1. La bioetica. Perché
La bioetica è un duplice rigore, della scienza e della morale, ma è anche il calore della vita, la profondità della riflessione.
—U. Scarpelli, Bioetica a misura di persona, in U. Scarpelli, Bioetica laica, Baldini & Castaldi, Milano 1998, p. 29.
La storia dell’umanità è sempre stata connotata dal ruolo (sempre più rilevante e importante) della tecnica, tanto a livello di vita dei grandi numeri quanto a livello di vita quotidiana. Ma mai come oggi è lecito affermare come sia la più importante nota dei secoli XX-XXI, al punto da provocare più o meno consistenti modificazioni nell’universo (simbolico) umano.
Nel giusto è, dunque, la riflessione inerente al tema (della questione) della techné (Heidegger) e ai suoi riflessi sulla vita umana, individuale e collettiva.1 Non a caso Nietzsche soleva parlare, riferendosi proprio al ruolo sempre più invasivo della scienza e del dominio della pratica, di malattia del secolo, volendo, probabilmente, alludere alla particolare condizione esistenziale dell’uomo moderno, quella condizione che si è maggiormente particolareggiata, e specificata, nel corso del XX sec., sino a meritarsi l’etichetta di postmoderno.2
Ovviamente, non è questa la genesi esauriente dell’orizzonte culturale moderno, ma rende efficacemente l’idea di una modificazione dell’orizzonte mentale (e culturale) degli uomini a causa della profonda penetrazione della tecnologia e della scienza nella vita umana.3 Quella stessa scienza che approfondendosi (e specializzandosi) conduce internamente alla crisi della ragione4 e alla presa di coscienza dei limiti del pensiero,5 e che esternamente conduce al cambiamento dei significati che si attribuiscono al portato esistenziale. Un esempio su tutti: chi di noi non scrive davanti ad un elaboratore elettronico (e non più, invece, davanti ad una macchina da scrivere)? Ma l’uso di questa tecnologia impone precisi limiti ed influenze tanto rispetto alla forma degli elaborati prodotti quanto rispetto alla finalità successiva. Infatti, molto spesso il cd. file prodotto non giunge ad una versione cartacea, ma può anche circolare solo a livello elettronico oppure finire su una rivista telematica. Non è questa una modifica dell’orizzonte antropologico dell’uomo? Forse l’esempio non è molto calzante, ma solo sino ad un certo punto.
Ebbene, la tecnica oggi produce quella considerazione che Hegel aveva nei confronti della morte: l’infinita potenza del negativo. Quella sensazione rispetto ad un orizzonte non tematizzabile dalla teoretica ma con il quale comunque si devono fare i conti, quel limite della vita umana costituito dalla morte, e rispetto, o contro la quale, ha inizio la filosofia, ha luogo la molla primigenia al filosofare (Rosenzweig).6 Ma è anche la tecnica che ha trovato la sua massima espressione nell’universo concentrazionario, nel totalitarismo,7 sino a realizzare storicamente il disarmante status della banalità del male,8 lo scandalo per qualsiasi razionalità (così pure anche per qualunque fede) della presenza del male nel mondo, del malum mundi.9
E se la tecnica non fa altro che allungare infinitamente le nostre articolazioni, le nostre possibili azioni, creando e disgregando protesi alla nostra corporeità (e alla nostra mente), giusto appare l’aspettativa di un supplemento d’anima, al fine di bilanciare sul lato della res cognitans l’aumentata estensione del nostro corpo (res extensa).10
Pensare alla storia della scienza contemporanea, però, non vuol dire affidarsi alla razionalità (intrinseca) del divenire storico (la famosa astuzia della ragione), ma, al contrario, assistere al suo utilizzo per dominare tanto la natura quanto l’umanità. Infatti, la nota fondante della scienza moderna è la totale assenza di qualsiasi questione intorno alla finalità dei fenomeni fisici e alle intenzionalità conoscitive del singolo ricercatore, al punto che si può normalmente parlare di neutralità della scienza laddove, al contrario, intesa in tale modo puramente strumentale essa stessa diventa disponibile per usi di dominio tanto sulla natura quanto (sic!) sull’uomo, che della prima fa parte integrante. Questo è il fenomeno della cosiddetta cecità della scienza moderna. È la tecnologia dell’atomica, rispetto alla quale un carattere nuovo assume la possibilità, il potenziale di aristotelica memoria, ben oltre la tanto famosa scheggia nelle carni (Kierkegaard), è la nota principale dell’uomo moderno, il cui orizzonte antropologico è cambiato rispetto a poco tempo fa. Ma se cambia l’immagine antropologica di uomo (che cos’è l’uomo? Cosa lo rende tale? E perché? ) a causa dell’invasione, e in profondità, della tecnologia, ecco allora che appare lecito porsi la questione seguente: quale etica per l’uomo tecnologico? Infatti, il fatto che di per sé molte cose siano possibili non comporta che siano anche doverose, “nessuna di esse indica che cosa ”si deve“ o ”non si deve“, che cosa ”è lecito“ o ”non è lecito“ fare”.11
Le enormi possibilità che si aprono all’agire (come alle manipolazioni) dell’uomo fanno sì che di per sé non sia possibile ritenerle tutte ugualmente lecite, secondo il registro morale. Infatti, la Shoah fu certamente possibile, la scienza l’aveva resa possibile, ma ciò non comporta che fosse comunque lecita, nessuno, quantunque pazzo, può sostenere qualcosa del genere. Eppure, la rivoluzione scientifica dei sec. XVI-XVII ci ha insegnato che la scienza non è né “buona” né “cattiva”, ma neutrale, i suoi usi etici (nel senso di “buono” e “cattivo”) dipendono dalle finalità degli agenti, di quanti se ne avvantaggiano per conseguire scopi morali o meno. Ma è indubbio anche osservare come sempre più spesso si tenda a confondere quanto è (tecnicamente) possibile con quanto sia (moralmente) possibile. Basti considerare, e ad un aspetto particolare di questa ci riferiremo nel corso del presente scritto, alle continue provocazioni che la biologia medica conduce nei confronti dell’antropologia umana.12 Infatti, “uno degli aspetti più sconvolgenti di questa fine secolo [d’inizio, per noi] è senz’altro la possibilità di costruire la vita umana in laboratorio”.13 Le tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita14 e le potenzialità delle conoscenze su DNA e clonazione cellulare pongono grandi possibilità nelle mani dell’uomo, le quali, però, proprio per le ragioni appena esposte, pongono in essere “problemi diversi, apparentemente non correlati tra loro: problemi deontologici, etici, religiosi, economici”.15
Ecco allora che s’impone all’attenzione di tutti, certo non solo degli specialisti di settore, il problema di quale etica porre ai casi singoli che la moderna scienza propone, soprattutto quella riproduttiva. Il ricorso alle tecniche di PMA, infatti, se da un lato consente di ovviare a ridotte o assenti capacità generative, di realizzazione, cioè, di una delle sfere più importanti dell’umanità, la filiazione (e il perpetuarsi della specie umana), dall’altro, proprio per via della natura particolare assunto dalla (e costituzionale alla) scienza medica, produce una modificazione profonda della cultura umana, consentendo, ad esempio, che l’uomo metta finalmente le mani sull’albero della vita, dopo essersi foraggiato a quello della conoscenza ed aver per questo segnato la propria condanna all’esilio su questa terra, in questa valle di lacrime, su questo atomo opaco del male, per far esperienza esistenziale dello scandalo della presenza (irrazionale ed ingiustificabile) del male nel mondo. Aggirare l’ostacolo posto da Dio, tramite le schiere di Cherubini, a che l’uomo possa attingere anche all’albero della Vita, per il tramite della scienza medica riproduttiva equivale a sconvolgere l’universo culturale umano, a sovvertire in un modo assai differente, quanto rilevante, il senso della vita, il significato del nostro passare su questa terra, l’orizzonte valoriale della tavola delle Leggi, ben oltre le idee nietzscheane di superamento del nichilismo europeo, quel nichilismo legato a doppio filo con la storia della tecnica (Heidegger) e con la storia della metafisica occidentale (Lévinas), che è poi anche dire che tutta la storia della filosofia occidentale è storia dell’occultamento dell’essere, dell’altro uomo.
