I paradossi dell’arte nella Teoria estetica di Theodor W. Adorno

Teoria estetica è il compimento di tutta l’avventura che la filosofia di Adorno ha affrontato passando attraverso la politica, la sociologia e la filosofia teoretica. Solo l’arte può venire incontro all’esigenza di contrapporsi al mondo odierno, fondato sull’identità assoluta e sull’esclusione del diverso, ferito dalle traumatizzanti esperienze storiche del Novecento. La filosofia, passando attraverso la dialettica negativa, cede il testimone all’arte, si affida ad essa. L’arte e la filosofia rivendicano la loro necessaria complementarietà: «Perciò l’arte ha bisogno della filosofia, che la interpreta, per dire ciò che essa non può dire e che però può essere detto solo dall’arte, che lo dice tacendolo.»1

Teoria estetica è un’opera pubblicata postuma la morte dell’autore, e senza dubbio risente fortemente della mancanza di una rilettura e di una organizzazione tematica. È pur vero, però, che è essenzialmente il tema trattato ad impedire una rigorosa e rigida costruzione teorica, come era invece stato per Dialettica negativa. La struttura della Teoria estetica è una struttura «paratattica», che non procede in maniera ordinata e lineare, ma piuttosto segue un cammino a spirale, dove tornano problemi affrontati in precedenza e dove non si arriva mai ad una risposta esauriente relativa ad una certa questione. Le proposizioni adorniane, spesso interi paragrafi dell’opera, sembrano assai più vicini a Minima moralia che a qualsiasi altra opera strettamente filosofica; il lettore di questo straordinario volume è perciò da subito in difficoltà, soprattutto perché viene affrontata una quantità impressionante di tematiche e di problemi, fittamente intrecciati tra loro.

1. Forma e contenuto

La nozione cardine attorno a cui ruota l’intera Teoria estetica è quella di forma; l’opera d’arte, in Adorno, è quella res che, grazie al suo essere configurata formalmente attraverso una organizzazione non volta ad una finalità determinata, si contrappone al mondo delle res che caratterizza la società contemporanea, fondata su principi di consumismo e di identificazione forzata. La forma è ciò che garantisce all’opera un’autonomia dal mondo empirico, un distanziamento che è da subito anche una presa di posizione sul mondo, «L’arte prende posizione nei confronti dell’empiria proprio attraverso la distanza da quella.»2

L’opera d’arte, oggi, se vuole rivendicare il suo diritto all’esistenza, deve parlare del mondo, metterlo in discussione; per fare questo, l’opera non può assolutamente rinunciare al principio di autonomia, che solo permette ad essa di evitare la confusione col mondo al quale intende opporsi. L’autonomia viene garantita all’opera grazie al suo essere forma. È attraverso la sua autonomia che l’opera può e deve parlare del mondo, «Il carattere duplice dell’arte, come autonoma e come «fatto sociale», si comunica incessantemente alla zona della sua autonomia.»3

Per questo l’opera non deve assolutamente rinunciare a quella che è la sua conditio sine qua non, ovvero la sua indipendenza dal mondo, dalla politica, dalla teologia o da qualsiasi altra ideologia; la sua autonomia deve essere difesa fermamente, perché, come vedremo, è solo attraverso la sua autonomia che l’arte è in grado di dirci qualcosa del mondo. Dopo tutto, Adorno ripete più volte che sarebbe un errore gravissimo rinunciare all’autonomia dell’arte, conseguita dopo una sofferta secolarizzazione durata secoli, che ha portato l’arte ad una totale emancipazione dalla religione, svincolandosi da ogni funzione liturgica e celebrativa ancora sussistente fino al Rinascimento. Oggi, l’arte deve prendere posizione sul mondo, aprirsi ad esso, parlare del mondo a partire dalla sua forma, ovvero giungere all’eteronomia attraverso ed all’interno del suo essere monade, ossia del suo essere autonoma.

Il concetto di forma, su cui il filosofo concentra maggiormente le sue forze, acquista senso e può essere compreso solo se si concepisce in coppia con il suo opposto. Nella dialettica adorniana, in mancanza di una sintesi dei due termini in opposizione, ogni termine può valere e sussistere solo in corrispondenza dell’esistenza del termine opposto. Su questa dialettica negativa si fonda tutta la Teoria estetica, a partire dal rapporto tra forma e contenuto, che è lo stesso rapporto tra autonomia ed eteronomia, ovvero il suo essere fait social, fatto sociale.

Se spingiamo troppo oltre il discorso relativo all’autonomia dell’opera, se assolutizziamo il suo allontanamento dal mondo, si precipita inesorabilmente nel disinteresse nei confronti delle sorti di questo mondo, compiendo un atto di barbarie nei confronti di chi è stato vittima e di chi soffre a causa dell’ingiustizia del sistema vigente: «In virtù della sua rinuncia all’empiria — rinuncia che è insita nel concetto di arte, dunque non una semplice evasione bensì una legge ad essa immanente — l’arte sanziona il predominio appunto dell’empiria.»4 Questo è quanto accade nell’epoca dell’industria culturale: l’epoca dei romanzi rosa, delle telenovelas e dei film tutti uguali. Ciò che queste forme di «pseudo-arte» provocano, è una conciliazione col mondo vigente. Esse creano un’illusione, un mondo fantastico sul quale acquietarsi. Qui, la forma si fa mezzo del potere, strumento finalizzato al suo consolidamento, conseguenza del considerare in maniera a-dialettica il concetto di autonomia.

