Giovanni Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Paravia — Bruno Mondatori, Milano 2005.
Esiste un rapporto stretto tra la bioetica e la filosofia, una sorta di “vocazione” in tal senso, che fa sì che la bioetica, «pur essendo di moda» (p. 7) non sia una moda, ma una razionalità necessaria nel tempo presente, per «costruire un ponte (bridge) capace di garantire la sopravvivenza e il benessere dell’uomo» (p. 2), al fine di «porre limiti invalicabili all’attività tecnico — scientifica» (p. 5), specie oggi, essendo le nostre esistenze caratterizzate dalla «rivoluzione scientifica» (p. 2).
Ma a questa esigenza avvertita in maniera pressante fa seguito una tensione tra (sostanzialmente) due differenti, e talvolta contrapposti, orientamenti bioetici.
In effetti, proprio il legame (ineludibile) fra bioetica e filosofia è «dovuto alla natura etica dei problemi bioetici e al carattere esistenziale dei suoi dilemmi» (p. 9). Pertanto, non è peregrino che ciò comporti la costituzione di “modelli antitetici” in bioetica: il porsi la bioetica «come una sorta di “grande sfida” per la filosofia» (p. 13) comporta l’eredità da parte filosofica di gran parte delle separazioni, e distinzioni, che caratterizzano il sapere teoretico.
Costituisce, dunque, un fatto notorio che esistano «tante bioetiche quante sono le etiche» (p. 14), pur presentando, comunque, ciascuna posizione molte sottoarticolazioni al proprio interno. Grosso modo, comunque, «si possono individuare due grandi modelli teorici» (p. 15), ispirati a loro volta «a due concezioni generali del mondo e a due distinte filosofie» (p. 15), l’una «di matrice “religiosa” e l’altra di matrice “laica”» (p. 15). La prima è quella basata sul principio della “sacralità della vita”, «una ben precisa realtà dottrinale condivisa da molti studiosi» (p. 15). La seconda, invece, è quella della basata sul principio della “qualità della vita”. In ogni caso, come intende dimostrare Fornero, non si tratta di mere etichette, ma di posizioni organiche.
A questa divisione, non è mancato chi ha, al contrario, sostenuto come non esistano bioetiche laiche o religiose, ma (solo) la bioetica. Al riguardo, osserva l’autore: «una tesi di questo tipo […] finisce per confondere piano teoretico (o di diritto) e piano storiografico (o di fatto) e risulta oggettivamente inadeguata (e falsa)» (p. 17). Infatti, manca di osservare come esistano «peculiari forme di bioetica» (p. 17) e come ciascun modello venga elaborato «a partire da determinate precomprensioni e visioni del mondo» (p. 17), esattamente quali possono essere quelle “religiose” e “laiche”.
Più particolare è, invece, l’obiezione di quanti negano vi sia il bisogno di cornici ampie, di paradigmi antropologici, e di come, al contrario, sia sufficiente valutare i singoli casi, mettendo da parte le esigenze più profonde dell’etica in generale. Questa tendenza, pur presente nel dibattito bioetico, mirante a «escludere ogni discussione critica sui fondamenti teorici e assiologici delle proprie scelte» (p. 18), in realtà, mostra come non sia possibile eludere le domande ultime sul senso del nostro operare, anche, e soprattutto, «in presenza di quei casi cruciali o eccezionali che […] mettono a (dura) prova le convinzioni ordinarie di medici, pazienti e parenti» (p. 18). La tematica dei “casi” bioetici, in genere quelli aventi a che fare con casi particolarmente difficili di etica medica, impongo che ci si chieda «se sia eticamente valido il principio stesso in base al quale dovrebbe essere giudicata l’azione stessa» (p. 18). La questione è in ogni caso radicale, ed investe gli aspetti ultimi della vita umana: coinvolge «scelte esistenziali di fondo» (p. 19).
In tutti questi casi, i due modelli individuati operano scelte, ed orientamenti, radicalmente differenti.
Il modello (o, teoria) della sacralità della vita (TSV) ritiene che sempre debba considerarsi la vita sacra, degna di essere vissuta, indisponibile alle manipolazioni umane, specie quando miranti ad accorciare (o, ad allungare) i limiti “naturali” della stessa.