Ma tant’è che anche tutto l’orizzonte culturale dell’umanità, sin dalle origini, ha oscillato continuamente tra il piano dell’artificiale (la techné) e il piano del naturale (la fiusis), trovando, di volta in volta, un più o meno accettabile equilibrio tra le opposte potenzialità e gli opposti interessi delle parti, tra l’idea di quanto è accettabile e di quanto, al contrario, non lo è (a differenza della prospettiva evoluzionista secondo la quale, invece, è stato il caso, e non la volontà umana, a imporre un dato equilibrio tra opposti e contemporanei fattori, e comunque privo di qualunque teleologia o predestinazione razionale).
Poter creare nuove vite, o tramite l’aemulatio dei, pratica in cui consistono gran parte delle tecniche di PMA, o tramite l’innovazione della clonazione (a fini riproduttivi), suscita un vivissimo brivido lungo la schiena della civiltà occidentale, profondi dubbi intorno alle possibilità della tecnica medica, inquietanti ed angosciosi problemi intorno al limite della scienza.16 La pecora Dolly, da questo punto di vista, è il simbolo (la cifra) del nuovo progresso scientifico, del nuovo orizzonte valoriale della vita umana. Ma anche l’aggirare gli ostacoli naturali al concepimento realizza il medesimo effetto, sia pure con tempi e modalità differenti.
Essendo il contesto di realizzazione della PMA differente da caso a caso, ecco allora che il regno della casistica medica, e scientifica, necessita di un’“etica applicata”, di modo che ne divenga possibile discernere i limiti applicativi.
In altri termini, le innovazioni della biologia, e delle tecniche scientifiche relative, comportano la necessità di una riflessione approfondita da parte della teoretica e della messa a punto di un’etica specifica, che tenga conto tanto della specificità del dato e del metodo scientifici (nonché della loro autonomia) quanto dei limiti comunque presenti nei singoli casi (non tutto quel che è scientificamente possibile appare comunque lecito). L’esigenza di una bioetica, dunque.
Cos’è la bioetica?17 Una disciplina che “si occupa delle questioni morali che sorgono parallelamente al rapido progredire della ricerca biologica e medica”,18 il suo orizzonte, cioè, “ha a che fare con quegli obblighi fondamentali che abbiamo in quanto persone morali o, se si vuole, partecipi di una società civile che in caso di conflitti e disaccordi non possono avere la meglio sui doveri (…) più specificatamente legati alla professione che svolgiamo”.19 La bioetica è, cioè, “la ricerca di una soluzione alle nuove problematiche emerse nel contesto del progresso scientifico-tecnologico in ambito biomedico”,20 “un insieme di ricerche, di discorsi e di pratiche, generalmente pluridisciplinari, aventi per oggetto la chiarificazione o la soluzione di questioni di carattere etico, suscitate dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche che hanno reso possibile agire su fenomeni vitali in modi fino a qualche decennio fa ritenuti impensabili”.21
Resta però il problema di fondo: quale bioetica? Un universo valoriale che valga erga omnes oppure una bioetica che guardi al caso singolo, e che valuti l’ethos da seguire caso per caso? Se guardiamo alla cultura umana ci accorgiamo subito come al di sotto di pratiche sociali, individuali o condivise, che si ripetono nelle medesime modalità, e che appaiono prima facie uguali tra loro e per tutti gli agenti che le realizzano, differente è, al contrario, l’insieme assiologico dei vari agenti. In altri termini, la cultura umana appare comune a tutti gli uomini, in realtà è profondamente plurale tanto rispetto ai fini e ai valori delle azioni quanto rispetto al ruolo di ciascuno nel mandare ad effetto quelle azioni. Le moderne scienze sociali, infatti, non mancano di sottolineare come noi si viva nel tempo della frammentazione, del politeismo dei valori (Weber), della contaminazione e ibridazione culturali, come la nostra vita quotidiana non si svolga all’insegna del consensus universorum, ma sotto l’etichetta del meticciato, del multiculturalismo, della disomogeneità di ruoli e funzioni in seno alla società.22 Il problema è: era così anche prima? Forse, può non interessarci, ma offre illuminanti chiavi di lettura del fenomeno contemporaneo.
La differenza culturale, comunque, mette capo a differenti prospettive bioetiche. E siccome il pluralismo non può condurre tout-court al relativismo che renderebbe impossibile qualsiasi scelta in ambito bioetica (così come in qualsiasi ambito “pubblico”23), si deve privilegiare l’intrinseca finalità degli organismi naturali (pur distinguendo gerarchie di importanza tra “esseri viventi qualunque” ed “esseri viventi umani”), obiettivo in qualche modo condiviso dalla medicina, oppure si può innovare tale finalità nel momento in cui prioritario appare non la cura (di malattie incurabili), ma il ben-essere del paziente? Quella appena abbozzata è solo una delle tante opposizioni tra vedute che si contendono la palma nel dibattito bioetico. L’opposizione tra due differenti visioni della vita e del valore da attribuirle. Rispettivamente, tra un’ottica che considera la vita un valore assoluto (e immodificabile), quale che ne siano le conseguenze, ed un’ottica secondo la quale è prioritaria la qualità della vita del paziente. In casi singoli, e di particolare gravità, infatti, quale possono essere i casi di “vita vegetativa”, cosa si deve privilegiare: l’alimentazione (forzata), per rispettare il valore assoluto della vita umana, oppure la cessazione di qualsiasi intervento terapeutico, perché una vita vissuta così non è degna di (essere vissuta da parte di) un essere umano? La questione, com’è facile vedere, non è da poco. La storia della filosofia morale mostra, infatti, come ad un’etica teleologica, in senso aristotelico, si siano progressivamente sostituiti altri paradigmi: l’etica deontologica in primo luogo (da Kant in poi) e l’etica utilitarista in seguito,24 tutte comunque influenzabili la teorizzazione bioetica.25
Naturale allora che la considerazione medica passasse dal salvaguardare quella finalità che si considerava naturale nello sviluppo della vita umana alla considerazione di cosa “si deve” o “non si deve” fare, sino alla considerazione di quella che è il maggior interesse (o, benessere) del paziente (se continuare a vivere soffrendo oppure se cessare di vivere e di soffrire). La prima ottica è quella consistente nella considerazione della vita in modo sacrale, l’ultima nella considerazione della vita quale miglior qualità possibile. La prospettiva intermedia, invece, è finita, col secolo XX a costituire una metodologia comune ad entrambe le altre ottiche, informando prima la considerazione metaetica (p. e. “a quali condizioni un’argomentazione bioetica è accettabile?”) e poi la ripresa dell’etica dei valori (p. e. “quali devono essere i valori informatori della bioetica?”) e del diritto naturale (costituendo, in parte, anche la cd. ripresa dell’etica applicata). Anzi, secondo alcuni è proprio l’esperienza tragica e complessa della II Guerra Mondiale a indicare l’atto fondativo della bioetica (in particolar modo, il ritorno del Giusnaturalismo e il Processo di Norimberga). Ma secondo altri “è storicamente falso far nascere la bioetica nell’immediato dopoguerra”,26 dato che essa nasce negli anni ’70 del secolo scorso,27 quando si parlò “per la prima volta di bioetica (…) all’interno di un articolo dell’oncologo americano Van R. Potter (The Sceince of Survival)”.28
Problemi quali l’eutanasia, l’aborto, la clonazione, gli ibridi genetici (o, chimere), la sperimentazione su embrioni umani, lo status dell’embrione, le cellule staminali, fattispecie rese possibili solo oggi dal progresso scientifico, non sono di poco conto, ed impongono che gli uomini riflettano, ed approfonditamente, su quale registro etico debba regolare tali pratiche (dato che non appare concepibile lasciare all’arbitrio del singolo se o meno mandare ad effetto quali azioni di queste e come29).
