Francesca Brezzi, Antigone e la Philia. Le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, Milano 2004.
«Nacqui a legami di amore non di odio» (Antigone, v. 523). Con questa affermazione, da parte dell’omonima eroina della tragedia di Sofocle, è possibile raccogliere la globalità dei molteplici fili che, alla confluenza della vasta letteratura critica, ed interpretativa, sul soggetto, Francesca Brezzi discute ed esamina nel suo testo.
L’autrice articola il proprio esame in due parti: la prima (p. 15 e sgg.), dedicata al nodo problematico dell’interpretazione della figura di Antigone nella storia della filosofia, con un occhio di riguardo al problema filologico in merito al tema del “tragico” (p. 22 e sgg.), il molteplice discorrere del rapporto Mythos e Logos (p. 17), e una seconda (p. 163 e sgg.), volta a cogliere l’aspetto più intimo, ma non per questo meno importante, della pietas che anima l’eroina nel suo opporsi, essendo un’alterità che richiede di essere riconosciuta come tale, portavoce «di un ethos che supera quello tribale nazionale» (p. 71), a Creonte, cieco ed ottuso tiranno, incapace di saper cogliere le nascoste trame dei sentimenti, sino ad arrivare a costituire con lui uno «scontro etico» (p. 73).
I due palinsesti dell’opera interpretativa dell’autrice costruiscono un mosaico ove i vari autori, letterati e filosofi (Garnier; Alfieri; Holderlin; Hegel; Goethe; Brecht; Heidegger; Steiner; Ricœur; Bultmann, solo per citarne alcuni) che si sono interrogati sul mistero di Antigone, «figura che continua ad essere sfida per il pensiero» (p. 274), «tragedia che esprime il paradosso dell’esistenza umana» (p. 139), costituiscono una serie di immagini sui vari fronti della ricerca filosofica sino al secolo scorso durante il quale Antigone è stata pensata non più come un elemento di rottura rispetto alle ragioni della politica (in genere contrapposte a quelle private), ma come cifra del rinnovato interesse da parte delle donne, in particolar modo delle filosofe (Zambrano; Irigaray; Nussbaum; Yourcenar, alcune ma non le minori), che hanno visto nella figura di Antigone una maniera diversa di confrontarsi con i problemi della realtà, una modalità d’azione che parte dalla differenza dell’eroina sofoclea, donna, rispetto a Creonte, uomo. Rivendicare l’esigenza del riconoscimento delle ragioni degli altri, specie nella modalità della iniziale differenza corporale, che rinvia ad una modalità di azione (politica e morale) già di per sé differente da quella maschile prevalente, pone l’esigenza di ripensare il rapporto, certo difficile, tra etica e politica.
Un compito portato avanti da donne, a partire dalla diversità del corpo di Antigone in cui diverso valore assume la pietas rispetto a quello che potrebbe assumere in Creonte.
È certamente una differenza ma non femminismo, è la richiesta di una modalità d’azione richiedente giustizia alla communitas, da cum — munus, relazione di reciprocità tra gli abitanti della polis, relazione di doveri reciproci, cor-relazione che non conosce ostacoli, limes, visibili ed invisibili, e in cui, in maniera nuova, si configura il rapporto tra la dike e il nomos (p. 83), responsabile della differenza antropologica amico — nemico, rispetto alla quale poca cosa sono la legge e i costumi (mores) degli uomini.
Da questo punto di vista, Antigone assurge a rivendicazione di una nuova maniera, in questo differente, di considerare la pratica umana della socialità. Ma questo in tanto accade in quanto assume la forma di una spinta imperiosa a ripensare (e, dunque, a riformulare) la cittadinanza, l’idea di appartenenza ad una comunità, accogliendo ragioni prima poste ai limiti della società, non perché da non far propri ma perché reietti (non riconosciuti) da una ragione (logos) estrinseca, ed incapace di pensare, così come di accettare, la diversità, la differenza, il cd. politeismo dei valori, rispetto ai quali, infatti, Antigone assurge ad emblema, a figura che incorpora plasticamente proprio queste esigenze della differenza.
Ma la tragedia sofoclea è anche luogo fertile di molteplice riflessione. Infatti, accanto alle due precedenti interpretazioni principali, etica prima e della differenza in seguito, distinta dalle ma non opposta alle precedenti, è possibile fornirne un’altra, individuare cioè un’ulteriore spessore nella (tragica) storia di Antigone dato che il suo contrasto «con Creonte può ulteriormente essere letto anche come inconciliabilità di piani: l’uno parla ed agisce nella temporalità, l’altra dell’eternità» (p. 84 e sgg.), offrendo chiavi di lettura interessanti anche sul piano teologico. Infatti, Antigone segue le leggi divine (il dar sepoltura ai morti, specie se parenti prossimi, è una legge divina) ma per questo stesso ella è (inconsapevolmente e senza alcuna ragione) colpevole: nel fare esercizio della propria libertà (scegliere di agire spontaneamente in un dato modo) lei scopre di dover pagarne la responsabilità. Emerge, dunque, il fronte teologico dello «scandalo di una responsabilità senza colpa» (p. 122). Dinamica che ricorda molto bene la condizione esistenziale dell’uomo che esercita il libero arbitrio facendo esperienza del malum mundi. Questa interpretazione, forte soprattutto nell’ambito del pensiero teologico protestante di inizio XX sec., consente di cogliendo nell’intreccio tragico anche tutta la problematicità contemporanea di una «teologia dell’assenza» o «molteplicità di teofanie» (p. 137), recuperando, particolarmente oggi in un’epoca di indifferentismo e di nichilismo, un’istanza alla teodicea persa nel fluire dei secoli. Infatti, le ragioni di Creonte e di Antigone, rispettabili in sé, nel piano esistenziale della tragedia sofoclea, «sono gli elementi di una dialettica non risolvibile» (p. 111), sino al limite estremo di Antigone eroina dell’Ade (dunque, dei morti) e (ma) rea nella polis (dunque, dei vivi), facendo esperienza della condizione particolarmente infelice di apolide (p. 116), di senza patria.
Allora Antigone non appare più l’eroina di una tragedia, ma la cifra atemporale, perché messaggera universale, di una società che non teme la pluralità, che sa essere forte ma “giusta”, che non discrimina ingiustamente, incarnando una philia capace di superare la questione «delle teologie rivali» (p. 283).
A ben vedere «non si tratta di una supplica […] ma la pretesa di far valere un diritto, di “fare la legge”» (p. 283), si tratta di esprimere «il disegno di una nuova cittadinanza» (p. 283).
Un messaggio che, com’è facile vedere, vale a maggior ragione per noi moderni alle prese con le sfide delle pluralità (culturali; religiose; di censo) e con la necessità di giustificare (o, fondare) l’autorità politica, indicando la via all’interno della quale sia possibile risolvere i molteplici paradossi della filosofia politica e giuridica (p. 277), rifondando l’ideale di convivenza umana nello spazio del politico.
È la sfida dei nostri tempi: vedere non più la «violenza come momento fondativo della polis» (p. 289), adeguando i valori illuministici della nostra cultura recente dall’astrattezza teorica (del loro essere teorizzati) al loro essere incarnato in persone (ovvero, il loro essere realizzati).