi individua nella tendenza generalizzata a «mitizzare» l’evento in questione la principale ragione dell’incapacità, vera o presunta, di «parlare» di Auschwitz, di comprendere Auschwitz.

La retorica del «silenzio» funziona solo nella misura in cui la Shoah, da evento storico, diviene simbolo, e, in quanto tale, collocato al di là della storia stessa. La Shoah non è affatto il male radi cale, ma una specifica manifestazione di male, che ha avuto la sua sede storica. Il problema della ricostruzione storica a posteriori, tuttavia, è che lo storico non può mai farsi neutrale rispetto ai propri oggetti d’indagine. Come sostiene ancora Minazzi:

Lo storico […] non può pertanto sottrarsi alla dimensione axiologica ed è per questo motivo che nel mo mento stesso in cui si fa interprete del passato non fa che rivivere quel determinato momento storico da un suo determinato punto di vista critico-interpretativo che svolge un suo preciso ruolo euristico entro la sua stessa comprensione degli avvenimenti storici.117

Il venir meno della facoltà umana del giudizio ha reso possibile il realizzarlo. Il problema, dunque, ancora una volta ricade sulle spalle degli uomini, sulla responsabilità dell’umanità intera.

La storia di Giobbe è, da questo punto di vista, emblematica, dopo aver conteso con Dio, l’Altissimo lo richiama all’ordine: c’è forse qualcuno sulla Terra in grado di mettere in discussione l’operato del Signore?118 Il problema del male continua a scandalizzare i benpensanti, si Deus est, cur malum? Una do manda perenne che continua a inquietare le coscienze umane. L’indagine sull’origine del male si accosta alla meditazione cabalista sui momenti primi della Creazione. La stessa nozione di Tzimtzùm viene recuperata da alcuni teologi ebraici proprio per disporre di nuove risorse concettuali, e teologiche, in virtù delle quali poter spiegare lo scandalo del malum mundi. Come origine della medesima libertà umana, proprio il mito cabalistico dello Tzimtzùm consente di considerare la responsabilità umana, una responsabilità tutta terrena, quale causa del male nel mondo. Teologicamente questo atto di investitura della libertà umana avviene tramite l’idea di un abbandono da parte di Dio della creazione stessa. Come ricorda Scholem, con riguardo alla Qabbalà luriana:

il cabbalistico Tzimtzùm non significa la concentrazione di Dio in un luogo, ma il suo ritrarsi fuori da ogni luogo […] significa che l’esistenza dell’universo fu resa possibile da un processo di contrazione di Dio. Originariamente Luria parte da un pensiero assolutamente razionalistico, ed anzi, se si vuole, abbastanza naturalistico.119

Il «nascondimento» di Dio dietro la Creazione significa esattamente rendere libero l’operato umano, tanto verso il bene quanto verso il male, abilitare, cioè, la responsabilità umana, o verso Dio o verso altrove. Scholem aggiunge ancora:

Luria intende dire che Dio […] dovette rendere vacante nel suo essere una zona, dalla quale Egli quindi si ritrasse; una specie di mistico spazio primordiale, in cui Egli potesse ritornare nell’atto della creazione e della rivelazione.120

L’uomo viene così chiamato a partecipare alla Creazione, a collaborare con Dio, aiutare a ripristinare l’Unità originaria andata perduta, operando concretamente al Tiqqún, alla «riparazione» del mondo dopo la mitica «rottura dei vasi», il processo in forza del quale la Creazione ha avuto luogo.

Così intesa, la novità del vertice cabalistico, costituito per l’appunto dalla meditazione di Luria, consente di interpretare le vicende terrene come un esilio. Sentiamo, pertanto, di condividere il parere di Scholem secondo il quale

possiamo considerare la Qabbalà luriana una interpretazione mistica dell’esilio e della redenzione, o, se si vuole, come un grande mito dell’esilio. Essa fu l’espressione dei più profondi sentimenti religiosi degli ebrei di quel tempo, e trasformò l’esilio e la redenzione in grandi simboli mistici relativi a qual cosa dell’esistenza stessa di Dio.121

5. Quale umanità dopo Auschwitz?

Emerge, infine, come il problema della Shoah, in termini di ricadute culturali e teologiche, non sia Dio, ma l’uomo. Diventa allora cruciale porsi un’altra questione: quale uomo dopo Auschwitz?

Nel corso della sua certamente meritoria opera memorialistica della Shoah, Levi riferisce questo aneddoto che suggerisce a noi che viviamo in maniera indiretta quei terribili fatti riflessioni importanti sull’umanità dopo Auschwitz:

Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua personale, che però mi è sempre parsa severa e seria. Era contento di ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e fortificato, certamente arricchito. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose.122

Interrogandosi sul senso complessivo della sua esperienza personale, dolorosissima ed intensa, Levi si pone la domanda per eccellenza, quella che l’uomo, in quanto tale, si pone sin dalla notte dei tempi: perché io? Nel rispondervi, le religioni forniscono le loro argomentazioni. Anzi, sostenuti da una fede solida, molti hanno affrontato meglio la dura realtà del Lager. Sulla risposta atea, agnostica o credente davanti ad Auschwitz, aggiunge ancora Levi:

anch’io sono entrato in Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato e ho vissuto fino ad oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giusti zia trascendente: perché i moribondi in vagone bestiame? Perché i bambini in gas?123

In merito alla pur meritoria opera di testimonianza, svolta dai sopravvissuti ai Lager, Minazzi scorge una tensione caratteristica tra la verità che questi ultimi, con tutte le loro forze, cercano di comunicare al mondo intero, e la verità che sulla Shoah stessa gli storici intendono comunicare. Nelle sue parole:

