1. Introduzione
Consultando l’ampia letteratura bioetica, in genere, si fa esperienza di varie nozioni, così come di differenti definizioni, della bioetica. Quel che, però, viene a mancare in tali fonti è indubbiamente l’esplicitazione dell’orizzonte epistemologico alla base dei discorsi bioetici. In particolar modo, è raro incontrare delle analisi compiute intorno alla natura logica delle argomentazioni bioetiche.
Pertanto, essendo importante analizzare la dimensione epistemologica delle suddette, sarà compito del presente lavoro discutere i presupposti epistemici soggiacenti alle varie argomentazioni costituenti l’universo (dei discorsi) della «bioetica».1
Si vedrà anche come proprio un esame epistemologico consenta di porre nella giusta luce il senso (di alcune) delle principali argomentazioni bioetiche.
D’altra parte, non è chiaro come mai sia (quasi) assente una riflessione che prenda in considerazione proprio la natura delle argomentazioni del discorso bioetico. Infatti, è così possibile realizzare un chiarimento delle presupposizioni che, silenti, agiscono nell’orientare le varie posizioni.
2. Necessità della bioetica
La condizione culturale della nostra vita quotidiana è profondamente pervasa dalla tecnologia, ossia da un sapere procedurale il quale ha, in un brevissimo periodo di tempo, rivoluzionato il patrimonio culturale della popolazione umana, soprattutto, ma non solo, dei paesi occidentali. Per di più, nella misura in cui questa rivoluzione culturale ha investito la dimensione biologica dell’essere umano, più pressanti si sono fatti i timori che tale invasione tecnologica potesse in qualche modo ledere la medesima vita umana.2
D’altra parte, a tale travolgente divenire tecnologico non è corrisposta adeguata elaborazione culturale, al punto che ci si è trovati spesso nella difficoltà ad inquadrare, non ancora a pensare, fattispecie biologiche impensabili, perché non esistenti, solo qualche anno prima (p. e. la clonazione di specie viventi, sino all’estremo caso della clonazione umana; la liceità degli OGM, sino all’estremo caso della modificazione del genoma umano; la fecondazione artificiale, sino all’estremo della sostituzione delle figure genitoriali in surrogati meccanici; il trapianto d’organi, sino all’estremo della trapiantabilità di qualsiasi tessuto, anche non umano; la contraccezione umana; l’aborto; le chimere, sino all’estremo dell’unione di organismi con origine da regni differenti, anche non soltanto animale; etc.).3
Allora, di fronte al progresso scientifico, la cultura (soprattutto, ma non solo, occidentale) si è posta il problema di una regolazione, quando non anche di una regolamentazione, se accettata l’idea di una loro intrinseca liceità, delle condotte interessate, soprattutto quando vengono toccati gli aspetti pubblici della sfera biologica.
Le possibilità biologiche innescate conducono alla necessità di un’ampia riflessione sulle regole dell’azione umana. Per esempio:
In questo contesto, infatti, è stato formulato un sapere, chiamato bioetica, consistente in una «scienza della sopravvivenza»,4 o etica della vita,5 ossia una disciplina, via via sempre più multidisciplinare,6 coinvolgente ontologie regionali differenti (p. e. la filosofia; la sociologia; il diritto; la psicologia; la biologia; etc.),7 avente per scopo la formulazione dei criteri di condotta adeguati ai vari casi resi possibili dalla rivoluzione tecnologica,8 e in grado di «garantire la sopravvivenza e il benessere dell’uomo».9 Il problema, in altri termini, è stato quello di elaborare un’etica che fosse in grado di fornire criteri adatti per la condotta bioetica,10 per la risoluzione di tutti quei dilemmi,11 causati dalla rivoluzione scientifica, i quali richiedono sovente una scelta morale.12
È evidente che sorge a questo punto una questione né storica né storiografica, ma dall’indubbio sapore epistemico: perché (un’) etica della vita? La vita necessita forse di un’etica? Cosa può l’etica nei confronti della vita? La domanda, magari a dispetto delle apparenze, non è oziosa. Infatti, il collegare due termini, etica e vita, ethos e bios, implica che l’orizzonte di senso sia preciso e nasca dalla loro reciproca congiunzione: etica per la vita.13 Ma perché la vita dovrebbe aver bisogno di un’etica? Perché viene avvertita la necessità, quasi l’impellenza, di una (nuova) etica rivolta agli aspetti della vita umana? È evidente, da questo punto di vista, ma è anche esperienza comune, che la vita oggi sia differente da quella di una volta, che esista una divaricazione antropologica profonda tale da richiedere una nuova, e diversa, consapevolezza, una nuova «riflessività» di fronte alla rivoluzione tecnologica in atto in biologia.14 Quel che si richiede, cioè, è un ripensamento etico globale che delinei il limes di quanto è lecito, ossia possibile realizzare, e di quanto è illecito, ossia impossibile realizzare.15 Antropologicamente, infatti, si è rovesciato il rapporto tra la legge (nomos) e la natura (physis): non v’è più una dipendenza della prima dalla seconda, ma quest’ultima può essere modificata dalla prima.16
Schematicamente:
È dalla necessità di dover fare i conti fino in fondo con questa rivoluzione antropologica che scaturiscono le argomentazioni bioetiche.