Alcune importanti manifestazioni artistiche del Novecento, d’altronde, hanno optato per una radicale eteronomia dell’opera, annullando lo stesso concetto di forma, giungendo alla completa confusione di arte e vita. Questo è ciò che è accaduto col Dadaismo, ed in maniera diversa, con l’arte di propaganda. Nel Dadaismo, l’opera si riduceva a res tra res, cosa tra le cose, ed in questo modo l’opera non era in grado di acquisire quel necessario distacco che solo permette un giudizio sulla realtà. L’arte di propaganda, invece, seppur manifesti una esplicita volontà di mutamento e critica, in realtà nel fare questo utilizza gli strumenti adottati dal potere vigente (la razionalità, la positività delle proposte, la rigidità dichiarativa), ed ottiene come risultato l’opposto di quanto si prefissava. L’arte che vuole opporsi al mondo vigente, fondato sull’identità assoluta ed integrante, che esclude la diversità e che è risultato capace delle tragedie del secolo scorso, quest’arte non può assolutamente essere un’arte positiva. Proporre un nuovo ordine, una nuova ideologia a quella imperante, non può cambiare il mondo, ma reiterare le strutture presenti oggi.

In quanto l’opera d’arte non ha mai immediatamente a oggetto la realtà, non dice mai, come invece di solito la conoscenza: le cose stanno così, bensì: ecco come vanno le cose. La sua logicità non è quella di un giudizio predicativo bensì della coerenza immanente: solo passando attraverso questa […] l’opera prende posizione. […] L’opera d’arte non enuncia giudizi; diventa giudizio nel suo complesso.5

fino a sentenziare che è «meglio niente più arte che non il realismo socialista.»6

L’arte, oggi, deve portare il caos nell’ordine, e per fare questo deve farsi arte negativa, negazione determinata del mondo. E se il mondo è chiuso nella sua razionalità irrigidita, se la società attuale si fonda su un principio di avversione per il diverso e di assoluta identità con se stessa, l’opera dovrà portare scompiglio in questa struttura, essere l’altro da questo: «nella società totale l’arte deve piuttosto portare il caos nell’ordine che non il contrario.»7

l’arte è e deve sempre restare altra dalla vita e ogni tentativo di assegnare all’arte il compito di trasformare la vita è giudicato velleitario. La confusione tra arte e vita infatti finisce col misconoscere ciò che fa di una res un’opera d’arte.8

In Adorno, autonomia ed eteronomia dell’opera fanno tutt’uno; una non può stare senza l’altra. Se l’arte vuole — ma soprattutto, oggi, deve — parlare del reale, lo può fare solo a partire dal suo essere forma, ovvero dal suo essere altro dal mondo, dalla sua autonomia, intrinseca nella stessa idea di opera d’arte. Lo stesso rapporto dialettico-negativo tra autonomia ed eteronomia, lo ritroviamo nella relazione tra forma e contenuto, anch’essa una relazione dialettica di identità e differenza.

Tanto è banale la separazione di forma e contenuto rispetto all’opera d’arte quanto è debole la conferma astratta della loro identità: solo quando questi due aspetti vengono distinti possono essere definiti come un unico tutto. In quanto mediati essi vengono mantenuti pur nella loro distinzione.9

Vediamo più da vicino la relazione che intercorre tra le due. Forma e contenuto sono identici: non c’è possibilità di scindere le due categorie senza finire in qualcosa che si ponga esteriormente all’opera stessa. Sono i mezzi formali che costituiscono l’opera, il suo essere così e non altrimenti, la configurazione degli elementi — linee e colori nella pittura, le parole nella letteratura — a parlarci ed a generare dal loro interno un contenuto che non si esaurisce nel significato diretto che esse esplicano — questo è l’errore commesso, ad esempio, dall’arte di propaganda, basti pensare al teatro rivoluzionario di Brecht. In un ambito diverso (ma neanche troppo) un altro grande pensatore di quegli anni dirà qualcosa di simile, riferendosi al mondo della comunicazione e dei mass media: Marshall McLuhan sosterrà che «Il medium è il messaggio».10 La forma si fa medium del contenuto, l’unica opportunità che ha quest’ultimo di ri-velarsi e di comunicarsi allo spettatore. L’arte moderna deve dedicarsi radicalmente alla forma, e non tentare la separazione tra essa ed il contenuto, magari per ragioni di chiarezza; artisti come Beckett e Klee si pongono proprio su questo livello, ovvero intendono mettere in moto la riflessione ed il pensiero dello spettatore non per merito delle «trama» o del «simbolismo» che viene enunciato nelle loro opere, ma piuttosto attraverso la modalità formale attraverso la quale queste opere emergono: «a partire dalla fine dell’Ottocento, è diventata sempre più importante la nozione di «forma» artistica, con la conseguenza di spingere in secondo piano, fino quasi a farlo scomparire, l’elemento contenutistico dell’opera d’arte, cioè il suo «messaggio».»11 La riflessione viene «montata» con la forma. Questo è ciò che distingue Beckett da Sartre, nonché Schoenberg da Strawinsky. I primi due stravolgono la forma, e la forma si fa testimonianza di un ordine perduto, di una mancanza di senso e di uno stato di mortificazione e nevrosi propri della vita odierna; i secondi possono magari pensarla allo stesso modo, ma non esprimono tutto ciò nella forma, bensì nel contenuto, diversificando le due cose e distinguendole nettamente. Le loro opere hanno messaggi che però tentano di essere comunicati attraverso una forma classica, tradizionale. In questo modo, e già l’abbiamo visto riguardo al realismo socialista, il loro messaggio e contenuto si reifica e diventa formula dichiarativa, positiva. La loro arte non è negativa, e non fa che riproporre gli stessi mezzi diffusi nella società attuale, utilizzati dal potere per consolidare la propria posizione.

