Guido Rossi, Il gioco delle regole, Adelphi, Milano 2006.
Il tempo in cui viviamo può essere caratterizzato come il periodo dello «scontro degli interessi» (p. 11). Questa condizione porta ad una dilatazione, spesso improduttiva e comunque sempre in ritardo rispetto ai fenomeni concreti, «delle (blande) misure intraprese, a ogni livello, per contenerlo» (p. 11). Il risultato è sovente paradossale: tali misure, infatti, sembrano «più che altro creare le condizioni favorevoli a una sua espansione illimitata» (p. 11). Questa dinamica, certo più visibile nel campo delle scelte (e delle strategie) economiche, ha anche un effetto sociale (e morale) immediato che ci interessa da vicino: «la continua erosione delle regole» (p. 11), il che consente anche la legittimazione di comportamenti che sino a poco tempo prima non avremmo esitato a condannare. Il conflitto degli interessi è «effettivamente entrato in una fase epidemica, e si propaga a tutti i settori della vita associata» (p. 12), erodendo il regime delle regole. Alcuni esempi ne sono il libero mercato, i diritti umani, la morale, il rapporto tra la scienza e la tecnica.
Il meccanismo è, forse, anche perverso. Infatti, per contenere l’erosione attuale delle regole si tende a produrre nuove regole, producendo un’immagine complessiva «della proliferazione incontrollata, e incontrollabile, delle regole» (p. 12).
La scomparsa di regole e/o norme dà luogo al «moltiplicarsi di quelle incerte» (p. 12). Appare questo un fenomeno che tocca qualsiasi plesso «rappresentativo», ove cioè si richieda la negoziazione o il bilanciamento dei rispettivi interessi individuali e di quelli di parte in seno al gruppo di appartenenza. Costituisce un esempio di ciò il fatto che «le patologie del diritto, dell’economia o della finanza sono le stesse che in contesti diversi affliggono […] la ricerca medica, o i suoi rapporti con l’industria farmaceutica» (p. 12).
L’inseguimento del processo di erosione delle regole ha portato in tempi recenti alla «necessità di disegnare nuove regole del gioco» (p. 13), ma, e questa è la posizione fondamentale del presente testo, si tratta di una dinamica ormai logora. Infatti, «il gioco, purtroppo, si avvia a diventare quello delle regole in sé, e delle nuove regole che quelle appena create già postulano, in una partenogenesi sinistra e inarrestabile la cui prima vittima — illustre, ma a quanto sembra non particolarmente rimpianta — è proprio il diritto, naturale o positivo che sia» (p. 13). Non abbiamo più, pertanto, le regole del gioco (economico; sociale; morale; legale; etc.), ma il gioco, quanto più fine a sé stesso, delle regole le quali perdono progressivamente capacità di presa sulla realtà, sulle stesse fattispecie che vorrebbero disciplinare.
Il primo ambito della vita sociale a farne le spese è il capitalismo: «le regole costituiscono una delle grandi ossessioni del capitalismo» (p. 15). Non a caso, infatti, sin dall’inizio per definirsi è ricorso «all’immagine del «gioco»» (p. 15), il gioco economico, il gioco dei mercati, il gioco della domanda e dell’offerta, e così via. Ovviamente, non è esattamente chiaro in cosa consista questa dimensione ludica, ma «risulta evidente che, insieme alle merci, alla tecnologia e a una cospicua quantità di elementi ideologici, il sistema in cui viviamo produce un numero variabile, ma comunque altissimo, di norme» (p. 15).
Questa vera e propria deriva delle regole il capitalismo l’ha conosciuta prima ancora di sapere di chiamarsi così, prima, cioè, che Marx lo definisse come tale. È, forse, in età moderna che nasce tale dinamica, quando, cioè, si è realizzata la prima decisiva e, forse anche, definitiva frattura tra «soggetto e bene» (p. 16). Per esempio, nel caso delle Compagnie di navigazione «i beni vengono amministrati attraverso un sistema di deleghe» (p. 16), nella forma quasi attuale della società per azioni. Ma prima ha ispirato la formazione del sistema bancario. In ogni caso, comunque, «la moltiplicazione dei soggetti, e il ricorso a una gamma sempre più ampia di strumenti finanziari, è sembrato in una prima, lunga fase contribuire alla creazione di strutture economiche più aperte e […] trasparenti» (p. 18).