2. Un caso particolare e speciale di PMA: la maternità surrogata
Un tempo si diceva: “di mamme ce n’è una sola”. Adesso non è più possibile esserne sicuri.
—A.B. Faraoni, La maternità surrogata. La natura del fenomeno, gli aspetti giuridici, le prospettive di disciplina, Giuffré, Milano 2002, p. 3.
Il ruolo della tecnica è tanto maggiore se si pensa all’importanza che può assumere nel campo della riproduzione umana, rendendo possibili fecondazioni (in soggetti infertili o sterili); clonazione di cellule umane; manipolazioni genetiche; e così via.
D’altra parte, l’enorme potenziale scientifico si collega alla tendenza (forte presso le società occidentali) di ricerca della (e, conseguentemente, sulla) procreazione. Se da un punto di vista comune è normale desiderare una prole, è certamente più forte pretendere di superare limiti biologici (p. e. l’infertilità) per realizzare il proprio desiderio. Anzi, è possibile registrare la tendenza a conferire ancor maggior forza a questo desiderio proprio nei casi in cui la sfortuna rende per la coppia più difficile il concepimento di figli propri. In questo caso naturalmente, il desiderio prioritario da parte parentale è quello di avere figli che abbiano coi genitori perlomeno un legame genetico.30
Questo spiega in parte come mai si tenda più a servirsi dei ritrovati tecnologici che dei normali canali adottivi per ovviare a una difficoltà riproduttiva.31 Ed anche in considerazione del fatto che le statistiche ufficiali dimostrino (su scala assoluta, e non relativa al singolo caso) la bassa resa delle tecniche riproduttive.32 Da questa prospettiva, infatti, è possibile anche vedere come la direzione assunta dalla ricerca medica (fertilizzazione artificiale, anziché cura delle patologie organiche) possa configurarsi come violazione della deontologia medica, in quanto volta non a curare le malattie, ma a produrre scientemente embrioni destinati a morire.33
Questa tendenza può anche confluire nella pretesa, da parte dei singoli, di vedere nel proprio desiderio (pur legittimo) anche un diritto soggettivo alla procreazione.34 In questo senso appare rilevante porsi la domanda seguente: esiste un diritto ad avere figli?35
Per di più, essendo compito del diritto regolamentare situazioni prima non contemplate. Per questo motivo, si è fatta pressante la necessità di fissare regole, tutele e limiti alle pratiche che collegano la cura dei problemi di fertilità con le possibilità della moderna tecnologia riproduttiva. Anche alla luce di uno dei principi fondanti degli ordinamenti giuridici occidentali: il rispetto della vita umana.36 Sono, infatti, moltissimi (e concretissimi) i rischi determinati da un uso non regolamentato normativamente nelle pratiche di cura dell’infertilità.37 Per questo motivo alla riflessione sui canoni e sui criteri da seguire nel fissare regole in materia s’è accostato nel tempo la riflessione bioetica tesa a codificare i valori che dovrebbero informare la pratica medica e la legislazione in proposito.38 Infatti, recentemente s’è cominciato a parlare di biogiuridica,39 riferendoci espressamente all’ambito del controllo giuridico sulle nuove dimensioni assunte dalla scienza della vita (una volta, la biologia).
Ma la necessità di una scienza libera e le moltissime opinioni discordanti hanno impedito sinora di trovare un accordo su cosa (e come) sia lecito fare, e cosa no, rendendo di fatto possibile un lungo far west, specie nella PMA e specialmente in Italia, ove il dibattito ha risentito anche di problemi politici (e sociali) contingenti.40
Necessario è apparso ai più operare un bilanciamento tra le opposte ragioni e le finalità dell’operato statale e i valori dell’ordinamento al fine di tutelare la vita umana, ma anche i diritti individuali.41
Più limitatamente, intendiamo riflettere sui profili bioetici di una possibilità limitata e derivata direttamente dalla PMA: la surrogazione di maternità.
Ma prima di ciò è bene avere presenti i diversi tipi di PMA che è possibile ottenere, al fine di fornire una panoramica completa e chiara del contesto all’interno del quale si colloca la “maternità surrogata”.
Abbiamo i seguenti tipi di fecondazione:
- FIVET (fecondazione in vitro e trasferimento degli embrioni);
- ICSI (iniezione introcitoplasmatica di sperma);
- GIFT (gamete intra felloppian transfert);
- ZIFT E TET (combinazione degli strumenti usati per la FIVET e per la GIFT, con diverso stadio di sviluppo degli embrioni trasferiti nella tube);
- Ectogenesi (sistemi di gravidanza artificiale, sostitutivi di quella parentale).
Le malattie della fertilità umana42 si distinguono in due categorie: a) quelle che diminuiscono, ma non annullano, la fertilità della coppia; e, b) quelle che annullano la fertilità della coppia.
In funzione di questa diversità si utilizzano tipologie differenti di intervento medico teso, rispettivamente, ad aumentare la fertilità umana (aumentando così anche le chances riproduttive), oppure a sopperire, per via artificiale (p. e. la fertilizzazione in vitro), al processo procreativo umano non altrimenti realizzabile (sterilità).
Distinguendo tra ridotta capacità e assente capacità riproduttive, distinguiamo i diversi tipi di PMA43 espressi nelle sigle precedenti.
- Con la FIVET s’intende il prelievo degli ovuli e il loro incontro con gli spermatozoi in provetta, con impianto successivo degli embrioni nell’utero materno.44
- Con la ICSI s’intende una microiniezione di spermatide (cellula che dà origine allo spermatozoo) nell’apparato genitale femminile.45
- Con la GIFT s’intende una manipolazione di gameti determinando la fecondazione nell’organismo femminile.46
- Con ZIFT e TET una combinazione degli strumenti utilizzati nei procedimenti FIVET e GIFT.47
- Con la Ectogenesi una (futuribile) tecnica che sostituisce in modo artificiale l’organismo materno di fecondazione e di sviluppo embrionale, sottraendo quasi integralmente l’umanità dell’atto procreativo.48
Com’è facile avvedersi, con la FIVET, con la ZIFT e TET (in parte) e con la ECTOGENESI si cura la sterilità, mentre con la ICSI e la GIFT l’infertilità.