Il modello opposto (o, etica) della qualità della vita (EQV) ritiene che su ogni altra cosa (o, considerazione) debba valere la volontà individuale del soggetto e la considerazione della qualità della sua esistenza.
Di fronte al dolore sordo delle malattie incurabili, la TSV reputa questa esistenza (particolare) sempre degna di essere vissuta sino in fondo, anche perché indisponibile ad una gestione secondo logiche (soltanto) umane. Al contrario, l’EQV, di fronte al medesimo caso prima valutato dalla TSV, ritiene che si possa, anzi si debba, rispettare la volontà del soggetto che vive tale condizione e valutare se non sia meglio (anche) interromperla (nel caso che il soggetto interessato sia della stessa opinione) se questa non fornisce alcun ben — essere al paziente, una soddisfacente qualità della vita.
Fornero esamina ciascuna delle due posizioni bioetiche.
È bioetica (cattolica) della sacralità della vita «la forma di bioetica professata pubblicamente […] dalla Chiesa di Roma e dagli studiosi che, a vario titolo, ne condividono le posizioni di fondo» (p. 22), «il modello generale di bioetica in cui si riconoscono la Chiesa cattolica di Roma e gli studiosi in sintonia con le sue concezioni antropologiche e metafisiche» (p. 24).
Secondo molti, però, sarebbe difficile non solo individuare un corpus bioetico proprio di tale cultura, ma al tempo stesso prenderlo sul serio. È, in realtà tutt’altro che trascurabile, e non certo per la posizione che la Chiesa occupa nel dibattito pubblico. Infatti, pur basandosi su una visione cristiana della vita umana, le ragioni addotte circa le questioni bioetiche sono sempre all’insegna della ragione, costituiscono sempre un’attività che «razionalmente esamina la liceità dell’intervento dell’uomo sull’uomo» (p. 26), ogni suo pronunciamento «fa (esplicito) appello ad argomentazioni di natura razionale e filosofica» (p. 26). Questo suo costituirsi assicura alla bioetica cattolica non soltanto rigore speculativo, ma anche universalità e comunicabilità» (p. 26), andando dunque oltre l’iniziale limitazione confessionale.
Il paradigma filosofico fatto proprio dalla bioetica cattolica è quello della sacralità della vita, «quella peculiare dottrina etico-metafisica che, sulla scorta di un impianto concettuale di matrice greco-scolastica e di una visione finalistico-provvidenziale del mondo» (p. 27) individua nella vita umana «una realtà ontologico-assiologica meritevole di “assoluto rispetto”» (p. 27).
Al contrario, il deprezzamento di questa bioetica nasce non da una sua irrilevanza teoretica, ma «da una mancata delucidazione […] delle strutture concettuali (e linguistiche) di tale dottrina» (p. 27). Anzi, il paradigma bioetico della sacralità della vita «si presenta come una costruzione articolata» (p. 28), ruotante attorno ai principi di creaturalità, non disponibilità, inviolabilità della vita, «bene fondamentale» (p. 28). La vita umana è sacra perché una «realtà che, provenendo da Dio, da Dio riceve il suo pregio, cioè la garanzia metafisica del proprio intrinseco valore» (p. 28). In più, la vita umana, essendo un dono (donum) e proprietà (proprietas) del Creatore, «risulta per principio sottratta alle scelte individuali» (p. 29). Inoltre, essendo al tempo stesso degna di valore perché strutturalmente relazionata con Dio, essa è assolutamente inviolabile, «meritevole di “assoluto” rispetto» (p. 34).
Molto spesso anche i sostenitori di tale teoria sostengono come il legame con Dio, assunto quale Creatore di tutto, vada visto nell’ottica della natura, di un ordine naturale che, proprio in quanto tale, ordina normativamente, e tassativamente, le possibilità della tecnica medica. In altre parole, esiste un (naturale) piano divino del mondo «che si riflette nell’ordine naturale del creato» (p. 36). Dunque, «gli uomini sono tenuti a usare le membra del proprio corpo in conformità alle loro finalità naturali» (p. 37).