Giungendo alla maturità, «il capitalismo industriale si appoggia in misura crescente al sistema bancario» (p. 19), una scelta in qualche modo obbligata, che comporta però «una crescita tumultuosa e incontrollata del sistema» (p. 20), esattamente come «ripetute crisi» (p. 20).
È il periodo di crisi a porre in primo piano il conflitto degli interessi, in primo luogo tra l’istanza della democrazia nelle scelte amministrative (scegliere quale gioco seguire nel prendere le decisioni, se a maggioranza semplice) e tra l’istanza del comitato ristretto (oligarchia) nella gestione societaria (scegliere quale gioco seguire nel prendere le decisioni, se a maggioranza qualificata, o indicata quale tale). Oggi, l’idea prevalente è quella, «a proposito della quale non mancano gli equivoci» (p. 21), del contrattualismo. A dispetto di quanto si crede, esso è il «ritorno a quel tipo di rapporto bilaterale senza intermediazione che esisteva un tempo tra il soggetto del diritto e il bene» (p. 21), il contratto, l’istituto che ha «forza di legge tra le parti» (p. 22), che si pone «come unica base di tutela dei diritti dei singoli» (p. 22). Così, «al di fuori del contratto nulla esiste» (p. 22).
Ma l’accordo dello scambio economico tra pari non è, come invece si potrebbe credere, il raggiungimento dell’armonia della maturità capitalistica (la realizzazione dell’ideale massimo del do ut des) quanto, piuttosto, la concrezione della «malattia più grave del capitalismo finanziario: il conflitto di interessi» (p. 22). Infatti, nei contratti il rapporto tra le parti diventa un «rapporto fiduciario di mandato, in base al quale qualcuno gestisce la proprietà e gli interessi di qualcun altro» (p. 22). In ciò non vi sarebbe nulla di male, solo che col tempo «l’interesse personale del mandatario subentra a quello del mandante» (p. 22), creando di fatto una distorsione «che nei fatti sgretola l’intero sistema delle deleghe, e scatena il conflitto di interessi» (p. 23), interessi contrapposti, quelli del mandatario contro quelli del mandante, quelli dei proprietari contro quelli degli amministratori, quelli dei cittadini di contro a quelli dei politici, volendo un po’allargare la considerazione; si ha, cioè, il conflitto endemico tra gli interessi di alcuni versus gli interessi di altri, e ciò ad ogni livello della vita umana organizzata.
L’idea dell’autore è che quanto accade è causato anche dalla mancanza (colpevole) di norme generali poiché «le norme non possono essere sostituite dal contratto» (p. 23), nessun accordo, in sostanza, appare in grado di sostituirsi alla disciplina delle norme generali, dell’insieme ristretto dei valori. Ad ogni modo, non appare corretto puntare il dito contro (ed esclusivamente) la libertà contrattuale, ma lo si dovrebbe in primo luogo contro «il suo uso distorto» (p. 26), contro le sue degenerazioni, le sue aberrazioni. Per questa ragione, infatti, il contrattualismo è incapace di dare risposte soddisfacenti all’erosione delle regole: «la dinamica del contratto non può colmare l’asimettria informativa connaturata ad ogni rapporto economico — al contrario tende a formalizzarla» (p. 26), tanto da rendere evidente la necessità «di nuove regole» (p. 26), spingendo per sua conseguenza a cercare, e a produrre, nuove regole, che possano tamponare però, non risolvere, i problemi in vista dei quali si cercano soluzioni. Così, a dispetto delle più nobili idealizzazioni del mercato autoregolantesi per il tramite della sua razionalità intrinseca (la cd. mano invisibile di Adam Smith), «l’unico strumento a oggi disponibile per la tutela dell’interesse generale rimangono le norme» (p. 26). Ma qui si coglie meglio il paradosso al fondo del capitalismo: da un lato esige la deregolamentazione (deregulation) in favore del potere contrattuale delle parti di uno scambio economico (anche, la ricetta della cd. privatizzazione dei servizi e delle agenzie statuali); ma, dall’altro, pretende che le norme a sostegno (del rispetto) dei contratti vi siano (che cioè lo Stato permanga, anche solo nella qualità di un potere coattivo che garantisca l’ordine pubblico e l’esecuzione delle obbligazioni derivanti dai contratti). Tant’è che nonostante le richieste di diminuzione burocratica e legislativa, si è assistito alla fine del Novecento a «una sorta di alluvione legislativa» (p. 28), alla Revanche del terribile diritto, il diritto privato sotto la specie di quello pubblico. Tale direzione può anche essere definita quale l’economia regolata «dai legislatori» (p. 28), avvicinando le due forme antitetiche di organizzazione giuridica conosciute dal mondo occidentale: Common Law e Civil Law.