Se si prende oggi in considerazione diretta la presenza dei testimoni entro l’ambito più ristretto della Shoah sembra quasi di assistere a una sorta di lotta, senza esclusione di colpi, tra il testimone e lo storico.124

Minazzi ritiene che si debba tener conto delle testimonianze dirette delle vittime, ma anche che queste ultime non possano venir considerate equivalenti alla comprensione storica. Assistiamo, cioè, alla fenomenologia del testimone, il riservare per sé l’approccio esclusivo alla verità di un determinato evento. Il problema, però, è che mentre il testimone si sente investito della verità che ha esperito sulla propria pelle e che ad ogni costo deve essere comunicata al mondo, nella sua crudezza, lo storico invece ritiene di dover procedere in maniera analitica al fine di fornire una comprensione (possibile) dell’evento stesso. Tuttavia, le amare considerazione di Levi, nella loro concisione asciutta e diretta, senza filtri, traggono forza dell’asprezza dell’esperienza personale vissuta che l’autore stesso, in pagine mirabili che colpiscono dritto al cuore, ha tramandato. Non ce ne serviremo, preferendo in ciò la glossa della Marzano la quale scrive

A poco a poco i deportati vengono ridotti a «cose», scoprendosi prigionieri di un dispositivo disumanizzante; i loro corpi sono presi in ostaggio dalle loro debolezze e fragilità: la fame, la stanchezza, la malattia. Le privazioni alimentari, la mancanza di igiene, l’odore dei cadaveri in decomposizione, il fumo dei forni crematori, il freddo, il lavoro forzato … tutto è stato concepito per fiaccare la resistenza e il coraggio. E tutto appare talmente estremo che le parole non arrivano a descrivere l’atroce esperienza vissuta e si sfaldano come polvere.125

La colossale opera di progressiva distruzione e cancellazione di ogni traccia della «questione ebraica», inscenata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, è stata congegnata, a detta della Marzano, sin nei minimi dettagli per annullare l’identità delle persone, degradandole a mere cose. Infatti,

Ridotti a marionette su cui si ha diritto di vita e di morte, i prigionieri sono inchiodati ai loro corpi/cosa e sottoposti a umiliazione. I corpi indeboliti, magri e malati divengono oggetto di scherno e sarcasmo; privati come sono di ogni forma di difesa, vengono esposti allo sguardo altrui; cessano a poco a poco di essere «i propri corpi» per trasformarsi in «corpi estranei».126

Si tratta di pagine inquiete che colpiscono dritto al cuore. Ma sono pur sempre «parole» che cercano, magari pure malamente, di render quanto meno una pallida idea di cosa dovesse significare essere ad Auschwitz. La stessa idea del silenzio secondo la quale tacere pudicamente davanti ad Auschwitz fa il paio con l’idea seconda la quale ad Auschwitz sia morta l’umanità stessa.

Questa, però, è un po’ una vittoria postuma proprio del nazismo che del superamento dell’umanità stessa faceva il suo obiettivo: superare le limitazioni culturali occidentali in un nuovo ordine mondiale, in un nuovo orizzonte valoriale, al cospetto di una diversa tavola dei valori ove, finalmente, il più forte primeggiava sul più debole, in luogo cioè del parassitario ordine attuale ove, innaturalmente, il più debole vince sul più forte. Lo stesso tentativo di sradicare l’orizzonte semantico delle paro le, del linguaggio, rientra in questo progetto, rispetto al quale la retorica del silenzio è consustanziale. Allora, a maggior ragione, proprio per non far vincere a posteriori il folle progetto nazista è bene parlare di Auschwitz, discutere della Shoah. Come sostiene Minazzi:

un crimine così efferato, pur nella sua immensa tragicità, debba e possa essere «nominato», perché le nostre lingue, per quanto povere e inadeguate potranno eventualmente risultare (come del resto accade in molti altri campi della conoscenza umana), sono, comunque, uno dei pochi strumenti privilegiati attraverso il quale possiamo (e, appunto, dobbiamo!) comprendere il mondo e la stessa realtà storica entro la quale anche noi siamo stati «catapultati» da quella forza cieca che chiamiamo vita. Per quanto inadeguate e claudicanti potranno effettivamente mai essere le nostre parziali soluzioni linguistiche, storiche e concettuali (di continuo rettificabili storicamente) è da queste risultanze parziali che, in ogni caso, dobbiamo sempre prendere le mosse.127

Ma, e le fonti diverse su questo concordano, l’esperienza di Auschwitz non incide affatto sui convincimenti delle vittime che vi trovarono sofferenza, dolore e quasi sempre anche morte. La Shoah, per dirla altrimenti, non aggiunge nulla ai convincimenti personali una volta che gli uomini ne fan no esperienza. Talvolta, al contrario, li conferma, li consolida. Levi entra da ateo in Lager e trova in quella disarmante esperienza un motivo in più per negare che vi sia un Dio. Altri hanno percorso una strada parallela, ma diversa: sono entrati da credenti in lager e ne sono usciti ancora credenti, con delle ragioni in più per esserlo. Il Lager non è, pertanto, la controprova di convinzioni persona li, esattamente come non lo è, generalmente, la vita stessa. La linea della fede è diversa da quella storica, si crede o meno a prescindere dalle vicissitudini della storia.