Però, forma e contenuto sono differenti: se il contenuto si esaurisse nella forma completamente, allora l’opera non avrebbe più nulla da dirci. Ci basterebbe osservarla — o leggerla — un’unica volta per comprenderla e trarne il senso ultimo e la verità finale. Sarebbe una res come le altre, non ci soffermeremo più dinanzi a lei, non sarebbe in grado di parlarci nel corso dei secoli. Eppure, la Divina Commedia continua ad essere interpretata e letta a distanza di secoli, e la pittura del Rinascimento una fonte inesauribile di significati ed interpretazioni. Il contenuto, pur dandosi nella forma, e potendosi offrire solo attraverso la forma, mantiene però uno scarto.

La forza dionisiaca dell’informe, lo spirito dell’opera, si offre solo attraverso una forma apollinea, un qualcosa di configurato che ha esistenza concreta e sempre identica a se stessa, ma esso contenuto e spirito, non essendo nulla di materiale ed avendo a fondamento della sua stessa esistenza il suo perpetuo essere altro da sé, non può fossilizzarsi in un perpetuo essere uguale a se stesso assunto dalla forma. L’opera dice se stessa, ma nel suo dire se stessa dice sempre qualcosa di nuovo essendo animata dall’interno, vivendo di una temporalità interna che è il suo contenuto sedimentato: «Se l’arte si oppone all’empiria mediante il momento della forma — e la mediazione di forma e contenuto non è concepibile senza la loro distinzione — allora la mediazione va ricercata abbastanza in generale nel fatto che la forma estetica è un contenuto sedimentato.»12 Gli elementi dell’opera si caricano dei significati che la storia gli offre nel trascorrere degli anni; questi significati si stratificano negli elementi formali, si radicano in essi. Questa sedimentazione fa sì che la forma stessa si offra come contenuto sedimentato. Questo contenuto resta l’altro dell’opera, la sua invisibilità che giunge al visibile solo poco a poco, sempre in maniera diversa. È la storia che passando ha lasciato qualcosa; sono gli occhi degli spettatori, degli interpreti che hanno segnato quelle linee e quei colori. L’opera dice se stessa, perché d’altronde non rimanda a nulla che non sia al suo interno; e insieme l’opera riesce a dire qualcosa del mondo ed a essere fatto sociale — ovvero eteronoma — proprio perché ciò che dice è il suo contenuto sedimentato, proveniente dal mondo, sedimentato all’interno.

Il contenuto di verità dell’opera è direttamente connesso perciò alla storia: vedremo in un capitolo successivo di quale storia si tratti; qui ci basta sottolineare come sia proprio attraverso questa formidabile formula, ovvero «contenuto sedimentato» che forma e contenuto vengono posti in relazione dialettica, ed in rapporto di identità e differenza. Dal momento che il contenuto dell’opera ha direttamente a che fare con la storia, con l’epoca in cui è stata realizzata, ma soprattutto con l’epoca in cui viene interpretata, insieme alle sue dinamiche sociali ed ai mutamenti che coinvolgono ogni singolo individuo, l’opera si carica di significati perché partecipa al tempo; è legata al tempo ed al fluire della storia, e non pretende di elevarsi dal mondo. Ma la storia, scaricandosi nell’opera, deve necessariamente stratificarsi in ciò di cui è composta l’opera, ovvero l’opera stessa, la sua forma.

Proprio in quanto rappresentazioni le opere d’arte, pur essendo chiuse in sé stesse, rappresentano il loro altro e di conseguenza sono tanto più autentiche quanto più si affidano al contenuto storico del loro tempo, senza la presunzione di essere al di sopra del tempo stesso. Se dunque il contenuto di verità è storico, questo dipende dal fatto che la storia è immanente alle opere, sì che ciò che le opere d’arte dicono attraverso la configurazione dei loro elementi significa in epoche diverse cosa diverse e questo ha conseguenza sul loro contenuto di verità. Di qui, inoltre, l’impossibilità di una costruzione a senso unico della storia dell’arte.13