Dunque, «il paradosso del sistema capitalista è diventato quello di un’economia soffocata da un numero pressoché immaginario di norme legislative, ma in realtà governata da regole che i principali attori del sistema di volta in volta scelgono, a seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della libertà contrattuale. E la prima vittima di questo paradosso è il cuore stesso del sistema: cioè il mercato» (p. 28).
Il rapporto tra il mercato e il diritto è stato sin dall’inizio caratterizzato della distanza del secondo dal primo, costringendolo ad una rincorsa inutile. Il liberismo, ad esempio, ha sempre sostenuto che il mercato dovesse essere lasciato libero di espandersi e di articolarsi, senza alcun ostacolo o limite burocratico e/o giuridico. Ma il diritto non s’è mai rassegnato a questo ruolo così subordinato, restando però in genere indietro e in certi momenti anche sembrando che accettasse de facto, mai de jure, questa condizione. Solo che negli ultimi anni alla rassegnazione è subentrato «un iperattivismo fine a se stesso» (p. 29), produttore di norme autoreferenziali «che non incidono sulla realtà sociale né contribuiscono a garantire una ragionevole equità o a tutelare i soggetti giuridici più deboli» (p. 29).
Tuttavia, l’offensiva giuridica rivolta verso l’intera realtà umana, paradossalmente di fatto rivela la propria autoreferenzialità, proprio quando ha la pretesa di investire anche il (libero) mercato. Infatti, esso «è un organismo molto più complesso delle operazioni giuridiche che in esso si svolgono, o della disciplina che lo regola» (p. 35). Il mercato, cioè, non è mica altruista, non ha di mira la tutela dei più deboli, ma è un sistema competitivo che funziona più o meno (salvo la sintesi teorica in questione) come prevede il famoso dilemma del prigioniero: la strategia migliore in situazioni competitive è il gioco non cooperativo. Anzi, il rapporto tra il diritto e il mercato può essere inteso in questi termini: «è pù conveniente seguire lo schema contrattuale e obbedire alla legge, o essere inadempienti e affrontare le sanzioni che quella stessa legge prevede?» (pp. 36 — 7).
In definitiva, allora, «il capitalismo finisce […] per essere vittima di una alluvione legislativa che se da un lato tende ad affermare i principi di libertà (contrattuale, d’impresa, di mercato), dall’altro stritola quegli stessi principi attraverso la difesa burocratica delle asimettrie, in un groviglio di regole che fanno prevalere la volontà del contraente più forte, o di quello che paradossalmente non rispetta alcuna regola» (p. 37). Questo perché il mercato nasce cronologicamente prima del diritto, around the law. Così, «il diritto è destinato a rincorrerlo» (p. 37).