È presente, dunque, un parlare di Dio all’uomo attraverso la parola rivelata, il creato ed anche attraverso un ente intermediario tra l’uomo e Dio (Chiesa) il quale «sulla base delle conclusioni (razionali) della filosofia e degli insegnamenti (rivelati) della Scrittura, indica, nel solco della tradizione, la retta via da seguire nelle questioni morali» (pp. 38 — 9).
La TSV «comporta la sacralità del corpo e di quelle due finalità di base che sono l’autoconservazione dell’individuo e la riproduzione della specie» (pp. 39 — 40). Così ogni intervento (tecnico), volto a modificare il naturale finalismo del corpo, «è da ritenersi illecito» (p. 40). Il medico, cioè, può intervenire per ripristinare il naturale corso naturale del corpo, dal quale si era deviati (patologia), ma non può sostituirsi ad esso «perché ciò provocherebbe un disturbo (o una violazione) del piano delle cose (e quindi un’indebita variazione del disegno di Dio sull’uomo)» (p. 40). In altro modo, essendo lecito qualsiasi intervento medico teso a consentire lo sviluppo naturale della vita di una persona, è illecito ogni intervento «che si opponga allo sviluppo naturale della vita di una persona» (p. 40) oppure ogni intervento «difforme dalle modalità che la natura umana indica per conseguire tale sviluppo» (p. 40).
È evidente, dunque, come la TSV di matrice cattolica si caratterizzi per una sorta di deontologismo assoluto, «incentrato sulla nozione di divieti autoevidenti e assoluti, cioè che si impongono a tutti e in tutte le circostanze» (p. 42), sempre et pro sempre. Per questa ragione, prevedendo una morale rigida, che non contempla la possibilità del caso e che qualifica certe fattispecie come sempre illecite e negative, la TSV di marca cattolica vieta tanto l’aborto quanto l’eutanasia. Il che, se a taluni può apparire come la personale visione “conservatrice” del passato (e dell’attuale) Pontefice, in realtà appare in «conformità e coerenza con la millenaria dottrina della Chiesa» (p. 48).
Comunque, se il sistema assiologico della TSV cattolica è incentrato tutto sulla nozione di “persona” (umana), è necessario precisare anche lo sfondo metafisico di tale visione delle cose. È certamente un personalismo ontologicamente fondato, il quale scorge nella metafisica «il più solido baluardo contro le varie forme odierne di debolismo e di relativismo» (p. 51). Il che, ovviamente, pur prestandosi alle critiche di quanti non scorgono alcuna sacralità nella natura e polemizzano col carattere atemporale delle verità di fede, «sottintende una contrapposizione di base alla filosofia e all’antropologia dei moderni» (p. 53). Proprio questa ostilità reciproca fa sì che ad un’ottica laica le posizioni della Chiesa, specie in materia di etica sessuale e matrimoniale, ma anche biomedica, appaiono assolutamente retrograde ed eccessive; mentre, al contrario, l’occhio laico appare incapace di cogliere come essa sia «una coerente posizione filosofica, in linea con l’insegnamento tradizionale» (p. 59). Infatti, posto che esista un ordine naturale delle cose e che l’uomo debba amministrarlo «il suo compito sarà quello di conformarsi ad esso» (p. 59).
Ma se la TSV appare per lo più influenzata dalla cultura cattolica, è lecito parlare anche dell’esistenza di una «bioetica “laica” distinta e contrapposta alla bioetica “cattolica”»? (p. 62).
In tal caso, per prima cosa si dovrebbe comprendere in significato di “laico”, non in contrapposizione a “cattolico”, ma come termine che comunque possiede una storia pregna di sfumature semantiche. E solo allora applicare tale significato all’aggettivo “laico”, individuando l’ambito di posizioni che elaborano una bioetica laica. Esse, infatti, non solo non si riconoscono nel magistero della Chiesa, ma «prescindendo da qualsiasi riferimento al divino, nel loro universo di discorso non fanno un uso strategico — normativo dell’idea di Dio, né in senso teologico-confessionale, né in senso metafisico-razionale» (p. 71). Solo così, in questi termini, diventa possibile trovare un elemento discriminante la bioetica cattolica dalla bioetica laica: «il rifiuto dell’idea teologico-metafisica di un “piano divino del mondo” con funzione normativa» (p. 72).
