Barbara Spinelli, Moby Dick o l’ossessione del male, Morcelliana, Brescia, 2010, pp. 130, € 10,00
Il presente pregevole volume contiene un dialogo tra Barbara Spinelli e Grabiella Caramore in merito al significato, tanto teologico quanto filosofico, del romanzo Moby Dick.
Infatti, «Leggere Moby Dick significa in effetti confrontarsi con i grandi temi biblici: dalla imperscrutabilità dei piani del disegno di Dio, alla pervicacia del male che travolge l’umanità, al peccato d’orgoglio, il più grande che trafigge il cuore dell’umano» (p. 11). Al di sotto della trama dello scritto, dunque, si cela un significato molto più profondo, coinvolgente direttamente la dimensione antropologica profonda, il nesso misterioso tra l’esistenza umana e la volontà divina, il rapporto stretto, sovente frainteso, tra la libertà umana e la necessità divina. Quel che caratterizza il romanzo Moby Dick, solo in apparenza soltanto la narrazione fantastica di avventure per mare, è «la ricerca della verità o comunque la tensione verso il vero» (p. 12). Se l’umanità anela alla verità, resta comunque il fatto, ostico in sé, che è «una verità cercata misurandosi con verità non uguali alle proprie» (p. 12). In ciò consiste propriamente la questione etica: adeguare le proprie possibilità umane con l’infinito smisurato. Una tensione universale ben presente sotto la traccia, neanche troppo nascosta, in Moby Dick: «parlare delle cose dell’uomo visibili e invisibili, indagando su quel che lo trasforma, dando corpo ai suoi dilemmi, impersonandoli di volta in volta nell’animale mitico che è la balena bianca o nell’uomo che per tutta la vita ha un pensiero dominante: quello di trovare la verità e per questa via, eventualmente, di abbattere il male o almeno definirlo, dargli un nome» (p. 13). La balena bianca, pertanto, assume le connotazioni del simbolo mitico, del condensare in sé un universo d’immaginario, di significati che attingono alle radici lontane, e sovente misteriose, della dimensione umana. Per questo motivo, Moby Dick «è un incubo uscito dal magma indistinto della memoria» (p. 13).
Confrontarsi con quel che la balena significa equivale a reggere il confronto con grandi temi che da sempre affliggono l’esistenza umane, «il confrontarsi con il male, il trovare il male in sé, l’incontro con il peccato, con la colpa» (p. 15). Se Moby Dick, l’animale mitico, l’universo simbolico, è la misura sproporzionata della libertà umana, l’universo illimitato con il quale dover fare debitamente e dovutamente i conti, la condizione umana è efficacemente rappresentata da un personaggio ben preciso: il capitano Achab. Infatti, il pensiero dominante è «la dannazione del personaggio di Achab» (p. 17). Dannato, come ciascun essere umano, in quanto costretto «a una dismisura dei progetti e degli scopi che l’individuo si dà: una dismisura in cui l’uomo sogna di essere Dio, di creare l’universo o di sfasciarlo. Questa tentazione — eritis sicut dii […] — raggiunge un’intensità ineguagliata in Achab» (p. 17). La ricerca della balena bianca esprime appieno l’eterna tentazione dell’uomo: superare la propria condizione finita per essere come Dio, avere dominio completo su ogni cosa. Ma l’uomo non è Dio, di qua l’inganno del serpente e la conseguente dannazione umana.
