Recensione ad Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa

Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa, Einaudi, Torino 2009, € 10,00.

Il presente testo s’inserisce nella più vasta pubblicistica in merito alla laicità del dibattito pubblico e al relativo rapporto tra credenti e non credenti nello spazio della dimensione pubblica. Un argomento, dunque, forte e caldo, almeno in Italia, per ovvie ragioni, che Bianchi riprende con mitezza e fermezza. Se nella Differenza cristiana lo stesso autore tratteggiava lo specifico dell’identità cristiana all’interno delle società di oggi, secolarizzate e multiconfessionale, nel presente affronta il dialogo tra credenti e non credenti al fine di formulare lo spazio di un discorso comune all’interno del quale sia possibile elaborare un’«etica condivisa». Infatti, il sottotitolo dell’opera recita le seguenti parole: «L’umanità è una, di essa fanno parte religione e irreligione». Lo spartiacque, dunque, non deve esser visto nell’appartenenza confessionale o nella sua assenza, né tantomeno nelle ovvie differenze di gruppo le quali non costituiscono certo buone ragioni per concludere che sia impossibile un’etica condivisa.

L’autore comincia la sua dissertazione prendendo atto dell’effettiva difficoltà del «dialogo tra credenti cristiani e non cristiani, tra cattolici e “laici”, per i cattolici stessi che credono al dialogo vissuto nell’ascolto, nello sforzo di non disprezzare l’altro, ma di operare con lui un confronto» (p. 3). Certamente dei «giorni cattivi» (p. 3), rispetto ai quali, però, non è preclusa in abstracto la possibilità di parlarsi, di dialogare, di trovare unione, e non solo divisione. A tal fine è necessaria l’effettiva volontà di entrare in schietta relazione, altrimenti si resta soltanto divisi nel proprio fortilizio. Questa è una modalità del tutto erronea al cristianesimo al quale, infatti, è prescritto di vivere in questo mondo, in stretto contatto con gli uomini, anche con quelli che hanno una spiritualità diversa, pur nella fedeltà alla propria fede. I cristiani devono avere un comportamento «teso alla fedeltà al vangelo, ma anche attento agli uomini in mezzo ai quali vivono, e dunque ai segni dei tempi» (pp. 4-5). D’altra parte, essi sono chiamati alla testimonianza presso gli uomini, non attraverso l’esercizio di una “dottrina”, ma mediante la vita vissuta, vita a contatto con gli altri, con non credenti, con credenti in altro. In fondo, chi possiede una fede sicura non teme il confronto.

In questo modo, Bianchi cercherà di illuminare «la condizione della Chiesa nello spazio pubblico» (p. 5), «di delineare alcune regole a favore di un dialogo fruttuoso con chi non crede in Dio o crede diversamente» (p. 5), solo così è possibile «costruire insieme una polis dove il vivere assieme possa essere più umano per tutti» (pp. 5-6). Per poter fare ciò, però, è bene avere chiara la condizione attuale. Infatti, viviamo «in una nuova fase della secolarizzazione, in cui si registra l’emergenza del soggetto, dell’individuo, che si percepisce come autoreferenziale, unicamente teso a realizzare il proprio desiderio e incentrato sul proprio interesse: i desideri di questo soggetto tendono a essere sentiti come diritti dell’individuo» (pp. 6-7). Si delinea, così, una «società senza un orizzonte comune, senza la preoccupazione della solidarietà e della percezione dell’altro in vista di un bene comunitario» (p. 7). Aggiungendo a ciò, «la sopravvenuta condizione di minoranza da parte dei cristiani» (p. 7), ecco che allora la situazione attuale può condurre ad ulteriori chiusure, soprattutto da parte di un cristianesimo che, a torto, si sente accerchiato e, in certi casi, addirittura perseguitato. L’autore precisa così che il «problema non riguarda solo l’identità della fede cristiana, ma anche quella culturale di un popolo: in entrambi questi ambiti si assiste al fiorire di atteggiamenti ispirati da paura, da difesa di un’identità definita una volta per sempre» (p. 8), laddove, al contrario, ogni identità si costruisce proprio «attraverso l’incontro e il confronto con gli altri» (p. 8). L’uomo di oggi, anche perché in ciò incoraggiato dal progresso tecnologico, è giunto a confondere la «possibilità tecnica» con la «possibilità morale». Così, si rende necessaria «una ridefinizione della laicità dello stato» (p. 9), chiamato sempre più spesso a legiferare «su materie che dividono e contrappongono le etiche e le fedi presenti nella società» (p. 9). In una tale situazione si può anche arrivare ad ignorare, volutamente o per ignoranza, la divisione evangelica tra «regno degli uomini» (Cesare) e «regno di Dio» (Dio), non rendendo un buon servizio allo stesso cristianesimo così strumentalizzato in termini di «religione civile», «sistema culturale capace di fornire alla società quella mortale comune che si ritiene deducibile solo a partire dalle religioni» (p. 25), una summa di valori civili utili contro una pretesa degenerazione etica della società. La chiesa deve, dunque, esprimere la sua indisponibile esigenza di fondo che ne attesta la a-normalità: «il messaggio del vangelo si oppone a ogni necessitas di potere umano» (p. 14). Ma ciò significa anche che la stessa «non può e non deve […] pretendere di imporre alla società il suo punto di vista etico» (p. 14). In altri termini, se «i cristiani devono avere la possibilità di esprimere apertamente la loro opinione, ma senza toni arroganti, o di servirsi con intelligenza dello strumento dell’obiezione di coscienza, nello stesso tempo devono lasciare che sia il gioco democratico a determinare le leggi all’interno di uno stato, mentre la chiesa non può imporre che le proprie visioni etiche e morali siano tradotte in leggi dello stato» (p. 17). Quest’ultima, infatti, sarebbe una teocrazia rispetto alla quale «a parole si dice di non volerla, ma di fatto a volte sembra ci sia la tentazione di instaurarla per altre vie» (p. 17).

