La storia della filosofia trova certamente nell’opera aristotelica uno dei suoi luoghi fondamentali, in special modo nella modalità filosofica attraverso la quale l’uomo può andare alla ricerca della ratio del cosmo, ossia del principio della realtà che lo circonda. Infatti, lo Stagirita codifica, per la prima volta in maniera esplicita e sistematica, dopo gli innumerevoli precorrimenti che affondano le proprie radici nella genesi stessa della disciplina, una modalità di ricerca dalle ricadute importanti sull’intera filosofia, che inaugura nel contempo uno dei suoi principali settori e chiamata nel corso del tempo con il nome di «metafisica».
Ciò impone la necessità di fornire, perlomeno in sede preliminare, alcune precisazioni metodologiche rispetto alle finalità del presente lavoro. Innanzitutto, non si ritiene possibile discutere, se non altro in maniera completa e soddisfacente, in questa sede cosa sia la metafisica né tantomeno fornire una sua definizione suffragata da fonti autorevoli, sebbene sia indubitabile che si parta comunque da una «certa» concezione (o, presupposizione) intorno alla metafisica. A tal proposito, infatti, basterà adottare la definizione minima di cui è possibile disporre. Grosso modo, e così la si intenderà per tutta la presente ricerca, la metafisica è «una vera e propria scienza dell’essere in quanto essere, o del possibile in quanto possibile»,1 oppure anche come «quella scienza descrittiva che mira a ricostruire questo sistema di concetti e altri affini [i concetti con i quali diamo un senso al molteplice che ci circonda]».2
Ovviamente, cercare il senso della realtà vuol dire anche poter conoscere la medesima realtà. In altri termini, la considerazione delle proprietà prime della realtà costituisce una delle principali forme conoscitive mediante le quali l’uomo investiga l’essere (to ón), ossia le modalità attraverso le quali: (1) le cose sono; e, (2) non sono; oppure, attraverso le quali, le cose sono secondo: (a) la necessità; (b) la possibilità; e, (c) la contingenza.
D’altro canto, l’analisi metafisica classica è caratterizzata dalla considerazione delle condizioni di possibilità delle cose (gli enti) attraverso l’individuazione dei principi che li fanno essere (così come non essere), ossia i principi che descrivono il poter essere delle cose. Tali principi, però, hanno una doppia funzione: (1) da un lato, consentono agli enti di sussistere, ossia individuano il campo di discorso della ratio essendi degli enti; e, (2) dall’altro lato, sono suscettibili di conoscenza, nel senso che, insieme, consentono di far conoscere le condizioni d’esistenza degli enti e si prestano alla conoscenza umana, una conoscenza disinteressata e razionale (theorein), ossia individuano il campo di discorso della ratio cognoscendi degli enti. In linea di massima, si può sostenere che la metafisica abbia proprio questa doppia natura: (a) elevare a dignità di parola la ratio essendi degli enti; e, (b) far entrare all’interno dell’universo di discorso la ratio cognoscendi della realtà. E, comunque, tanto la natura (a) quanto la natura (b) si trovano nella doppia tensione di essere volte sia nei confronti dei singoli enti sia nei confronti della realtà più generale.
Va da sé, ad ogni modo, che una conoscenza la quale ha la pretesa di attingere ai fondamenti della realtà, di per sé stessi anche i fondamenti del conoscere, si caratterizzi quale una conoscenza del fondamento, oppure anche una conoscenza della fondazione.3 Nella riflessione metafisica contemporanea, soprattutto a partire da Heidegger, questa caratteristica è stata efficacemente espressa nella misura in cui si è sostenuto che la conoscenza del fondamento è di per sé una conoscenza fondata. D’altra parte, però, non avrebbe potuto essere diversamente dato che è il fondamento stesso a fungere da doppio protagonista: tanto oggetto del processo conoscitivo quanto soggetto dello stesso. E in ciò esso corrisponde perfettamente alla delineazione della (meta-) fisica da parte di Aristotele, secondo la quale il principio del reale è contemporaneamente obiettivo cui tendere e ciò in virtù del quale è possibile il tendervi stesso. Per questo motivo la metafisica medievale ben s’acconcia con le questioni teologiche. Un esempio su tutti: l’elenchos anselmiano, grazie al quale trova dimostrazione l’esistenza di Dio proprio quale principio della corrispondenza tra exsistentia in intellectu ed exsistentia in re, poggia su questo fondamento, è in virtù della garanzia accordata dal principio, obiettivo della ricerca e condizione di possibilità della stessa. La prossimità dello stesso alla fallacia è grande. Infatti, un tale principio, specie ad una cultura secolarizzata, non può che apparire fallace in quanto presuppone in partenza quanto, al contrario, dovrebbe essere conosciuto soltanto al termine del processo di ricerca e conoscitivo. Con l’evo moderno proprio questo rischio viene istituzionalizzato nella separazione tra il principio ricercato (l’obiettivo della ricerca; un qualcosa da trovare) e il principio della ricerca (ossia, il suo metodo). Benché uno Spinoza cerchi di resistere al problema metodologico della scienza moderna, giocando tutto sulla differente prospettiva in forza della quale considerare l’unica sostanza, è la mentalità di Cartesio che, in sede filosofica, vince il confronto. Il problema ai nostri giorni, però, è diventato quello più spiccatamente epistemologico della questione relativa alle possibilità disponibili di giungere ad una conoscenza del principio stesso. Così mentre un Heidegger sostiene essere il fondamento dell’umana conoscenza indisponibile alla conoscenza medesima, seguito in ciò da Sartre, la via francofortese alla filosofia, seguendo la mediazione ermeneutica, ritiene, al contrario, possibile per la scienza giungere alla conoscenza del principio, ossia della verità. Tuttavia, questa verità è solo un pallido riflesso di quella che molti secoli prima, e in Aristotele stesso, si ricercava. Infatti, tanto Habermas quanto Apel, ma più il secondo che il primo, identificano tale verità con le condizioni di possibilità del dibattito tra attori razionali, ossia con le regole che consentono un accordo intersoggettivo tra esseri razionali all’interno di una dinamica comunicativa.4 Ma questa verità, come si vede, ha poco a che fare con la Verità, ontologicamente superiore della metafisica classica.