Detto altrimenti, la Shoah non ha negato la possibilità stessa di Dio, ma ha negato fiducia all’umanità, quella stessa che ha organizzato, pianificato, mandato avanti quella terribile macchina di sterminio. Ad Auschwitz, non Dio, ma l’umanità ha taciuto, non Dio è rimasto inerte, ma l’uomo, la solidarietà umana, la compassione nel riconoscimento della profonda alterità umana del prossimo. Nelle parole di Kajon:

anch’essi […] hanno infine visto nella filosofia lo strumento per mostrare i diritti dell’uomo, i quali non possono essere fondati se non attraverso il loro immediato riconoscimento, con atteggiamento di fiducia nella bontà della natura umana […] nonostante i limiti dell’uomo.128

I fumi di Auschwitz, le ceneri dei vari campi di sterminio, pongono in dubbio l’umanità stessa, quel tipo di uomo, e di relativa socialità, che intendiamo mandare avanti. La Shoah, detto altrimenti, chiede a ciascuno a noi quale sia il futuro possibile per l’umanità. La lezione che dobbiamo trarre è che ogniqualvolta l’umanità venga offuscata, cominciano i guai per gli uomini.

Per questo motivo a Levinas, e non a Fackenheim, vanno le nostre sincere simpatie perché dalla Shoah bisogna uscire con una lezione importante, ossia rafforzare gli strumenti morali in grado di opporre un freno efficace a qualsiasi tentazione di operare violenza nei confronti dei propri simili, di non riconoscere quella medesimezza che dobbiamo riconoscere in tutti coloro i quali ci circonda no e che sono come specchi perché riflettono quel che noi stessi siamo: uomini. Nelle parole, inattuali al suo tempo, di Rosenzweig, possiamo dire che

Ad ogni istante essa osa dire «è vero! » alla verità. Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l’esterno. Ma verso che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Verso la vita.129

Il discorso rosenzweighiano costituisce un’utile, e rilevante, interpretazione del legame tra la cultura ebraica e il mondo moderno nel senso che l’attività dell’ebreo si rivolge a Dio nella misura in cui opera bene sulla terra. Non era forse anche proprio quest’apertura al mondo, alla realtà, agli altri, quel che in primo luogo i nazisti intendevano estirpare dal mondo?130 In questo senso, ancora, assume maggiore rilievo la riflessione levinasiana che cerca di trasformare la metafisica occidentale, connotata come violenta, in un’etica nel senso che una profonda lezione deve essere tratta dalla Shoah: disarmare teoricamente la violenza che intende nullificare l’altro, mancando di riconoscerlo come totalmente altro, di riconoscerlo nella sua alterità radicale.131

Il riconoscimento del ruolo determinante dell’azione umana, e, quindi, della sua diretta, quanto indiscutibile, responsabilità, consente anche di neutralizzare la retorica del «silenzio», la stessa che rende di fatto incomprensibile la Shoah collocandola entro un orizzonte mitico, e non più storico. Infatti, aggiunge Minazzi:

Il riconoscimento dell’assassinio di massa compiuto dai nazisti nei loro campi di sterminio si trasforma così in uno specchio particolarmente doloroso ed inquietante, ma anche particolarmente fecondo e utile per riconsiderare criticamente la nostra storia occidentale e per prendere esatta consapevolezza dei suoi meriti e dei suoi crimini.132

D’altra parte, il ripensamento teologico che così tanto ha caratterizzato le categorie ebraiche, a seguito dei tristi eventi della Shoah, va collocato entro le coordinate storiche sue proprie. Da un altro punto di vista, infatti, la soluzione finale, la famigerata Endlösung, va considerata non come il risultato dell’impotenza divina, ma come la logica conseguenza pratica dell’evoluzione culturale coeva.

La Shoah non è affatto un esito improvviso ed imprevisto lungo l’evoluzione storica della coscienza umana, occidentale in primo luogo, ma va intesa come una degna figlia della coscienza moderna. Se Levinas ha scorto bene, allora la violenza in sede etica è il corrispettivo pratico dell’atteggiamento religioso contemporaneo. Infatti, non riconoscere l’alterità del prossimo corrisponde a non riconoscere la trascendenza, ossia l’esistenza, attiva, operante, viva, della divinità. La cosiddetta secolarizzazione colpisce a tal punto nel segno da oscurare la presenza stessa di Dio. Ma se scompare l’alterità par excellence, allora scompare anche la diversità umana.

Come sostiene Quinzio: «Se Dio è scomparso dall’orizzonte dell’uomo moderno, ciò non è accaduto perché sia morto. È accaduto perché si è cominciato a concepirlo soltanto come un impersona le Esso, e quindi, potenzialmente, come un oggetto che la mente dell’uomo osserva distaccata, definisce, comprende, che in definitiva essa stessa pone, crea».133 Quel che è cambiato è l’ordine di priorità interne alla coscienza moderna, al punto che Dio viene occultato dietro le urgenze del reale, della percezione, delle occupazioni, delle pratiche da mandare ad effetto. Come sostiene Buber:

l’uomo è diventato incapace di afferrare una realtà per antonomasia indipendente da lui, e di rapportarsi ad essa — incapace pure di raffigurare e rappresentare questa realtà in immagini vive che la sostuiscano in luogo di una contemplazione che non può eguagliarla. Poiché le grandi immagini divine del l’umanità non nascono dalla fantasia, ma dal reale incontro con la reale potenza e magnificenza divine.134