È bene però non confondere con tutte queste differenti tecniche tra pratiche diverse. Infatti, ad esempio la FIVET consente la pratica dell’“affitto d’utero” (se si vuol considerare il concepito in legame biologico con entrambi i genitori committenti), che è cosa diversa dalla “maternità surrogata”. Infatti, il primo caso è quello di un rapporto preciso tra una coppia committente e una donna che accetta la gestazione di embrione non suo, ottenuto tramite fecondazione in vitro da materiale biologico dei committenti (p. e. ovulo e spermatozoi), fecondato e trasferito nel proprio utero che funge, dunque, da utero surrogato. È, invece, maternità per surrogazione:
la maternità di quelle donne che si prestano ad avere una gravidanza e a partorire un figlio non per sé ma per un’altra donna.49
Oppure, il realizzarsi della situazione seguente:
una donna, per soddisfare esigenze di maternità e di paternità altrui, dietro corrispettivo, o a titolo gratuito, contrattualmente noleggia, con il richiesto consenso del marito, se sposata, il proprio utero ad una coppia di coniugi impossibilitata ad avere figli per sterilità della partner, impegnandosi a farsi fecondare artificialmente con il seme del marito di quest’ultima, a condurre a termine la gravidanza, nel rispetto di determinate norme di comportamento, ed a consegnare alla predetta coppia di coniugi committente il figlio così concepito, rinunciando ad ogni diritto su di esso.50
Altro caso di maternità surrogata può essere considerato il seguente:
l’esempio più semplice di surrogazione deve infatti una coppia di coniugi priva di figli per sterilità della donna. Un’altra donna, la madre surrogata, consente (in cambio di un vantaggio economico) all’inseminazione artificiale tramite il marito della donna sterile, si impegna a condurre a termine la gravidanza risultante ed a consegnare il frutto alla coppia.51
Varie sono le ragioni alla base di questa pratica:
l’accordo mediante il quale una donna s’impegna a una gravidanza per altri può essere posto in essere per fini economici o anche per spirito di solidarietà nei confronti di chi non è in grado di iniziare o di portare a termine la gestazione52
Abbiamo, così, motivi economici53 oppure solidarietà54 a spiegazione della volontà da parte di donne a prestare il proprio organismo (perché si da “maternità surrogata” è necessario che la madre surrogata non offra soltanto il proprio utero, ma anche i propri gameti) per portare avanti una gestazione e per partorire un figlio che si accetta di non tenere per sé, ma di consegnarlo ad altri. La storia dell’umanità è piena di esempi di solidarietà simile.55 Nuova è, invece, certamente la tecnica utilizzata che rende più asettico lo scambio d’utero.
In altri termini, è lecito affermare come:
tutte le culture e le società umane hanno conosciuto tentativi di controllo della procreazione attraverso l’intervento sulla fertilità. Le pratiche attuali si distinguono da quelle passate per la quantità di conoscenza che le sorregge, per la stretta connessione con la scienza bio-medica.56
Chiariamo: quando una coppia desiderosa di figli, ma sterile (o per la sterilità di entrambi o di uno dei due) trova una seconda donna disposta ad accogliere nel proprio grembo l’embrione, fecondato in vitro, della coppia, si ha allora l’affitto d’utero.
Se, invece, la donna offre oltre al proprio utero tutta la sua capacità riproduttiva (ella accetta di farsi fecondare col seme del marito della coppia committente), ecco allora che si ottiene una surrogazione di maternità.
In entrambi i casi la coppia committente ha trovato l’accordo di una donna a portare avanti una gravidanza o anche a farsi ingravidare con seme della coppia, a partorire il nascituro e a rinunciare su qualunque pretesa su di lui. Un accordo dietro pagamento di un compenso (che sia economico o solo di solidarietà umana, sempre uno scambio). Dunque, si è realizzato quel che la cultura umana considera un contratto,57 con tutte le conseguenze obbliganti del caso e secondo l’ottica dello scambio economico.58
Tuttavia, è bene sapere che la terminologia adoperata non è univoca. Si parla (a torto) indifferentemente di:
- maternità per sostituzione;
- maternità surrogata;
- maternità su commissione;
- locazione d’utero;
- affitto d’utero;
- contratto di maternità;
- maternità su procura.
Per alcuni ognuna di queste locuzioni sottende concetti e situazioni diverse,59 chi scrive, al contrario, ritiene che molte delle fattispecie indicate siano delle inutili ripetizioni che non rinviano a nulla di sostanziale.60 Infatti, diverse possono essere le ipotesi surrogative, ma solo alcuni sono i casi di surrogazione effettiva:
- Il caso in cui si ha l’inseminazione direttamente nell’utero della donna surrogata con seme dell’uomo della coppia committente (ottenendo, quindi, una donazione sia dell’ovulo della surrogata sia della gravidanza portata avanti da quest’ultima61);
- Il caso del solo impianto nell’utero della surrogata di un embrione già fecondato in vitro con entrambi i gameti della coppia committente.62
Per la verità soltanto il primo caso ci appare esemplare di “maternità surrogata”, qualificandosi invece il secondo quale esempio di “locazione d’utero”.
Ad ogni modo, è sensato affermare che:
la maternità per sostituzione si pone all’interno del fenomeno della procreazione artificiale pur non costituendo di per sé alcuna tecnica procreativa; l’utilizzo di tali tecniche è infatti “mezzo” per realizzare le diverse ipotesi di surrogazione.63
Non è quindi legittimo separare la PMA e la maternità surrogata.64 Trattasi, al contrario, di un rapporto stretto, dato che non potrebbe aversi la seconda senza la prima.65
La definizione fornita però mette capo ad almeno due possibilità di realizzazione della maternità per surrogazione:
- una donna (locatoria del proprio utero) che porta a termine la gestazione ricevendo l’ovulo fecondato di un’altra donna. L’ovulo appartiene a colei che desidera il figlio (madre committente e, in questo caso, anche genetica) ma può anche provenire da altra donna (terza donatrice). In tal caso si parla di surrogazione totale66 (meglio, di affitto d’utero).
- una donna (madre sostituta e anche genetica) s’incarica sia di fornire l’ovulo che di portare a termine la gravidanza. Si parla, così, di surrogazione parziale67 (meglio, di maternità surrogata propriamente detta).
Non è maternità per sostituzione il caso in cui una donna offra i propri ovuli ad un’altra (fattispecie della donazione d’ovuli) affinché quest’ultima possa avere un figlio proprio.68 Infatti, si parla di maternità surrogata solo nel caso in cui una donna si presta ad avere una gravidanza per un’altra.69
Diverse sono le ipotesi di maternità surrogativa.70 Possiamo avere:
- il caso in cui la fecondazione della volontaria avviene mediante l’inseminazione artificiale, conseguita per mezzo dell’introduzione del liquido seminale direttamente nella cavità uterina, permettendo tra l’altro la formazione dello zigote nel suo ambiente naturale (e non in vitro). Questo caso prende il nome di maternità surrogata propriamente detta;
- il caso in cui si realizza una donazione di ovociti (da parte di terzi) per sopperire all’impossibilità di generare da parte della donna interessata (la quale, concepisce e porta avanti la gravidanza in prima persona);
- il caso in cui l’embrione, una volta che sia stato ottenuto artificialmente, viene trasferito nell’utero della donna della madre surrogata affinché porti avanti la gravidanza e partorisca il bambino (affitto d’utero).