Scopo del presente scritto è cogliere l’analogia sussistente tra la considerazione dell’essere generale, o metafisica, e la considerazione del dover essere, o deontica. Vale a dire, analizzare il possibile rapporto sussistente tra lo studio delle condizioni di possibilità dell’essere e lo studio delle condizioni di possibilità del dover essere.
È certamente vero che al riguardo non si può prescindere dai luoghi aristotelici. Allora, seguendo in ciò una nota provocazione teoretica, appare possibile desumere da Aristotele due distinti, ma non irrelati, significati della scienza metafisica: (1) studio dell’essere in quanto essere, del to ón hé ón;5 e, (2) ricerca del principio di tutto quel che esiste. Il primo significato identifica la metafisica come una ricerca volta a considerare la realtà, quel che esiste, nella sua assoluta generalità, ossia nella sua primarietà rispetto ad altre determinazioni secondarie, e, forse, anche specialistiche, che possono essere assunte. In questo senso, infatti, Aristotele si prefigge di considerare le proprietà prime dell’essere, e non, ad esempio, l’essere come mutamento (che è compito della fisica studiare), o l’essere come numero (che è compito della matematica studiare),6 e così via. La metafisica, dunque, studia l’essere com’è in sé, le sue proprietà prime.7 In questo senso, infatti, la metafisica è stata intesa quale «filosofia prima», ossia come quella ricerca filosofica la quale prende in considerazione l’essere nei suoi aspetti primi, secondo un ordine, di natura concettuale, in termini di principio. In questo modo, la metafisica, che parafrasando Aristotele, può essere resa con «filosofia», non solo si differenzia, ma anzi si distanzia, dalle scienze empiriche in quanto non arresta la sua indagine alla superficie fisica degli oggetti costituenti la realtà, ma, al contrario, pretende di andare oltre la dimensione fisica delle cose stesse (metá ta physiká, oltre una considerazione meramente fisica delle cose stesse), per attingere alle loro cause prime.8
Nel suo tendere, pertanto, al fondamento della realtà, la metafisica si qualifica anche quale una ricerca del principio dell’essere, ossia di quel fondamento che, stando sotto la realtà, fa sì che l’essere sia e non possa non essere, sia quello che è e non altro. In questo senso, infatti, la metafisica s’è qualificata nel tempo quale (a) regina scientiarum (dato che le altre scienze vengono considerate «seconde»); e, (b) «filosofia prima». In entrambi i casi, infatti, ciò è dipeso dal venir considerata quale la scienza della totalità dell’essere,9 come l’interrogare inizialmente e in fondo l’esperienza umana.10
In altri termini, appare, allora, possibile considerare la metafisica una ricerca del lógos, della «ragione» in forza della quale la realtà assume un ordine ben preciso, attraverso il quale diventa manifesto il senso stesso dell’essere.11
Secondo un altro orizzonte si potrebbe anche dire che la metafisica descriva un ordine del reale che pretende di aver individuato dopo aver proceduto ad un’analisi in generale, secondo la considerazione in termini di principio, della realtà. È ovvio come questa concezione nulla tolga alla versione classica di metafisica, e come enfatizzi soltanto l’aspetto comunicativo rispetto all’aspetto dell’attenzione posta sulla ricerca dei principi dell’essere.
Ad ogni modo, questa ricerca consiste, a livello metodologico, nell’elevazione a dignità di parola del principio della realtà, ossia nel trattare all’interno di un orizzonte di discorso veritativo proprio le cause prime dell’essere. Parlandone, la metafisica consente, in primo luogo, di conoscerle e, in secondo luogo, di farne teoria, conoscenza disinteressata, priva di ricadute «strumentali».12
Com’è possibile osservare, i due significati su indicati non sono tra loro in competizione, sono sì differenti ma tra loro collegati: entrambi infatti rinviano al piano ontologico, seppur nella forma della considerazione dei suoi fondamenti, o principi.13
Considerare l’essere comporta prendere in considerazione non soltanto i suoi fondamenti, ma anche le sfumature ch’esso assume, i suoi diversi livelli. Un’attenzione che, magari a differenza di quanto accaduto per lo più in passato, consente di analizzare anche enti non naturali, come le «leggi», le «istituzioni», i «contratti», che «non sono né costruzioni puramente individuali […] né oggetti fisici come alberi e sedie, né oggetti ideali come numeri e teoremi».14 La concezione qui adottata considera la metafisica sostanzialmente quale un’ontologia, sebbene ciò non sia una considerazione pienamente accettata. Ad ogni modo, così compito della metafisica «è anzitutto fornire i principi dell’ente».15
Certamente la metafisica assume l’esperienza quale un livello elementare ed iniziale a partire dal quale giungere al principio dell’essere.