Giustificata così la pretesa di una bioetica laica come distinta da (ed opposta a) quella cattolica, è possibile osservare che, ragionando etsi Deus non daretur, «la bioetica laica, nella sua veste di nuova etica del vivere e del morire, si è storicamente configurata come una bioetica della “qualità della vita”» (p. 73), la cui posizione “forte” è quella secondo la quale «non è la vita in quanto tale […] a possedere pregio, bensì la qualità (o il ben-essere) della vita» (p. 74).
I punti caratterizzanti questo indirizzo sono i seguenti: (1) origine umana della morale; (2) rifiuto dell’idea di una “natura”; (3) autonomia nella determinazione del corso di vita; (4) disponibilità della vita; (5) credenza che la conoscenza sia strumento di progresso; (6) il rifiuto della sofferenza; (7) la gerarchia qualitativa delle esistenze.
La stessa differenza tra i due principali, seppur non esaustivi delle posizioni in campo, paradigmi è questa: «la bioetica cattolica che si ispira al principio della sacralità della vita tende a porsi alla stregua di un’etica deontologica basata su una serie di divieti assoluti, cioè sulla proibizione di quei comportamenti che, nel linguaggio della teologia morale, vengono chiamati atti «intrinsecamente malvagi»» (p. 94) mentre al contrario «la bioetica laica tende ad assumere le sembianze di un’etica teleologica o consequenzialistica orientata agli effetti dell’agire […], oppure di un’etica deontologica prima facie basati su una serie di divieti […] che vincolano solo “a prima vista” o di “primo acchito” (prima facie), in quanto, pur valendo di per sé, ammettono sempre delle eccezioni in caso di conflitto con altri principi o divieti» (p. 95). Il paradigma laico, così, ammette (e considera un valore) il politeismo assiologico. In questo modo, secondo un’ottica religiosa (e cattolica in primo luogo) è possibile cogliere la strutturazione fondamentale della bioetica laica, cogliendone così anche i limiti:
- ragiona “come se Dio non fosse” (etsi deus non daretur);
- assume come principio direttivo delle proprie argomentazioni la qualità della vita;
- sostiene la tesi della completa umanità della morale;
- respinge la nozione (ontologico-normativa) di “natura”;
- scorge nel concetto di “autonomia” il principio cardine della bioetica e della prassi biomedica;
- difende il principio della “disponibilità della vita”;
- considera il progresso conoscitivo come fonte di progresso dell’umanità;
- prende le distanze da ogni mistica della sofferenza e del sacrificio;
- afferma il diverso valore “qualitativo” delle vite;
- fa uso di un concetto “funzionalista” di persona;
- accetta, come valore, il pluralismo etico;
- assume un’ottica “liberale” della condotta umana;
- ripudia ogni appello a principi deontologici assoluti;
- ritiene legittime pratiche come l’aborto, l’eutanasia, la fecondazione assistita omologa ed eterologa.
Come si vede, due appaiono gli aspetti unificanti i precedenti elementi strutturanti la bioetica laica, aspetti distinti ma non irrelati: (a) la separazione dei piani umano e trascendente, con la rivendicazione della completa autonomia del primo dall’ (eventuale) altro; (b) una maggiore attenzione posta su tutte quelle dinamiche che consentono di accrescere la qualità della vita (con le conseguenze non irrilevanti secondo le quali (1) non tutte le vite sono di pari importanza; e, (2) ognuno è importante per quello che può fare, non per quello che è).
Tolta di mezzo la verità, resta solo l’uomo.
Questa può a buona ragione essere la posizione di Singer: bisogna «sostituire la vecchia morale con una nuova etica» (p. 107). In questa cornice, chi è persona? La risposta è semplice e rivoluzionaria: «è “persona”, cioè meritevole di tutela e portatore di diritti, non colui che appartiene semplicemente alla specie umana, ma chi possiede determinate caratteristiche che lo rendono in grado di manifestare determinati interessi» (p. 108). Da questo punto di vista, appare lecita la soppressione non solo di embrioni quando fossero malformati, ma anche di neonati o infanti non rientranti nel range dello sviluppo ottimale per difendere le proprie posizioni e per manifestare intenzioni. Ad esempio, per Singer «se il feto è persona sol in potenza, esso non è, di fatto, una persona in atto. Per cui, la sua soppressione non si può configurare come un “omicidio”, in quanto, nel suo caso, nessuna persona in atto viene uccisa o eliminata» (p. 110).