Tuttavia, la proliferazione «incontrollata di leggi, norme e regolamenti e la loro conseguente frantumazione non intaccano solo il diritto» (p. 39), ma anche altre dimensioni del comportamento umano. Basti pensare al gran parlare che si fa di codici etici, di etiche di condotta, professionale, pubblica e privata, il che suggerisce di produrre un’«etica a misura di ogni cosa: la politica, lo sport, l’economia, gli affari, persino la religione» (p. 39). Il fatto nuovo, e temibile, però, è che tali codici vengano recepiti (e riconosciuti) completamente dal diritto «che in base a quei principi esterni accetta di sgretolare se stesso» (p. 39). Vero è che sia innegabile la presenza di punti di contatto tra la morale e il diritto, tuttavia è parimenti innegabile come la loro separazione sia «stata a lungo considerata uno dei cardini del diritto moderno» (pp. 39 — 40). Così, la legge non ha sanzionato la morale, ma «condotte moralmente indifferenti» (p. 40). In definitiva, dunque, «il diritto nasce da elementi di etica, ma può arrivare a contraddirli; interviene per dirimere questioni «morali» […] o a ragioni morali si richiama […] ma le due sfere rimangono distinte (p. 42). Pertanto, il richiamo a volte formulato dal legislatore alla morale deve indurre alla prudenza, deve richiamare all’attenzione: «spesso equivale a un’ammissione di fallimento» (p. 43). Così, la tendenza attuale di produrre un’etica per quasi tutti gli ambiti umani, dall’etica professionale all’etica pubblica, è indice dello sgretolamento del diritto, del dominio delle regole, è sintomo della sua debolezza, non della sua forza. Pericoloso é fondare il diritto sulla morale, al contrario «le due sfere devono rimanere separate: è bene che la prima continui ad orientare, per chi vi aderisce, il comportamento di tutti i giorni, e la seconda le varie modalità del vivere associato» (p. 47).
Disgiunto, o forse sarebbe meglio dire “dissolto”, il (supposto) legame tra morale e diritto, è secondo l’autore necessario anche ricollocare il diritto globalmente inteso nella sua giusta dimensione: storicità e relatività. Infatti, i diritti non esistono da e per sempre, ma nascono, si espandono, arretrano, scompaiono, si evolvono. In più, non presso tutti i popoli hanno validità, specie in collegamento con le innovazioni scientifiche. Un esempio su tutti: cosa potremmo dire della proprietà intellettuale al tempo di internet? Il problema è il seguente: «va trovato un punto di equilibrio fra la protezione delle opere e la possibilità, aperta a tutti, di usufruirne attraverso la rete» (p. 48). D’altra parte, comunque, la regolamentazione del diritto d’autore si è sempre basata su un principio semplice: «dove esiste un valore, deve esistere anche un diritto» (p. 52). Questo modello, infatti, «proteggeva la creatività consentendo agli autori […] di vivere del proprio lavoro» (p. 52). L’idea è quella secondo la quale «la tecnologia sta dunque frantumando uno dei diritti più antichi e inalienabili» (p. 59).
L’erosione del dominio del diritto è, se si vuole, ancora più forte nel caso della globalizzazione. Infatti, la sua struttura economica «ha minato alla base il diritto internazionale» (p. 61), facendo venire meno la «sovranità di una giurisdizione sulle altre» (p. 62). L’impossibilità, allora, di far valere le prerogative della propria sovranità ha anche l’effetto dirompente di mettere «in discussione anche diritti che si credevano acquisti una volta per tutte, come la libertà di espressione e la privacy» (p. 62), sino a sbalestrare diritti che la cultura umana considerava convenzioni naturali. Questo è accaduto però perché il processo di produzione del diritto è diventato una tecnica produttiva, ha ceduto alla logica produttivistica la cui ratio è produrre sic et simpliciter, senza se e senza ma.