L’esperienza stessa, però, ci attesta l’esistenza di forme ontologiche differenti da quelle principalmente considerate da Aristotele e dai metafisici posteriori. Infatti, il dominio dell’essere appare comprendere anche l’insieme delle modalità, tanto rispetto al modo in cui le proprietà appartengono agli enti quanto rispetto al modo in cui gli enti stessi si caratterizzano. Nel primo caso, vengono studiate le determinazioni necessarie, possibili e contingenti (delle proprietà) delle cose; nel secondo caso, invece, vengono studiate le determinazioni necessarie, possibili e contingenti delle cose stesse. Ciò vuol dire che oltre ad un piano di ricerca conoscitiva, attinente alla dimensione ontologica e al rapporto conoscitivo tra un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto,16 esiste un altro piano che necessita di adeguata definizione e caratterizzazione. Non v’è, per intendersi, soltanto l’essere, ma anche il dover essere. Già a livello intuitivo, si vede come quest’ultimo indirizzi la considerazione direttamente verso la sfera dell’azione, verso la pratica, per almeno due ragioni: (a) se qualcosa deve essere deve venir fatta (ossia, prodotta), poiché prima non era; (b) se qualcosa deve essere deve venir fatta da qualcuno, poiché il passaggio dalla potenza all’atto richiede l’azione di una causa efficiente che, forse, non può essere soltanto naturale, ma deve avere caratteristiche umane. A ciò è possibile aggiungere la considerazione ulteriore secondo la quale «per agire in modo veramente efficace sulla natura e sugli uomini è necessario conoscere la verità sul mondo».17
Emerge, allora, come sia certamente corretto dire con Aristotele che l’essere si dice in molti modi a patto però d’includervi anche la determinazione del dover essere, anche il cd. piano pratico il quale, rispetto a quello teorico, non si caratterizza per la relazione tra una causa ed un effetto in qualche modo naturali, ma per un nesso causale che presuppone una volontà agente la quale sia capace di produrre stati di cose. In particolar modo, è necessario osservare come tali stati di cose siano in qualche modo richiesti, siano quasi ordinati, come sia necessario produrli. In questo senso soltanto, è corretto affermare che la sfera pratica è il regno del dover essere, e non della fatticità naturale. D’altra parte, rientra nel campo pratico tutto quello che attiene alla regolazione del comportamento, in genere quello umano, per restare fedeli all’etimologia di etica da ethos.18
Tuttavia, si nota in proposito come la filosofia abbia mostrato una certa difficoltà a trattare nell’orizzonte di parola tutto quel che, attinente all’azione, esula da un tipo d’indagine non più soltanto conoscitiva. Quel che però risulta avere un’importanza maggiore in proposito è però che unica appare essere la realtà, (a) tanto che venga espressa nei termini metafisici delle condizioni di possibilità degli enti; (b) quanto che venga espressa nei termini deontici delle condizioni di possibilità degli stati di cose.
Se unica è la realtà, allora i principi in forza dei quali è possibile spiegare l’essere valgono anche per il dover essere, sono in entrambi i casi i medesimi. Nel primo caso, infatti, si ha la metafisica, nel secondo caso la deontica.19 Negli stessi termini, infatti, se la metafisica è lo studio dell’essere in quanto essere, allora la deontica è lo studio del dover essere in quanto dover essere.
Si tratta certamente di un’affermazione forte e, sotto molti aspetti, suggestiva ma rispetto alla quale è bene condurre alcune riflessioni ulteriori.
Il presupposto dell’unità del reale conduce alla necessità di riconoscere validità ai principi della metafisica, che la logica formalizza nei termini di (1) principio d’identità; (2) principio di non contraddizione; e, (3) principio del terzo escluso20. Ciò vuol dire che la medesima realtà presenta diversi livelli i quali possono essere analizzati nei medesimi termini logici. Il che equivale a dire che fallace appare qualsiasi reductio ad unum della realtà sotto il solo spettro metafisico così come errato appare ritenere lo spettro pratico del tutto estraneo ai principi della logica.21 Infatti, la realtà è una ma possiede livelli, spesso intersecantesi tra loro, di natura, apparentemente, differente. Allo stesso modo, se una è la realtà, il livello pratico gode dei medesimi principi razionali di cui gode il livello ontologico. Può apparire strano, forse sospetto, ma è innegabile che questo sia un risultato scontato se si tengono in debito conto, e si assumono in maniera seria, i presupposti della scienza metafisica. In questo modo, è comprensibile la forte provocazione di Incampo il quale qualifica la deontica in termini analoghi alla metafisica, considerando suo oggetto di tematizzazione to déon hé déon,22 il dover essere in quanto dover essere, l’essere del dover essere in quanto dover essere. In questi termini, infatti, si vede come i principi dell’essere equivalgano in linea teorica ai principi del dover essere.
Si potrebbe in proposito osservare come la presente sia soltanto una provocazione, e non, invece, una tesi storiograficamente supportata. Non ritenendola un’obiezione infondata, è bene condurre al riguardo qualche ulteriore riflessione. Non appare, infatti, un’analogia completamente scevra da perplessità, pur essendo quella certamente più vicina al senso che è possibile esprimere del dover essere.
In questa direzione, allora, si deve dire che mentre la metafisica studia il lógos ontologico, la deontica studia il lógos normativo. Pertanto, se la metafisica è una logica dell’essere, la deontica è una logica del dover essere.23 Un medesimo lógos, infatti, può essere considerato sotto lenti differenti fermo restando che i principi del pensiero, ossia i principi del pensiero razionale, sono in ogni caso i medesimi. In questo modo, tramite i principi razionali il medesimo lógos può essere considerato in termini metafisici oppure in termini deontici.
Giocando con le parole, si può anche affermare che il lógos sia bifronte, di cui, rispettivamente, la metafisica e la deontica siano i due volti: rispettivamente (i) uno studio dell’essere in quanto essere; e, (ii) uno studio del dover essere in quanto dover essere. Lo studio del lógos così è tanto logica dell’essere, nella sua costitutiva onticità, quanto logica del dover essere, nella sua costitutiva deonticità.