3. Le presupposizioni epistemiche dei giudizi bioetici
Dato il carattere invasivo della tecnologia, si potrebbe dire che la bioetica riguardi non soltanto casi particolari, in genere eclatanti, ma sempre più la nostra vita quotidiana.17 Il problema, allora, è il seguente: qual è il criterio in virtù del quale giudicare della liceità (oppure anche dell’illiceità), delle condotte chiamate in causa dalla rivoluzione biologica attuale?18 Appare chiaro, infatti, che tale criterio, perlomeno quello dichiarato, in realtà sia giustificato da presupposizioni epistemiche concorrenti tra loro, in virtù della quale opposizione si mette capo ad opzioni morali differenti e confliggenti sui diversi casi,19 del nascere,20 del morire,21 del curarsi.22 Sono tutte dimensioni, della nostra vita umana, in breve del vivere, chiamati in causa dato che la scienza ci ha ormai messo nelle condizioni di mettere definitivamente le mani sull’albero della vita.23
Il senso delle precedenti questioni va individuato nella necessità di chiarire i presupposti alla base delle varie argomentazioni bioetiche. Infatti, sono questi presupposti epistemici che producono i valori in virtù dei quali una comunità umana riconosce ai soggetti dei «diritti», successivamente riconosciuti come tali, e di conseguenza, sanzionati socialmente all’interno di una cornice giuridica, veste istituzionale di una comunità.24
Così diventa chiaro anche come mai la bioetica presenti rilevanti punti di contatto con la cd. biogiuridica.25
D’altra parte è pur vero che le questioni sollevate dalla rivoluzione delle tecniche biologiche presentano un doppio aspetto: (1) stabilire quali sono i valori cui ispirare le condotte pratiche chiamate in causa dalle possibilità tecniche; e, (2) stabilire il godimento di quali diritti soggettivi assicurare in una società.
Semplicemente, diciamo che sotto l’aspetto (1) ricade in gran parte, seppur non del tutto, l’insieme dei discorsi della riflessione bioetica propriamente detta; invece, sotto l’aspetto (2) ricade per intero l’insieme dei discorsi della biogiuridica.
Quali sono, dunque, le presupposizioni in gioco nella formulazione delle argomentazioni bioetiche? Se si riconosce che, sostanzialmente, la bioetica è importante perché operante determinati investimenti di senso sulla vita umana,26 allora se ne possono individuare due delle più importanti,27 e che possono partitamente essere così indicate:
[PB1] Etica della Qualità della Vita; e,
[PB2] Teoria della Sacralità della Vita.28
Ora, la prima presupposizione può essere indicata brevemente con EQV, mentre la seconda con TSV. Secondo una certa linea di pensiero la prima è, in genere, espressione di una bioetica che trae ispirazione dal pensiero laico, mentre la seconda, alla stessa maniera, è, in genere, espressione di una bioetica di ispirazione religiosa.29
Ad ogni modo, è bene specificare come tanto [PB1] quanto [PB2] sono due cornici teoriche che contengono molte presupposizioni ulteriormente articolate al loro interno e che, solo in un’ottica d’insieme, possono venir ricondotte ad unità, rispettivamente nelle forme dell’EQV e della TSV.
Più specificatamente, quel che la presupposizione bioetica indicata come EQV dice è sostanzialmente quanto segue:
- La morale ha un’origine totalmente umana (vale a dire che l’uomo è il legislatore delle norme di condotta);
- Non esiste alcuna «natura» (in altre parole, non esiste alcuna natura dalla quale derivare indicazioni sui progetti esistenziali di singoli e gruppi);
- Fondamentale è il principio di «autonomia» (infatti, essendo l’uomo legislatore di sé stesso, egli è autonomo e può, anzi deve, agire etsi Deus non daretur30);31
- La vita è disponibile (ossia il singolo ha il possesso del proprio corpo, dei propri status personali, della propria vita, in tutte le forme e dimensioni che viene ad assumere);
- La conoscenza è un mezzo di progresso (in altri termini, ogni riflessione sulle condotte possibili deve tenere fermo il punto cruciale che fine delle nostre cognizioni è il progresso; dunque, non è accettabile una bioetica che prescindesse dalle conoscenze scientifiche);32
- La sofferenza non è utile (vale a dire che la sofferenza non è auspicabile né può in qualche modo essere ritenuta utile nel complesso di vita dei singoli; di conseguenza, va rimossa);
- Persona si diventa, non la si è in partenza (in altre parole, il singolo non è persona in quanto tale, per il fatto che esiste, ma lo diventa progressivamente; esiste, dunque, una sostanziale gerarchia tra viventi: alcuni sono più persone di altre);
- Il pluralismo è l’ordine del reale (ossia le opinioni delle chiese, ancorché importanti nell’ambito della discussione pubblica, sono pareri di minoranza e devono, dunque, cedere il passo al pluralismo multiculturale delle società occidentali, abbandonando qualsiasi pretesa di verità).
Quel che la presupposizione bioetica indicata come TSV dice è, invece, quanto segue:
- L’etica ha origine «divina» (ossia, l’uomo trae massime per la propria condotta dall’origine «divina» del proprio essere);
- Si deve cogliere un collegamento con la «natura» (in altre parole, la natura esiste ed è il metro di valutazione dei comportamenti umani);
- L’uomo non ha alcuna autonomia (in altri termini, l’uomo dipende, e fortemente, dal volere della divinità);
- La vita non è disponibile (vale a dire che l’uomo usufruisce della propria vita, ma non può disporne in contrasto con l’ordine secundum naturam);
- La sofferenza, per quanto non desiderabile, fa parte dell’ordine delle cose (in altre parole, la sofferenza va, dunque, accettata quando occorre);
- Si è persone da quando si esiste, non si diviene progressivamente (ossia, ciascuno di noi è in partenza una persona, per il semplice fatto che siamo).
Pertanto, sebbene i due elenchi non siano tra loro perfettamente paritetici, emerge abbastanza chiaramente come la presupposizione EQV abbia come componenti essenziali: (i) il riconoscimento del primato dell’utilità pratica nella vita dei soggetti; (ii) l’autonomia del soggetto nello scegliere cosa fare della propria vita;33 e, (iii) il riconoscimento di un primato del progetto di vita nel costituirsi della personalità.