Per comprendere questa complessa dialettica tra forma e contenuto, Adorno utilizza, oltre alla nozione di «contenuto sedimentato», un’altra felice espressione che rende bene l’idea: l’immagine artistica è Apparition, Apparizione. L’opera è apparizione, perché come tale ha qualcosa da dirci che non è visibile e materiale, ma che può essere detto e perciò ascoltato solo attraverso una visibilità. Se togliessimo il «velo» dell’apparizione, non giungeremmo al contenuto, all’altro dal visibile, all’invisibile, alla verità finale; se togliessimo il «velo» dell’apparizione, se togliessimo la forma, toglieremmo l’opera, e non avremmo più nulla sotto gli occhi. Le opere, in quanto manifestazioni del loro contenuto sedimentato, sono apparizioni che rimandano solo a loro stesse. Le immagini artistiche sono rappresentazioni, ma non di qualcosa di esterno, non del mondo o di modelli appartenenti alla realtà, bensì rappresentazioni di se stesse, perché di volta in volta, la forma rappresenta il proprio contenuto sedimentato, sempre nuovo e differente perché partecipa alla temporalità ed alla storia.

2. Spiritualizzazione e configurazione

La partecipazione alla temporalità da parte dell’opera presuppone il fatto che l’opera non si acquieti mai in uno stato di assoluta identità con se stessa. La storia, assorbita dalla forma e stratificatasi in essa, nel suo emergere mantiene però sempre uno scarto, un qualcosa che non raggiunge la superficie della visibilità, che resta altro e che può emergere solo nel corso del tempo: «Per chi le contempla con pazienza le opere d’arte si mettono in movimento.»14 A mettere in moto l’immagine, a fare dell’immagine un motore di significati sempre nuovi e differenti, è proprio la mancata identificazione tra forma e contenuto nel momento del loro reciproco compenetrarsi. L’opera d’arte è quella res che si distingue dalle altre res in quanto ha una forma, ed avendo una forma è in grado di generare un «di più». Il significato della res opera d’arte non si esaurisce in un uso determinato particolare, o in un messaggio di dimensione meramente comunicativa e denotativa, ma il suo significato mantiene un fondo inesauribile di senso. Essa ha carattere di «enigma». Il contenuto mantiene sempre uno scarto dalla forma; la comprensione di un’opera d’arte è inesauribile proprio in merito al suo essere «di più» rispetto alla forma. Il rapporto di reciprocità tra forma e contenuto si ripropone nello statuto di esistenza di questo «di più»: esso esiste nel suo sottrarsi, e nel dire e disdire dell’opera si mostra mostrando contemporaneamente la sua inafferrabilità: «In ogni opera d’arte genuina appare qualcosa che non c’è.»15

Il contenuto di verità, perciò la verità stessa dell’opera, scorre proprio in questo «di più», ed appunto perciò non può sottostare a nessuna comprensione concettuale o conclusiva. La verità, nell’arte, viene solo sentita, colta indirettamente attraverso la forma. Il non-fatto della verità, la sua non-oggettualità, può essere scorta dall’uomo, sentita e partecipata solo in quanto passa attraverso la fattività della forma stessa, il suo concreto essere presente. Come Adorno aveva già teorizzato in Dialettica negativa, è sempre e solo dal sensibile che si sviluppa la verità, è sempre l’oggetto concreto, l’ente, la forma a permettere che l’opera si animi. Non si dà verità senza sensibile. Il rimando a Nietzsche ed a tutta la sua filosofia, che rivalutava la sensibilità e la poneva in prim’ordine rispetto alla trascendenza, è lampante. Lo stesso rapporto paradossale che si instaura tra forma e contenuto in Adorno, era alla base del pensiero di Nietzsche ne La nascita della tragedia. In questa opera imprescindibile per comprendere tutta la storia dell’estetica moderna e contemporanea, Nietzsche utilizzava le due categorie estetiche di apollineo, legato ad Apollo, dio della forma e della presenza, della bellezza e della luce, e del dionisiaco, legato a Dioniso, dio senza forma, che sempre sfugge alla visione, discendente degli dei ctoni, gli invisibili dei della terra; Dioniso, dio della spiritualità e del pathos, ha bisogno di Apollo, il dio del logos e della parola, anche solo per essere detto, intuito o lontanamente compreso, anche solo per manifestarsi. Ma per quanto si offra alla forma apollinea, il dionisiaco continua a sottrarsi alla presa del logos. Mantiene una distanza, uno scarto, un «di più» rispetto ad esso, e tuttavia per manifestarsi ha bisogno, Dioniso stesso, della forma. Lo spirito ha bisogno della materia, così come la verità ha bisogno della presenza sensibile. Ci troviamo all’interno di un circolo che non può essere compreso e liberato della sua paradossalità: «un legame di fratellanza fra le due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso.»16