La realizzazione dell’annuncio nietzscheano in merito alla morte di Dio non significa la folle quanto insensata negazione metafisica di Dio, ma la constatazione antropologica circa la sua scomparsa dall’orizzonte morale dei più.135 In altri termini, altri contenuti morali hanno occupato la spazio prima esistente tra l’uomo e Dio, al punto che ha senso descrivere lo stato attuale con la locuzione significativa di eclissi di Dio, «L’ora in cui viviamo è caratterizzata infatti dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio».136 La scomparsa di Dio dalla coscienza moderna è anche un riflesso del ripiegamento interiore della psiche umana, in modo particolare negli ultimi due secoli. Per questo motivo, anche, Buber attacca lo junghismo, e lo fa con le seguenti parole:

la coscienza moderna non vuole avere più niente a che fare con il Dio creduto dalle religioni, che si manifesta all’anima e comunica con lei, rimanendo però in sé un essere trascendente; si rivolge all’anima come all’unica sfera dalla quale si possa aspettare che contenga del divino.137

L’umanità moderna, profondamente legata al secolo, così intimamente connessa con la fragilità materiale con la quale è fatta, finisce allora con il rifiutare Dio, ossia con l’allontanarlo dai propri pensieri, la coscienza umana abbandona Dio.138

La natura dialogica della riflessione buberiana descrive la condizione moderna come l’esito della frapposizione del mondo tra l’Io e il Tu, tra Dio e la Creazione. L’originario rapporto teandrico viene occupato dal mundum, ossia dall’essere che diviene il termine unico ed intrascendibile di qualsiasi relazione. Detto altrimenti, l’uomo sostituisce la realtà a Dio. In questo modo, il mondo occupa lo spazio tra l’uomo e Dio, eclissando quest’Ultimo dall’orizzonte di pensiero e di percezione.

L’eclissi di Dio dal mondo moderno riposa sulla pacifica naturalizzazione della realtà, ossia la negazione dell’orizzonte ultimo, e trascendente, rispetto a quest’ultimo. Oltre al mondo, cioè, non v’è altro cui guardare. Di conseguenza, il mondo si frappone tra l’uomo e Dio, il mondo passa da instrumentum, quale regno dei signa, che rinviano ad altrove, ad un ulteriore non riducibile all’essere stesso, a fine in sé.

Ma se scompare la trascendenza, scompare anche la distanza tra uomo e uomo. L’esito nichilista in teologia, o metafisica, ha sempre una conseguenza non trascurabile in etica. Scomparso Dio, ossia il campione per eccellenza di qualsiasi rapporto umano, nulla impedisce che scompari anche l’uomo, ossia la controfigura antropica della divinità nei rapporti umani concreti. Come sostiene Kajon, in riferimento a Buber, «la causa della crisi viene vista nella perdita di contatto con l’originaria percezione dell’altro uomo».139 Il male, per Buber, non proviene né direttamente né indirettamente da Dio, o come colpa o come dolo o come conseguenza indiretta, ma dall’uomo, dal mancato riconoscimento dell’altro, dalla negazione dell’altrui identità, dall’eclissi dell’alterità.

Il pericolo che qualcosa come la Shoah, di almeno simile, certo si spera mai eguale, possa nuovamente venire a verificarsi in qualche parte del mondo, è sempre presente, sempre possibile, e lo è nella misura in cui l’indifferenza rispetto al prossimo prenda il sopravvento, come ci ricorda Amos Luzzato.140 Concludiamo, allora, con le parole immortali di Giobbe quando, al termine della prova, riconosce la sua infima condizione e l’impossibilità di questionare o criticare l’opera di Dio:

Io so bene che Tu puoi tutto e che nessuna impresa Ti è preclusa! A chi sfugge il progetto divino in conscientemente? Io dunque parlavo, ma senza capire, di cose più grandi di me, che non sapevo. Ascoltami, dunque, ché parlerò: domanderò io a Te e Tu mi renderai edotto. Solo per sentito dire ave vo udito di Te, ma ora con i miei occhi Ti ho veduto!141

6. Conclusioni

Il breve, ma certamente complesso excursus che abbiamo compiuto intorno alla «svolta», o all’influenza, a seconda del rispettivo punto di vista, che la Shoah ha avuto, ha esercitato, ha indirizzato, sulla teologia ebraica ha mostrato anche una sostanziale vitalità della cultura ebraica nonostante i reiterati ed anche sistematici tentativi compiuti nel corso del secolo appena concluso di eliminarla, di spazzarla via, di estirparla dalla faccia del Pianeta. Per ovvie ragioni, che non verranno esplicitate in questa sede, tale esposizione non può ritenersi esaustiva delle varie proposte e suggestioni in campo, ma rende comunque abbastanza bene l’idea di come la teologia ebraica abbia cercato di fare i conti, pur con una costante sofferenza, pur con accenti di umiltà ed accenti di rabbia, pur con cosciente sensibilità, con la Shoah, con quell’immane sciagura che è capitata tra capo e collo sull’intero popolo di Dio.