Il capitano Achab, dunque, è la cifra dello scandalo umano, la dannazione. Infatti, il «male oltrepassa in lui la dimensione fisica e diventa coscienza vivida e assillante di un dolore spirituale. Non solo: diventa dolore del cosmo, fino a che il cosmo stesso urla in prima persona, usando Achab come intermediario. Diventa male metafisico» (p. 21). Sembra di poter condensare, allora, nella dannazione di Achab, nell’eterna ricerca della balena bianca, il tono dell’avventura umana su questa terra, su questo opaco atomo del male. Ma la storia umana è storia dolorosa perché l’uomo, errando, non accetta i propri limiti, la propria stessa finitudine. Tant’è che la condotta umana è, in fin dei conti, ambivalente. Come sostiene Spinelli: «Il male è dentro e fuori di noi. È combattuto e adorato, così come Achab adora Moby Dick» (p. 23). Di fronte alla pochezza della collocazione umana nel creato, Achab è interessato alla balena bianca in quanto è l’unico essere ch’egli «giudichi alla propria altezza» (p. 23). Nient’altro attira la sua attenzione alla stessa maniera. Irretito nella sua perversa ossessione, Achab non dedica alcuna attenzione al resto del mondo, ai suoi stessi simili, chiuso nella cecità di una ricerca. Eppure, nei toni titanici che lo accompagnano e ne segnano ogni passo, ogni parola, sembra trasparire qualcosa di non esclusivamente umano. Anzi, sembra quasi che Achab sia per così dire “costretto” a dare la caccia alla balena bianca. Infatti, è lui stesso che «parla di un Dio, un tiranno spietato che gli comanda di fare quello che fa, e simultaneamente vive la propria esperienza come se fosse un atto di indiscussa libertà» (p. 30). La sua storia è un continuo oscillare «fra la caccia-ricerca intesa come atto solitario di libero arbitrio e la caccia vissuta come sottomissione a una necessità negatrice dell’esistere libero» (p. 30). Achab agisce così perché libero o perché così necessitato? La questione resta irrisolta sino alla fine, il lettore non saprà mai come stiano davvero le cose. Al capitano resta soltanto di sentire «di vivere come in una prigione e di poterne uscire uccidendo Moby Dick» (p. 31). La perversione del capitano Achab non consiste nemmeno nella ricerca della balena bianca, nel guardare «non l’animale, ma il sole» (p. 39), «Se stesso o quello che lui ritiene sia l’ordine che gli viene dal Cielo o dagli Inferi» (p. 39).
La parabola del capitano Achab, secondo la Spinelli, è anche la narrazione metaforica della cultura americana, il desiderio di «avere qualcosa di significativo da cercare e da dire nel mondo. È il desiderio cui viene dato il nome di eccezionalismo americano […] L’eccezionalismo può trasformarsi in dismisura come nel capitano Achab» (p. 45).
Se Melville mette dentro al suo romanzo le sue ansie di esponente contemporaneo della cultura americana del XIX secolo, è pur vero che comunque gli argomenti trattati hanno una dimensione che travalica i confini nazionali di una specifica cultura, per finire con il parlare a ciascuno uomo, a ciascuna cultura sotto il cielo.
Il mare rappresenta un altro crogiuolo di simboli. Esso viene considerato come «un intrico di dolore, di minaccia» (p. 52), il luogo della tribolazione. Nella simbologia biblica, d’altra parte, l’acqua racchiude una molteplicità di significati, essa sconvolge, travolge, pulisce, purifica, rigenera. Prendere il mare, allora, potrebbe voler significare anche compiere un viaggio di nascita a nuova vita. Questo «perché nell’acqua sei scrutato e vagliato, prescelto o scartato. È scendendo nel profondo dell’acqua, nel profondo del Leviatano, che scopri la tua vocazione» (p. 53). Ma l’acqua depura solo dal male. Dunque, è nell’acqua che si può trovare il male, è lì che giace il male. Così, il capitano Achab insegue Moby Dick perché vi riconosce il simbolo del male. La balena è «una metafora del male o dell’assurdo del mondo» (p. 54). Un simbolo indica quel al cui posto sta, ma non si identifica mai del tutto con il suo riferimento oggettivo. Così, «non è altrettanto facile rappresentare tale male. Innanzitutto perché è muto» (p. 54). In questo la balena continua nel suo compito di essere una metafora: anch’essa è muta. Ma se la balena è muta, se il mondo è muto, se l’essere resta silente alle interrogazioni umane, diventa improbo tentare di sondare il mondo, l’universo che ci circonda. Quel che ne risulta, pertanto, è la percezione della dismisura, che inquieta, che angoscia, che suscita le vertigini. Eppure, anche i colori seguono questo filone. Moby Dick è una balena bianca. Asserisce in merito Spinelli: «Il bianco, pur essendo una tinta ben determinata, è considerato un non-colore e in quanto tale rappresenta l’indecifrabile, l’ineffabile» (p. 56). In quanto metafora del mondo, dell’universo, dell’essere stesso, la balena viene tinteggiata di colore bianco perché solo così si esprime l’inesprimibile, solo così resta salva l’ineffabilità dell’essere che resta distante dall’uomo, da quest’ultimo non coglibile, non decifrabile, non comprensibile. All’uomo restano solo i simboli dato che non può esprimere con parole quel che resta non alla sua portata. Esistono parole per esprimere qualcosa che si colloca fuori misura? Soltanto sensazioni, intuizioni, metafore. Meliville, al riguardo, gioca anche con le parole e con l’ordito dei rimandi. Infatti, balena è tanto whale quanto whole, una «Balena-Tutto che ci si accampa davanti» (p. 73).