Ci riferiremo, pertanto, pur con le dovute riserve, alla maternità per surrogazione solo prendendo in considerazione le possibilità (a) e (c) poiché quella intermedia, la (b), non presenta quel grado di coinvolgimento (affettivo; relazionale; giuridico; biologico) tra coppia committente e donna surrogatrice in forza del quale accordi di questo genere assumono la loro importanza per la società contemporanea.71
A questo punto diventa di secondo piano il complesso di ragioni alla base della scelta di ricorrere alla maternità per surrogazione (sterilità; salute; desiderio di avere figli evitando la gravidanza72),73 in luogo del porsi la necessità di una riflessione (quanto più non ideologica) sulla dimensione che questo fenomeno, reso certamente possibile dalle moderne tecniche di aiuto alla riproduzione umana, assume in merito alla tutela degli interessi in gioco.74
D’altronde, la procreazione, pur appartenendo ad una delle sfere più personali della vita umana, è, ed è stata nel corso della storia, oggetto di condizionamenti e di giudizi.75 Non potrebbe certo essere diversamente se si tiene conto che in questo caso si viene a costituire un contratto tra due o più persone volto a trattare un tipo particolarissimo di “bene”: l’embrione.
Che dire, allora, dell’orizzonte bioetico di tale pratica? Senza dubbio resta perplexus il caso degli accordi di maternità. Infatti, forse perché andante a toccare aspetti molto intimi (e delicati) della vita umana, ed anche perché intacca il modello antropologico di base (la famiglia) delle società occidentali,76 suscita inevitabili reazioni. Tra queste anche il sospetto che in realtà mal si concilii l’iniziativa economica e il rispetto della dignitas umana.
Se il movimento femminista vede, al contrario, nella maternità surrogata una possibilità emancipatoria per le donne,77 un movimento d’opinione di segno opposto potrebbe vedere in ciò una seria minaccia alla dignità della donna, reificata ad incubatrice di embrioni, mercificandone uno degli aspetti più nobili (sino all’estremo di paventare un rischio di ingiustizia sociale con donne di bassa estrazione costrette per necessità ad affittare, dietro compenso, le proprie capacità riproduttive).
Per di più, si potrebbe anche aggiungere che un contratto per essere valido deve disporre di beni economici disponibili alla transazione (altrimenti viene meno il senso del negotium: il do ut des). Tale aggiunta attacca da un lato la disponibilità degli embrioni (il loro poter essere oggetto di scambio economico), e, dall’altro lato, la disponibilià di parti del proprio corpo al fine di conseguire un utile economico.
Il secondo orizzonte, perché più interessante ai nostri fini, ma certo non perché il primo non lo sia, affonda le proprie radici nell’immagine antropologica occidentale dell’uomo quale integrità. Da tale punto di vista, infatti, la pratica della surrogazione viola il principio dell’indisponibilità di parti del proprio corpo, ledendo la dignità delle donne, specie se compiuta dietro pagamento di un corrispettivo in denaro della prestazione offerta.78
Il punto di vista femminista è opposto perché ritiene che questo modello antropologico sia frutto dell’elaborazione maschile e non tenga in alcun conto la diversità di pensiero femminile per il quale è possibile, in nome della solidarietà della specie umana, offrire spontaneamente e senza alcun corrispettivo in cambio (per puro altruismo) sé stesse o parti di sé.
3. Considerazioni bioetiche sulla maternità surrogata
La natura dell’agire umano è mutata, e poiché l’etica è connessa con l’agire, da ciò dovrebbe derivare che la mutata natura dell’aire umano richiede anche un mutamento nell’etica.
—H. Jonas, op. cit., p. 41.
Il principio kantiano, al quale spesso in tempi recenti s’è richiamata la Commissione Nazionale di Bioetica (CBN), secondo il quale, e in forza del quale, ognuno di noi è fine a sé stesso, e non può essere utilizzato quale medium per conseguire finalità esterne o interessi di terzi, dispone anche che ciascuno di noi sia un corpo che esplica determinate azioni e consegue determinate finalità, sempre in accordo con la massima su esposta.
Il problema, dal quale dipendono in misura rilevante parecchie questioni bioetiche, è il seguente: il proprio corpo è una nostra proprietà? In altri termini, possiamo disporre di noi stessi o di parte di noi ad libitum? Teoricamente, anche cedendo, dietro corrispettivo economico parti di noi stessi? Se la filosofia fosse in grado di rispondere efficacemente e chiaramente a tale quesito la bioetica cesserebbe di esistere o, almeno, di essere il terribile terreno di scontro che è sinora. Infatti, se l’ostacolo primo ad ogni nuova pratica medica è costituito dal vincolo del rispetto dell’integrità umana, dire se l’uomo non possa disgregarsi o se, invece, possa, equivale a dire “no” o “sì” ai casi bioetici in modo finalmente chiaro (e, forse, anche definitivo). Ma la concezione che l’uomo ha di sé resta non univoca, non certa, ma discussa e frammentata tra coloro che partecipano all’agone teoretico (ed anche scientifico).
Cos’è la maternità surrogata? Tale pratica consistente nel mettere a disposizione parti di sé per consentire a terzi di vedere realizzato il proprio desiderio di filiazione senza direttamente impegnarsi in prima persona, o perché non vogliono o perché non possono. La donna surrogante, dunque, cede parte di sé, il proprio ovocita e il proprio utero per portare avanti e a termine una gravidanza per rinunciare ad ogni pretesa sul figlio e cederlo alla coppia committente che ha provveduto nel frattempo a ripagare ogni spesa medica. Siccome la novità particolare della PMA è la possibilità di realizzare la riproduzione umana in modo non coitale e di sostituire al rapporto coitale stesso pratiche surrogative artificiali, è il padre committente ad avere un certo rapporto genetico col figlio, il quale, a sua volta, ha comunque un rapporto genetico anche con la madre surrogante, non con quella surrogata. La prima cede, a titolo oneroso, la propria capacità riproduttiva in favore di terzi. Questo il fenomeno considerato nella sua neutralità, vediamo cosa possa dire la bioetica in proposito.
In primo luogo abbiamo un ente, l’embrione, che, essendo res nullius, se non anche un nihil, viene utilizzato come meglio si crede, prodotto artificialmente per incontro dei gameti del marito committente e della madre surrogante nell’utero di quest’ultima. È l’embrione un essere vivente? È una persona? Nulla di più incerto, anche perché se così fosse ci troveremmo nell’imbarazzante situazione di dover eliminare pratiche ormai istituzionalizzate che mettono in conto la sua mercificazione o distruzione ogniqualvolta il bisogno (ovviamente a lui eterogeneo) lo richieda (p. e. l’annosa faccenda degli embrioni soprannumerari o di quelli non più vitali crioconservati nei vari laboratori; oppure, il caso dell’aborto; o, della PMA stessa). Se persona si dovrebbero prendere in considerazione anche le sue legittime attese, quali che siano, quello che è il suo presumibile desiderio legittimo. Gradirebbe di nascere per volontà di estranei nel corpo di una madre solo temporanea? Ha diritti? Ha doveri? È meritevole di tutela? Se lo fosse avremmo anche la conseguenza pesante di dover considerarlo equivalente a qualsiasi bambino o a qualsiasi persona, mentre tutt’oggi il limite più forte ad una tutela consiste nel distinguere una gerarchia di diritti tra chi è nato e chi ancora non lo è. Resta, comunque, il fatto che ontologicamente l’embrione è, se non fosse non ci porremmo alcun problema. Resta da decidere cosa sia. E qui s’inseriscono le note polemiche su cellule staminali e sui “quattordici giorni”.