Ripercorrendo i vari sentieri che consentono d’inquadrare, sia pure in forza di un’ottica parziale, e, quindi, limitata, le molte direzioni lungo le quali si è svolta la sciagura, l’Olocausto, la sventura di un intero popolo, perseguitato proprio in quanto tale, e non per eventuali colpe commesse, è stato possibile, pur nella parzialità della presente ricognizione, rendere conto delle molte maniere attraverso le quali la coscienza ebraica ha cercato di comprendere quanto accadutole, quanto ha travolto le normali esistenze di milioni di ebrei disseminati per l’Europa e cercati, braccati, offesi, torturati, vilipesi per una ragione del tutto assente, in modo gratuito, banale, eppure terribilmente efficiente. La Shoah ha eroso in profondità le fondamenta della cultura ebraica, ha messo seriamente in discussione l’essenza stessa dell’ebraismo, ha posto in questione la natura stessa del rapporto teandrico, tra l’uomo e Dio, tra la Creazione e il Creatore, ha fatto crollare l’edificio di fiducia sul quale si ergeva l’Alleanza del Patto antico. Nell’inferno dei campo di sterminio, nell’alto dei camini delle camere a gas, davanti all’urlo inerme dei bambini, delle donne, e degli uomini che là vi hanno trovato sofferenze indicibili e morte, una domanda si innalza del tutto spontanea su sino al Cielo: dov’era Dio? Nella secolare storia del popolo eletto mai si era verificato qualcosa di paragonabile all’immane sciagura del XX secolo. E mai si era registrata una tale lontananza di Dio dalle sue creature predilette. Dio non è intervenuto per salvare gli ebrei dalle fornaci e dalle mani dei nazisti, e dei loro accoliti, Dio non ha fatto nulla per aiutare i suoi eletti, Dio non ha lenito le sofferenze del suo popolo, Dio è rimasto inerte davanti alla sciagura, Dio ha nascosto il suo Volto, Dio ha taciuto davanti alle grida e alle preghiere degli ebrei. La domanda «perché? », foriera di ragioni che possano spiegare quanto accaduto infrange le barriere delle separazioni concettuali per approdare alla teologia stessa: in qua le parte della storia dell’Alleanza è possibile intravedere le ragioni del silenzio di Dio? Le ragioni del cambiamento del Patto? E perché Dio non ha dichiarato prima i motivi della scomparsa della sua Grazia dagli ebrei?

Dalla ricerca di un senso per la sventura, gli ebrei si sono interrogati sulle verità della loro fede, approdando, di volta in volta, o nell’ateismo (negare Dio davanti al male del mondo) o nell’eterodossia (abilitare determinate opzioni teologiche presenti nell’ebraismo ma relegate nel sottobosco, come la Qabbalà o la metafisica luriana) o nel recupero di categorie già presenti nella storia d’Israele (rilettura della figura jobica).142

Tuttavia, la presente ricognizione, pur nei suoi limiti e nella sua parzialità, offre una chiave di lettura diversa: Dio non c’entra con la Shoah! Il problema è morale, non teologico, bisogna addebitare alla scomparsa dell’umanità la causa delle sofferenze patite dal popolo ebraico, capro espiatorio della sostanziale fuga dalla libertà inscenata durante la prima metà del XX secolo. Dio non è scomparso, non è rimasto inerte, non ha taciuto, ma l’uomo è divenuto, sulla scorta della secolarizzazione, incapace di vederlo, di ascoltarlo, di agire in cooperazione con Lui. E scomparso Dio, è scomparsa anche l’umanità, ossia l’orizzonte etico all’interno del quale rispettare l’altro uomo in quanto uomo, in virtù del quale riconoscere l’alterità delle persone.

Purtroppo, verrebbe da dire, il nemico da individuare, da riconoscere e da additare, è molto più scomodo, più infido, più complesso di quanto si possa immaginare, non Dio, ma l’uomo. Quanto si è verificato è, più coerentemente, la lucida conseguenza dell’eclissi di Dio dall’orizzonte morale dei più ad inizio del Novecento. Non a caso Buber, un autore che non ha riconosciuto alcuna novità teologica operante a seguito della Shoah, afferma come la coscienza moderna non voglia avere niente a che fare con il Dio delle religioni, che si manifesta all’anima e comunica con lei, rimanendo però in sé un essere trascendente.143 L’eclissi di Dio è, detto altrimenti, un «abbandono di Dio da parte del pensiero».144 Gli uomini cessano di rivolgersi a Dio, di prenderlo in considerazione nel loro spazio di coscienza. Dio dilegua dalla considerazione umana, scompare dalle comuni esistenze mortali, diviene un nulla con un vago significato storico, e niente di più. Come sostiene ancora Buber:

L’ora in cui viviamo è caratterizzata infatti dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio Ma non è un avvenimento che si possa comprendere a fondo considerando i mutamenti avvenuti nello spirito umano. L’oscuramento del sole è avvenimento che si svolge tra esso e il nostro occhio, ma non dentro l’occhio. Neppure la filosofia ci ritiene ciechi nei confronti di Dio. Essa pensa che oggi ci man chi solo la disposizione dello spirito capace di rendere possibile una riapparizione di «Dio e degli dei», di immagini sublimi. Quando però, come in questo caso, avviene qualcosa tra cielo e terra, si sbaglia tutto se si insiste a voler trovare nel pensiero terreno la forza capace di rivelare il segreto.145

Se sostituiamo la parola «Dio» con la parola «umanità» abbiamo il piano completo d’azione che ha reso possibile, legittimandoli talvolta, le pratiche naziste. È l’umanità che è scomparsa dall’orizzonte culturale degli uomini del XX secolo. Tra Dio e l’uomo s’è interposto il Dio dei filosofi, ossia la cultura del mondo, del secolo, la quale, per via della sua particolare natura, che sposta il fine delle azioni dall’uomo ai mezzi, finisce con lo spersonalizzare gli esseri umani, con il renderli meri strumenti tra gli strumenti del mondo. L’uomo ridotto ad oggetto di manipolazione cessa di essere uomo, e da fine diventa mezzo del piano d’azione il quale vede così le proprie finalità immanenti a sé stesso. Nessuna meraviglia, allora, se sia stata possibile la Shoah (e tante altre manifestazioni consimili in altre regioni del Pianeta, durante il secolo scorso ed anche durante l’attuale): l’umanità sembra morta. Come aggiunge, con riguardo proprio a Buber, Küng:

Nessuno più di lui ha ha denunciato l’orrendo abuso — ma anche rivendicato l’insostituibilità — della parola «Dio».146

Proprio il teologo tedesco ha insistito sulle influenze (nefaste) che il postmoderno ha avuto sull’ebraismo.147 Allora, il miglior modo per rendere giustizia alle vittime della Shoah, ed anche per evitare che simili sciagure possano avere luogo in ogni tempo e in ogni luogo, sembra quello di collocare nuovamente al centro della cultura umana la nozione di persona, la categoria dell’umanità, la quale implica il riconoscimento e il rispetto per l’alterità.