Una posizione vicina a quella di Singer è quella di Engelhardt. Egli assume la posizione dello “straniero morale” e si pone la domanda: «come possono pacificamente convivere gli stranieri morali di una società avanzata contraddistinta da un postmoderno caos di voci e di valori?» (p. 112). Si tratta di un’adesione all’idea della postmodernità dalla quale si derivano conseguenze precise per l’etica e per la bioetica. Di fronte al pluralismo etico, l’unica possibilità è una «forma di minimalismo etico» (p. 113) che riconosce nella laicità uno spazio pubblico all’interno del quale potersi realizzare l’«interazione fra i diversi» (p. 113). In questo modo, Engelhardt attribuisce alle persone, e non agli esseri umani, il riconoscimento di «uno statuto speciale» (p. 115), ad «essere moralmente rilevanti» (p. 115). Dunque, non tutti gli esseri umani sono importanti di per sé, ma ciascuno possiede un differente grado di personalità.
In Italia le posizioni di bioetica laica sono state assunte inizialmente da Scarpelli. Aderendo alla concezione non cognitivista dell’etica, e assumendo come metodo la «Grande Divisione» tra «fatti» e «valori», tra «sfera dell’essere» e «sfera del dover essere», Scarpelli elabora un’articolata e particolare posizione bioetica. Per lui bisogna valorizzare il «principio di autonomia, inteso come capacità di «dare regole a se stessi» e quindi come manifestazione concreta della facoltà, da parte degli individui, di scegliere il proprio destino e i propri valori» (p. 118). Ciò vuol dire che «è il singolo individuo […] a doversi assumere il peso e la responsabilità delle proprie scelte morali» (p. 118). Originale fu la sua posizione riguardo all’aborto. Infatti, sebbene contrario a livello personale, egli «ne ha ripetutamente contestato la repressione giuridica» (p. 119), forte dell’opinione secondo la quale nessuno ha il diritto d’imporre la propria volontà alla donna che porta in grembo un futuro uomo, non già una persona umana.
L’eredità di Scarpelli, pur con critiche e distinzioni, è stata raccolta da Lecaldano e da Mori, i quali in genere non hanno accolto l’orizzonte giustificatore della bioetica laica nella metaetica, quasi che le ragioni morali siano prive di fondamento razionale, e assunte arbitrariamente secondo opzioni e preferenze soggettive, pur potendo contemperarsi con quelle altrui all’interno di una comunità.
Al contrario, gli studiosi cattolici «sono propensi a ritenere che la concezione laica dell’autonomia — e la connessa idea della disponibilità della vita — finiscano per mettere capo a una forma di libertarismo per il quale ognuno è libero di agire come vuole» (p. 122), all’insegna «di una filosofia “individualistica” e “autoreferenziale” che misconosce il concetto di “responsabilità” e finisce per sfociare nell’“arbitrarismo” e nel “nichilismo”» (p. 122).
Le repliche laiche s’incentrano sulla distinzione tra relativismo etico descrittivo e relativismo etico normativo. Il primo «si limita a constare la presenza, nelle società passate e presenti, di prospettive morali e assiologiche diverse» (pp. 124-5), mentre, il secondo afferma «che non vi è una morale umana universalmente proponibile» (p. 125), che «ogni tesi morale vale soltanto in relazione (o all’interno) di determinati contesti storici e paradigmatici» (p. 125), «che i comportamenti (e i valori a cui essi rimandano) non sono uno “migliore” (o “peggiore”) dell’altro, ma tutti equivalenti, poiché in etica “una soluzione vale l’altra”» (p. 125). In genere, pur «accettando il relativismo descrittivo, i fautori della bioetica laica tendono a respingere il relativismo normativo» (p. 125).
La presenza di differenze ma anche di punti comuni, seppure declinati differentemente, spinge alla necessità di riconsiderare la dicotomia tra i due tipi di bioetica, tanto nella direzione di approfondire aspetti comuni quanto nella direzione di impostare diversamente la relazione tra i due paradigmi.