Mettendo tra parentesi la questione, è lecita la pratica della “maternità surrogata”? Abbiamo un ente, una nuova “persona”, chiamata ad esistere non per sua volontà, ma per la volontà di tre persone diverse, una è il padre naturale, una la madre “surrogata” e adottiva e una la madre naturale, “surrogante” ma temporanea. Al riguardo l’etica, a parte una generica raccomandazione di buon senso consistente nel suggerire di anteporre ad ogni altra considerazione sempre l’interesse del minore (best interest of a child), non può dire nulla dato che anche nella riproduzione naturale la dinamica è la stessa. Stavolta, però, una persona viene chiamata ad esistere per soddisfare gli interessi, non filiali, di tre persone differenti ma cooperanti, le quali: due vogliono a tutti costi ottenere un figlio tramite la tecnologia; e, una vuole trarre profitto dal proprio corpo. Orbene, Kant non la penserebbe molto bene al riguardo: un quarto individuo viene prodotto non per sé, ma per alios.79 Viene infranta anche la regola aurea: chi di noi, Mary Warnock a parte, vorrebbe nascere in questo modo (e a queste condizioni)?80 Assistiamo (compiacenti o colpevolmente silenziosi) ad un totale asservimento della pratica riproduttiva alle tecniche biomediche.81 E se pensiamo che molto spesso anche le coppie fertili ricorrono alla PMA non per curare loro incapacità generative (perché coppia infertile), ma perché non possono/vogliono sacrificare la carriera al (pur legittimo) desiderio di avere un figlio oppure perché la PMA consente di “programmare” il figlio (geneticamente; con i connotati voluti; con il sesso desiderato; etc.), ecco come più di aiuto alla riproduzione umana, si realizzi, al contrario, una sostituzione della naturalità del rapporto coitale.
Con l’aggravante, di non secondo piano, che la biomedicina, più che curare malattie, finisce col curare i desideri dei (futuri) genitori che desiderano un figlio quando dicono loro, come dicono loro, con le caratteristiche che vogliono loro, (apparentemente) un figlio voluto non per amore, ma per appagare qualcosa di profondamente irrazionale qual è il desiderio umano, in un tempo in cui l’humanitas è stata sostituita con forme processuali e materiali, meglio se artificiali, di vita.
Non deve stupire, allora, che il ricorso alla PMA esuli dai casi conclamati di “malattia” riproduttiva, sebbene sia ambiguo anche il posto assunto da queste patologie nelle definizioni ordinarie di malattie, ma, che inserendosi nel più esteso campo del consumismo e del mercato, venga incontro a realizzare qualsiasi desiderio (l’erogazione di un “servizio”) in cambio di denaro.
L’approfondimento della questione, da parte della ragione riflessiva, consente così di illuminare un particolare aspetto delle tecniche di PMA posto alla confluenza tra medicina, biodiritto, deontologia professionale, orizzonti valoriali e (last but not least) bioetica che, altrimenti, verrebbe letto attraverso lenti poco critiche ed irriflessive.
4. Bibliografia
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- C. Shalev, Nascere per contratto, Giuffré, Milano 1992.
- E. Sgreccia — M. L. Ricci (eds.), La vita e l’uomo nell’età delle tecnologie riproduttive, Vita e Pensiero, Milano 1997.
- M. Warnock, Fare bambini. Esiste un diritto ad avere figli? , Einaudi, Torino 2004.
-
Scrive, infatti, H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, Il Mulino, Bologna 1991, p. 55 e sgg.: “l’uomo stesso è diventato uno degli oggetti della tecnologia. L’homo faber si volge a se stesso ed è pronto a trasformarsi nell’artefice di tutto il resto. Questo compimento del suo potere, che preannuncia verosimilmente la sopraffazione dell’uomo, questo soggiogamento finale della natura da parte dell’artificio, fa appello alle ultime risorse del pensiero etico, che non si era maitrovato di fronte alla possibilità di scegliere delle alternative a quelli che venivano considerati i limiti definiti della condizione umana”. ↩︎
-
In realtà, non c’è differenza sostanziale tra modernitas e postmoderno, l’unica cosa a cambiare è la consapevolezza che si ha della tecnica, positiva e neutrale nel primo caso, critica ma neutrale nel secondo caso. Viene, cioè, ad essere sfrondato dell’acritica il cd. mito del progresso, consistente “nella supposizione che gli uomini e la società andranno sempre più verso il meglio, ove essi saranno liberi di seguire la massima kantiana di affidarsi alla ragione piuttosto che all’autorità” (G. H. von Wright, Il mito del progresso. Un contributo al dibattito sulla modernità, “Paradigmi. Rivista di critica filosofica”, 22, 1990, p. 157). Quello stesso progresso rispetto al quale oggi siamo consapevoli non solo delle (in -) finite potenzialità positive che ci mette a disposizione, ma anche del rovescio negativo di queste stesse. Scrive, ancora, H. Jonas, op. cit., p. 62: “noi rabbrividiamo nella nudità di un nichilismo in cui la condizione di quasi-onnipotenza convive con quella di quasi-vacuità, la più grande abilità con un sapere minimo”. ↩︎
-
Ad esempio, per limitarci all’influenza della tecnologia informatica sulle nostre vite, si consideri quanto scrive G. H. von Wright, Inaugural Address, in A. A. Martino (eds.), Expert System in Law, North — Holland, Amsterdam, 1992, p. 1: “the novelty of computer technology consists in its revolutioning impact on the work of the brain for purposes of human cognition”. ↩︎
-
A. Gargani (ed.), Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1979. ↩︎
-
P. A. Rovatti — G. Vattimo, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 199515. ↩︎
-
In questo senso, forse, trova spiegazione l’idea jonasiana della necessità di una nuova etica per l’uomo tecnologico, di una sapienza rinnovata che possa reggere la sfida del nuovo orizzonte antropologico a seguito della moderna tecnologia. Infatti, “si tratta di sapere se, evitando di reintrodurre la categoria del sacro, la categoria più danneggiata dall’illuminismo scientifico, possiamo avere un’etica capace di esercitare n controllo sulle enormi capacità che oggi possediamo, che aumentano costantemente e di cui siamo costretti a far uso” (H. Jonas, op. cit., p. 62). ↩︎
-
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Bompiani, Milano 1978. ↩︎
-
H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2003. ↩︎
-
Secondo alcuni l’origine storica della bioetica va ricondotta la dibattito posteriore alle follie naziste, per come scrive E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 3: “in seguito alle sperimentazioni dei medici nazisti e alla successiva riflessione su di esse nel Processo di Norimberga”. ↩︎
-