  1. Cfr. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 2005, p. 7. ↩︎

  2. Cfr. A. Spiegelman, Maus, Einaudi, Torino, 2000, p. 185. ↩︎

  3. Ivi, p. 190. ↩︎

  4. Gn 12, 1 e ss.. ↩︎

  5. Cfr. M. Trevi, Introduzione, a: Il libro di Giobbe, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 15: «In quella Sapienza è riposta ogni ragione della sua sofferenza. In quella Sapienza si cela il paradosso della costante amicizia di Dio». ↩︎

  6. Cfr. G. Samuel, Kabbalah. Tutti i segreti del misticismo ebraico, Mondadori, Milano, 2010, p. 8. ↩︎

  7. Cfr. G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino, 2011, p. 272: «l’unico serio tentativo mai fatto di pensare in termini concreti il significato della creazione dal nulla». ↩︎

  8. Ivi, p. 44: «l’esistenza del male per la maggior parte dei cabalisti — autentici custodi del mondo mitico — è uno dei principali motori del loro pensiero, che ansiosamente tende ad una soluzione del problema». ↩︎

  9. Cfr. M. Trevi, op. cit., p. 15 e ss.. ↩︎

  10. Ivi, p. 21: «Giobbe ha errato solo in questo, nel pretendere che Jahweh gli fornisca ragioni umane del Suo operato. Ma Giobbe non ha tradito Jahweh». ↩︎

  11. Cfr. F. Minazzi, Filosofia della Shoah. Pensare Auschwitz: per un’analitica dell’annientamento nazista, Giuntina, Firenze, 2006, p. 26 e ss.. ↩︎

  12. Cfr. E. L. Fackenhaim, Olocausto, Morcelliana, Brescia, 2011, p. 17 e ss.. ↩︎

  13. Cfr. M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie dell’Olocausto», Morcelliana, Brescia, 1998, pp. 20-21. ↩︎

  14. Cfr. M. Trevi, op. cit., p. 35. ↩︎

  15. Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 6. ↩︎

  16. Cfr. P. Corrao -P. Viola, Introduzione agli studi di storia, Donzelli, Roma, 2003, p. 13. ↩︎

  17. Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 2003, p. 25 e ss.. ↩︎

  18. Cfr. Z. Bauman, Il buio del postmoderno, Aliberti editore, 2011, p. 27 e ss.. ↩︎

  19. Cfr. I. Adinolfi, Introduzione, a: I. Adinolfi (a cura di), Dopo la Shoah. Un nuovo inizio per il pensiero, Carocci, Roma, 2011, p. 11. ↩︎

  20. Cfr. M. Giuliani, op. cit., p. 16. ↩︎

  21. Ivi, p. 17. ↩︎

  22. Ivi, p. 22. ↩︎

  23. Cfr. C. Angelino, Introduzione, a. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auchwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 200413, p. 9: ««Dopo Auschwitz» è una locuzione che da tempo ricorre soltanto nelle pagine di scrittori ebrei. Un fatto non casuale: si può affermare infatti, senza tema di essere smentiti, che l’umanità ha dimenticato Auschwitz, obbedendo così a distanza di molti decenni l’ordine impartito da Hitler ai suoi boia di cancellare ogni traccia della soluzione finale». Il problema, forse, di tale centralità accordata all’evento Shoah, è che non si discute mai il suo significato per l’umanità, facendone, a torto o a ragione, volutamente o meno, uno spartiacque di senso per la sola coscienza ebraica. Non deve, dunque, stupire affatto che l’umanità, nel suo complesso, sia rimasta solo sfiorata dal tema, e dalla sua idea di base in virtù della quale qualcosa, e di importante, sarebbe cambiato dopo Auschwitz. L’etnocentrismo del tema ha limitato fortemente la portata, potenzialmente universale, della Shoah, facendone un orizzonte semantico valevole esclusivamente per la cultura ebraica. Non deve, pertanto, suscitare sorpresa che tale locuzione ricorra, ed abbia importanza presso di loro, solo in autori ebrei o prossimi alla cultura di questi ultimi. ↩︎

  24. Cfr. M. Giuliani, op. cit., p. 26. ↩︎

  25. Ibidem↩︎

  26. Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 20. ↩︎

  27. Cfr. M. Giuliani, op. cit., p. 31. ↩︎

  28. Cfr. M. Dalmaso, Pensare Dio dopo Auschwitz? Il pensiero ebraico di fronte alla Shoah, Messaggero di Sant’Antonio, Padova, 2007, pp. 14-15. ↩︎

  29. Cfr. G.Galasso, Filosofia e storiografia, in G.Galasso, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 169. ↩︎

  30. Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 1957, p. 13: «In questo libro viene tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci si è proposti di predire il destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri». ↩︎