Al contrario, la presupposizione TSV ha come suoi componenti essenziali: (w) il riconoscimento del valore intrinseco della vita dei soggetti; (ww) la responsabilità del soggetto nello scegliere cosa fare della propria vita rispetto all’ordine naturale; e, (www) il riconoscimento di un primato (ontologico) della personalità che accompagna tutti i singoli dal momento della nascita.34
Il fatto che sovente l’EQV sia accostata alla forma mentale del laicismo e che, di conseguenza, la TSV sia a sua volta accostata alla religione deriva dai caratteri propri delle due presupposizioni, tra loro concorrenti e confliggenti.35 Tuttavia, è anche vero che la stessa TSV, ove si sostituisce al riferimento diretto ad un ordine trascendente un più vago, e terreno, ordine naturale,36 può benissimo essere considerata una posizione laica.37 D’altra parte, il suo accostamento alla religione è dovuto a ragioni interne al dibattito italiano ove importa più il riconoscimento dell’appartenenza a gruppi cui contrapporsi che riconoscere interni elementi di pregio e, soprattutto, di coerenza.
In realtà, il fatto che siano due presupposizioni, che producono differenti, e contrapposte, argomentazioni bioetiche, dovrebbe indurre a ritenere che a cambiare sia il frutto dell’elaborazione antropologica del rapporto tra la natura e la tecnica, tra l’ordine delle cose e la possibilità che abbiamo di modificarlo. Infatti, a causa dell’invasione tecnologica, non abbiamo più di fronte a noi soltanto un ordine naturale (quasi) immodificabile, ma anche la concreta possibilità di intervenire in esso per dirigerlo verso altri esiti. Allora, mentre la coscienza antropologica in passato si limitava a trarre dalla natura un ordine regolarizzante in linea di massima la condotta umana, adesso quest’ultima può legiferare senza tener in alcun conto la natura medesima. Così, si ottiene che l’antropologia offra risposte diverse38 a seconda che, rispettivamente, si attribuisca maggior importanza all’autonomia umana o al corso naturale,39 ossia rispettivamente a quei «valori» che agiscano nella forma di presupposti come componenti (i) — (iii) oppure (w) — (www).
In questo modo, passando per il guado della terra di mezzo tra la natura e la tecnica, ecco che la cultura umana offre risposte differenti a domande che scottanti sorgono nelle nostre pratiche umane,40 mettendo capo ad una vera e propria «etica applicata».41 Infatti, cosa si deve fare al capezzale di un malato terminale? Cosa si deve fare davanti alla possibilità di un nato malformato? Cosa si deve fare nel caso in cui la procreazione naturale può far generare individui affetti da gravi malattie genetiche? Cosa fare nel caso di individui con encefalogramma piatto? Cosa fare con i resti di feti abortiti? Cosa fare con embrioni crioconservati e non più vitali? Cosa fare con la possibilità che tutti i tessuti umani possano essere utilizzati nei trapianti?
Molte altre sono certamente le possibili questioni bioetiche42 ma tale elenco è di per sé sufficiente a far cogliere la profonda difficoltà suscitata dalla rivoluzione scientifica. Rispetto ad esse, dato che è importante operare una scelta, e lo si fa secondo opzioni antropologiche ben precise, magari non dichiarate ma che ciascuno considera vere, si deve seguire un criterio di utilità che massimizzi la qualità della vita dei singoli, ed è il caso della presupposizione antropologica [PB1], oppure si deve seguire un criterio che consideri inviolabile qualsiasi vita umana, a prescindere da quale manifestazione assuma, ed è il caso della presupposizione [PB2]?
4. La forma logica dei ragionamenti bioetici
Assumendo che dietro ogni decisione morale, risolvente un dilemma provocato da un particolare caso bioetico, ci sia un giudizio, ossia un ragionamento, molto schematicamente è possibile considerare le rispettive forme logiche delle argomentazioni bioetiche.
Molto schematicamente, la struttura tipica di un ragionamento è la seguente:
Dato un insieme finito di premesse, si opera un «salto» che conduce ad una precisa conclusione.43 In logica, tra le altre cose, si sostiene anche che, in genere, l’enunciato consistente nella conclusione è implicito in quelli costituenti le premesse.
Non ci dilunghiamo su ciascuna forma logica, ma ci limitiamo a fornire un quadro d’insieme che, a volo d’uccello, consenta di cogliere la fisiologia delle presupposizioni epistemiche nella decisione bioetica.
Un’argomentazione bioetica potrebbe essere la seguente:
[AB1]
- Se il caso X può essere risolto secondo i principi (a) — (h) e (i) — (iii), allora si darà la soluzione Y;
- Il caso X è risolvibile in accordo ai principi (a) — (h) e (i) — (iii);
- (allora) si dà la soluzione Y.
Oppure, si potrebbe avere la forma seguente:
[AB2]
- Se il caso W può essere risolto secondo i principi (1) — (6) e (w) — (www), allora si darà la soluzione J;
- Il caso W è risolvibile secondo i principi (1) — (6) e (w) — (www);
- (allora) si dà la soluzione J.
Al di là della specifica forma logica di tali ragionamenti, il cd. Modus Ponendo Ponens, e al di là della possibile obiezione di una loro eccessiva astrattezza, emerge con forza «come» agiscano le varie presupposizioni epistemiche nella formulazione dei ragionamenti bioetici, quegli stessi che informano le discussioni intorno allo statuto, e definizione, della disciplina. Il dato saliente, infatti, è il ruolo dei presupposti assunti i quali, agendo sotto forma di premesse guidano decisamente il risultato del ragionamento.
Quel che un’ottica epistemica offre è, dunque, la seguente considerazione ulteriore a partire dalla quale considerare il problema definitorio in bioetica: quando si opera una scelta bioetica, è importante quanto è (tecnicamente) possibile o quanto è giusto fare?44 A seconda della risposta accordata, si realizzeranno le varie argomentazioni bioetiche. Problematico, invece, è giustificare l’arbitrarietà della scelta dell’una e/o dell’altra risposta.