Infatti, «secondo taluni studiosi, i concetti di “sacralità” e “qualità” della vita e, più specificamente, di bioetica “cattolica” e “laica” sarebbero soltanto degli “slogan polemici” inadatti a esprimere la complessa realtà della bioetica contemporanea, ovvero degli schemi ideologici (più che teorici) escogitati ad hoc per acuire in modo pretestuoso i contrasti politici su questioni normative controverse» (p. 129). Per altri ancora «sarebbero dicotomie fittizie, “inventate” dai laici allo scopo di contrapporre a una (presunta) bioetica fideistica e autoritaria una (sedicente) bioetica antidogmatica e liberale, ovvero per nascondere l’antitesi (effettiva) fra un’etica senza verità e un’etica fondata sulla verità» (p. 129). In effetti, è certamente possibile riconoscere come «l’antitesi fra queste due forme di biomorale risulta ben più complessa e filosoficamente articolata di quanto appaia» (p. 131). Infatti, «la contrapposizione risiede piuttosto nel fatto che la bioetica cattolica risulta imperniata sulla nozione di sacralità della vita (con tutto ciò che essa implica) mentre la bioetica laica risulta imperniata sulla nozione di qualità della vita (con tutto ciò che essa comporta)» (p. 131). Si tratta, allora, dello scontro di due opzioni non componibili e dalle quali, rispettivamente, i due fronti non possono (o non vogliono) prescindere. Non è, infatti, mancato chi ha notato che la contrapposizione tra le due “teorie” sia «incapace di offrire un’immagine completamente veritiera della tradizione morale» (p. 132). Tuttavia, è innegabile che il movimento pro life e contrario alla free choice si riconosca nella «constatazione di uno stato di conflitto persistente» (p. 136) con la modernità, e non dall’adesione semplicista ad un codice binario della contrapposizione politico-ideologica. È certo, al contrario, che «la strutturale diversità fra i due paradigmi, che parlano lingue filosofiche e morali differenti — una di tipo “forte”, l’altra di tipo “deble” — trova un’altra manifestazione emblematica nel fatto che la bioetica cattolica romana […] sembra: 1) presupporre l’esistenza di un’unica bioetica valida; 2) ipotizzare che solo una filosofia (quella personalista di impronta e di ispirazione ontologica) possegga le chiavi di accesso […] della verità morale» (p. 137).
È al tempo stesso evidente come la bioetica cattolica e la bioetica laica non siano le due sole opzioni in materia. Ad esempio, esistono anche bioetiche di matrice religiosa vicine alle posizioni laiche. Di contro ai cattolici, «per i cristiani riformati […] la ragione, per suo conto, non è in grado né di dmostrare l’esistenza di Dio (che rimane fondamentalmente un “Dio nascosto”), né di afferrare le presunte “verità” del creato, né di cogliere i “progetti” di Dio sull’uomo, né di fissare norme comportamentali universalmente valide» (p. 141). La diversa concezione dottrinale fa sì che per i riformati «il credente non può pretendere che esse [le regole religiose] siano accolte da tutti, ovvero anche dai non credenti o da chi segue gli insegnamenti di altre fedi» (p. 141). Per essi, infatti, ha senso, come fanno i laici, mettere tra parentesi l’ipotesi teista, ragionando etsi deus non daretur, al fine di «individuare soluzioni morali adeguate per la convivenza civile» (p. 142). Ciò ha la conseguenza di trovare una sostanziale convergenza tra la bioetica laica e la bioetica religiosa non cattolica sulle «problematiche connesse alla qualità della vita» (p. 142). È esattamente la posizione dei valdesi, ma anche di altre confessioni le quali offrono una considerazione positiva di molti argomenti biomedici controversi presso la bioetica cattolica. Da quest’ultimo, ad esempio, s’è discostato nel tempo il pensatore Hans Küng che ha condotto riflessioni ardite sul “diritto a morire” dei malati terminali. Che poi l’adesione confessionale non sia oggi garanzia di conformità al magistero della Chiesa, e quindi fonte di concessioni bioetiche altrimenti impossibili, trova conferma nel caso di Engelhardt: un «fervente «cattolico ortodosso texano», egli crede in Dio e rifiuta esplicitamente l’eutanasia e l’aborto […] come teorico della secular bioethics egli professa un ateismo procedurale che non solo prescinde da Dio e da qualsiasi etica religiosa, ma proclama anche il diritto, da parte dei cittadini di una società democratica, di praticare l’eutanasia, il suicidio, l’aborto, ecc.» (p. 145). A queste posizioni non sono mancate le repliche cattoliche incentrate sulla riaffermazione del fondamento ontologico di ogni realtà umana e della denuncia dei rischi etici derivanti dall’ateismo.