Ovviamente, il senso della locuzione ‘logica’adoperata attiene ad un’opzione culturale ben precisa secondo la quale valutare i fondamenti ontologici, così come, secondo la presente prospettiva, quelli deontici, vuol dire prendere in considerazione la forma assunta dalla realtà. Tale forma non necessita di alcuna trattazione secondo linguaggi formalizzati ad hoc, che costituiscono, invece, l’insieme della logica propriamente detta. Per intenderci, la logica di Hegel non è la logica di Boole.24
D’altra parte, appare evidente anche come il medesimo linguaggio metafisico sia il frutto di un lavoro di formalizzazione della realtà e di sua codificazione adeguata.25 Dunque, è insussistente una motivazione tendente ad escludere la considerazione formale del lógos e secondo la quale soltanto una ricerca trascendentale sarebbe adatta allo scopo. Per Aristotele, infatti, logica era tanto la considerazione delle determinazioni prime dell’essere quanto la considerazione formale delle enunciazioni discorsive (a loro volta costituite da termini) .26 Pertanto, non è estranea alla metafisica la logica, non è estranea alla metafisica la formalizzazione, e non si può asserirne l’estraneità per il semplice fatto di valersi di strumenti simbolici.
Se la metafisica studia discorsivamente il lógos, la logica studia sinteticamente il lógos. A cambiare è la forma del discorso, non la sostanza.
La logica è uno studio del lógos,27 del pensiero, del linguaggio.28 La logica, in altri termini, indica le condizioni in virtù delle quali si abbiano forme corrette di ragionamento e di pensiero.29 Non estranea ad essa appare anche una caratterizzazione normativa tendente a prescrivere, non soltanto a descrivere perché conosciute, le regole per il retto pensare.30 La logica moderna, in effetti, forse per effetto del cambiamento d’orizzonte antropologico, si è caratterizzata quale uno studio delle «leggi» del pensiero,31 e il suo metodo è stato spesso matematico.32 Da questo punto di vista, a costituire l’oggetto di ricerca è la forma che il lógos assume all’interno del linguaggio umano, all’interno di forme espressive significative o dichiarative (e, conoscitive di cose) .33
Eppure, l’esperienza mostra ancora una volta come accanto alla conoscenza della realtà, attinente alla sfera teorica, vi sia un’altra dimensione inerente alla produzione di realtà, che attiene alla sfera pratica, a come si agisce secondo precisi caratteri normativi (obbligo; permesso; divieto; facoltà)34 . Se la realtà è razionale, in quanto se ne può mostrare (discorsivamente) il fondamento (onto-logico),35 non si vede perché altrettanto non si possa fare con quella parte di realtà che è il dover essere. Infatti, come è possibile esprimere in un linguaggio formale i modi (dell’essere) della realtà (necessario; possibile; impossibile; contingente), è possibile esprimere in un linguaggio altrettanto formale i modi del dover essere (obbligatorio; permesso; vietato; facoltativo) .36 Così, si possono avere tre distinte, ma non irrelate, logiche: (1) la logica dell’essere (sia pure dell’essere del pensiero); (2) la logica dei modi dell’essere (la cd. logica modale) ;37 e, (3) la logica dei modi del dover essere.38 Quest’ultima prende il nome di logica deontica,39 intendendo con tale locuzione, in perfetta analogia con la nozione comune di ‘logica’, la disciplina che studia le condizioni di correttezza (le regole) del ragionamento normativo40 così come degli status deontici.41
Vasta e sovente fonte di ulteriori difficoltà è stata la sua evoluzione,42 tant’è che il suo fondatore moderno ha dichiarato nel 1983 di essersi mosso per trent’anni nel «labirinto» costituito per l’appunto dalla logica deontica.43 Molte sono anche state le spiegazioni di tali difficoltà, tra le tante quelle più apprezzate sembrano essere le seguenti: (1) a far problema è la derivazione della logica deontica dalla logica modale;44 e, (2) a far problema è l’irrisolto scarto tra il formalismo del linguaggio deontico e la concretezza delle nostre intuizioni normative.45
Concludendo, appare possibile dire che esiste un rapporto preciso tra la logica e la metafisica e che può venir studiato nelle vesti della logica deontica.
Il risultato conclusivo è il seguente: la metafisica (con la logica) studia certe angolature del medesimo lógos (discorsivo) dell’essere, mentre la deontica (insieme alla sua controparte logica) di quest’ultimo considera le sfumature normative. Deve comunque esser chiaro che i principi primi nell’uno e nell’altro caso sono i medesimi.46
In altri termini, come la logica formalizza la razionalità delle espressioni metafisiche sulla realtà, così la logica deontica formalizza la razionalità delle espressioni deontiche sulla realtà. Infatti, la logica deontica può essere definita quale una logica della deontica.47
Problematico resta, ma questa è una direzione di ricerca che non compete alla presente indagine, stabilire come possa l’uomo a partire da una stessa realtà derivare livelli differenti, relati ma oggettivamente indipendenti gli uni dagli altri, i quali descrivono l’intero orizzonte antropologico dell’umanità, che si esprime nei termini di: (1) episteme; (2) azione; (3) deontica. Schematicamente:
Tre differenti, ma tra loro collegati, poli che derivano esattamente dai famosi poli del cd. triangolo semiotico: (1) pensiero; (2) sintassi; (3) semantica.48 Anche in questo caso, schematicamente:
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Si ringraziano quanti hanno condiviso il senso e la stesura del presente scritto, in particolar modo il prof. Roccaro, stimolo potente e silente nume tutelare della presente ricerca su logica e metafisica. Ovviamente, la responsabilità di quanto affermato nel presente lavoro è soltanto dello scrivente.
