Recensione a Carolina Carriero, Il consumo della pop art

Carolina Carriero, Il *consumo della pop art*, Jaca Book, Milano 2003.

1. La problematica dell’oggetto e del corpo reificato nell’estetica pop

In questa nota critica vorrei centrare l’attenzione sul capitolo III del testo di Carolina Carriero, riguardante la corporeità: un tema che l’autrice elabora con grande efficacia alla luce della sua riflessione estetica sulla pop-art e sul linguaggio semiotico-sociale ad essa inerente. A livello metodologico l’analisi della Carriero è influenzata, come lei stessa afferma,1 da due piani concettuali: uno ermeneutico-esistenziale di origine chiaramente sartriana2 unito ad un’analisi semiotica di scuola post-strutturalista (evidente l’influsso della prospettiva di Baudrillard3); il secondo connesso ad una critica estetica dei processi comunicativi e sociologici della pop-art (con influenze del pensiero teoretico di De Martino4).

È utile a nostro avviso soffermarsi sull’impatto stesso sia del titolo dell’opera, sia dell’immagine della copertina5 dalla quale si colgono aspetti essenziali per comprendere la lettura, acuta e originale, che della pop-art propone l’autrice. La copertina riproduce l’opera intitolata Meat, dell’artista statunitense Roy Lichtenstein, che raffigura una bistecca stilizzata in tre colori essenziali: rosso, bianco e nero; in essa si trovano le caratteristiche più immediate della raffigurazione pop: l’oggetto è sospeso, decontestualizzato, la bistecca non è appoggiata su un tavolo o su un banco di qualche macelleria (come nello stile delle tradizionali nature morte), ma piuttosto esposta in uno sfondo spaziale vacuo, volutamente dereferenziato, che evoca una violenza sottile e glaciale come quella del prodotto alimentare che si incontra nei supermercati. L’oggetto in quest’opera aggredisce quasi l’occhio dell’osservatore, in un gioco planare di linee e colori privi di sfumature, colori violenti (il rosso del sangue), intriso dalle marcate nervature di un bianco asettico e freddo che raffredda l’impatto emotivo dell’oggetto e lo spoglia di ogni valore metafisico per confezionarlo pronto per un consumo virtuale: un consumo non tanto materiale, quanto simbolico.

La copertina rende chiara l’idea stessa del titolo dell’opera della Carriero, che a prima vista non ha bisogno di una parafrasi esplicativa. Esso risulta, infatti, estremamente chiaro, deciso, puntuale: Il consumo della Pop art. In realtà già sul titolo si dovrebbe riflettere in modo specifico, chiedendosi: qual è qui il significato della parola «consumo»? Il consumo, nell’esperienza estetica della pop-art, è quell’azione che sopravviene: «Quando sembra che non resti più niente da dire, niente da rappresentare, la consumazione artistica ci restituisce il rifiuto del prodotto e segno del consumo, quale residuo del già stato».6 Mentre l’arte classica, nell’accezione hegeliana7 del termine, ha rappresentato sé stessa (ma potremmo dire meglio la sua configurazione sociale) nelle forme estetiche del gusto,8 l’arte-pop, come arte contemporanea, tende a esibire più che rappresentare l’oggetto, e quindi a consumarlo nell’atto stesso di raffigurarlo attraverso un rovesciamento dialettico del gusto (per cui spesso raffigura mediante il dis-gusto). Ecco perché mi pare corretta la prospettiva semiotica dell’opera: è infatti attraverso tale prospettiva che si può comprende la funzione semiotica della pop-art, oltre il classico schematismo estetico di crociana memoria.9 Quella della pop-art è un’arte sui generis, almeno per il fatto (credo indiscutibile) che essa è stata l’arte che più di altre, nell’ambito dei movimenti novecenteschi, ha attinto direttamente dal linguaggio della prima pubblicità di massa: la reclame. La pop-art ha poi finito per esperire il rovesciamento sociale del concetto classico di opera d’arte in tutta la sua radicalità storica.