Sarebbe più opportuna, dunque, maggiore prudenza da parte dei cristiani i quali dovrebbero accorgersi di quel che sta accadendo, «ogni fatto e ogni parola che appartengono alla religione e alla vita ecclesiale sono soggetti a un uso politico, fino a poco tempo fa da parte di chi in realtà non è segnato dalla fede, ma ultimamente anche da parte dei cristiani stessi» (pp. 19-20). Si tratta, sostanzialmente, di una deriva del fatto religioso, una pericolosa riproposizione dell’utilizzo politico della religione quale instrumentum regni, o anche solo per raccogliere consensi di volta in volta. Infatti, «nella stagione del disincanto della politica […] la religione «risorge», soprattutto come risorsa identitaria ed etica che la rende più facile preda di forze politiche che vogliono sfruttarla a proprio vantaggio» (pp. 22-3). In realtà, pur andando religione e politica di pari passo, «il messaggio del vangelo non accetta questo assetto di complicità o di scontro frontale» (p. 23), l’evangelico dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio «significa anche annuncio di un regno di Dio che non è un regno mondano, un regno in cui il potere non si conquista e non si esercita al modo dei dominatori di questo mondo» (p. 23). Questa differenza cristiana fa sì che «esisterà sempre una tensione tra il vissuto concreto di una spiritualità e l’ideale che anima ogni opzione temporale» (pp. 23-4). Infatti, il cristiano deve vivere la dimensione dell’estraneità, dell’essere pellegrino presso gli uomini. Egli «sa vivere la propria fede come differenza cristiana» (p. 28), «sa essere «evangelizzatore» innanzitutto mostrando un «bel comportamento» in mezzo ai non cristiani» (p. 28) proprio perché «così estranei e «differenti» rispetto alla mentalità circostante» (p. 29). Non si dovrebbe mai dimenticare che come cristiani «non solo non siamo né perseguitati né osteggiati […] ma che rischiamo addirittura di essere adulati e privilegiati, con grave danno della nostra testimonianza resa al vangelo» (p. 28). Al contrario, «riscoprire questa dimensione della stranierità consentirebbe di misurarsi adeguatamente con l’irriducibile dialettica tra appartenenza e differenza, tra solidarietà e diversità, tra convivenza civile e alterità» (p. 31), «sapersi e sentirsi tutti «stranieri» ci aiuterebbe a cogliere l’altro nella sua interezza e nella complessità della sua persona, senza ridurlo ai problemi che la sua presenza comporta» (p. 33). Qual è, dunque, il posto dei cristiani? Certamente «nella compagnia degli uomini» (p. 34), relazionandosi e dialogando con essi, espressione di una identità «fiera […] ma non arrogante, consapevole che, pur senza mai tralasciare di predicare il vangelo, il risultato non dipende dalla sua volontà perché […] «non di tutti è la fede»» (pp. 34-5). L’avvenuto pluralismo religioso deve avvertire la chiesa di non essere «un gruppo di pressione» (p. 35) in quanto «il suo posto nella società è quello di interlocutrice, non di reggente» (p. 35). Quindi, il cristianesimo può, e deve, contribuire al progresso civile degli uomini, ma lo deve fare «senza rivendicare una superiorità rispetto al contributo di altre componenti religiose, filosofiche o ideologiche, senza chiedere privilegi o ascolti discriminanti» (p. 37), i cristiani «vogliono e devono poter esprimere le loro convinzioni nello spazio pubblico e politico e poter di conseguenza lavorare al servizio dell’umanità» (pp. 37-8), «ciò che viene chiesto dalla loro fede è sempre umanizzazione, difesa della dignità umana, promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione» (p. 38). Cosa succede oggi al fatto religioso? Come viene vissuto? Bianchi è chiaro al riguardo: «una società ormai secolarizzata […] non solo è attraversata dal ricorso a una nebulosa di spiritualità avvolgente, ma pare infiammarsi per eventi di connotazione religiosa, o addirittura confessionale, dal forte impatto identitario» (p. 44). Di fronte alla tendenza ai testimonial della fede, come può oggi il credente essere testimone della propria fede? Un credente può ancora «rendere ragione a chi gli chiede conto della speranza che lo abita» (p. 45)? Ma l’autore sostiene che nonostante l’attuale supermercato del religioso, «sia ancora possibile trovare parole e gesti per articolare un linguaggio cristiano comprensibile agli uomini e alle donne di oggi, capace di raggiungerli al cuore del loro vissuto ordinario» (p. 46). Sembra, cioè, ancora possibile «rendere conto di un legame vitale con una presenza invisibile che i credenti chiamano Dio» (p. 46). Certo rimane sempre la peculiarità del legame religioso, di questa presenza-assenza di Dio. Infatti, si «può vivere credendo in Dio come può vivere senza questa fede, non vi è costrizione alcuna a dover credere in Dio perché Dio non è il risultato di una necessità» (p. 47). Anzi, è lecito affermare come «non è neanche la fede in Dio l’unica istanza capace di frenare il decadimento morale» (p. 48), anche l’ateismo, per intenderci, è capace di etica. Ma se l’uomo è anche capace di dire a Dio «Tu non esisti, tu non mi hai creato» (p. 48), «perché credere?» (p. 48). Secondo Bianchi, «si aderisce al Signore perché nella ricerca di Dio, del bene, della felicità si accetta il dono della fede: questa infatti è dono e «non è di tutti»» (p. 48). La gratuità della fede riposa sul suo stesso paradosso, ben espresso da Agostino: non ti cercherei se non ti avessi già trovato. Quindi, ci «sono uomini che credono e uomini che in qualche misura non «possono» credere, non per predestinazione divina, ma perché non sono in condizione di discernere e accogliere la fede» (pp. 48-9), la fede è e «resta un atto di libertà» (p. 49). Ma, allora, in cosa consiste il vantaggio apportato dalla fede? Se non è un possesso materiale, cos’è? In merito, Bianchi è lapidario: «porta la speranza della vita più forte della morte, dell’amore più forte dell’odio, di una vita oltre questa» (p. 49), lo specifico del cristianesimo è tutto qui, «la fede nella risurrezione, la risposta alla domanda che ogni uomo si fa: «Cosa posso sperare?»» (p. 49). E non, come pure potrebbe sembrare, una mera questione d’affermazione di un legame, di radici del proprio credere, ma anche uno spazio di finalità, un produrre «buoni frutti». Infatti, il credente deve calare la propria fede in un «vissuto umanissimo che testimoni di quella speranza nella vita più forte della morte» (p. 50), la fede mette capo ad «una vita ricca di senso e di amore, una vita abitata dal prendersi cura dell’altro, una vita autenticamente umanizzante» (p. 50).