-
Cfr. A. C. Varzi, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica, Carocci, Roma, 2006, p. 18. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
H. Albert, Per un razionalismo critico, Il Mulino, Bologna, 1973, p. 17: «quando perseguiamo il fine della conoscenza, intendiamo evidentemente conseguire la verità circa la natura di certi nessi reali, vogliamo, cioè, procurarci delle convinzioni vere su certi ambiti, frammenti o settori della realtà. Sembra pertanto naturale che miriamo a conseguire la sicurezza che quanto è stato trovato è anche vero, e una tale sicurezza appare ottenibile solo disponendo di un fondamento per il nostro sapere, vale a dire fondando questo sapere in modo da eliminare ogni dubbio. Pare dunque che certezza e verità siano strettamente connesse per la conoscenza umana. La ricerca della verità, di concezioni, convinzioni, enunciati — e quindi anche teorie — veri, sembra indissolubilmente connessa con la ricerca di fondamenti certi, di una fondazione assoluta che giustifichi le nostre convinzioni, di un punto d’appoggio archimedeo cui ancorare la conoscenza». ↩︎
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Cfr. A. Diemer, Metafisica, in G. Preti (ed.), Filosofia, Feltrinelli, Milano, 19702, p. 342: «la tendenza a considerare l’uomo stesso l’unico possibile principio metafisico della realtà si inizia già con l’età moderna. Ma in essa tale tendenza resta ancora imprigionata in larga misura nelle dottrine tradizionali; solo il crollo completo della filosofia occidentale tradizionale nel secolo XIX ha fatto cadere il motivo della trascendenza e ha spostato sull’uomo il centro della speculazione metafisica». ↩︎
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Aristotele, Metafisica, G 1, 1003 a 20-21. ↩︎
-
Cfr. R. Poli, Idee di scienza e livelli di realtà, Uniservice, Trento, 2007, p. 10: «matematica (studio dell’essere in quanto figura e numero) e metafisica (studio dell’essere in quanto essere)». ↩︎
-
Cfr. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, BUR, Milano, 2004, p. 154: «non si considera l’ente in quanto esso è determinato in questo o quel modo, ma si considera l’ente in quanto ente». ↩︎
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Ivi, «mentre le discipline particolari (e tutte le forme della conoscenza umana) considerano, degli enti, il loro esser numero, corpo celeste, uomo socievole, ecc., invece la «filosofia prima» considera, del numero, del corpo celeste, dell’uomo socievole e di ogni cosa, il loro esser ente: considera cosa significhi «ente», rileva che ogni cosa è un ente e porta alla luce le proprietà che alle cose convengono non in quanto esse sono determinate in un certo modo, ma in quanto esse sono ente». Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 15: «la metafisica è la scienza che contiene i primi fondamenti dello scibile umano». Questo spiega, ad esempio, perché la metafisica non regga il confronto con le scienze empiriche. Scrive, infatti, A. C. Varzi, op. cit., p. 201: «le teorie metafisiche non si reggono sulla sperimentazione ma sull’argomentazione e sull’immaginazione, e per questo motivo gli aspetti metodologici acquistano un’importanza maggiore in metafisica che in altri settori». Questo fatto ha anche spinto i teorici del riferimento esclusivo al «dato positivo» ad escludere la metafisica dal discorso filosofico. Cfr. A. J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano, 1961, p. 9: «molte espressioni metafisiche sono dovute più a errori di logica che non al desiderio cosciente da parte di chi le produce, di oltrepassare i limiti dell’esperienza». Ciò ha condotto alla chiusura, della cultura filosofica anglosassone, all’interno del linguaggio, prima che più recentemente si operasse una riabilitazione della «filosofia prima». È caratteristico che lo strumento principale adoperato dai neopositivisti sia stata la logica, utilizzata per smascherare gli errori di ragionamento delle proposizioni metafisiche. Non si dimentichi, al riguardo, che la logica non è soltanto uno strumento analitico degli errori di ragionamento, ma anche, secondo P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. Le avventure della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Tea, Milano, 2004, p. 11, la logica è lo studio del logos, «del pensiero e del linguaggio». Dal presente punto di vista, la metafisica é assunta in chiave minimalista: è una modalità di ricerca filosofica sui fondamenti della realtà. ↩︎
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Cfr. E. Severino, op. cit., p. 155. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 19722, p. 13: «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla? Ecco la domanda. Non si tratta, presumibilmente, di una domanda qualsiasi. È chiaro che la domanda: « Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?» è la prima di tutte le domande. Non certo la prima per quanto riguarda l’ordine temporale». Ivi¸ p. 15 continua: «in quanto è la domanda più ampia e profonda, si presenta come la più originaria» […] che problematizza l’essente come tale nella sua totalità». ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, op. cit., p. 21: «la filosofia mira ad enucleare i fondamenti primi ed ultimi dell’essente, di modo che l’uomo possa espressamente ricavarne un’interpretazione e determinare i fini riguardanti l’essere umano stesso». ↩︎
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Cfr. E. Berti, Prologo, a: E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. vii: «[la filosofia è la] ricerca disinteressata di sapere, libera dai bisogni materiali e anche dal desiderio di agiatezza, o del piacere». ↩︎
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Cfr. E. Severino, op. cit., p. 153: «[riferendosi per l’appunto alla «filosofia prima» di Aristotele] il principio unificatore del molteplice, ossia ciò che tutte le cose ed eventi hanno di identico, è il loro essere un «ente», il loro essere cioè un «qualcosa-che-è»: una determinazione […] esistente, un essere determinato». D’altra parte lo stesso Aristotele nel definire la metafisica quale scienza dell’essere in quanto essere, aggiunge che questa scienza (epistéme) considera anche le proprietà che gli competono in quanto tale (kai ta tóuto hypárchonta kath’hautó). ↩︎