Tuttavia l’analisi della Carriero non si ferma a tale indagine semiotica: essa vuole tematizzare l’azione del consumo in rapporto al significato inter-soggettivo della medesima azione (al Mit-dasein heideggeriano). Quello che interessa all’autrice non è il significato dell’opera pop in sé stessa, ma l’azione perlocutoria che evoca l’arte pop sui destinatari medesimi attraverso un processo di reificazione10 della coscienza estetica stessa contemporanea. È significativa in tale senso la scelta dei titoli:

  1. Il trionfo dell’oggetto come esibizione del segno
  2. Il consumo semiologico dell’oggetto pop
  3. Il corpo-oggetto e la sua demarcazione in segno

Balza subito agli occhi un minimo comune denominatore presente nei tre titoli: il termine oggetto. Tale osservazione è determinante per comprendere che all’interno dell’opera è presente una continuità concettuale centrata su tre passaggi argomentativi fondamentali corrispondenti ai rispettivi capitoli:

  1. Il primo in cui si de-struttura l’azione creativa dell’oggetto pop, mostrando che l’artista pop non crea l’opera, ma la esibisce in varie modalità, che definirei con linguaggio informatico modalità ipertestuali.
  2. Il secondo in cui è presente un’indagine sociologica dell’atto del consumo dell’opera pop. Tale consumo è in rapporto all’idea di duplicazione industriale dei prodotti, in cui vive la contemporaneità stessa (questa è l’idea ossessionante di Warhol11); tale analisi è impostata, come è stato notato in un’altra recensione al medesimo testo,12 su tematiche concettuali mutuate dal rapporto tra coscienza umana e mondo di Sartre.13
  3. Il terzo momento (che a noi interessa particolarmente in questa sede) è quello che si può chiamare organico: il momento in cui l’opera pop esibita e decostruita nei suoi dettagli semiotico-sociali torna a vivere sotto le sembianze di una corporeità vitale problematica e a volte drammatica, riflesso della condizione esistenziale dell’umanità nella società di massa (tale modello sociale, come avvertirono genialmente i francofortesi, tende ad una reificazione totale della coscienza vitale14).

Si può quindi dire che l’originalità della lettura della Carriero sta nel fatto essa traccia una sorta di geneaologia del concetto di pop art mediante la complessa rete della dialettica comunicativa che tale arte ha creato con il pubblico stesso o, più esttamente, con la società di cui fa parte. Tale genealogia non è impostata nella modalità dialettica classica soggetto (artista) — oggetto (opera), non è dunque una tematizzazione che si concentra sui singoli artisti, ma al contrario su una diversa modalità: una modalità argomentativa in cui è l’oggetto pop ad essere al centro del discorso. È tale oggetto che prima si dis-articola e poi si ricompone nel processo di fruizione sociale degli artisti pop, più o meno abili a dar voce a un processo comunicativo in cui si realizza lo svanire stesso del concetto di artista soggettivo come creatore di opere (in senso analogo allo svanire del soggetto nell’analisi baudrillardiana15).

2. Il concetto di «esibizione del segno» come genealogia dell’oggetto

Il concetto centrale del percorso critico dell’autrice è quello di esibizione, in quanto la pop art non fa altro che esibire la datità degli oggetti in sé stessi, presi nella loro gratuità esistenziale (affine alla gratuità sartriana della nausea). Prima ancora occorre riflettere sul significato del termine «oggetto», poiché è in esso che la pop art si specifica come arte diversa dal realismo ingenuo e dalla semplice raffigurazione mimetica della natura stessa. Interessante a riguardo ciò che scrive l’autrice: «È il mondo che recuperato dall’Informale nella propria, precaria, esistenzialità, si offre ora come coagulato nello spessore dell’oggetto che avanza (obicere-se). Alle forme aperte verso la terra seguono quelle chiuse e fredde di un soggetto che non intenziona più la natura, come ancora nell’Informale, ma coglie nel processo artistico i segni manifesti dei prodotti tecnologici».16

Il mondo allora è una dimensione olistica in tale estetica pop, nella quale la tecnica industriale benjaminianamente riproduce in serie le cose, recuperate proprio nel loro divenire oggetti in una natura mediata dal capitalismo e dalla società di massa spersonalizzante.17 Ciò che occorre chiarire è dunque il significato di «oggetto» nell’estetica pop: nella lettura della Carriero esso è definibile proprio nel processo di esibizione che gli artisti pop effettuano dei medesimi oggetti, decontestualizzandoli e ricontestualizzandoli mediante un preciso percorso estetico (passaggio dal colore-materia al colore-oggetto18).

Cerchiamo ora di chiarire mediante un’indagine etimologica la complessa valenza semantica del termine oggetto. La parola italiana oggetto deriva etimologicamente, come è evidente, dal termine latino obiectum, che deriva a sua volta dal verbo obicere. Tale verbo in latino ha varie aree semantiche, che noi possiamo in italiano schematizzare in almeno cinque fondamentali:

  1. gettare davanti, porre avanti, offrire, esporre (cfr*. noluerunt feris corpus obicere*, Cic.)
  2. contrapporre, opporre, frapporre (nel lessico militare cfr. pro vallo carros obiecerant, Caes.)
  3. obiettare, rinfacciare, rimproverare (cfr. ignobilitatem obicere alicui, Cic.)
  4. presentare, proporre, offrire
  5. produrre, suscitare, procurare (cfr. obicere virtutem in animos, Sen.)