5. Conclusioni
Chiarire i presupposti epistemici consente di comprendere meglio i termini del discorso all’interno del quale viene definita la disciplina. Infatti, se varrà la presupposizione [PB1], producendo l’argomentazione bioetica esemplificata con [AB1], si dirà, grosso modo, che la bioetica è quella disciplina che, basandosi sull’autonomia dell’individuo, sulle sue aspettative qualitative e sulle possibilità della tecnica, consente di scegliere nei singoli casi quale condotta adottare. Analogamente, ma con un impianto valoriale assolutamente altro, se non contrapposto, valendo la presupposizione [PB2], producendo l’argomentazione bioetica esemplificata con [AB2], si dirà, grosso modo, che la bioetica è quella disciplina che, basandosi sull’ordine naturale, sulla dignità della persona umana e affermante la necessità di una regolazione etica della tecnologia, nei casi controversi ci dice qual è la condotta giusta.
Prima di concludere è però bene ricordare due elementi che vengono lasciati in ombra nel presente lavoro. In primo luogo: le presupposizioni indicate sono solo due tra le molte disponibili.45 In termini più generali, ciò vuol dire che a seconda della presupposizione epistemica, di origine antropologica, si fornisce una ben precisa definizione di bioetica. In secondo luogo: non compete al presente lavoro stabilire una questione ulteriore circa la possibilità che, nel giudicare dei singoli casi, chi giudica aderisca preliminarmente all’una o all’altra opzione assiologica, espresse rispettivamente nei termini di presupposizioni [PB1] e [PB2] .
Tuttavia, resta da indagare la maniera attraverso la quale gli uomini derivano conseguenze antropologiche dall’esame della realtà. Questo compito, però, esula dalle finalità del presente scritto.
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Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Bioetica: «La bioetica è una disciplina recente che si occupa delle questioni morali che sorgono parallelamente al rapido progredire della ricerca biologica e medica. Ancor più esattamente, la sua natura è multidisciplinare, potendo annoverare al proprio interno aspetti relativi a varie materie, quali: biologia, medicina, filosofia, diritto, ed altre ancora». ↩︎
-
Cfr. D. Neri, La bioetica in laboratorio. Cellule staminali, clonazione e salute umana, Laterza, Roma-Bari, 20052, p. 116: «lo sfondo temporale [di nascita] è quello della seconda metà degli anni Sessanta […] il periodo in cui si rende evidente un profondo mutamento di clima culturale, di mentalità e di costumi sociali». Cfr. Introduzione, a: M. Mori (ed.), Questioni di bioetica, Riuniti, Roma, 1988, p. 7: «Negli ultimi decenni la biologia, la medicina e le altre scienze della vita hanno compiuto progressi straordinari, rendendo possibile cose un tempo impensabili. Tuttavia, tali avanzamenti sono venuti a sollevare nuovi e urgenti problemi morali o a reimpostare in forma rinnovata problemi di lunga tradizione». ↩︎
-
Ivi, p. 7: «Nel nostro tempo è in atto una vera e propria «rivoluzione medico-biologica» che sta cambiando radicalmente le condizioni di vita umana, con effetti di grande portata sulla vita quotidiana e sugli assetti della società». ↩︎
-
Cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondatori, Milano, 2005, p. 1 e sgg. ↩︎
-
Cfr. M. Aramini, Introduzione alla bioetica, Giuffré, Milano, 20032. ↩︎
-
Cfr. G. Fornero, op. cit., p. 7 e sgg. Cfr. S. Leone, Bioetica verso dove?, «Questioni di bioetica», I, 2, 2007, ISSN 1970-7932 (contenuto on-line: http://www.questionidibioetica.it/200701leone01.htm): «A più di trent’anni dalla «nascita ufficiale» della bioetica, cioè dall’anno in cui l’oncologo australiano Van Rensellaer Potter coniò il termine bioetica, si sono avute notevoli e complesse evoluzioni non solo nella mole di studi e ricerche accumulate ma nella stessa identità disciplinare». ↩︎
-
Cfr. Introduzione, a: M. Mori (ed.), op. cit., p. 8: «i problemi bioetici vengono affrontati con un atteggiamento di grande apertura interdisciplinare. Anzi, l’interdisciplinarietà della discussione è la caratteristica che immediatamente colpisce l’attenzione di chi si accosta alla bioetica». ↩︎
-
Cfr. V. C. Faralli, Parte seconda. Dagli anni settanta all’inizio del XXI secolo, aggiunta a: G. Fassò, Storia della filosofia del diritto III. Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2006. ↩︎
-
Cfr. G. Fornero, op. cit., p. 2. Cfr. V. R. Potter, Bioethics. The Science of Survival, in «Perspectives in Biology and Medicine», 14/1970, pp.127 e sgg. ↩︎
-
Cfr. F. Petrelli, La bioetica tra filosofia, medicina e diritto, «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia» [in linea], anno 4 (2002) [inserito il 26 luglio 2002], disponibile su World Wide Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/>, [33 KB], ISSN 1128-5478 (consultabile all’indirizzo https://mondodomani.org/dialegesthai/francesca-petrelli-02). ↩︎
-
Cfr. E. Lecaldano, La sfida dell’etica applicata e il ragionamento in morale, in M. Mori (ed.), op. cit., p. 37 e sgg. ↩︎
-
Cfr. E. Lecaldano, La bioetica. Scelte morali, Laterza, Roma-Bari, 19992. D’altro canto, il quasi mancato «supplemento d’anima», richiesto da Bergson davanti al progredire tecnologico, richiede la presenza di strumenti, o la loro individuazione, che consentano di coniugare la rivoluzione culturale, alla quale assistiamo e, in certa misura, alla quale partecipiamo, con le innate esigenze umane di dignità e rispetto. Anzi, proprio questo obiettivo può essere considerato il fronte teorico all’interno del quale elaborare una definizione di bioetica. Per dirla con U. Scarpelli, Bioetica a misura di persona, in U. Scarpelli, Bioetica laica, Baldini & Castoldi, Milano, 1998, p. 29: «La bioetica è un duplice rigore, della scienza e della morale, ma è anche il calore della vita». ↩︎