Tornando ad Adorno, vediamo come l’immagine nella sua teoria possa mettersi in movimento attraverso un processo di spiritualizzazione che coinvolge tanto la forma quanto il contenuto. Il termine di spiritualizzazione compare in Adorno affiancato alla nozione di «di più». La forma artistica, dal momento che fa «esplodere» i suoi contenuti dall’interno della sua forma, e dal momento che questi contenuti appartengono alla storia ed al tempo, essa forma si mette in moto, e sviluppa un’incessante fluire di rappresentazioni e contenuti sempre differenti, sempre relazionati al periodo storico nel quale emergono. L’opera si fa negazione determinata dell’esistente proprio in quanto è spiritualizzazione: il mondo, nella sua rigida struttura identificativa, rifiuta ciò che si pone al di fuori delle sue categorie e delle sue norme. Solamente l’elemento di spiritualizzazione, che implica imprevedibilità, incontrollabilità e perpetuo fluire, permette all’opera d’arte di farsi negazione dell’ordine vigente. Dinanzi alla barbarica razionalizzazione del tutto imposta dal mondo, l’arte ha il compito di portare il caos. Ed è per questo che Adorno preferisce parlare di «spiritualizzazione» e non di «spirito», termine quest’ultimo che farebbe subito pensare alla filosofia hegeliana. Il concetto di «spirito assoluto», così come era pensato dall’idealismo, non comporta l’apertura verso il differenziarsi da sé, ma implica la totalità, l’assoluta identità, l’idea suprema trascendentale e sciolta da legami col contingente: «Puntata contro il momento sensuale, la spiritualizzazione si volge, spesso con cecità, contro la differenziazione a quella propria e che è anch’essa un fatto spirituale; in tal modo la spiritualizzazione diventa astratta.»17 Mentre la spiritualizzazione presuppone sempre gli elementi sensibili, gli enti attraverso cui manifestarsi nella sua dinamicità, lo spirito, pensato come idea trascendentale, è un’idea statica. Il concetto di spirito, perciò, è un atto di violenza, che è già proprio del sistema vigente fondato sul principio di identità ed invarianza: «La spiritualizzazione nell’arte deve superare una prova: deve dimostrare di essere superiore alla cultura affermativa e riconquistare la differenziazione oppressa; altrimenti degenera in atto di violenza operato dalla spirito.»18

L’immagine ha una vita, e come ogni vita è aperta all’indeterminato; essa si spiritualizza nella manifestazione di contenuti sempre nuovi. Se avessimo sostenuto che l’opera ha uno spirito piuttosto che essa si spiritualizzi, ciò avrebbe significato reificare il dinamismo dell’immagine, sostantivizzarla e devitalizzarla. L’emersione dell’alterità nell’opera è possibile solo in tale spiritualizzazione; l’immagine si mette in movimento dinanzi ai nostri occhi, riuscendo a stupirci sempre e comunque. «In nessun’opera d’arte il momento dello spirito è un fatto di esistenza acquisita; al contrario, in ciascuna quel momento è un processo, è spirito in formazione.»19

Quell’assoluta alterità, non pensabile, non osservabile e calcolabile, della quale Adorno ha cercato di parlare in Dialettica negativa, tale alterità, fondamento di ogni pensiero e di ogni divenire, ebbene, abita l’immagine artistica tramite il suo spiritualizzarsi e concretizzarsi nella forma, mantenendo sempre quello scarto di cui parlavamo. Seppur il contenuto si cristallizzi e venga compreso, una volta in un modo, una volta in un altro, in rapporto con la storia e la temporalità, c’è qualcosa d’altro del contenuto che è lì a un passo dalla nostra comprensione; è la certezza che ci sia sempre qualcosa d’altro che l’opera può continuare a dire, perché per ogni interpretazione e comprensione, in quanto l’opera si spiritualizza, resta sempre una ulteriore possibile lettura e contenuto ancora non giunto a superficie.

Le opere d’arte diventano manifestazioni […] di un altro. Il carattere di atto, a loro immanente, da ad esse qualcosa di momentaneo, di improvviso, per quanto possano essere realizzate come durature nei loro materiali. La sensazione di essere aggrediti, che si ha al cospetto di ogni opera significativa, registra questo fenomeno.20

L’opera è rappresentazione di se stessa: in questa proposizione, che rasenta la tautologia, è contenuto il nucleo per comprendere la nozione di «vita» delle immagini. L’opera rappresenta se stessa in quanto essa non resta mai identica a sé, pur restando tale. Ovviamente, anche in questo rapporto tra immobilità e mobilità dell’opera, siamo nuovamente di fronte ad un paradosso. È lo stesso rapporto dialettico che si interpone tra forma e contenuto. L’opera dice se stessa in quanto non è modello o copia di una realtà esterna ad essa; non rimanda a qualcosa al di fuori di sé. L’opera dice se stessa in quanto forma, immobile, configurata in quella determinata maniera e non altrimenti. Ma nel dire se stessa, e perciò nel suo avere una forma, l’opera ha un contenuto che si offre attraverso un processo di spiritualizzazione che impedisce che esso, contenuto, possa risultare identico e sovrapponibile alla forma. Grazie alla configurazione formale l’opera si spiritualizza; dire che l’opera rappresenta se stessa, significa dire che l’opera manifesta il suo contenuto sedimentato, ed in tal senso essa resta immobile, in quanto forma, ma allo stesso tempo si mette in moto, diviene dinamica, grazie al fatto che il contenuto sedimentato, intriso di temporalità e storia, non è mai identico a se stesso.