Questa rete di significati rende giustizia allo sforzo speculativo e critico dell’autrice, che propone una critica del concetto di «oggetto» nell’estetica pop contemporanea molto puntuale e meticolosa, mostrandone tutta la complessità referenziale e autoreferenziale; tale complessità è a sua volta il riflesso della complessità della società di massa americana in cui la pop art stessa si manifesta. L’oggetto della pop art è oggetto in senso strutturato secondo tutte le modalità semantiche sopra enunciate. Infatti potremmo dire che l’esibizione dell’oggetto (dalla bistecca di Lichtenberg fino all’ossessione della ripetizione di Warhol, ad esempio) attraversa un percorso semiotico che potrebbe essere analizzato attentamente a livello di semiotica cromatica e planare: è proprio il gioco dei colori plastificati e patinati a evocare la Stimmung della pop art nella percezione immediata dello spettatore. Riprendendo lo schema semantico del termine oggetto, vediamo ora come i vari significati possono essere ritrovati all’interno dell’analisi critica della Carriero.

L’oggetto come ciò che è gettato avanti e al tempo stesso offerto (al consumo semiotico)

Nel testo dell’autrice sono numerosi gli esempi di raffigurazioni pop che presentano tale modalità semantica. Due esempi significativi della raffigurazione dell’oggetto nella modalità dell’essere-gettato-avanti si trovano nell’opera di Jim Dine: «in Pala e Falciatrice (1961) e in Falce e Coltello (1962), questo si esibisce frontalmente, quasi faccia a faccia in cui il guardare senza vedere resta l’operazione fondamentale. La falce, la pala e il coltello sono infatti come sospesi rispetto a un piano uniformemente colorato e qui, come un palcoscenico, sono lo spazio e e la luce a decidere dell’ambiente…»19 Gli oggetti sono gettati avanti allo sguardo dello spettatore e al tempo stesso sono offerti al consumo visivo, che si manifesta nella modalità della serialità e della tecnica serigrafica di cui fa ampio uso Warhol. L’autrice con chiarezza scrive: «La quotidianità pop è invece l’apparente differenziazione nella ripetizione: l’hamburger o la lattina di Coca Cola, isolati sulla tela, sono infatti l’estrema significazione del processo di svuotamento della quotidianità, esibita come pubblicizzata.»20 L’essere offerto dell’oggetto pop è quello dell’oggetto del consumo, come atto culturale e non solo economico; ma in tale atto non c’è una contestazione del consumo (in senso critico, come nella concezione estetica adorniana ad esempio), al contrario c’è la celebrazione dell’oggetto-mito consumabile, secondo modalità diverse, e, al tempo stesso, di un soggetto spersonalizzato, inabissato nella vuota dialettica dell’in-sé assolutizzato a feticcio.21

L’oggetto come ciò che si contrappone, che si frappone

Tale seconda area semantica è presente nell’estetica pop, proprio perché l’oggetto esposto è esposto al rischio (voluto) della sua de-funzionalizzazione pratica.22 I passaggi argomentativi della Carriero sono molto suggestivi e significativi: l’oggetto pop è esibito in un’azione semiotica complessa, apparentemente elementare (come la tecnica serigrafica), ma in realtà molto più ampia (si può scomporre la figura in colori e in segni microstrutturali che hanno una valenza semiotica importante). Centrale al proposito è il par. 1.2 «Dal colore-materia al colore-oggetto»; l’autrice nota che: «È stato spesso trascurato uno studio sulla scelta e sulla tecnica del colore pop, privilegiandone piuttosto quello sull’uso del materiale (l’oggetto). Del sostantivo, vorrei dire, piuttosto che dell’aggettivo. Eppure negli anni sessanta il colore non può essere inteso come un aggettivo, un significante da riferire a un significato: esso stesso è sostantivo, cosa, oggetto. Più precisamente è quello dell’oggetto-segno della parabola pop».23 L’impostazione di tale analisi è fenomenologica: il colore è ciò che modalizza l’oggetto raffigurato (in questo caso esposto), il colore diventa quindi un quid semantico che assume un valore essenziale nell’esperienza della pop art. Non si tratta di comprenderne una simbologia, quanto l’effetto performativo che il colore assume nei confronti del messaggio raffigurato: nella pop art il colore dà la dynamis alla ripetizione seriale dell’immagine raffigurata (come nella Marylin o in Mao raffigurati da Wharol).