Sulla connessione corpo — spirito, a seguito degli sviluppi scientifici, e proprio in ottica bioetica, vale quanto sostiene U. Scarpelli, Bioetica: prospettive e principi fondamentali, in U. Scarpelli, Bioetica laica, Baldini & Castaldi, Milano 1998, p. 37: “non c’è atto relativo alla macchina (il corpo) che non investa anche lo spettro della macchina (lo spirito)”. ↩︎
-
E. Agazzi, Il luogo dell’etica nella bioetica, Introduzione a: E. Agazzi (ed.), Quale etica per la bioetica? , Franco Angeli, Milano 1990, p. 13. ↩︎
-
F. D’Agostino, Le provocazioni della scienza medica, in “Rivista internazionale di Filosofia del Diritto”, 2001. ↩︎
-
E. Sgreccia — M. L. Ricci, Prefazione, a E. Sgreccia — M. L. Ricci (eds.), La vita e l’uomo nell’età delle tecnologie riproduttive, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. vii. ↩︎
-
D’ora in poi: PMA. ↩︎
-
C. Flamigni, Il libro della procreazione. La maternità come scelta: fisiologia, contraccezione, fecondazione assistita, Mondatori, Milano, 20055, p. 20. ↩︎
-
È il moderno Prometeo solo consentibile o in qualche modo deve essere arginato secondo vincoli e limiti? Questo il dilemma (morale) dell’uomo moderno (e scientifico). Ed è di fondamentale importanza parlarne in termini bioetica dato che, come scrive E. Lecaldano, op. cit., p. 4: “il nucleo essenziale della bioetica può a buon diritto essere costituito da tutte le questioni etiche originate, negli ultimi decenni, dai mutamenti che medicina e biologia hanno provocato per quanto riguarda il nascere, curarsi e morire degli esseri umani”. ↩︎
-
C. Faralli, Dagli anni settanta all’inizio del XXI secolo, aggiunta a: G. Fassò, Storia della filosofia del diritto III. Ottocento e Novecento, Laterza, Roma - Bari 20062, p. 414: “il termine bioetica (letteralmente ”etica della vita“ o, più latamente, ”di tutto ciò che è vivente“) compare per la prima volta nel 1971 nel titolo del libro di un oncologo americano, V. R. Potter, Bioethics. A Bridge to the Future”. ↩︎
-
E. Lecaldano, op. cit., p. 5. ↩︎
-
M. Aramini, Introduzione alla Bioetica, Giuffré, Milano 20032, p. 13. ↩︎
-
C. Faralli, op. cit., p. 415. ↩︎
-
Faietti — Malighetti — Matera, Dal tribale al globale, Mondatori, Milano 2002. ↩︎
-
G. Jervis, Contro il relativismo, Laterza, Roma-Bari, 2005. ↩︎
-
M. Mori, op. cit., p. 48. ↩︎
-
M. Aramini, op. cit., pp. 13-33. ↩︎
-
M. Mori, Per un chiarimento delle diverse prospettive etiche sottese alla bioetica, in E. Agazzi (ed.), op. cit., p. 57. ↩︎
-
Scrive P. Cattorini, I principi dell’etica biomedica e le teroie etiche, in E. Agazzi (ed.), op. cit., p. 67: “il termine ”bioetica“, [è stato] coniato originariamente nel 1970 dal cancerologo Van Rensslaer Potter”. ↩︎
-
http://it.wikipedia.org/wiki/Bioetica. V. anche E. Lecaldano, op. cit., p. 3 e sgg. ↩︎
-
Quantunque un’impostazione che si definisce laica sostenga la costituzione di una cornice comune minima lasciando al singolo la scelta di qualsiasi azione bioetica a patto però, ed ovviamente, che questa non danneggi terzi (e ad evitare ciò serve la cornice minima di divieti). ↩︎
-
A. Serra, Deontologia medica e “procreazione medicalmente assistita”, p. 2: “in realtà, la domanda essenziale a cui intende, per ora, rispondere questa tecnica è la richiesta di un ”figlio“, e di un figlio ”sano“” (articolo rintracciabile all’indirizzo: http://www.stranocristiano.org/reportage/staminali/DEONTOLOGIA_MEDICA__E_FIV_PADRE_Serra.pdf). ↩︎
-
F. Santosuosso, La procreazione medicalmente assistita. Commento alla Legge 19 Febbraio 2004 n. 40, Giuffré, Milano, 2004, p. 21: sembra pertanto alla coppia preferibile la procreazione assistita omologa, rispetto all’adozione". ↩︎
-
A. Serra, cit., p. 4. ↩︎
-
Al riguardo, A. Serra, op. cit., p. 6: “qualsiasi tecnica di fecondazione in vitro, anche dove sono posti dei limiti ristretti al numero di embrioni da trasferire, implica la morte coscientemente voluta di molti embrioni umani — ”figli“ anch’essi — a fronte di ”un figlio desiderato. È un dato di fatto incontrovertibile". Pericolo avvertito anche dal legislatore il quale con la L. 40/2004 ha stabilito paletti precisi al numero di embrioni producibili a fine impianto. ↩︎
-
Efficacemente scrive A. B. Faraoni, La maternità surrogata. La natura del fenomeno, gli aspetti giuridici, le prospettive di disciplina, Giuffré, Milano 2002, p. 69: “la procreazione può essere considerata come un insieme di attività che si sviluppan nel corso del tempo e che concerne molti comportamenti disparati: la sua importanza primaria, quale processo di continuazione della specie, e la delicatezza dell’ambito che concerne richiedono una valutazione attenta della relativa regolamentazione. La sua necessità, infatti, non permette di esimerla da determinate regole e procedure, giacché, sebbene la nostra conoscenza scientifica relativa alla riproduzione della specie umana sia abbastanza recente, siamo però consapevoli della sua natura complessa e multiforme”. ↩︎
-
In questa direzione, Mary Warnock ha ripreso le approfondite discussioni avute durante la commissione omonima che negli anni ’80 ha ispirato l’intera legislazione britannica sulla filiazione e sulla fecondazione artificiale. V. M. Warnock, Fare bambini. Esiste un diritto ad avere figli? , Einaudi, Torino 2004. Per di più ella scrive a p. 101: “dobbiamo preoccuparci del pericolo di confondere quel che è desiderato appassionatamente e profondamente con ciò che è un diritto. Se una cosa è possibile, e se non ne deriva un danno ad altri, è bene cercare di dare alle persone ciò che desiderano molto. Se non riescono ad avere quel che vogliono possono esserne delusi, ma non è stato fatto loro, a quel punto, un torto”. ↩︎
-
G. Sirchia, Prefazione, a: F. Santosuosso, La procreazione medicalmente assistita. Commento alla Legge 19 Ffebbraio 2004 n. 40, Giuffré, Milano 2004, p. ix. ↩︎
-
Si chiede D. Callahan, Etica e medicina riproduttiva, in M. Mori (a cura di), Questioni di bioetica, Ed. Riuniti, Roma 1988, p. 97: “ci sono diritti e doveri intrinseci ed essenziali che sono messi in discussione dagli interventi artificiali nella riproduzione?”. ↩︎
-
Scrive, infatti, D. Callahan, op. cit., p. 92: “non solo possiamo controllare il numero e la frequenza dei figli, ma possiamo anche influire tanto sul risultato genetico del processo procreativo quanto sulla manipolazione dei mezzi di procreazione e gestazione”. ↩︎
-
L. Palazzani, Introduzione alla biogiuridica, Giappichelli, Torino 2002. ↩︎
-
Ad esempio, M. Mori, Sul diritto di procreare: il caso italiano, Prefazione a: M. Warnock, op. cit., p. xii ritiene esagerato parlare in tali termini, suggerendo come in materia fosse più auspicabile una “legge leggera” che consentisse ampi margini di possibilità ai singoli. ↩︎
-
