Recensione a Diego Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia

Diego Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007, 172 pp., € 10,00.

Il breve, ma esaustivo, testo di Marconi affronta un tema che ha incontrato vasta eco negli ultimi anni e che, almeno in Italia, s’è intrecciato a questioni non prettamente epistemologiche, come quelle politiche e/o socio-culturali. Questo a riprova dell’estremo interesse che un tema come la verità non manca di suscitare a tutti i livelli della vita umana.

Il merito dell’autore consiste certamente nel consentire un chiarimento di nozioni variamente utilizzati all’interno di tali dibattiti, come verità, relativismo, scetticismo, e così via.

Marconi prende le mosse da questioni pubbliche la cui verità è rimasta negli anni dubbia. Una di queste è la strage di Ustica. Forse non sapremo mai come andarono effettivamente le cose; tuttavia, «non può non esserci un modo in cui sono andate» (p. 3), infatti «o è vero che l’aereo è stato colpito da un missile, o è vero che è stato distrutto dall’esplosione di una bomba, o è vera una delle altre alternative» (p. 3). Ciò vuol dire che sebbene non sempre sia possibile conoscere la verità, quest’ultima comunque esiste, è certamente possibile. La filosofia, in proposito, distingue due posizioni fondamentali: (1) il realismo; e, (2) il platonismo. La concezione (1) è sostanzialmente la posizione di quanti «pensano che c’è un modo in cui le cose stanno indipendentemente dal fatto che qualcuno sappia o possa sapere che stanno così, e che, di conseguenza, gli enunciati che dicono che le cose stanno in quel modo sono veri, che lo sappiamo o no; mentre quelli che dicono che le cose stanno diversamente sono falsi (che lo sappiamo o no)» (pp. 3-4). Pertanto, si dà verità a prescindere dalle nostre concrete possibilità di accertamento e, di conseguenza, di conoscenza di come effettivamente andarono le cose, dato che il paradigma fondamentale di verità è quello tomista secondo il quale la verità è fondata sull’ente, ossia si dà verità nei termini di adaequatio rei et intellectus, corrispondenza tra quanto viene pensato e quanto quel che è pensato «è» nella realtà. Invece, la concezione (2) è propria di quanti ritengono che «c’è un modo in cui le cose stanno in quel modo, mentre sono false le asserzioni incompatibili con essa» (p. 5). Il riferimento, in questo caso, va senza dubbio, almeno nel richiamo nominale, alla complessa ontologia platonica e al difficile, da comprendere, rapporto tra le idee e le cose, in virtù del quale, ad esempio, ad idee matematiche corrispondono identiche cose nella realtà, sebbene sia oltremodo difficile che qualcuno di noi possa fare esperienza diretta di cose come ‘numeri’ e/o ‘forme geometriche’ e così via.

Prima di Tommaso d’Aquino, comunque, è nella riflessione filosofica che s’incontra la prima formulazione del concetto di verità: «ogni asserzione che riguardi il mondo è o vera (se le cose stanno come l’asserzione dice che stanno) o falsa (se non stanno così)» (p. 6). In altri termini, precisa l’autore «se c’è un modo in cui le cose stanno, allora è vera l’asserzione che dice che le cose stanno in quel modo, falsa quella che dice che non stanno in quel modo» (p. 6). Il riferimento ad Aristotele è obbligato: dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; mentre dire di ciò che è e di ciò che non è che non è, è vero. Tuttavia, questa posizione, rimasta immutata per parecchi secoli, è stata riformulata, prendendo atto dei contemporanei mutamenti culturali, e antropologici, dal polacco Tarski il quale definisce compiutamente il punto centrale della concezione classica di verità, e che si può di certo riassumere nella forma seguente: «è vero che P se e soltanto se P (dove P è una qualsiasi proposizione)» (p. 6). Epistemologicamente parlando, viene fatto salvo il legame (ontologico) tra il pensare (in seguito, anche il parlare) una data realtà e la realtà medesima. In questo senso, la concezione tarskiana non sostituisce, ma integra, la proposizione tomista (ed aristotelica): è il sempre il fondamento ontologico, ossia il basarsi su enti esistenti, a determinare l’attribuzione dei due caratteri di verità, il vero ed il falso.