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M. Ferraris, Oggetti sociali, in L. Floridi (eds.), Linee di ricerca, SWIF, 2003, p. 269. ↩︎
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Cfr. A. Diemer, Ontologia, in G. Preti (ed.), Filosofia, Feltrinelli, Milano, 19702, p. 374. ↩︎
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Appare evidente, come sosteneva Tommaso, che veritas supra ens fundatur. La pretesa metafisica è di carattere veritativo, ossia essa ritiene di dire cose vere (cioè, corrispondenti a come effettivamente esse stanno realmente) intorno ai principi della realtà. Per dirla à la F. Costa, Logica e verità I. Ricerche informali, Edizioni ETS, Pisa, 2005, p. 125: «il fondamento del vero è sempre l’ente». Infatti, è attraverso l’ente (copula) che vengono messi in relazione gli altri due termini del discorso (logico): oggetto (reale) e (sue) proprietà (relazioni ontiche). ↩︎
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Ivi, p. 37. ↩︎
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Cfr. C. Bagnoli, Etica, in L. Floridi, (ed.), Linee di ricerca, SWIF, 2003, p. 179: «Si possono individuare due ambiti distinti ma relati dell’indagine filosofica sulla morale: quello meta-etico, volto allo studio della logica del discorso morale, e quello normativo, volto all’individuazione dei canoni del ragionamento morale e dei criteri di giusto e ingiusto». ↩︎
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Cfr. A. G. Conte, Deontica aristotelica, «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», 1992, p. 182: «come la metafisica indaga to ón hé ón (l’essere) nella sua costitutiva onticità, così (parallelamente, e pariteticamente) la deontica indaga tò déon (il dover essere, il Sollen, l’ought) nella sua costitutiva deonticità». ↩︎
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Considerandoli le asserzioni in cui consistono, secondo G. Rigamonti, Corso di logica, Boringhieri, Torino, 2005, p. 17, le «leggi del pensiero», possono essere formulati nella maniera seguente, seguendo D. Pesce — L. Pozzi, Primi elementi di logica formale antica e moderna, Le Monnier, Firenze, 1971, p. 15: «Il principio di identità può essere formulato asserendo che “quel che è, è” o, in forma simbolica, “A è A” […] Il principio di contraddizione fu poi così formulato da Aristotele […]: “è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto” […] il terzo principio logico, detto dal Baumgarten in poi, del terzo escluso […]: “Tra i due opposti della contraddizione non c’è un termine intermedio”». In termini metalogici, tali principi, seguendo M. Dallachiara Scabini, Logica, ISEDI, Milano, 1974, pp. 118-9, possono essere scritti nella maniera che segue: (1) α→α; (2) ~(α∧~α); (3) α∨~α. Cfr. F. Berto, Logica. Da zero a Gödel, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 52-3. ↩︎
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G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37: «il pensiero pratico è pur sempre pensiero e, come tale, deve soddisfare i requisiti e le leggi della logica. Lo studio del pensiero pratico rappresenta, tuttavia, un notevole ampliamento della tradizionale scienza della logica. Tale studio può valere anche come fondamento di un’antropologia filosofica, che corrisponda al senso profondo della caratterizzazione aristotelica dell’uomo come animale razionale». ↩︎
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Cfr. A. Incampo, Identità non contraddizione. Sul fondamento della validità deontica, Giuffré, Milano, 1996, p. 25 e sgg. ↩︎
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Cfr. A. G. Conte, Alle origini della deontica: Jørgen Jørgensen, Jerzy Sztykgold, Georg Henrik von Wright, in A. G. Conte, Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi 1995-2001, Giappichelli, Torino, 2001, p. 634: «io ho definito la deontica come la teoria del déon hé déon (dover essere in quanto dover essere, Sollen als Sollen). La metafisica studia to ón (l’essere, das Sein) nella sua costitutiva onticità; la deontica, parallelamente, indaga to déon (il dover essere, das Sollen) nella sua costitutiva deonticità». ↩︎
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In Boole, così come nella logica moderna, oggetto di ricerca sono le relazioni tra classi di oggetti e i modi mediante i quali la mente umana contempla tali relazioni. Cfr. (a cura di Massimo Mugnai) G. Boole, L’analisi matematica della logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 95. ↩︎
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Cfr. S. O. Hansson, Formalization in Philosophy, «The Bulletin of Symbolic Logic», 2, 2000, p. 163: «The construction of philosophical language also involves the creation of new distinctions and of terms that have no obvious counterparts in non-philosophical language. Hence, philosophical terminology differs from non-specialized language in two ways. First, it uses some words in different, idealized ways (e.g. ‘knowledge’, ‘value’, and ‘truth’). Secondly, it uses some linguistic innovations of its own (e.g. ‘consequentialism’, ‘modality’, and ‘induction’). Terms in the second category have, from the outset, the same streamline character that the first category acquires through idealization». In più, ivi, p. 170: «Formalization in philosophy is in practice virtually synonymous with formalization in logical language». ↩︎
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Errata è, cioè, la prospettiva di quanti colgono uno scarto tra una logica cd. formale, propria della matematica e della ricerca filosofica sui suoi fondamenti, e una logica cd. filosofica, propria della ricerca filosofica e che affronti le strutture delle argomentazioni. ↩︎
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Cfr. R. Poli, Appunti di logica, Edizioni Goliardiche, Trieste, 1999, p. 3: «Il termine ‘logica’ deriva come noto da ‘logos’». ↩︎
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Cfr. P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. Le avventure della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Tea, Milano, 2004, p. 11. ↩︎