  31. Cfr. P. Corrao — P. Viola, op. cit., p. 61. ↩︎

  32. Cfr. H. Albert, Per un razionalismo critico, Il Mulino, Bologna, 1973, p. 17. ↩︎

  33. Cfr. O. Spengler, op. cit., p. 21 e ss.. ↩︎

  34. Ivi, p. 22. ↩︎

  35. Cfr. H. Küng, Ebraismo, Rizzoli, Milano, 20125, pp. 24-25. ↩︎

  36. Gn 17. ↩︎

  37. Gn 26, 2-5. ↩︎

  38. Gn 28, 12-15. anche: Gn 32, 25-33. ↩︎

  39. Es 3, 1-17. ↩︎

  40. Se Auschwitz pone domande radicali e gravi alla teologia ebraica, lo stesso accade, forse, per la teologia cristiana. Come dice M. Giuliani Cristianesimo e Shoaà. Riflessioni teologiche, Morcelliana, Brescia, 2000, p. 29: «Fare teologia cristiana tenendo conto dell’impatto della Shoà significa anzitutto essere consapevoli di molti e complessi problemi metodologici». ↩︎

  41. Cfr. M. Veggetti, L’uomo e gli dei, in J. P. Vernant(a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 257. ↩︎

  42. Cfr. M. Dalmaso, op. cit., p. 64. ↩︎

  43. La soluzione finale al problema ebraico segue un processo per fasi rigidamente stabilito e che, a grandi linee, segue fedelmente quella tripartizione inizialmente stabilita per risolvere lo stessa problema: espulsione; concentrazione; eliminazione. Questa evoluzione viene rivelata dall’imputato Eichmann durante l’omonimo processo. Cfr. H. Arendt, op. cit., pp. 64-119. Adesso, l’iter seguito è il seguente, per come afferma F. Minazzi, op. cit., p. 177: «La sistematica distruzione dell’individualità […] segue, coerentemente ed inesorabilmente, all’uccisione della personalità morale […] e al successivo annientamento della personalità giuridica […] Una volta rimossi tutti questi elementi è invero rimossa e cancellata la personalità umana e il prigioniero costituisce solo ed unicamente una «marionetta» animale che reagisce passivamente agli stimoli e si limita pertanto ad adempiere a delle funzioni, a rispettare degli ordini e delle regole imposte». ↩︎

  44. Cfr. M. Dalmaso, op. cit., p. 65. ↩︎

  45. Ivi, p. 67. ↩︎

  46. Ivi, p. 71. ↩︎

  47. Ivi, pp. 87-88. ↩︎

  48. Ivi, p. 90. ↩︎

  49. Ivi, pp. 90-91. ↩︎

  50. Ibidem↩︎

  51. Ivi, p. 92. ↩︎

  52. Ibidem↩︎

  53. Ivi, p. 101. ↩︎

  54. Ivi, p. 103. ↩︎

  55. Ivi, p. 129. ↩︎

  56. Ivi, p. 133. ↩︎

  57. Cfr. G. Samuel, op. cit., p. 379. ↩︎

  58. Ibidem↩︎

  59. Supra↩︎

  60. Cfr. G. Scholem, op. cit., p. 275. ↩︎

  61. Cfr. M. Dalmaso, op. cit., p. 134. ↩︎

  62. Ivi, p. 135. ↩︎

  63. Ivi, p. 137. ↩︎

  64. Cfr. G. Scholem, op. cit., p. 334: «Il mondo sentimentale del chassidismo attrasse fortemente gli animi di coloro che aspiravano a un rinnovamento spirituale dell’ebraismo; ben presto si scoprì che gli scritti dei chassidìm presentavano un pensiero più originale di quello dei loro avversari razionalisti». ↩︎

  65. Cfr. M. Dalmaso, op. cit., p. 182. ↩︎

  66. Ivi, pp. 183 . 184. ↩︎

  67. Ibidem↩︎

  68. Ivi, p. 185. ↩︎

  69. Cfr. H. Kung, op. cit., p. 649. ↩︎

  70. Cfr. C. Angelino, op. cit., p. 11: «Auschwitz chiama quindi in causa Dio, ma non come il folle nietzschiano per renderci nota la sua morte; la voce che si leva imperativa dal campo di morte ci obbliga in realtà a ripensare radicalmente Dio, a riconsiderare il concetto di Dio ereditato da una tradizione bimillenaria, filosofica e religiosa, e con ciò a corrispondere alla vocazione più profonda del pensiero che proprio nel pensare Dio ha da sempre riconosciuto il suo compito fondamentale». ↩︎

  71. Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 200413, p. 19. ↩︎

  72. Cfr. M. Damaso, op. cit., p. 188. ↩︎

  73. Cfr. H. Jonas, op. cit., pp. 20-21. ↩︎

  74. Ivi, p. 21. ↩︎

  75. Ivi, p. 22. ↩︎

  76. Ibidem↩︎

  77. Ivi, p. 23. ↩︎

  78. Ivi, p. 28. ↩︎

  79. Ivi, p. 29. ↩︎

  80. Ibidem↩︎

  81. Supra↩︎

  82. Ivi, p. 30. ↩︎

  83. Ibidem↩︎

  84. Ivi, p. 31. ↩︎

  85. Ibidem↩︎

  86. Ivi, p. 32. ↩︎

  87. Ivi, p. 34. ↩︎

  88. Ivi, p. 35. ↩︎

  89. Ivi, pp. 35-36. ↩︎

  90. Ivi, p. 37. ↩︎

  91. Ivi, p. 38. ↩︎

  92. Cfr. F. Turoldo, Il concetto di Dio dopo Auschwitz nella riflessione di Hans Jonas, in I. Adinolfi, op. cit., p. 281. ↩︎