Tuttavia, si deve subito riconoscere come la concezione contemporanea della verità operi uno slittamento di senso in maniera tale che più che l’accertamento ontologico di come le cose stiano effettivamente conta il fatto che qualcosa sia giustificata, ossia che ci siano «delle buone ragioni per pensare che sia vera» (p. 9). Ciò significa, senza dubbio, che una cosa è l’accertamento della verità dei fatti, ossia vedere come davvero le cose siano andate e se ciò è come è stato pensato/detto che siano andate, ed un’altra cosa, totalmente differente, è dire che sia giustificato pensare/dire che le cose siano andate in un certo modo. Infatti, nel primo caso quel che importa è sapere se quanto pensato/detto corrisponda alla realtà, nel secondo caso ad importare è una proprietà di giustificazione. Questo vuol dire che non necessariamente quel che può essere vero, così come falso, sia anche giustificato dal reticolo delle nostre credenze e/o conoscenze. Da questo punto di vista, infatti, anche qualcosa d’impossibile, o di inusitato, può essere vero. Per dirla con Marconi «ci sono innumerevoli asserzioni vere ma non giustificate» (p. 9). Il passo ulteriore è riconoscere che vi siano proposizioni vere «ma, a tutt’oggi, non asserite da nessuno» (p. 9). Pertanto, non è la conoscenza umana il garante del riconoscimento della verità/falsità delle credenze. Questo, semmai, è un criterio di giustificazione delle asserzioni.

Cosa s’intende, allora, esattamente, per ‘giustificazione’? Quando si può dire che una proposizione è giustificata? Secondo l’autore sono sostanzialmente tre le concezioni di cui tener conto: (1) una proposizione è giustificata nel senso di argomentata, ossia «che non è presentata come un dogma ma è sostenuta da un ragionamento basato su premesse» (p. 11); (2) una proposizione è giustificata nel senso che «è derivata in modo convincente da premesse plausibili» (p. 11); (3) una proposizione è giustificata nel senso che «non è escluso che ci siano proposizioni vere che non sono giustificate perché non ne è stata prodotta una giustificazione» (p. 12), sebbene sia necessario che una proposizione giustificata sia anche vera.

Appare chiaro, allora, come (a) la concezione (1) consideri una proposizione giustificata nel senso di retta da argomenti; (b) la concezione (2) consideri la proposizione giustificata nel senso di prodotta secondo un iter controllabile e, nella maggior parte dei casi, riproducibile; (c) la concezione (3) consideri la proposizione giustificata nel senso di dimostrata.

Ora, utilizzare la nozione di ‘giustificazione’ non sostituisce il concetto di verità, ma lo implica a sua volta. Infatti, «la verità della proposizione giustificata è condizione necessaria per essere una giustificazione» (p. 13), in tutti i sensi prima indicati.

Ciò non toglie, comunque, che si percepisca una confusione tra verità e giustificazione, soprattutto nelle discussioni sul relativismo, forse perché si tende, e questo è il parere di Marconi, a dichiarare relativistica «la posizione di chi riconosce che comportamenti o credenze diverse dalle proprie non sono necessariamente immotivate, ma hanno una «logica», cioè sono giustificate» (p. 14) mentre «vedere una «logica» in un comportamento alieno non è nemmeno l’inizio di un apprezzamento di quel comportamento, e non comporta alcuna relativizzazione dei propri comportamenti o dei propri criteri di giudizio» (p. 14). Infatti, se «giudico che un altro sia coerente nel suo delirio o nella sua perversione morale non gli sto facendo alcuna concessione (semmai il contrario)» (p. 14). Pertanto, se si prende per buona l’idea realista non si può non riconoscere che «la verità è altra cosa dalla giustificatezza» (p. 16). Infatti, molte proposizioni vere non sono né saranno mai giustificate così come «è possibile che molte proposizioni giustificate non siano vere» (p. 16). Secondo Rorty, ad esempio, bisogna adoperare un concetto cauto di verità. Infatti, al di là della distinzione tra verità e giustificazione, comunque, una proposizione oggi ritenuta vera domani potrebbe essere falsa perché domani qualcuno potrebbe conoscere «la verità meglio di noi» (p. 18). Una conoscenza migliore delle cose potrebbe invalidare in futuro molte delle nostre attuali certezze sugli stati di cose.