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Cfr. F. Berto, Logica. Da zero a Gödel, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 3: «La logica è la disciplina che studia le condizioni di correttezza del ragionamento. Il suo scopo è dunque elaborare criteri e metodi, attraverso i quali si possano distinguere i ragionamenti corretti, detti anche validi, da quelli scorretti, o invalidi». Cfr. W. & M. Kneale, Storia della logica, Einaudi, Torino, 1972, p. 5: «la logica tratta i principi dell’inferenza valida». In più, cfr. G. Lolli, Introduzione alla logica formale, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 11: «La logica è […] lo studio, o la codifica (e non sono la stessa cosa) dei ragionamenti corretti, o accettabili, o sicuri». Cfr. A. Varzi — J. Nolt — D. Rohatyn, Logica, McGraw Hill, Milano, 20072, p. 1: «La logica è lo studio delle argomentazioni». Scrive anche M. L. Facco, Metafisica, logica, matematica. Leibniz, Boole, Rosmini, Marsilio, Venezia, 1997, p. 9: «Alle origini della logica si trova la fondamentale esigenza dell’uomo di conoscere il vero, di evitare cioè le insidie della falsità e dell’errore». ↩︎
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Cfr. E. Agazzi, La logica simbolica, La Scuola, Brescia, 199015, p. 31. Per quanto concerne, invece, più precisamente il significato della logica quale studio delle condizioni di correttezza del ragionamento, v. M. Frixione, Come ragioniamo, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 9: «tra le discipline che studiano il ragionamento, la logica è la disciplina normativa per eccellenza: essa specifica a quali condizioni un ragionamento deduttivo risulta logicamente corretto». ↩︎
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Cfr. G. Rigamonti, Corso di logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 17. Anche: D. Palladino — C. Palladino, Breve dizionario di logica, Carocci, Roma, 2005, p. 63: «[la logica] è lo studio del ragionamento deduttivo (logica deduttiva), ovvero è lo studio delle dimostrazioni e delle inferenze corrette, tali cioè che la conclusione è conseguenza logica delle premesse». ↩︎
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Cfr. G. Di Bernardo, Introduzione, a: G. Di Bernardo, Introduzione alla logica dei sistemi normativi, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 7: «La logica moderna, dai tempi pioneristici di Boole e Russell, si è sviluppata principalmente assumendo come campo d’indagine la matematica, la quale, ancora oggi, conserva questa posizione centrale e preminente. Di conseguenza, si è avuto un fiorire di studi che riguardano, ad esempio, la teoria dei modelli, la teoria delle funzioni ricorsive, la teoria assiomatica degli insiemi, e altre non meno importanti. Questa tradizione di logica matematica ha, però, oscurato lo sviluppo di altri settori della logica, che sono altrettanti importanti, e che consistono, principalmente, nella logica delle modalità (aletiche, deontiche, epistemiche, esistenziali), nelle logiche polivalenti, nella logica temporale, nella logica della preferenza, e altri non meno importanti». ↩︎
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Aristotele, Dell’espressione, in Aristotele, Organon, Adelphi, Milano, 2003, p. 60 (17 a 1-5): «Dichiarativi sono però non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti». ↩︎
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R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), «Verifiche», 4, 1982, p. 465: «il pensiero pratico è pensiero sul mondo in relazione a specifici concetti essenzialmente pratici. Pensiamo praticamente quando emettiamo ordini e comandi e quando prendiamo decisioni. In tal modo, il pensiero pratico include il pensiero non pratico in quanto implica la conoscenza dell’ambiente e delle circostanze in cui operiamo». ↩︎
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F. Costa, Logica e verità I. Ricerche informali, Edizioni ETS, Pisa, 2005, p. 36: «la verità esiste nel fatto di conoscere». Mentre, seppur all’interno di un discorso del tutto differente, aggiunge D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007, p. 6: «ogni asserzione che riguardi il mondo è o vera (se le cose stanno come l’asserzione dice che stanno) o falsa (se non stanno così)». Questa è, in altri termini, una ripresa della nozione aristotelica di verità. Infatti, Aristotele, Metafisica, G 7, 1011b: «dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; mentre dire di ciò che è che è e di ciò che non è che non è, è vero». ↩︎
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A. G. Conte, Deontica aristotelica, «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», 1992, p. 181: «la logica deontica è una logica. Proprio perché essa è una logica, la sua esistenza mostra (come orgogliosamente von Wright scrive) che i confini della logica trascendono l’ambito del vero e del falso. Il dominio della logica non è circoscritto all’ambio apofantico, a quel logos apofantikos lògos apofantikòs (Aristotele, De Interpretatione 16b33-17a4: discorso dichiarativo: Giorgio Colli, discorso enunciativo: Marcello Zanatta) che della logica è l’oggetto primario». Viene qui adombrato, senza che se ne possa discutere più estesamente, la problematica del ruolo della logica deontica, un ruolo problematico in seno alla logica poiché mette capo alla considerazione di valori logici differenti da quelli classici di vero e di falso. Tuttavia, proprio in ciò consiste gran parte della sua importanza, e del suo fascino, filosofici. Come scrive G. H. von Wright, Logical Studies, Routledge and Kegan Paul, London, 1957, p. vii: «philosophically, I find this paper [Deontic Logic] very unsatisfactory. For one thing, because it treats of norms as a kind of proposition which may be true or false. This, I think, is a mistake. Deontic logic gets part of its philosophical significance from the fact that norms and valuations, trough removed from the realm of truth, yet are subject to logical law. This shows that logic so to speak, has a wider reach than truth». ↩︎
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Cfr. P. Lorenzen, Normative Logic and Ethics, Bibliographisches Institut, Mannheim, 1969, p. 61: «Since Aristotle, the father of logic, there has been a tradition of using so-called «modalities» in the language of the sciences. For example, the words «necessary» and «possible» are usually used in English as modalities. It is task of modal logic to establish a reasonable use for the modalities. In the language of morals, law and politics we have the corresponding modalities «obligatory» and «permitted»». ↩︎