Si può quindi comprendere come il colore modalizzi l’oggetto-immagine raffigurato proprio come ciò che si contrappone (Gegen-stand). La Carriero nota che con la pop art il concetto di intenzionalità della coscienza24 muta, così come l’idea di colore assume una funzione totalmente diversa: «Il cromatismo, nell’arte degli anni sessanta, è intimamente legato alla simbologia dell’oggetto per esprimere la particolare «situazione esistensiva» del consumo. L’opera d’arte che non rimanda più all’artista né all’uomo permette al colore di aprirsi al mondo degli oggetti, sottolineando l’efficacia delle immagini quotidiane. I colori più frequenti sono appunto quelli «fondamentali»: giallo, azzurro e rosso (…) Nulla di più lontano, insomma, da quel rifiuto morale del colore proprio della borghesia del primo novecento, la stessa che preferiva al colore vivo e aggressivo i toni del grigio-malva e del beige25 Si acquisce la consapevolezza che il colore è una forza viva per il suo effetto psico-sociale, nell’ambito comunicazionale, e il gioco dei colori si inserisce nel quadro della rete semiotica su cui si determinano i rapporti produttivi e di consumo della società stessa.

In questo senso possiamo affermare che l’oggetto pop si contrappone al gusto estetico tradizionale (l’organizzazione dello spazio, della prospettiva, la scelta dei colori etc.): «Il barattolo pop […] non conosce alcun tempo trascorso o vissuto, non possiede un carattere individuale, ovvero non è personalizzato né appartiene a una dimensione artistica distinta da quella reale, cui allude appunto il supporto bronzeo».26 È quindi in un certo senso una sorta di prodotto che si offre come esibizione del processo d’astrazione dal reale individuale attuato dalla produzione in serie, la quale smaterializza quasi il senso di immediatazza materiale (il bronzo del barattolo della zuppa precotta di bacon e fagioli ad esempio) che pervade tutta la raffigurazione patinata dell’estetica pop.

La modalità della contrapposizione insita nel concetto di oggetto pop è evocata dall’autrice anche quando afferma: «La seduzione dell’oggetto pop non è però pubblicitaria, piuttosto è una malìa che sconcerta e disorienta, non invita all’acquisto ma produce un effetto di splendore e insieme di nausea per l’usura prodotto. Il consumo in realtà non può realizzarsi perché in qualche modo, ovvero in quello grottesco del fruitore divorato dal consumo, è derealizzato nel mai, paradossalmente convertito in mai più, dell’operazione mitica».27

L’oggetto esibito nell’obiezione, nel rinfacciarsi della realtà al soggetto del consumo occidentale

In che modo l’esibizione dell’oggetto nella pop art si può dire che rinfaccia un messaggio al soggetto consumatore del prodotto stesso? Commentando l’opera di Wesselman, l’autrice riflette sul significato di colori arancione e verde (che assumono tinte aggressive e acide) nelle opere di Wharol, notando che queste sono tonalità con un notevole potere semantico.28 La raffigurazione ossessiva, quasi paranoica, che Wharol dà degli incidenti stradali (che potrebbe richiamare in fondo un tema caro anche al cinema italiano29 coevo alle opere dell’artista newyorkese) è un segno dei tempi in tal senso. L’oggetto è mostrato nella sua provocatoria violenza, in cui muoiono esseri umani, reificati anch’essi nel gioco dell’immagine e mitizzati, come accadde in quegli anni a Marylin Monroe oppure a James Dean. Si può dire in questo caso che l’atto di oggettivazione della raffigurazione pittorica diventa un vero e proprio rinfacciare la violenza della morte violenta (l’incidente) attraverso un chiasmo di vita e morte della coscienza umana degli oggetti, tra gli oggetti, con gli oggetti. Tuttavia in Warhol non c’è assolutamente la sensibilità critica di un pensatore come Adorno in Minima moralia,30 in cui la coscienza singolare rinfaccia a sé stessa il proprio beschädigtes Leben31 nello stesso vivere in una società massificante e alienante. Wharol al contrario ricostruisce gli incidenti stradali con occhio fotografico all’interno di una temporalità che non è quella della circolarità dialettica, ma è quella del non-esser-mai: non c’è utopia e speranza trascendente nell’estetica pop. Osserva giustamente l’autrice: «Non si tratta di una riflessione sulla finitudine dell’esistenza, piuttosto di un’ossessione per la consumazione della putrefazione dell’oggetto-feticcio che è lo stesso soggetto consumatore (nella cultura pop è l’attività dello shopping a fondare l’identità del soggetto)».32 Questa ossessione per la putrefazione dell’oggetto-feticcio ha a che fare con la residualità della cosità delle cose (Dingheit der Dinge per dirla in lessico heideggeriano): tale residualità è quella del prodotto decostituito dal suo primato ontologico e razionale e gettato nel mondo, pronto al consumo. Il colore diviene a-logico, innaturale, quasi a-sensoriale: l’immagine morta, statica della fotografia viene ri-utilizzata continuamente attraverso un gioco di colori seriale, dove la ripetizione dà ordine alla dissonanza tra forma e contenuto.