Tuttavia, il credente non possiede la verità in tasca, né tantomeno la sua fede «è esente dal rischio» (p. 50), «anche il credente conosce il rischio dell’incredulità come poca fede, come non ascolto della volontà di Dio, come tenebra del nonsenso» (p. 50). Questo vuol dire essere cristiani, render conto della speranza, perché «oggi come sempre, i cristiani e quanti guardano a loro con simpatia o con rispetto non hanno bisogno di testimonial ma di testimoni» (p. 51).

Di fronte al degenerare della fede, il cristianesimo per primo deve porsi delle domande ineludibili, c’è «autentica conoscenza del fondamento storico della fede cristiana? Non c’è forse un prevalere della trasmissione dell’etica cristiana rispetto al suo fondamento che è l’evento di Gesù di Nazaret, la sua vita, la sua morte, la sua risurrezione?» (p. 57). d’altra parte, l’ignoranza biblica va di pari passo con i periodici scoop pseudo religiosi, che indicano versioni apocrife dei vangeli oppure «si accusano gli esegeti di tener nascosta la verità» (p. 58), sino anche ad accusare la stessa chiesa di divulgare una versione edulcorata della testimonianza cristiana. Si tratta, in parte, di una «curiosità quasi morbosa sui periodi oscuri della vita di Gesù, bisogno di «santificare» personaggi evangelici in cui si riconosce, desiderio di proiettare su Gesù i nostri sentimenti anziché far penetrare in noi i sentimenti di Gesù, rimozione dello scandalo della croce, cioè della morte ignominiosa e infamante patita da Gesù» (p. 59). Per questa strada, infatti, si può giungere a riabilitare Giuda, preferendo a pensare in luogo di un tradimento «un patto di complicità tra vittima e traditore» (p. 59), non si tollera l’incredulità di Tommaso «e forziamo il testo per farne uno che ha messo il dito nella piaga del corpo di Gesù risorto» (p. 59), mentre il vangelo «di lui non dice che ha «toccato», bensì che ha visto e ha creduto, manifestando così la beatitudine di chi ha creduto senza vedere» (p. 59). In realtà, avverte Bianchi, «tutto questo obbedisce alla «religione fai da te», in cui ognuno aggiunge alla sua fede un pizzico di quanto più gli piace, impegnando tutte le sue energie intellettuali nel rifiuto dello scandalo della croce e della fondamentale realtà di un Dio fattosi uomo come noi in tutto eccetto che nella sudditanza al male» (p. 61). La fede cristiana non coincide con la logica di questo mondo, la buona notizia «non è affidata a un libro o a una pellicola, ma a uomini e donne in carne ed ossa» (p. 62), «è la vita dei cristiani che deve essere un racconto credibile del vangelo, un racconto che nessun intrigo romanzesco può sconfessare» (p. 62).

Il discorso sin qui condotto consente di aprire alla possibilità che anche gli atei abbiano una spiritualità. Nelle parole dell’autore, infatti, e si tratta di parole importanti: «l’umanità è una […] di essa fanno parte religione e irreligione […] in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità» (p. 65). Bianchi propende anche per l’idea di una necessaria “alleanza” tra credenti e non credenti contro il nichilismo, «scivolo verso la barbarie» (p. 65). Purtroppo, però, esso viene «sovente definito relativismo, finendo per confondere il linguaggio del dialogo e del confronto e portando all’incomprensione reciproca» (p. 65). Esattamente quello che sta accadendo oggi. L’autore invita anche ad un dialogo franco, senza inimicizie reciproche, tra credenti e non credenti, un dialogo poggiante sul fuoco di una «ricerca comune» (p. 70), oggi, però, attraversante «un tempo molto buio» (p. 70).

Ritornando al proprio specifico, Bianchi avverte come si sia verificata nel tempo un tradimento nei confronti del mandato conciliare. Infatti, dal «Concilio Vaticano II i cattolici hanno tratto un insegnamento non sul contenuto della fede […] ma soprattutto sullo stile» (p. 74). Infatti, non basta affermare di appartenere al Cristo vivendo poi come se non ci fosse. Al contrario, «per essere percepito come meritevole di fiducia, affidabile, il messaggio di Gesù deve essere vissuto da chi lo predica, deve essere accompagnato da un agire coerente, disinteressato, gratuito, deve essere animato dall’amore per l’uomo e non dalla ricerca di potere, deve essere proclamato lasciando nella libertà gli ascoltatori, senza imposizioni e senza pressioni, con mezzi e atteggiamenti conformi a quelli usati da Gesù stesso e dalla chiesa nascente» (p. 75). Né tantomeno è condivisibile l’atteggiamento dettato dal timore di scoprirsi minoranza in una comunità nazionale. Infatti, la «fede non è questione di numeri, ma di convinzione profonda, di grandezza d’animo, ed è ciò che «fa» il cristiano autentico e la sua parola credibile» (p. 76).

In certi casi, purtroppo, la religione è diventata ideologia, «sempre potenziale fomentatrice di violenze» (p. 78). Gli stessi testi sacri presentano anche innegabili presenze della violenza e del male. Ma la loro descrizione va letta in un’altra maniera, rispetto alla facile tentazione di giustificarli perché presenti nel Libro, come l’affermazione della lotta senza posa nel cuore umano tra l’anelito al bene e l’attrazione per il male.