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Cfr. S. Haack, On Logic in the Law: «Something, but not All», Ratio Juris, 1, 2007, p. 12: «Deontic logics introduce «obligatory,» «permitted,» and «forbidden» (the analogue of «impossible» in modal logic)». ↩︎
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Cfr. A. Artosi, Il paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 43 e sg.: definiamo «la logica deontica, «concepita in senso lato», come lo «studio logico dell’uso normativo del linguaggio» che ha come oggetto «una varietà di concetti normativi, in particolare quelli di obbligo (prescrizione), proibizione (divieto), permesso e impegno [commitment]. Se qualcuno ritiene che questa definizione non includa, accanto all’aspetto dell’uso normativo del linguaggio, anche l’aspetto dell’uso normativo del ragionamento, può seguire Castañeda nel definire la logica deontica come quella disciplina che «tratta della struttura del nostro ragionamento ordinario su obblighi, doveri, interdizioni, proibizioni, cose giuste e sbagliate, e libertà di agire» e alla quale è, pertanto, affidato il compito di «(i) rivelare e chiarire i criteri di ragionamento valido in tali questioni; [e] (ii) illuminare e darci una comprensione della struttura logica del linguaggio ordinario mediante il quale viviamo le nostre esperienze di obblighi, prescrizioni, cose giuste e sbagliate». Cfr. T. Mazzarese, Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam, Padova, 1989 p. 3: la logica deontica è «l’insieme di sistemi formali (di calcoli) che assumono ad oggetto il comportamento logico di concetti normativi quali obbligo, divieto, permesso, facoltà, diritto, pretesa». Cfr. P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992 p. 5. ↩︎
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M. Martini (ed.), Dizionario di filosofia contemporanea, Cittadella, Assisi, 1979, p. 275: «la nuova logica deontica si occuperà dell’analisi e formalizzazione dei concetti e delle argomentazioni caratteristiche del discorso normativo (obbligo, proibizione di azione, ecc.) in forma simile a quella con cui la logica formale classica si occupa del discorso dichiarativo». Interessante è pure la definizione di D. Føllesdal — R. Hilpinen, Deontic Logic: An Introduction, in R. Hilpinen (ed.), Deontic Logic: Introductory and Systematic Readings, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht-Holland, 1971, p. 1: «deontic logic can be defined as the study of those sentences in which only logical words and normative expressions occur essentially ». ↩︎
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Cfr. A. G. Conte, Studio per una teoria della validità, in R. Guastini (ed.), Problemi di teoria del diritto, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 336, asserisce essere compito della deontica lo studio, tanto in senso prescrittivo quanto in senso descrittivo, degli status deontici in quanto prodotti dall’interazione tra modalità (deontiche). ↩︎
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R. B. Marcus, Iterated Deontic Modalities, in R. B. Marcus, Modalities, Oxford University Press, New York, 1993, p. 40: «Although deontic logic has had a considerable evolution and refinement since that time, many of the problems of interpretation remain». J. Hintikka, Deontic Logic and Its Philosophical Morals, in J. Hintikka, Models for Modalities. Selected Essays, Reidel, Dordrecht, 1969, pp. 191-2: «The literature of deontic logic offers instructive and amusing examples of such fallacies». Cfr. A. Artosi, op. cit., p. 69: «la logica deontica è una fonte insidiosa e inesauribile di paradossi». ↩︎
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G. H. von Wright, Norme, verità e logica, «Informatica e diritto», 3, 1983, p. 5: «Il mio itinerario attraverso il labirinto della «logica deontica» dura ormai da più di trent’anni». ↩︎
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Cfr. M. Lovatti, Implicazioni etiche dell’analisi del linguaggio da Wittgenstein ai sistemi di logica deontica, «Per la filosofia», 40, 1997, p. 84: «i sistemi di logica deontica possono essere considerati come interpretazioni semantiche di sistemi di logica modale, che a loro volta sono estensioni della logica classica». Cfr. A. N. Prior, Formal Logic, Clarendon University Press, Oxford, 1955, pp. 220-227. Similmente, cfr. R. Girle, Modal Logics and Philosophy, Acumen, 2000, p.171: «If we interpret the as «It is obligatory to bring it about that», then we have a deontic interpretation of modal logic. The is then interpreted as «It is permissible to bring it about that»». ↩︎
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Cfr. G. H. von Wright, On the Logic of Norms and Action, in R. Hilpinen (eds.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, p. 7. ↩︎
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In effetti, se passasse un’idea, sulla quale ancora non è stata raggiunta una posizione completa, secondo la quale in fin dei conti della considerazione ontologica del reale, ossia di quel che esiste, è possibile una formalizzazione logica, per cui si parla in effetti di ontologia formale, allora sarebbe possibile cogliere in maniera più nitida l’analogia discussa nel presente scritto. Infatti, come scrive A. Varzi, Ontologia, SWIF Readings/Contemporanea, 2005, ISSN 1126-4780, (http://www.swif.uniba.it/lei/pdf/biblioteca/readings/ontologia_SWIF.pdf), p. 31: «l’ontologia formale si identifica con quella parte della logica che studia la teoria deduttiva della copula: la logica del verbo ‘essere’». Infatti, punto di contatto tra le due indagini è la diversa considerazione della copulazione, ossia l’attribuzione di date proprietà ad enti, una considerazione ontologica nel primo caso, utilizzo classico fattone dalla metafisica, una considerazione deontica nel secondo caso, utilizzo fattone dalle deontica. ↩︎
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Cfr. P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992, p. 3. ↩︎
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Cfr. L. Borzacchini, Il computer di Platone. Alle origini del pensiero logico e matematico, Edizioni Dedalo, Bari, 2005, p. 14. ↩︎