Ciò non impedisce comunque che un certo indirizzo abbia sottoposto a critica il suddetto rapporto tra verità e giustificazione. Infatti, secondo Williams, ad esempio, «ci può essere ragione di pensare che P sia vera anche se non lo è» (p. 19). In questo senso, la giustificazione di Williams non coincide con la giustificazione per come è stata delineata in precedenza. Dummett ha criticato Williams perché il concetto di giustificazione non può essere compreso «nei termini di certe pratiche che di fatto adottiamo e dei criteri invalsi di queste pratiche» (p. 20), ribadendo così lo stretto legame tra verità e giustificazione. Infatti, Marconi ritiene che «la verità ricompare a giustificare pratiche di ricerca che, di per sé, possono anche essere descritte senza chiamarla in causa» (p. 21), questo per dire che ci «sono quindi buone ragioni per pensare che qualsiasi concetto di giustificazione sia direttamente o indirettamente tributario del concetto di verità» (p. 21). Pertanto, è corretto pensare che una proposizione pur essendo giustificata possa essere falsa, ma «se si pensa che una credenza sia giustificata, non si può non pensare che ci siano buone ragioni di ritenere che sia vera» (p. 22).

Al rapporto tra la verità e la giustificazione s’aggiunge in genere un terzo incomodo: lo scetticismo. In genere, «probabilmente una conoscenza è una credenza vera e giustificata più qualche altra cosa; e pochi dubitano che la verità e la giustificatezza siano comunque condizioni necessarie della conoscenza» (pp. 22-3). Ebbene, lo scetticismo non mette in dubbio ciò, quanto semmai la certezza che le nostre conoscenze «siano davvero conoscenze» (p. 24), quanto consideriamo conoscenza, infatti, potrebbe non esser vero. Questo vuol dire che chi «dice che non ci sono verità assolute non sta negando l’intuizione realista […] ma sta facendo professione di scetticismo» (p. 29). Eppure, a voler seguire sino in fondo, ossia seriamente, la posizione scettica si deve riconoscere che è «una posizione imbarazzante» (p. 29). Il nocciolo dello scetticismo, infatti, consiste «nell’idea che nessuna giustificazione è tale se non è dimostrabilmente capace di resistere ad ogni obiezione possibile» (p. 32). E in questo consiste l’imbarazzo: quale conoscenza giustificata può in linea di principio resistere a qualsiasi obiezione che sia possibile formulare, tanto oggi quanto domani? Ciò conduce a una drammatizzazione della verità, allontanando da noi la possibilità di possederla. Infatti, in genere, i filosofi hanno ritenuto che la si possa «soltanto instancabilmente ricercare» (p. 35), «parlandone come di cosa inattingibile, più che umana» (p. 35). Così si rovescia, ad esempio, l’ottimismo dell’ermeneutica gadameriana secondo la quale, infatti, non è impossibile che in futuro si possa giungere a conoscere la verità.

Secondo Marconi sono due le ragioni di tale drammatizzazione: (i) «la confusione tra conoscenza e certezza» (p. 35); e, il fatto che (ii) «le verità che vengono dichiarate inattingibili riguardano questioni estremamente controverse, in cui poche argomentazioni sono unanimemente considerate del tutto convincenti» (p. 35). La posizione dell’autore è chiara. Infatti, la disfida sulla verità nasce da una confusione tra significati ed aspetti differenti della medesima nozione, di fondamentale importanza, com’è evidente, per l’intera specie umana.

Equivocare singoli aspetti o loro gruppi, comunque parziali rispetto all’intero dominio aletico, conduce al relativismo, ossia alla posizione secondo la quale «non ci sono asserzioni o credenze semplicemente vere: ogni asserzione o credenza è vera per X, e spesso non per Y» (p. 50). In questa accezione, X e Y possono essere (a) singoli esseri umani; (b) differenti epoche storiche; oppure anche, (c) differenti comunità umane. Nel caso (a) si parla di relativismo soggettivo: ognuno ha una percezione differente della realtà, benché in questo caso la sfiducia in un accordo intersoggettivo sia volto non nei confronti di una conoscenza scientifica. Nel caso (b) si parla di relativismo storicista: un fatto è vero, come falso, a seconda del periodo storico di considerazione. Nel caso (c), ancora, si parla di relativismo culturale: una credenza è vera o falsa a seconda della comunità culturale di riferimento.