Sarebbe, dunque, costume gradito per il cristiano, «l’ascolto di ciò che l’altro dice e di come si definisce, la volontà di capire in profondità anche al di là delle espressioni usate, lo sguardo capace di abbracciare ambiti e periodi storici più ampi del contingente» (p. 83). Questo è il cosiddetto «radicalismo cristiano» che non è mai fanatismo o violenza autorizzata dal Libro, ma vita in integrale fedeltà al messaggio evangelico, potenzialmente universale, ma oggi sempre più delimitato all’interno di una falsa diatriba identitaria. Così, il tradimento degli ideali e valori universali espressi a chiare lettere nell’Evangelo porta oggi ad uno spettacolo desolante quanto preoccupante. Annota Bianchi: «si assiste giorno dopo giorno a una progressiva criminalizzazione del diverso, dello straniero, del povero e del debole» (p. 91), con «impronte digitali prese a bambini di un’etnia minoritaria, classi speciali che ostacolano quell’integrazione che dicono di voler promuovere, schedatura di chi vive senza fissa dimora, allontanamento dei mendicanti dai luoghi dove la loro vista turberebbe chi non li degna di uno sguardo, ronde private non necessariamente disarmate, introduzione del reato di «presenza» in Italia, messa in discussione della gratuità e universalità delle cure di pronto soccorso …» (p. 91), provvedimenti magari portati avanti proprio da quanti, a parole, dichiarano di ispirarsi ai valori stessi del cristianesimo, dissimulando, così, la loro attrazione per il male come anelito verso il bene. Nella stessa maniera va letta la questione del riferimento alle «radici cristiane». Nel momento in cui il patrimonio valoriale di una comunità nazionale non contempla i valori stessi del cristianesimo, a che pro un riferimento letterale privo di radicamento nei cuori singoli? In merito, Bianchi è netto: «abbiamo bisogno di un soprassalto di dignità umana prima ancora che cristiana, abbiamo urgente bisogno di ritrovare in noi e attorno a noi il rispetto per la dignità di ogni essere umano, abbiamo un’esigenza vitale di riscoprire come il bisognoso è uno stimolo e non un intralcio a una società più giusta» (p. 93). Invece, se «continuiamo a confondere la sicurezza con l’esclusione di ogni diversità, se continuiamo a nutrire le nostre paure invece che ad affrontarle, se crediamo di poter uscire dalle difficoltà non assieme ma contro gli altri, in particolare i più deboli, ci prepariamo un futuro di cupa barbarie, ci incamminiamo in un vicolo cieco in cui l’uomo sarà sempre più lupo all’uomo» (p. 93).

Una confusione dottrinaria tra «fede«e «etica» è causa oggi di rapporti tesi tra cristianesimo e scienza. Al contrario, argomenta Bianchi se l’uomo è creato ad immagine di Dio, egli è anche capax boni, ossia «capace di discernere ciò che è bene, sia egli cristiano o meno» (p. 106), «l’uomo è dotato di una grammatica comune, di un sillabario comune a tutti che permette di operare il bene e di rigettare il male» (p. 106). Questo terreno comune è il fondamento di un’etica condivisa, che disinneschi anche il conflitto attuale in merito ai rapporti tra fede e scienza. In effetti, «la fede non ha nulla da temere dal sapere scientifico, così come la scienza non trova ostacoli nella fede, perché dalla fede è assolutamente autonoma» (p. 109). Le ragioni dello scontro vanno, invece, ricercate in un atteggiamento speculare nei due opposti: «il possibile conflitto tra scienza e fede può essere acceso da correnti fondamentaliste cristiane e da uomini della scienza e della tecnica che pretendono uno statuto di infallibilità, soprattutto nel campo della biologia e delle sue applicazioni in medicina» (p. 111). Partire, invece, da un patrimonio valoriale comune in merito all’umanità garantirebbe dallo scontro tra i due estremi. Infatti, «ciò che va temuto è la strumentalizzazione, la manipolazione, la reificazione del soggetto umano» (p. 112).

Al cristiano il compito antico, e sempre nuovo, di discernere la via giusta nella sua immancabile dimora presso i gentiles. Egli, infatti, deve saper rimettere «al centro l’umanità di Gesù» (p. 119), così da «recuperare quella grammatica umana di base necessaria per la trasmissione della fede oggi, ma necessaria anche per arginare la barbarie dilagante nella società, una barbarie che sembra non trovare più ostacoli» (p. 119).