F. Santosuosso, op. cit., p. 26. Che è poi anche l’idea espressa da: M. Warnock, op. cit, p. 98 e sgg. ↩︎
-
In effetti è possibile osservare, come sostiene A. B. Faraoni, op. cit., p. 20: “una progressiva apertura della società verso le prospettive avanzate dalla medicina riproduttiva” la quale “ha registrato una considerazione sempre maggiore, in virtù della sua presunta capacità di risolvere ogni specifico caso di insufficienza biologica”. ↩︎
-
A. B. Faraoni, op. cit., p. 20: “le tecniche di fecondazione assistita oggi utilizzabili sono molto numerose e ciascuna di esse è consigliabile in considerazione delle particolari necessità del caso in questione: in via generale è possibile distinguerle in tecniche di ”procreazione tecnicamente assistita“, quando con esse si favorisce solamente la naturale potenzialità riproduttiva della coppia, che presenta perciò una fertilità spontanea, seppur molto ridotta (in generale, l’inseminazione artificiale); e tecniche di ”riproduzione artificiale“, quando invece si privilegia una sostituzione della tecnica alle fasi della fecondazione umana che non possono realizzarsi naturalmente”. ↩︎
-
F. Santosuosso, op. cit., pp. 56 - 7. ↩︎
-
Supra, p. 57. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Supra. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
I. Corti, La maternità per sostituzione, Giuffré, Milano, 2000, p. 1. ↩︎
-
Definizione citata in: A. B. Faraoni, op. cit., p. 21. ↩︎
-
C. Shalev, Nascere per contratto, Giuffré, Milano, 1992, p. 92. ↩︎
-
I. Corti, op. cit., pp. 2-3. ↩︎
-
La questione sottesa non è affatto di poco conto. Infatti, si chiede D. Callahan, op. cit, p. 94: “può essere accettabile una ricompensa in denaro nel caso della ”maternità surrogata“?”. ↩︎
-
Anche qui, D. Callahan, op. cit., p. 95: “è lecito che le donne siano disposte a prestare l’uso del proprio utero come ”madri surrogate“?”. ↩︎
-
Gn 16, 1-3; 30, 1-6. ↩︎
-
C. Shalev, op. cit., p. 16. ↩︎
-
Scrive C. Shalev, op. cit., p. 104: “la tesi che suggerisco in questo lavoro si fonda sull’idea che le conseguenze giuridiche della surrogazione ed in generale della cooperazione nell’attività procreativa dovrebbero essere determinate, in un contesto contrattuale, in accordo con le deliberazioni assunte dalle parti prima del concepimento” in quanto “un accordo di surrogazione può […] essere qualificato come un contratto per la vendita di servizi personali di procreazione”. ↩︎
-
In realtà nella discussione giuridica non è pacifico ritenere un accordo di surrogazione di maternità del tutto equiparabile alla disciplina sui contratti. ↩︎
-
I. Corti, op. cit., p. 3. ↩︎
-
Ad esempio, del tutto assimilabili appaiono le locuzioni (a) e (b), mentre le locuzioni (c), (f) e (g) appaiono più quali caratteristiche minime di tutti gli altri casi. Anche per le locuzioni (d) ed (e) è possibile realizzare un accorpamento dato che appaiono essere del tutto analoghi. ↩︎
-
F. Santosuosso, op. cit., p. 75. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Di opinione critica è C. Flamigni, Il libro della procreazione. La maternità come scelta: fisiologia, contraccezione, fecondazione assistita, Mondatori, Milano, 2005, pp. 442-443: “esiste qualche divergenza per definire questo particolare tipo di affitto, (o di prestito) di utero (ma non solo), poiché i termini proposti non riescono a definire completamente e semplicemente le varie situazioni possibili”, dato anche che sarebbe certamente possibile parlare di “surrogazione di maternità” intendendo con questa locuzione tutte le pratiche mediche che mettano in atto una riproduzione sostitutiva di quella naturale. ↩︎
-
Sono cose differenti la “maternità surrogata” e l’“affitto d’utero”. Infatti, con quest’ultimo s’intende l’ipotesi in cui “la donna incaricata si limita a portare avanti la gravidanza” (A. B. Faraoni, op. cit., p. 21), “disgiungendo la maternità genetica dalla maternità uterina” (ivi, p. 22). ↩︎
-
I. Corti, op. cit., p. 3. ↩︎
-
Supra, p. 4. ↩︎
-
Scrive C. Shalev, op. cit., p. 69: “la diffusione delle tecniche di inseminazione tramite donatore fu favorita da una serie di considerazioni di confronto rispetto all’adozione come rimedio alla mancanza di figli, quali il rapporto genetico del bambino con la madre, l’esperienza della gravidanza come preparazione al ruolo di genitori, la soddisfazione del desiderio di maternità e la possibilità tecnicamente illimitata di avere numerosi figli”. ↩︎
-
I. Corti, op. cit., p. 4. ↩︎
-
V. A. B. Faraoni, op. cit., p. 23 e sgg. ↩︎
-
Scrive A. B. Faraoni, op. cit., p. 25: “l’individuazione delle moderne tecniche procreative, ed in particolare della maternità surrogata, ha permesso di risolvere numerosi ipotesi di sterilità, ma ha anche innescato un processo di progressiva apertura verso nuovi modelli culturali e familiari”, rendendo necessario un riflessione giuridica su queste nuove fattispecie. ↩︎
-
I. Corti, op. cit., p. 9 e sgg. ↩︎
-
V. A. B. Faraoni, op. cit., p. 25 e sgg. ↩︎
-
I. Corti, op. cit., p. 49. ↩︎
-
Supra, pp. 49-50. ↩︎
-
Benché l’antropologia moderna non sia del parere che la famiglia sia un modello universale, ma solo fortuito in virtù del quale, anche, secondo C. Shalev, op. cit., p. 41, diventava possibile per un gruppo familiare accettare membri estranei quali adottati. ↩︎
-
Le quali, attraverso la pratica dell’affitto dell’utero o della messa a disposizione del proprio organismo, potrebbero rendersi economicamente indipendenti, realizzando nel contempo una modalità d’azione differente dagli uomini, valorizzando la loro specificità. ↩︎
-
L’elemento patrimoniale è quanto spinge C. Shalev, op. cit., p. 16 ad invocare il riconoscimento degli accordi di maternità sostitutiva “quali contratti di procreazione giuridicamente vincolanti”. ↩︎
-
M. L. Ricci, Tecnologie della riproduzione: procreazione e qualità della vita. II. Aspetti bioetica, in E. Sgreccia — M. L. Ricci, op. cit., p. 39: “il modo in cui scegliamo di rapportarci all’embrione è rivelativi del tipo di relazione umana che sta a fondamento dei rapporti sociali in genere”. ↩︎
-
M. L. Ricci, op. cit., p. 32: “astrarre l’organo, i gameti, l’embrione dalla storia umana porta alla loro disumanizzazione. Questo aspetto del fare biologico non è rrilevante, perché rende possibile la interscambiabilità: un utero può essere sostituito con un altro; dunque sembra legittimo vincere la sterilità grazie a madri, dette portatrici, che cedono il figlio appena partorito alla donna che lo ha commissionato”. ↩︎
-
M. L. Ricci, op. cit., pp. 32-33: “sembriamo dimenticare che la persona umana si caratterizza per l’unità inscindibile delle sue dimensioni — biologica o fisica o organica, psichica e spirituale — che si manifesta unitariamente nella corporeità”. ↩︎