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Cfr. E. Agazzi (ed.), Quale etica per la bioetica?, Angeli, Milano, 1990. Cfr. M. Aramini, Bioetica e religioni, Paoline, Milano, 2007, p. 24: «La bioetica è considerata perciò un grande capitolo di etica applicata ai dilemmi morali posti dalle nuove tecniche mediche, le quali danno all’uomo un potere sempre più forte nei confronti della vita». ↩︎
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Cfr. H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, Il Mulino, Bologna, 1991. ↩︎
-
Cfr. M. Galletti, Bioetica, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2006, p. 1029: «Sempre più spesso sulle pagine di quotidiani e periodici e nei notiziari televisivi compaiono le cosiddette «questioni di bioetica», che immancabilmente suscitano ampi ed accessi dibattiti nell’opinione pubblica». Cfr. M. Aramini, op. cit., p. 25: «Il compito della bioetica doveva essere quello di indagare e riflettere sullo sviluppo tecnologico per analizzare i suoi effetti sull’uomo, sulle questioni decisive della vita umana, sulle relazioni sociali, sui problemi della giustizia». ↩︎
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Sebbene si possa anche pensare che tale vivacità si in qualche modo causata dall’enfasi dei mass-media. Come sostiene http://it.wikipedia.org/wiki/Bioetica: «Le problematiche legate alla bioetica sono assai numerose e l’opinione pubblica è sempre più coinvolta nella vita quotidiana, anche per mezzo dei mass-media». ↩︎
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Cfr. E. Sgreccia, Bioetica del quotidiano, Vita e Pensiero, Milano, 2005. Un esempio di ciò sia il caso di occorrenze che è possibile ottenere tramite ricerca libera su internet (circa 890000 con Google) a dimostrazione della vitalità del settore, indicante l’estremo interesse che sempre più i soggetti mostrano nei confronti dell’influenza biologica sulla propria esistenza. ↩︎
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Cfr. M. Galletti, Bioetica, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2006, p. 1029: «Le nuove tecnologie che, a partire dagli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, offrono una straordinaria capacità di intervenire sulla vita biologica sollevano molti interrogativi etici. In breve la riflessione critica sulla rivoluzione bio-medica tende a mettere in discussione l’astratto imperativo per cui «tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente doveroso». La bioetica è la riflessione sull’accettabilità di pratiche vecchie e nuove, come l’eutanasia, il rifiuto di terapie, l’interruzione di trattamenti di prolungamento della vita, l’aborto, la contraccezione, i trapianti, le sperimentazioni che coinvolgono embrioni umani, la diagnosi embrionale pre-impianto, la riproduzione assistita, la clonazione, i test genetici, la terapia genica ecc. Fanno inoltre parte del dibattito la definizione stessa di bioetica, l’estensione della gamma di problemi che rientrano nella sua sfera di competenza e l’obiettivo che essa si propone». ↩︎
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Cfr. K. E. Tranøy, Conflitti di valori biomedici, in M. Mori (ed.), op. cit., p. 73 e sgg. ↩︎
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Cfr. A. Santosuosso, Paternità e nuove tecniche di riproduzione, «Politica del diritto», 4, 1995, p. 619: «Le nuove tecnologie riproduttive si diffondono contemporaneamente all’emergere di alcuni fenomeni ai quali vengono di solito collegati: la disponibilità di nuove tecnologie che rendono possibile il tentativo di fecondazione in condizioni fino a ieri impensabili». Ma si può allargare lo sguardo alle cd. tecniche di rianimazione neonatale e a tutti quei casi nei quali per il neonato è possibile aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza, anche se nella maggior parte dei casi è sempre una sopravvivenza ottenuta a scapito della sua qualità. ↩︎
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Cfr. A. Pizzo, Antropologia e nuovi diritti, «Diritto & diritti. Electronic Law Review», Ragusa, Gennaio 2007, ISSN: 1127-8579 (contenuto raggiungibile all’indirizzo: http://www.diritto.it/art.php?file=/archivio/23450.html). Cfr. S. Levine, Chi muore? Quando si muore. Una ricerca sul vivere e sul morire consapevoli, Ed. Sensibili alle foglie, 2002. ↩︎
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Cfr. C. Flamigni, Il libro della procreazione. La maternità come scelta: fisiologia, contraccezione, fecondazione assistita, Mondatori, Milano, 2005, p. 20: «Era inevitabile che questo rapido accumulo di conoscenze trascinasse con sé problemi diversi, apparentemente non correlati tra loro: problemi deontologici, etici, religiosi, economici». ↩︎
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Cfr. A. Trabucchi, Procreazione artificiale e genetica umana nella prospettiva del giurista, «Rivista di diritto civile», I, 1986, p. 495: «è stato detto che la rivoluzione conseguente alle possibilità che scienza e tecnica offrono alla genetica umana può ben definirsi una nuova rivoluzione copernicana: rivoluzione, questa, anche più radicale, se destinata a modificare gli sviluppi della nostra stirpe sulla terra». In particolar modo, è bene notare come, nonostante le virulenti polemiche suscitate in Italia dall’approvazione della L. n. 40/2004 sulla riproduzione medicalmente assistita, l’intento del legislatore sia stato improntato alla valorizzazione di un bene indisponibile: la vita umana. Per dirla, infatti, à la G. Sirchia, Prefazione, a: F. Santosuosso, La procreazione medicalmente assistita. Commento alla Legge 19 Ffebbraio 2004 n. 40, Giuffré, Milano, 2004, p. ix. ↩︎