I simboli cifra dell’ineffabile, della dismisura, sono signa di un linguaggio ben preciso, il linguaggio della profezia, che non «salva, ma introduce alla conoscenza dei peccati, degli errori» (p. 79). Moby Dick, dunque, è una grande profezia, una narrazione simbolica dell’umanità. Melville è «uno scandagliatore dell’anima» (p. 80), un cantore dei mali che affliggono l’uomo, dei peccati dell’uomo, delle limitatezze, delle ristrettezze della finitudine umana. Tuttavia, c’è qualcosa in Moby Dick che rimanda al testo biblico, il dono della profezia e la conseguente fuga per mare di Giona. Infatti, è descritto «come un fuggiasco di Dio, come qualcuno che si sottrae alla chiamata. Forse, nonostante siano numerosi i riluttanti all’appello, di tutti i profeti è quello che fugge di più» (pp. 84-5). Per accettare infine la sua missione, il suo compito, il suo destino provvidenzialmente disposto, Giona deve tribolare in mare, deve «inabissarsi nelle acque e abitarvi tre giorni e tre notti» (p. 85). Accettato l’incarico, resta da combattere il male, dentro e fuori di sé. Come scrive Spinelli contro «il male vale la pena ingaggiare una lotta totale ed esclusiva, ma la presunzione umana di abbatterlo d’un sol colpo è speranza vana e peccato di superbia: poiché il male continua, perché la balena esiste oltre l’uomo, replicando le proprie forme o mutandole» (p. 87). Ma la speranza di poter reggere il confronto con il male è legittima. Infatti, «appartiene a chi vuole tornare a terra, nella consapevolezza che l’impresa marina si è trasformata in morbo e furore» (p. 90). Ma questa è la concezione di Starbuck, non di Achab. La speranza è, forse, il risvolto della nostalgia, quel desiderio di ritorno che prende durante l’esperienza dell’esodo, degli israeliti e di tutti gli uomini. Il puritanesimo presente nell’opera generale di Melville si palesa nell’«ossessione del peccato e della dannazione, l’individuazione della colpa e della propria responsabilità» (p. 91). La ricerca dell’uomo diventa, così, «pellegrinaggio interiore che ha mete celestiali malcerte» (p. 91).
Ma v’è un altro personaggio che contende la scena, che completa la trama dei rimandi simbolici, Pip. Egli è «una figura magica, che adora Achab pur essendo il suo esatto contrario. È un “piccolo” nero dell’Alabama ed è l’unico personaggio ad essere invaso da un’incontenibile paura della balena bianca, e di qualsiasi balena» (pp. 101-2). In altri termini, «Pip è Giona (e Melville) in versione demente. Ed è un doppio tragico e commovente di Achab» (p. 102).
Come insegna la sapienza antica, la virtù sta nel mezzo, né nel troppo alto, fuori portata, né nel troppo basso, fin troppo dentro alle bassezze della finitezza. Infatti, la lezione profonda di Moby Dick consiste in questo: fissare dei valori davvero umani. Infatti, «una scala di valori troppo rigida tende inevitabilmente a eludere la contraddizione tra scelte di vita egualmente pregevoli, e l’elusione finisce con l’assolutizzare alcuni valori […] a scapito di altri che d’un tratto appaiono talmente relativi da degenerare in non-valori. L’impoverimento brutale cui andremmo incontro è incommensurabile. Smarriremmo sia il cronometro sia l’orologio. Perderemmo una bussola non meno fondamentale della nostra cultura, che ci viene dall’antica Grecia: la capacità di discernere il momento […] in cui siamo messi davanti all’aporia tragica, e ci tocca scegliere fra ragionamenti, gesti, risposte, silenzi che possiedono la stessa porzione di verità. Ci troveremmo, come il piccolo Pip di Moby Dick, abbandonati e soli in un mare sconfinato, con il nostro rotondo orizzonte che comincerebbe a estendersi intorno a noi disperatamente» (pp. 119-120).