Un’altra opzione è stata quella di interpretare in chiave laica il principio della sacralità della vita. Secondo questa, infatti, tale principio è l’eredità di una «“metafisica naturale”» (p. 153) anteriore al monoteismo stesso. Ad esempio, è presente presso le religioni orientali e può essere recuperato quale costruzione antropologica umana, come fanno Donagan, Rachels e Dworkin. Per quest’ultimo la vita (umana) è sacra perché è una «realtà di fronte alla cui distruzione proviamo un senso di orrore e di sdegno» (p. 161).
La breve rassegna realizzata consente di concludere che «nel policromo quadro della bioetica contemporanea esistono sia bioetiche di ispirazione religiosa vicine al paradigma laico della “qualità della vita”, sia bioetiche di matrice laica rispettose del principio della “sacralità della vita”» (p. 165). Pertanto, secondo l’autore, «oggi non si può (più) discorrere di una generica antitesi fra etica della sacralità della vita (ESV) ed etica della qualità della vita (EQV) o di una indeterminata antitesi fra bioetica religiosa e bioetica laica, ma soltanto di una specifica contrapposizione fra la bioetica cattolica (ufficiale) e la bioetica laica della qualità della vita» (p. 165). In realtà, tale contrapposizione rappresenta soltanto il caso particolare «di una contrapposizione più ampia fra coloro (laici o credenti) che ammettono il potere, da parte degli individui, singoli e associati, di disporre della propria vita e coloro che, in nome di peculiari dottrine religiose o filosofiche, negano tale possibilità, affermando che la vita umana è sacra in ogni sua circostanza o manifestazione e quindi non si configura come un bene alla mercè dei viventi» (p. 166). Ciò spiega coma mai sia stata proposta la sostituzione della contrapposizione tra ESV e EQV con quella «tra fautori della indisponibilità della vita e fautori della disponibilità della vita» (p. 166), contrapposizione che, inglobando la precedente, «risulta storiograficamente più idonea a descrivere, in modo articolato e preciso, la nuova situazione venutasi a creare in campo etico e bioetico» (p. 166). In effetti, i due paradigmi «affondano le radici in due atteggiamenti opposti di fronte al mondo, entrambi presenti nella storia dell’umanità» (p. 167), quello religioso e quello prometeico, l’uno volto a guardare con riverenza il divenire della vita nel mondo, l’altro volto a guardare nell’uomo «il costruttore della propria umanità» (p. 167). Di conseguenza, le «bioetiche della disponibilità della vita, ispirandosi al principio di autonomia e rifiutando la tesi tradizionale secondo cui l’uomo non sarebbe il “padrone”, ma solo l’“affittuario” o l’“amministratore” della propria vita, difendono invece la capacità dell’individuo di autodeterminarsi e il suo (esclusivo) diritto di decidere in merito alle questioni ultime che lo riguardano» (p. 170).
Benché divise, e contrapposte, le due concezioni bioetiche sono chiamate a dialogare tra loro entro lo spazio pubblico, cercando anche un possibile accordo su casi singoli e concreti. L’unica strada percorribile al riguardo sembra essere quella di «cercare, nei limiti del possibile, soluzioni convergenti, in grado di attutire i contrasti più netti e le diatribe più laceranti» (p. 203). La conseguenza è che «la verità genuina del rapporto fra bioetica cattolica e bioetica laica (e della loro contrapposizione «corposa e innegabile») è che esse, pur essendo strutturalmente diverse (e, su certi punti, inconciliabili), non possono fare a meno di coesistere e di dialogare (e quindi di interagire)» (p. 203).