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Cfr. M. Aramini, op. cit., p. 64: «la bioetica, rispetto alla Medicina Legale e alla Deontologia Medica, è una disciplina «più eminentemente autonoma e di più ampio respiro che, con la sua metodologia e con i risultati a cui giunge, contribuisce all’aggiornamento e alla giustificazione epistemologica della normativa deontologica, all’orientamento della elaborazione legislativa, ed all’inquadramento degli interventi sulla vita umana nell’ambito più ampio della biosfera di cui discute criteri e limiti di liceità»». Ivi, pp. 82-3: «Dal punto di vista storico la bioetica ha preceduto il diritto, perché era urgente far fronte i problemi nuovi posti dalle applicazioni delle scienze mediche e biologiche. Ma nel volgere di pochi anni dalla nascita della bioetica, si è posta la questione se i grandi valori in gioco nelle decisioni bioetiche avessero bisogno o no della protezione della legge». Cfr. G. Savagnone, Alle spalle del dibattito bioetico, «Questioni di bioetica», I, 2, 2007, ISSN 1970-7932 (contenuto on-line: http://www.questionidibioetica.it/200701savagnone01.htm): «Tra i problemi che stanno alle spalle del dibattito bioetico e che ne condizionano alla radice lo svolgimento non ci sono solo il modo di intendere il rapporto tra la ragione e le scelte morali, o tra la ragione e la fede, ma anche quello del significato della legge. Un primo equivoco, a questo proposito, riguarda il rapporto di quest’ultima con quello che viene presentato come il «diritto» di singoli o gruppi di vedere riconosciute le proprie istanze». ↩︎
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Cfr. L. Palazzani, Biogiuridica, Milano, 2002. ↩︎
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Come sostengono A. Cafaro — F. Di Blasi, Presentazione, «Questioni di bioetica», I, 0, Maggio 2006, ISSN 1970-7932 (contenuto on-line: http://www.thomasinternational.org/it/assthomint/qdb/presentazione.htm): «L’etica, però, proprio perché «scienza pratica» che cerca soluzioni su come agire, è preoccupazione primaria di chi deve prendere decisioni. E, oggi, gli enormi progressi della medicina, della biologia e della tecnica mettono spesso diverse categorie di professionisti di fronte a scelte estremamente difficili e complesse che non possono essere prese restando dietro i confini della loro competenza specialistica». ↩︎
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Cfr. G. Fornero, op. cit., p. 15: «due grandi modelli teorici». Il che, ovviamente, non vuol dire che non ve ne siano altri, solo che i presenti sono quelli che meglio indicano la tensione tra concezioni e valutazioni differenti agenti intorno a casi particolari. ↩︎
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Cfr. E. Agazzi (ed.), Quale etica per la bioetica?, Angeli, Milano, 1993. Cfr. M. Aramini, op. cit., p. 26 e sgg. ↩︎
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Cfr. G. Fornero, op. cit, p. 80 e sgg. ↩︎
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Ivi, p. 142. ↩︎
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Cfr. M. Aramini, op. cit., p. 35: «l’autorità per le azioni che coinvolgono altri, in una società laica e pluralistica, è derivata dal libero consenso di coloro che vi sono coinvolti. Senza tale consenso non c’è autorità». ↩︎
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Cfr. D. Neri, op. cit., p. 112. ↩︎
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Ma è necessario avere un’accortezza del tutto particolare. Per dirla con G. Modica, Imprescindibilità della coscienza morale, «Questioni di bioetica», 4, 2007, ISSN 1970-7932 (contenuto on-line: http://www.questionidibioetica.it/200709editoriale.htm) : «Non c’è problema affrontato dalla bioetica che non chiami in causa la coscienza morale. Se si getta uno sguardo al dibattito odierno ci si accorge, tuttavia, che a essere chiamata in causa è piuttosto la nozione di «autonomia individuale» o di «autodeterminazione», ciò che rischia di focalizzare l’attenzione solo sul momento della libertà di giudizio e di scelta richiesta dalla situazione in cui si è chiamati ad agire. Ma per quanto importanti, la libertà da costrizioni e la capacità di essere legge a se stessi non sono elementi che possano esaurire il problema, tipicamente bioetico, del giudizio morale. E infatti, la presenza di sé a se stessi — propria della coscienza psicologica — e la capacità di giudicare e di scegliere autonomamente (oltre, naturalmente, alla conoscenza del caso di volta in volta in questione) sono condizione necessaria ma non sufficiente per formulare un giudizio sulla moralità dell’atto che ci si accinge a porre. Se l’odierna valorizzazione del principio di autonomia non vuole smarrire la complessità custodita dall’esperienza morale, occorre dunque ripensare proprio la classica nozione di “coscienza morale”». ↩︎
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Cfr. G. Fornero, op. cit., p. 166. ↩︎
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Cfr. D. Neri, op. cit., p. 199 e sgg. ↩︎
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Collegandosi alla metafisica, la bioetica ispirata dal modello della TSV è perfettamente laica. Come sostiene G. Fornero, op. cit., p. 27: essa è «quella peculiare dottrina etico-metafisica […] sulla scorta di un impianto concettuale di matrice greco-scolastica e di una visione finalistico-provvidenziale del mondo». ↩︎
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Anzi, si può dire à la G. Fornero, op. cit., p. 14: che esistono «tante bioetiche quante sono le etiche». ↩︎