Al termine di questa analisi, osserviamo che il richiamo al senso latino della parola «oggetto» non vuole essere monovalente: esso è solo una proposta di ricerca che può aprire una riflessione ulteriore. L’etimologia non deve avere la pretesa di comprendere una volta per tutte il senso assoluto di una parola. La parola oggetto è manifestazione di orizzonti ermeneutici e dialettici complessi e la proposta semantica da noi avanzata, non va, dunque, intesa come raccoglimento di un ipotetico senso originario della parola «oggetto».

Vedi anche a questo libro la recensione di Roberto Terrosi.


  1. C. Carriero, Il consumo della pop art, Milano 2003, pp. 10-11. ↩︎

  2. Interessante la connessione proposta tra l’autrice tra Sartre e l’estetica informale (Ibid., p. 32). ↩︎

  3. Cfr. J. Baudrillard, Il sogno della merce, Milano 1987, pp. 45-51. ↩︎

  4. C. Carriero, Il consumo della pop art, cit., p. 11. ↩︎

  5. Ci riferiamo all’opera di R. Lichtenstein, Meat, acrilico su tela, 1962, Los Angeles, Museum of Contemporary Art. ↩︎

  6. C. Carriero, Il consumo della pop art, cit., p. 20. ↩︎

  7. Si veda G.W.F. Hegel, Estetica, tr. it., Torino 1997, pp. 665-667. ↩︎

  8. Inteso nell’accezione kantiana. ↩︎

  9. Intendo qui specificamente le categorizzazione estetiche proposte da Croce incentrate sulla dialettica bello-non bello, gusto-non gusto (cfr. B. Croce, Estetica, Bari 1958, cap. II). ↩︎

  10. Cfr. M. Horkheimer — Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it., Torino 1997, pp. 68-74. ↩︎

  11. L’esempio più noto è la raffigurazione del volto di Marilyn Monroe. ↩︎

  12. R. Terrosi, Recensione a C. Carriero, Il consumo della pop art, in Dialegesthai, anno 5 (2003). ↩︎

  13. Importante per l’autrice la definizione sartriana di intenzionalità (vedi pp. 31-32). ↩︎

  14. Cfr. Th.W. Adorno, Teoria Estetica, tr. it., Torino 1975, pp. 348-349. ↩︎

  15. Si veda J. Beaudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano 1979. ↩︎

  16. C. Carriero, Il consumo della pop art, cit., p. 15. ↩︎

  17. Interessante un confronto con la tesi adorniana del rapporto tra natura e tecnica nell’arte (cfr. Th.W. Adorno, Teoria Estetica, tr. it., Torino 1975, p. 98). ↩︎

  18. Ibid., p. 31. ↩︎

  19. Ibid., p. 27. ↩︎

  20. Ibid., p. 28. ↩︎

  21. Interessante un confronto su tale tema con la classica tematizzazione di J.-P. Sartre, L’essere e il nulla↩︎

  22. «La coseità degli anni sessata si contrappone alla definizione heideggeriana di Zuhandenheit» (C. Carriero, cit., p. 22). ↩︎

  23. C. Carriero, Il consumo della pop art, cit., p. 31. ↩︎

  24. Il riferimento è soprattutto a J.-P. Sartre (C. Carriero, Il consumo della pop-art, cit., pp. 33-34). ↩︎

  25. C. Carriero, Il consumo della pop art, cit., p. 35. ↩︎

  26. Ibid., p. 36. ↩︎

  27. Ibid., pp. 37-38. ↩︎

  28. «L’arancione è il colore dell’offerta […] il verde è simbolo dell’amore per la vita della fertilità e della serenità; perché usarlo proprio per il tragico Green crash (1963)?» (ibid., p. 39). ↩︎

  29. Ad esempio pensiamo alla sequenza tragica del finale del Sorpasso di Dino Risi (1961). ↩︎

  30. Ad esempio nell’aforisma Non bussare↩︎

  31. Traducibile in italiano con vita offesa↩︎

  32. C. Carriero, Il consumo della pop art, cit., p. 32. ↩︎