Bisogna, comunque, osservare come in ogni caso il «relativismo entra in scena quando alla tesi della varietà dei criteri si aggiunge che non ci sono, né possono esserci meta criteri, cioè, criteri per giudicare della superiorità o inferiorità dei criteri di verità; e che quindi è impossibile sostenere non arbitrariamente che certi criteri sono i migliori di tutti (sono quelli giusti, mentre gli altri sono sbagliati)» (p. 52).

In proposito, si potrebbe obiettare qualcosa di analogo all’obiezione nei confronti della tolleranza: è relativista la posizione relativista? A tutta prima sembra di no, e qui s’ingenera quella serie di contraddizioni che analogamente sorgono nel momento in cui si chieda se sia tollerante la tolleranza.

È ovvio che non essendoci metacriteri «la preferenza per un criterio di verità […] non può essere giustificata: è una scelta che ha motivazioni extrarazionali» (p. 53).

La forma, forse, più diffusa è quella del relativismo epistemico secondo il quale «la giustificatezza è irrimediabilmente relativa (a singole persone, epoche, comunità)» (p. 53). È una posizione «filosoficamente rispettabile» (p. 53) ma, di per sé, «non coincide con il relativismo sulla verità, né lo implica» (p. 53). In realtà, fulcro della concezione relativista è la maniera attraverso la quale s’intende il riferimento: un W è vero per X. Cosa s’intende dire con ‘vero per qualcuno’? Questo riferimento decide se qualcosa vero per X lo sia anche, o meno, per Y. In questi termini, non è possibile formulare compiutamente la tesi della relatività della verità senza condividere «una concezione epistemica della verità» (p. 57). Infatti, «solo chi identifica verità e giustificatezza (conformità a criteri, a «politiche della credenza», ecc.) può dire sensatamente che una stessa credenza può essere vera per X ma non per Y, intendendo con ciò che può essere conforme ai criteri di giustificazione di X ma non a quelli di Y» (p. 57). La pluralità dei criteri di giustificazione non implica di per sé l’irriducibilità degli stessi. Infatti, una medesima credenza può essere accessibile da diversi criteri di giustificazione. Allora, punto di forza del relativismo epistemico non è «l’idea che certi stati di cose sussistono per uno scema concettuale ma non per un altro» (p. 62) quanto, piuttosto, «l’idea che certe possibilità sono configurabili in uno schema concettuale ma non in un altro» (p. 62). Cioè, «il relativismo concettuale dà un senso all’espressione ‘vero per X’» (p. 62). In questo modo, infatti, il punto focale non è vedere come le cose stiano oggettivamente, ma come le cose stiano per noi, secondo la concettualizzazione che se ne possa dare. Così, quando «diciamo che qualcosa è vero in un mondo, intendiamo che è vero di quel mondo, poiché in quel mondo le cose stanno in un certo modo» (p. 68).

Tuttavia, se i fatti possono essere conosciuti nella misura in cui vengono concettualizzati, questo significa che in qualche modo essi vengono prodotti. Così, osserva Marconi, «il relativismo epistemico e il relativismo concettuale — hanno a che fare con le discussioni […] intorno alla concezione postmodernista e ai suoi fondamenti, in particolare intorno alla nozione di fatto e alla sua legittimità» (p. 69). Per la cd. crisi dei fondamenti della ragione, infatti, gli oggetti «sono (inevitabilmente) selezionati da un’operazione interpretativa guidata da valori» (p. 71) e solo in seguito a questa selezione «è possibile parlare di verità «in senso realistico»» (p. 71). In altri termini, e in definitiva, «i fatti sono prodotti di operazioni interpretative» (p. 71). In questo senso, si comprende l’affermazione classica del relativismo: non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Essendo nostre interpretazioni, nulla ci garantisce che le cose siano come crediamo. Infatti, «tutto ciò potrebbe essere diverso da com’è» (p. 73), dato che i cd. fatti appaiono «artefatti delle nostre pratiche linguistiche» (p. 77).