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D’altra parte, come s’è detto in precedenza, sia pure in forma non adeguatamente sviluppata, è profondamente mutata nel tempo attuale la concezione culturale della vita umana. Cfr. V. Possenti, Cambiare la natura umana? Biotecnologie e questione antropologica¸ «Questioni di bioetica», I, 2, 2007, ISSN 1970-7932 (contenuto on-line: http://www.questionidibioetica.it/200701possenti01.htm): «Larga parte della discussione morale e antropologica contemporanea scaturisce dagli sviluppi incalzanti delle scienze della vita e delle neuroscienze: stiamo assistendo ad una vera rivoluzione che concerne le sorgenti della vita e che potremmo chiamare rivoluzione del genoma e del DNA. Essa rimette in discussione le nozioni di identità (chi siamo come uomini? Chi sono io?), di rispetto della persona, di responsabilità verso se stessi e gli altri, che costituiscono la base della civiltà». ↩︎
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Cfr. G. Fornero, op. cit., p. 118: «è il singolo individuo (ovviamente quello che coesiste concretamente con gli altri e non l’«individuo-isola») a doversi assumere la responsabilità delle proprie scelte morali». Ivi, p. 131: «la contrapposizione risiede piuttosto nel fatto che la bioetica cattolica risulta imperniata sulla nozione di sacralità della vita […] mentre la bioetica laica risdulta imperniata sulla nozione di qualità della vita». ↩︎
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D’altra parte, non potrebbe essere diversamente se è vero che ogni cultura interpreta la sfera umana in maniere diverse, al punto da poter parlare addirittura di una semiosfera. In effetti, come scrive J. Habermas, Antropologia, in G. Preti (ed.), Filosofia, Feltrinelli, Milano, 19702, p. 19: «L’antropologia filosofica si rifà ai risultati delle ricerche di tale antropologia biologica ed etnologica; elabora i dati forniti da tutte le scienze che, come la psicologia, la sociologia, l’archeologia, la linguistica, ecc., hanno a che fare in qualche modo con l’uomo e con l’operare umana». ↩︎
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Cfr. R. M. Hare, Perché occuparsi di etica applicata?, in M. Mori (ed.), p. cit., p. 19 e sgg. ↩︎
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Un esempio è quello della «maternità surrogata». Cfr. A. Pizzo, Una questione bioetica: la maternità surrogata. Problematiche e prospettive, «Dialegesthai», 8, 2006, ISSN 1128-5478 (contenuto on-line: https://mondodomani.org/dialegesthai/alessandro-pizzo-03). ↩︎
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Cfr. D. Palladino — C. Palladino, Breve dizionario di logica, Carocci, Roma, 2005, p. 100: quale «sinonimo di ragionamento logico, ovvero ragionamento in cui la conclusione è conseguenza logica delle premesse. Ragionando in modo deduttivo, quindi, si eseguono inferenze corrette». Cfr. M. Frixione, Come ragioniamo, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 4: «un processo che, a partire da un certo insieme (finito) di enunciati assunti come punto di partenza (che sono detti le premesse), porta ad asserire in maniera giustificata un altro enunciato (che costituisce la conclusione)». ↩︎
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In effetti, si chiede problematicamente M. Galletti, Bioetica, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2006, p. 1030: «è possibile raggiungere soluzioni condivise sulle questioni di vita e di morte tra individui che vivono in società moralmente pluraliste e frammentate?». Tuttavia, sembra che tale questione attenga più all’ambito delle discussioni pubbliche che al discorso bioetico proprio. Infatti, in bioetica non importa trovare un consenso (intersoggettivo) intorno al modo di considerare singoli temi e/o singoli casi problematici [hard cases], quanto piuttosto indicare la direzione di quel che è giusto fare, la condotta lecita. Su questa linea si pone ad esempio L. Sesta, Per una soluzione dei dilemmi morali della bioetica: «mettersi d’accordo» o «fare la cosa giusta»?, «Questioni di bioetica», I, 0, 2006, ISSN 1970-7932 (contenuto on-line: http://www.questionidibioetica.it/200604sesalvatore-taranto2-01) quando scrive che: «La bioetica del compromesso (o bioetica procedurale del consenso), infatti, non considera più l’etica come una riflessione su cosa è bene e su cosa è male, ma come uno strumento di calcolo e di negoziazione pacifica tra interessi individuali e concezioni private circa il senso della vita, della salute ecc. Una negoziazione che non investe solo i problemi pratici legati all’azione, ma anche le questioni teoriche che vi stanno alla base. Così, se per esempio «la questione dell’embrione» consiste nello «stabilire quando comincia una nuova vita personale», dalla molteplicità e inconciliabilità delle risposte e delle conseguenti indicazioni comportamentali si dovrà concludere che non rimane altra soluzione che quella di «cercare una civile, serena e laica mediazione che consenta a tutte le posizioni di convivere, eliminando — ogni parte con qualche rinuncia — le più evidenti ragioni di attrito» ». Parimenti, è importante sottolineare quanto scrive E. Agazzi, Il luogo dell’etica nella bioetica, in E. Agazzi (ed.), Quale etica per la bioetica?, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 13: la possibilità di molte pratiche non è garanzia di buona scelta, «nessuna di esse indica che cosa «si deve» o «non si deve», che cosa «è lecito» o «non è lecito fare»». Anche la Warnock, presidente dell’omonima Commissione, avverte un pericolo insito nel progredire sregolato delle tecnologie biologiche. Infatti, scrive M. Warnock, Fare bambini. Esiste un diritto ad avere figli?, Einaudi, Torino, 2004, p. 101: «dobbiamo preoccuparci del pericolo di confondere quel che è desiderato appassionatamente e profondamente con ciò che è un diritto. Se una cosa è possibile, e se non ne deriva un danno ad altri, è bene cercare di dare alle persone ciò che desiderano molto. Se non riescono ad avere quel che vogliono possono esserne delusi, ma non è stato fatto