Ciò che [nell’opera d’arte] si manifesta è il suo tempo interno, la cui continuità viene fatta saltare dall’esplosione della manifestazione. […] Il contenuto delle opere d’arte può lecitamente chiamarsi storia. Analizzare le opere d’arte significa prender coscienza della storia immanente in esse immagazzinata.21

Affinché si possa parlare di inesauribilità dell’opera, del suo agire dinamicamente e del suo spiritualizzarsi, è necessario considerare l’altro polo della dialettica, ovvero il principio di identità necessario per qualsiasi movimento e divenire. Se il movimento si facesse idea assoluta, il sempre diverso si rivelerebbe un sempre uguale, un principio a-dialettico, che non può rendere giustizia al dinamizzarsi perpetuo dell’immagine. Affinché si dia movimento, è necessario ci sia un immutabile. Affinché possa essere detto che qualcosa è in divenire, che qualcosa muti, è necessario, appunto, qualcosa, che mantenga un principio di identità affinché venga riconosciuto nel suo mutare: «L’attimo del manifestarsi è tuttavia nelle opere l’unità paradossale o la situazione di parità fra ciò che scompare e ciò che si conserva. Le opere d’arte sono tanto qualcosa di immobile quanto qualcosa di dinamico.»22

L’immagine è in movimento in quanto è uguale a se stessa. Se l’immagine artistica si processualizza nel suo inesauribile fondo di senso, offerto dal suo spiritualizzarsi, questo lo deve esclusivamente al fatto che essa resta forma, identica nel corso dei secoli. L’immagine, l’opera è quella, e non un’altra; la sua «aura» — concetto proprio della filosofia di Benjamin — garantisce da un lato la sua immobilità, il suo hic et nunc, il suo essere così e non altrimenti, e dall’altro, proprio per questo, il suo mantenere una distanza, uno scarto che concede alla forma di prendere vita. Senza Apollo, non può darsi Dioniso; senza forma non può darsi spiritualizzazione.

Le opere d’arte sono essere solo «in actu» poiché la loro tensione non mette capo nella risultante di pura identità […]. D’altra parte solo come oggetti finiti, coagulati, esse divengono campo di forza dei loro antagonismi […]. La loro natura paradossale, lo stato di parità, nega se stessa.23

La configurazione tecnica, l’organizzazione degli elementi formali sono il fondamento di qualsiasi immagine artistica. La filosofia adorniana rifiuta qualsiasi idealismo; ciò che conta nella sua Teoria estetica è proprio la forma, ovvero la configurazione che gli elementi formali generano in fase di composizione, e che determinano un processo di spiritualizzazione che scaturisce dall’interno proprio della forma. Ma il momento logico e razionale della composizione formale resta l’unica condizione di esistenza per un contenuto di verità: «Secondo Adorno, nelle opere d’arte l’elemento artistico appare soltanto attraverso la mediazione di un materiale totalmente strutturato.»24 Adorno la chiama anche coerenza dell’opera: è il momento della creazione, della capacità tecnica, dell’organizzazione dell’immagine così e non altrimenti. L’arte genera senso, un senso variegato, molteplice, che si lascia trasportare dalla storia, che si contamina con essa, proprio in quanto esiste come»fatto». Il «non-fatto» della verità può essere «sentito» solo passando attraverso la fattività della forma stessa.

nella paradossalità del tour de force, di rendere possibile l’impossibile, si maschera la paradossalità estetica in assoluto: come cioè un fare possa portare alla manifestazione un non fatto; come ciò che in base al proprio concetto non può essere vero, possa tuttavia essere vero. Ciò è pensabile solo del contenuto artistico in quanto distinto dall’apparenza; ma nessun’opera d’arte ha il contenuto per altra via che attraverso l’apparenza e nella configurazione propria dell’apparenza. […] l’apparenza è cosa materiale.25

Di tutti i paradossi dell’arte quello più intimo è certamente che essa coglie il non fatto, la verità, unicamente tramite il fare, tramite la produzione di opere particolari in sé specificamente e integralmente formate […]. Le opere d’arte stanno in estrema tensione col loro contenuto di verità. Questo, privo di concetto, mentre non appare altrimenti che nel fatto, pure nega il fatto.26

Così come, nell’Adorno della Dialettica negativa, può darsi pensiero solo attraverso l’ente concreto che si offre alla riflessione, così come nell’Adorno della Metafisica, può darsi movimento solo in relazione a qualcosa che non muta e resta immobile, così, nella Teoria estetica, l’opera può dirsi temporale e dinamica solo in relazione al suo avere forma, e perciò al suo essersi organizzata in quella data maniera. È il momento razionale dell’opera. La forma è formazione integrale, configurazione determinata una volta per tutte; unità nella particolarità.

le opere integralmente formate […] sono le opere veramente realistiche in quanto sono realizzate in se stesse e in virtù di questa realizzazione soltanto attuano il loro contenuto di verità, il loro elemento spirituale, invece di limitarsi a significarlo.27