A questo punto, s’impone una chiarificazione. Esistono almeno due forme, filosoficamente solide, di relativismo: (1) il relativismo epistemico; e, (2) il relativismo concettuale. La forma (1) sostiene «che i criteri di giustificazione delle credenze sono o possono essere diversi da epoca a epoca, da società a società e da persona a persona, e non ci sono meta criteri che ci consentano di scegliere tra di essi» (p. 81). La forma (2), invece, sostiene che «diversi schemi concettuali rendono descrivibili stati di cose differenti, sicché «come stanno le cose» dipende in parte dallo schema concettuale adottato» (p. 81).

È al tempo stesso inevitabile riconoscere come i nostri tempi siano contrassegnati da una pluralità (di opinioni, di credenze, di costumi, ecc.) che accomuna, pur nella differenza, (quasi) tutti i gruppi umani. Tuttavia, accade spesso d’imbattersi nella pubblicistica secondo la quale con pluralismo s’allude «a fenomeni disparati» (p. 90). Ecco perché Marconi analizza a questo punto le varie nozioni di ‘pluralismo’, distinguendo tra: (i) pluralismo «dei Cento fiori»; (ii) pluralismo dell’equivalenza. La prima nozione sostiene grosso modo che la pluralità (di forme di vita, opinioni, ipotesi scientifiche, opzioni morali, ecc.) sia un valore in sé ma anche non «che le alternative abbiano tutte lo stesso valore» (p. 97). Viceversa, la seconda opzione afferma che «le diverse alternative sono equivalenti» (p. 98). In questo caso, infatti, «il pluralista dell’equivalenza non ha un argomento per dimostrare che le alternative (di cui di volta in volta si tratta) sono oggettivamente equivalenti: si limita a sostenere che le motivazioni della scelta tra di esse non comportano necessariamente, e non dovrebbero comportare, giudizi di valore» (p. 98). Volgarmente parlando, ma quando si discute di ‘pluralismo’s’intende esattamente la seconda nozione, ossia s’intende affermare che le varie alternative sono equipotenti quanto equivalenti.

Se, dunque, «il pluralista dell’equivalenza dice che tutte le alternative hanno lo stesso valore» (p. 105), allora si mette capo al cd. relativismo sui valori. Infatti, la scelta dei valori da seguire, per il fatto di essere frutto di scelta soggettiva, e dunque arbitraria, non marca alcun valore in più sugli uni o sugli altri. Ogni opzione, allora, è in sé uguale, di egual importanza. Ciò ha l’indubbia conseguenza di porre sullo stesso piano qualsiasi scelta assiologia, sino all’estremo del nichilismo dei valori dato che valori concorrenti, se di ugual importanza, si annullano vicendevolmente.

Ora, se questo è lo sbocco teorico, anche se la nostra Costituzione, ad esempio, sancisce in maniera incontrovertibile il valore in sé del pluralismo, non è di per sé neutrale. Ciò significa che la «nostra democrazia non è affatto «relativistica» nel senso di essere neutrale rispetto a qualsiasi fine o valore e di trattarli tutti come ugualmente legittimi» (p. 108), anzi sostiene dati valori i quali «discriminano come disvalori le opzioni incompatibili con quelle scelte» (p. 109).