  93. Cfr. H. Jonas, op. cit., pp. 38-39. ↩︎

  94. Ivi, pp. 39-40. ↩︎

  95. Cfr. G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino, 201111, p. 257 e ss.. ↩︎

  96. Cfr. H. Jonas, op. cit., p. 40. ↩︎

  97. Ibidem↩︎

  98. Ivi, p. 41. ↩︎

  99. Ibidem↩︎

  100. Cfr. G. Scholem, op. cit., p. 16: «il mondo della Qabbalà era precluso all’illuminismo ebraico del secolo XIX». Al mistico ebraico non basta la religione rivelata, non basta accostarsi ai Testi canonici, egli è in cerca di un’unione mistica con Dio stesso. Pertanto, prosegue G. Scholem, op. cit., p.22: «la rivelazione si trasforma da atto accaduto una volta sola in atto che continuamente si ripete. Il mistico cerca di collegare questa nuova rivelazione […] con le fonti dell’antica: sorge così la nuova interpretazione mistica dei testi canonici delle grandi religioni. La rivelazione originaria della quale la comunità era fatta partecipe, quella, per così dire, rivelazione pubblica sul Sinai, appare — all’intendimento del mistico — come velata e non spiegata. Solo la rivelazione segreta è per lui quella effettivamente aperta e decisiva. Così dunque i testi canonici — come in fondo tutti gli altri valori religiosi — vengono travolti nella corrente del sentimento mistico e riformati». ↩︎

  101. Cfr. M. Dalmaso, op. cit., p. 189. ↩︎

  102. Ivi, p. 190. ↩︎

  103. Ivi, pp. 193-194. ↩︎

  104. Ivi, p. 195. ↩︎

  105. Ibidem↩︎

  106. Supra↩︎

  107. Ivi, p. 196. ↩︎

  108. Cfr. F. Turoldo, op. cit., p. 285. ↩︎

  109. Ivi, pp. 285-286. ↩︎

  110. Ivi, p. 288. ↩︎

  111. Ibidem↩︎

  112. Cfr. M. Giuliani, Cristianesimo … op. cit., p. 70. ↩︎

  113. Cfr. E. L. Fackenhaim, Olocausto, Morcelliana, Brescia, 2011, p. 12. ↩︎

  114. Cfr. F. Minazzi, op. cit., p. 183. ↩︎

  115. Ivi, p. 184. ↩︎

  116. Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 32. ↩︎

  117. Cfr. F. Minazzi, op. cit., pp. 189-190. ↩︎

  118. Cfr. Il libro di Giobbe … op. cit., p. 116. ↩︎

  119. Cfr. G. Scholem, op. cit., p. 271. ↩︎

  120. Ibidem↩︎

  121. Ivi, p. 292. ↩︎

  122. Cfr. P. Levi, I sommersi … op. cit., p. 63. ↩︎

  123. Ivi, p. 117. ↩︎

  124. Cfr. F. Minazzi, op. cit., p. 258. ↩︎

  125. Cfr. M. Marzano, La filosofia del corpo, Il Melangolo, Genova, 2010, p. 80. ↩︎

  126. Ivi, p. 81. ↩︎

  127. Cfr. F. Minazzi, op. cit., pp. 93-94. ↩︎

  128. Cfr. I. Kajon, Il pensiero ebraico nel novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma, 2002, p. 209. ↩︎

  129. Cfr. F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 435. ↩︎

  130. Per la cultura ebraica non ufficiale, peraltro, la redenzione va intesa come ristabilimento dell’unità originaria. Cfr. G. Scholem, op. cit., p. 277: «redenzione significa appunto ristabilire il tutto originario, o Tiqqùn». ↩︎

  131. Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 1998, p. 44 e ss.. ↩︎

  132. Cfr. F. Minazzi, op. cit., p. 140. ↩︎

  133. Cfr. S. Quinzio, Introduzione, a: M. Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano, 200510, pp. 5-6. ↩︎

  134. Cfr. M. Buber, op. cit., p. 26. ↩︎

  135. Ivi, p. 32. ↩︎

  136. Ivi, p. 34. ↩︎

  137. Ivi, p. 89. ↩︎

  138. Ivi, p. 121. ↩︎

  139. Cfr. I. Kajon, op. cit., p. 129. ↩︎

  140. Cfr. A. Luzzato, Postfazione, a A. Wieviorka, Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi, Torino, 1999, p. 77. ↩︎

  141. Cfr. Il libro di Giobbe … op. cit., p. 123. ↩︎

  142. Cfr. G. Modica, Fede, libertà, peccato. Figure ed esiti della «prova» in Kierkegaard, Palumbo, Palermo, 1992, p. 21: «la sfida jobica non è né un atto di pura ribellione e neppure un atto di affermazione titanica dell’io, ma, piuttosto, la posizione d’una domanda che implica, insieme, tanto la fede in Dio, quanto la fiducia in se stessi. E infatti in Giobbe convivono sia la coscienza d’essere nel giusto — e quindi la possibilità che Dio abbia torto —, sia la consapevolezza che Dio ha comunque ragione». ↩︎

  143. Cfr. M. Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano, 2005, p. 89. ↩︎

  144. Ivi, p. 121. ↩︎

  145. Ivi, p. 35. ↩︎

  146. Cfr. H. Küng, op. cit.., p. 501. ↩︎

  147. Ivi, p. 503 e ss.. ↩︎