Così la teoria della democrazia è teoria della maniera attuale del vivere associato, e costituisce, agli occhi dell’autore, «una alternativa possibile alla strumentalizzazione della democrazia e al proceduralismo» (p. 86). Infatti, la democrazia ha al proprio interno un principio: pars valentior valet; che Rossi chiama «principio maggioritario» (pp. 89 — 90). Esso è, forse, una «risposta alla frantumazione delle regole» (p. 90)? Lo è nella misura in cui non si confonde la democrazia con il governo della maggioranza. Infatti, l’ideale sarebbe che ogni decisione fosse discussa apertamente dalla comunità tutta e che questa poi decidesse a maggioranza, senza deleghe di rappresentanza (un ideale, si vede, sostanzialmente antico, almeno quanto la polis greca). In questo modo, come afferma Sen, la comunità riconosce un insieme di diritti che la pone al riparo dai disastri. Qualcosa di molto vicino alla teoria della democrazia deliberativa di Aristotele.
Dunque, i diritti umani, che non possono essere definiti all’interno del giuspositivismo (o, teoria del diritto positivo), fungono da metateoria, o da ideale regolativo, per lo stesso diritto. Questi stessi, infatti, non sono diritti di natura, ma frutto di elaborazioni storiche. Certo «quando si tirano in ballo i principi […] c’è sempre il sospetto che la parola nasconda credenze e opinioni personali, che possono essere diverse da persona a persona, anche nell’ambito della stessa cultura» (p. 105), ma il riconoscimento di una meta ideale esterna al diritto stesso consente che questo stesso eviti il trionfo del positivismo «e con esso dell’autopoiesi» che ripropone la fisiologia del gioco sterile delle regole, portando alla sua frantumazione.
Il tema dei diritti umani è molto sentito in Europa, meno altrove. La sua tutela può essere considerata come «il luogo di una possibile ricomposizione fra etica religiosa ed etica laica. Per entrambe è indispensabile l’esistenza di un minimum morale, che trova nei due valori etici elementari di verità e giustizia la base stessa dei diritti umani e la loro natura universale» (p. 105). Questa appare, allora, essere l’ultima regola riconosciuta: organizzare i diritti secondo il “cui prodest? ”.
Diventa così pressante, ed importante, chiederci: basta ciò a evitare la frantumazione delle regole? È sufficiente per una loro ricomposizione? L’autore sostiene come la loro frantumazione «non è dovuta solo alla loro scomparsa, alla loro disapplicazione, o all’ingresso in scena di altre regole» (p. 108), ma «molto spesso il germe della disgregazione si annida nell’applicazione stessa delle norme, anche le più rigide, in un’interpretazione distorta dal condizionamento dei contesti culturali, economici, politici, sociali e psicologici» (p. 108). In altri termini, si tratta di una frantumazione che opera dall’interno, e non dall’esterno, del diritto. Questi condizionamenti, quali possono il timore di una ripercussione economica, o il timore di disordini sociali e politici o di danno psicologico, a seguito della decisione possono far pendere l’ago della bilancia non in modo equo, portando alla mancata applicazione delle regole, internamente alla coscienza di quanti sono chiamati ad applicarle o a farle applicare. In altri termini, qui il diritto risente di una dinamica molto nota in letteratura. Questa, infatti, «dimostra che se i fatti esterni al diritto giungono al punto di stravolgere i principi processuali, il diritto salta, o meglio vola per aria, sancendo la vittoria del più forte. La frantumazione delle regole può giungere da ogni lato, ma non è affatto detto che le norme giuridiche, intese come regole primarie di una società civile, che obbedisce allo Stato di diritto, siano minacciate solo dal sopravvento o dall’imposizione di norme esterne. A quanto sostengono gli scrittori, e a quanto constatiamo tutti i giorni di persona, se le parole perdono il loro significato, lo stesso linguaggio normativo può diventare il motore della disgregazione» (p. 118).
Forse, così, l’unica posizione sostenibile e che consentirebbe di elaborare una strategia di risposta all’erosione delle regole, è la chiarificazione razionale delle condizioni del gioco delle regole. Ma, e qui si registra il limite maggiore di qualsiasi proposta, anche la ragione umana sta attraversando una analoga fase di crisi, un lunghissimo periodo non di stasi, ma di postmoderno (per alcuni autori, addirittura di postpostmoderno).