La trascendenza del contenuto di verità è reso possibile solo attraverso la costruzione della ragione soggettiva. Questo è il paradosso dell’opera: essa nasce come atto della tecnica, ovvero manipolazione del caso e della natura che soggiacciono a delle decisioni soggettive dell’artista. L’opera è messa da subito in rapporto ad una qualche finalità. Questo è il suo momento razionale: è la grandezza tecnica dei giganti della storia dell’arte. Ma tale momento razionale si oppone a se stesso, si fa violenza. Tale momento viene definito da Adorno anche «obbiettivazione»:

Uno dei paradossi delle opere è che esse, dinamiche in sé, sono senza più fissate, mentre d’altra parte solo attraverso il fissaggio vengono oggettivate ad opere d’arte. Come del resto, quanto più insistentemente le si osserva, tanto più paradossali divengono: ogni opera d’arte è un sistema di inconciliabilità. Il loro stesso divenire non riuscirebbe a mostrarsi senza fissaggio.28

L’opera finita rivela un contenuto di verità non calcolato, non calcolabile neppure dallo stesso artista, che resta esterrefatto dalla sua creazione, divenuta nel corso del tempo qualcosa di incredibilmente più ricco e denso rispetto all’idea iniziale ed al concetto di partenza. La tecnica è dominio sul materiale, ovvero attività cosciente e volontaria — fino ad un certo punto — dei mezzi messi a disposizione all’artista, ma, contrariamente a quanto accade nella società attuale, l’attività tecnica non è atto di domino forzato volto ad una determinata finalità: «l’arte mobilita la tecnica nella linea di tendenza opposta a quella su cui la tecnica viene messa dal dominio.»29

A questo punto l’approccio dialettico di Adorno raggiunge delle vette incredibili, provocando una vertigine che ne complica notevolmente la comprensibilità. Da un lato l’opera deve portare il caos nell’ordine costituito; l’ordine costituito è tale perchè fondato sul principio di identità e di chiusura totale, che rifiuta il diverso nella sua assoluta razionalità — derivante dalla cultura dell’Illuminismo. L’essere irrazionale dell’opera permette ad essa di opporsi alla razionalità della società attuale, e l’irrazionalità dell’opera si rivela nel suo avere un contenuto spirituale, nel suo spiritualizzarsi. Spiritualizzandosi, essa nega il principio di identità su cui si regge il nostro sistema sociale. L’opera è irrazionale, di contro alla razionalità del mondo, che regola i rapporti umani su principi di interesse economico, dove tutto è organizzato e finalizzato, e dove non c’è spazio per lo stupore e l’imprevedibilità. Il momento della spiritualizzazione è il momento irrazionale dell’arte: «Solo come spirito l’arte è contraddizione della realtà empirica e si muove verso la negazione determinata dell’esistente ordinamento del mondo.»30

Ma, ovviamente, non ci fermiamo qui; l’opera, per portare il caos, deve pur sempre avere una forma, configurata e pensata da un soggetto: «La razionalità è nell’opera d’arte il momento unificante e organizzante, non priva di relazione con la razionalità che domina all’esterno»31 L’assoluta irrazionalità sarebbe a-dialettica, sarebbe un assoluto che andrebbe a confluire nell’ideologia dominante. Invece accade ciò: il mondo attuale, fondato sull’assoluta razionalità, chiudendosi nella sua identità coatta, si capovolge su se stesso e manifesta tutta la sua irrazionalità. La razionalità assoluta, se esclude l’approccio dialettico con ciò che non si identifica con essa — ovvero l’irrazionalità — si rivela irrazionale; così come l’irrazionalità, viceversa, senza il principio razionale, viene integrato nell’identità assoluta.

Una razionalità onesta, giusta, in un mondo conciliato, non escluderebbe l’irrazionalità mettendola al patibolo. La razionalità attuale, è irrazionale: la società del benessere non fa che produrre nevrosi, infelicità, mentre la maggior parte della popolazione mondiale ancora soffre la fame. A questo mondo irrazionale, frammentario, che ha perduto qualsiasi senso e che si regola esclusivamente su ragioni di interesse spicciolo, sull’autoconservazione personale, sul disinteresse per le sorti del mondo, a questo mondo si contrappone l’opera artistica, sua unica negazione determinata. Al mondo irrazionale risponde la razionalità della forma artistica, la sua organizzazione in unità dei particolari formali, dove tutto partecipa alla totalità formale.

La rinuncia dell’arte alle pratiche magiche […] implica partecipazione alla razionalità. Che l’arte […] sia possibile in mezzo alla razionalità e si serva dei suoi mezzi è una reazione alla cattiva irrazionalità di un mondo che è razionale in quanto è amministrato.32

Mentre nel mondo empirico i particolari restano frastagliati e senza un legame che gli dia senso, nella forma artistica la molteplicità diviene unità nell’organizzazione. La parte è rivolta al tutto della conclusione, mentre nel mondo capitalistico, ognuno vive nel disinteresse per le sorti della collettività. Tramite il momento della spiritualizzazione, l’opera è negazione determinata dell’ordine razionale; tramite il momento della configurazione formale e razionale, l’opera è negazione determinata del mondo irrazionale, divenuto tale per eccesso di razionalità: «L’arte è razionalità che critica la razionalità senza sottrarlesi; non è un prefazionale o un irrazionale»33