Questo dovrebbe porre la riparo dalla paventata deriva relativista la nostra società. Tuttavia, è anche innegabile come al di là di un sottile striscia di dimensione pubblica, molto spazio sia concesso alla dimensione privata ove regna incontrastato un certo «soggettivismo». Infatti, se A è un fine per X, allora si sott’intende che A viene riconosciuto come tale da qualcuno, nella fattispecie da X. Pertanto, A è un valore per X, ma potrebbe non esserlo per Y, oppure esserlo in parte per W, o anche non del tutto per J. Solo che X, Y, W e J sono uguali tra di loro, tutti egualmente liberi di operare scelte intorno ad atteggiamenti, condotte, opzioni morali, e così via. In questo è possibile cogliere il pericolo del soggettivismo: i «sostenitori della pluralità dei valori […] non pensano che ci siano «oggettivamente» certi valori, gli stessi per tutti, ma pensano al contrario che qualcosa è un valore solo per il fatto di essere riconosciuto come tale da qualcuno» (p. 115). Per la concezione relativistica, così, «solo i miei (i nostri) valori sono tali» (p. 115). Di qui un’inevitabile scontro di volontà (soggettive), che, in altri termini, produce il famigerato nichilismo dei valori, ossia che «non ci sono, propriamente, valori, ma soltanto preferenze (individuali o collettive) determinate da varie circostanze» (p. 116), «non ci sono valori ma soltanto preferenze, determinate da una storia casuale (non motivate dal valore intrinseco di ciò a cui s rivolgono)» (p. 117).

Tuttavia, Marconi non aderisce puntualmente a questo esito finale, ma si sforza di precisare come non si possa accettare il relativismo morale, mentre ritiene incontestabili quelli epistemico e conoscitivo. Infatti, se «i sistemi di valore sono strettamente connessi alle forme di vita» (p. 127) e sono, dunque, comprensibili «come parte di una forma di vita» (p. 127), allora un giudizio degli stessi è comunque necessario benché sia un’eventualità respinta con forza dal relativista morale. D’altra parte, la stessa concezione relativista va incontro ad una contraddizione interna: da un alto, afferma che tutte le opzioni morali hanno pari dignità, e dall’altro lato, però, pretende di togliere lo status di parità alle opzioni che negano la pari dignità delle scelte morali. Sostanzialmente, due appaiono essere gli inconvenienti della posizione relativista: (a) «il relativista è condannato ad un’indulgenza universale: non può mettere in discussione (e tanto meno condannare) nessun comportamento che sia in qualche modo riconducibile ad un sistema morale diverso da quello che il relativista stesso condivide» (p. 130); (b) «non è chiaro se, dal suo punto di vista, sia lecita la critica del nostro sistema morale e dei comportamenti che conseguono» (p. 132). Il primo inconveniente comporta che «poiché l’astensione dal giudizio morale non può non portare con sé, coerentemente, una pratica astensionistica, che lascia sussistere ogni sorta di orrori purché siano orrori culturalmente alieni, essa è incompatibile con i nostri valori — anche con quelli del relativista, se condivide il nostro sistema morale» (p. 130). Da questo punto di vista emerge come «il relativismo morale non è soltanto una posizione teorica difficilmente difendibile, ma è moralmente riprovevole» (p. 130). Il secondo inconveniente comporta, invece, che il relativismo morale «è difendibile solo al prezzo di un estremo conservatorismo: deve trattare come illegittime anche le nostre critiche al nostro sistema di valori» (p. 134).

Di fronte a tale contraddizione interna del relativismo, è legittimo chiedersi: forse che alcuni degli atteggiamenti relativisti siano il frutto di una (sorta di) paura della verità? Si pensi ad esempio all’atteggiamento di quanti ritengono possibile prescindere dalle risultante scientifiche sostenendo che non sono vere (p. e. “dicono che il fumo fa male, ma io fumo un pacchetto al giorno e sono ancora vivo, Dunque, non è vero quanto dice la scienza”). In questo modo, infatti, negando la verità (in questo caso, quella scientifica), ci si sente, forse, un po’più liberi. Un atteggiamento, però, che è tutt’altro che legittimo.

In conclusione, si può dire che il «concetto di verità non è rinunciabile, e anche le forme più convincenti di relativismo […] non riescono a indurci a farne a meno» (p. 146). Infatti, i «relativisti di ogni risma ci esortano a diffidare delle pretese di verità» (p. 157), ma è «un precetto difficilmente applicabile in generale: la nostra vita si basa sul presupposto che la maggior parte delle affermazioni dei nostri interlocutori siano non solo sincere, ma vere» (p. 157). Si può diffidare dalle pretese veritative in ambito etico o religioso, ma «non c’è ragione di estendere la diffidenza alla verità in generale, o al concetto di verità. Tutti i giorni abbiamo bisogno della verità, ed è un bisogno spesso soddisfatto. Perché non riconoscerlo?» (p. 157).