loro, a quel punto, un torto». A riprova del profondo sconvolgimento culturale generato dai nuovi inquietanti interrogativi bioetici, si consideri il punto di vista di un giurista D. Clerici, Procreazione artificiale, pratica della surroga e contratto di maternità, «Diritto di famiglia e delle persone», 1987, pp. 1011-1012: «Dal punto di vista giuridico, le nuove frontiere dell’ingegneria genetica sollevano gravi questioni in materia di diritto di famiglia, in particolare in ordine al rapporto di filiazione, ed anche di diritto successorio. Il compito del legislatore consterà dunque nel dettare una regolamentazione della materia che trovi un punto di equilibrio tra l’esigenza di procreare a tutti i costi, ed il diritto del nascituro alla certezza dell’identità dei propri genitori. La normativa dovrà, da un lato, tracciare i limiti entro i quali le nuove tecniche potranno operare, e, dall’altro, prevedere una rigorosa disciplina della materia sorta in conseguenza di tali interventi». È, tuttavia, assai difficile conciliare le esigenze legislative con il buon senso dal momento che tendenza comune della mentalità corrente consiste nel ritenere «quel che è possibile» nella riproduzione umana grazie all’aiuto tecnologico anche lecito. Infatti, cfr. G. Ferrando, Quale disciplina per la procreazione artificiale?, «Il diritto di famiglia e delle persone», I, 1987, p. 1139: «Il giurista che si confronta con le nuove tecniche di procreazione, si trova di fronte a questioni molteplici, che tuttavia è possibile disporre in due ordini fondamentali. Il primo comprende problemi di politica di diritto, relativi, per così dire al se ed al quanto di una regolamentazione legislativa. In altri termini, si tratta di verificare l’opportunità, o meno, dell’intervento del legislatore, l’ampiezza ed i limiti di tale intervento, i rapporti tra diritti fondamentali della persona ed interesse pubblico. Il secondo comprende problemi più strettamente di diritto positivo, relativi al come della regolamentazione legislativa. In altri termini, si tratta di amministrare i rapporti tra i protagonisti della vicenda: la donna, il marito (o convivente), il donatore, il figlio, il medico». In proposito, assai efficacemente sostiene B. Faedda, Filiazione, maternità, paternità e fecondazione artificiale — Le società «tradizionali» e l’occidente, «Diritto e famiglia»: «Per un bisogno d’autorealizzazione o d’autoaffermazione i vari elementi «esterni» alla fecondazione sono visti unicamente come momenti tecnicamente necessari, sempre per il raggiungimento dell’inalienabile diritto di avere un figlio». Tendenza culturale recepita, ad esempio, dal nostro codice civile il quale all’art. 74 definisce la parentela come il vincolo che unisce le persone discendenti dallo stesso stipite. Tuttavia, nel delineare il quadro della famiglia fondata sul legame di parentela, lo stesso codice civile stabilisce che lo status di «figlio naturale» si acquisisce al momento del parto nei confronti della madre (art. 269) e al momento del riconoscimento, o del concepimento se i genitori sono uniti in matrimonio, nei confronti del padre (art. 231-250). Peraltro, scrivono M. L. Boccia — G. Zuffa, L’eclissi della madre. Fecondazione artificiale, tecniche, fantasie e norme, Pratiche editrice, Milano, 1998, pp. 56-7: «un tempo l’ineluttabilità della procreazione rendeva accettabile anche l’ineluttabilità della mancanza di figli. Oggi invece la procreazione è campo di dominio e di realizzazione individuale: il desiderio di procreare, se insoddisfatto, è avvertito come una grave menomazione soggettiva […] il desiderio irrealizzato è percepito come malattia e sofferenza. La medicina, lungi dall’espandere i suoi confini, dalla patologia al benessere, porta alle estreme conseguenze la sua vocazione «patologizzante»: mutando i soggetti desideranti in pazienti, bisognosi di cure e assistenza». D’altro canto, è anche possibile osservare come in linea generale l’uso delle tecnologie mediche non faccia altro che enfatizzare un’importanza che gli esseri umani già attribuiscono alla riproduzione. Infatti, scrive G. Baldini, Diritto di procreare e fecondazione artificiale tra libertà e limiti, «Il diritto di famiglia e delle persone», I, 1997, p. 343: «La riproduzione rappresenta una delle componenti essenziali della vita dell’uomo». Come segno del mutamento antropologico, valga l’affermazione di M. Iacub, L’Impero del ventre. Per un’altra storia della maternità, Ombre corte, Verona, 2005, p. 9: «tutti sanno che la madre di un bambino è colei che l’ha partorito. Ripetiamo con soddisfazione l’adagio latino mater sempre certa est, come se questa frase, nella sua saggezza, coprisse di un velo di pudore un intero universo di verità che non hanno bisogno di essere dette. Evidenze tanto più stringenti in quanto si presentano in un frammento di lingua morta; tanto fatalmente morta quanto fatalmente veri sono i fatti che essa descrive». ↩︎
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Quasi non ce ne sarebbe bisogno, ma è un topos storiografico imprescindibile ricordare come la nostra vita, quella delle scelte importanti così come quella delle scelte quotidiane, sia connotata dall’assoluto relativismo assiologico, da un pluralismo dei valori, così come delle verità. Una condizione postmoderna che passa anche sotto l’etichetta della crisi della ragione o del pensiero debole. Si tratta, evidentemente, di un pendio scivoloso lungo il quale non è nostra intenzione addentrarci. Ad ogni modo, è utile consultare A. Gargani (ed.), Crisi della ragione, Einaudi, Torino, 1979; G. Vattimo — P. A. Rovatti (eds.), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 199515; G. Jervis, Contro il relativismo, Einaudi, Torino, 2005; D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007. ↩︎