3. Le specificità dell’arte moderna

Uno dei problemi più controversi al quale la Teoria estetica impone di imbattersi nel corso della sua lettura — che poi affiora come questione centrale ripetutamente nel testo — riguarda la distinzione tra la così definita «arte tradizionale» e «l’arte moderna». Questo è un punto centrale, perché Adorno sottolinea ripetutamente che oggi, in un’epoca dove lo stesso diritto all’esistenza dell’arte non è più una cosa ovvia, l’arte non può che essere arte moderna. La modernità a cui si riferisce Adorno non è quella diffusa nelle concezioni storiografiche accademiche, nelle quali l’arte moderna sorge col Rinascimento, nella fine del XV secolo, per giungere fino alla fine del XIX secolo; anzi, per Adorno, questa è proprio l’arte tradizionale. L’arte moderna di Adorno appartiene alla contemporaneità, l’arte che viene inaugurata all’indomani delle esperienze delle avanguardie dei primi del Novecento.

Risulta ovvio che gran parte delle cose che abbiamo detto nei capitoli precedenti non riguardano esclusivamente l’arte moderna, ma la nozione di opera d’arte tout court: la dialettica di forma e contenuto, ed il conseguente dinamizzarsi e spiritualizzarsi dell’opera sono propri a tutta la grande arte. Come possiamo negare che un qualsiasi affresco di Michelangelo abbia un contenuto sedimentato? La stessa Divina Commedia, nel corso dei secoli, ha generato sempre, dall’interno di sé, una quantità di letture ed interpretazioni innumerevoli, senza mai perdere la sua magnificenza ed importanza. Tutte le opere della grande storia dell’arte possono ritenersi immagini in movimento, vive, inesauribili per il loro contenuto di verità sempre in condizione di mutare e di manifestarsi in maniera sempre differente. Ma allora, in che cosa l’arte moderna segna una rottura determinante con l’arte dei secoli trascorsi? Adorno utilizza una gran quantità di nozioni e concetti riferendoli esclusivamente all’arte moderna, tentando di sottolineare quali siano i caratteri distintivi di quest’arte. Una di queste nozioni è quella di work in progress. L’opera d’arte moderna, a differenza di quella tradizionale, è un’opera che ha coscienza di se stessa; essa sa di essere opera, sa di doversi distinguere dal mondo che la circonda, ma allo stesso tempo sa — anzi, «deve» sapere — di essere comunque mediata da esso, e che necessariamente non può esimersi dal giudizio su questo mondo. Dal momento che l’opera ha coscienza di sé, essa conosce bene la sua impotenza dinanzi al mondo, nonché il suo ruolo.

Tutto questo, a differenza della gloriosa arte tradizionale, si riversa non già nel suo contenuto, bensì nei suoi elementi formali. L’opera è work in progress in quanto incompiuta: non pretende di essere terminata, di adempiere ad un dovere superiore e di essere perfetta. Se tutta la grande arte si pone sotto il segno dell’apertura, in quanto anche le opere della classicità restano opere vive e continuano a parlarci ed a stupirci, l’arte moderna ha coscienza di ciò, ed in questo averne coscienza riversa tale apertura anche nella forma. La linea non chiude, in pittura, il romanzo non chiude in letteratura. Il work in progress è la coscienza che ha l’opera della propria impotenza; la forma resta incompiuta senza pretendere il capolavoro. Il capolavoro presuppone fede nella durata eterna, la concepisce come cosa ovvia: «Lo sforzo di creare capolavori duraturi è sconvolto. […] il durevole è passato e ha trascinato nel suo turbine la categoria della durata.»34

La nozione di «capolavoro» è un’altra nozione, propria di tutta la storia dell’arte, che capitola senza possibilità di salvezza in epoca moderna: nell’arte moderna non si da, né può darsi capolavoro, ovvero opera compiuta, perfetta, che incarni in sé l’ideale della bellezza e della grandezza. Gli artisti moderni non fanno capolavori, in quanto le loro opere sanno di essere temporali, di appartenere alla storia, di «essere aperte» e perciò stesse vive. Tale work in progress genera un corto circuito che è una peculiarità dell’arte moderna: la forma è forma in formazione, non già forma formata. Il corto circuito sta proprio in ciò: la forma, seppur in formazione, manifesta il suo non essere giunta alla conclusione attraverso la forma. È una forma che non si identifica con nessun oggetto particolare; non è più copia e messaggio, bensì linea, colore, che galleggiano in una dimensione di estraneità rispetto al mondo. Eppure, nel fare ciò, il processo di formazione è bloccato nella forma, che resta comunque identica a se stessa: «In varie creazioni dell’arte moderna […] la forma venne tenuta aperta, con artistica abilità, perché esse volevano dar forma al fatto che non è più loro concessa l’unità della forma.»35 La forma dell’arte tradizionale è formata, organica, e per quanto possa mettersi in moto dato il fondo di verità di cui è portatrice, essa non sa della sua inesauribilità, non ne è cosciente. Ciò di cui è cosciente, è la sua grandezza, la sua bellezza, la sua perfezione, ma non sa di partecipare al tempo, di rinnovarsi, di vivere. Alberga in una dimensione di rivendicata assolutezza ed eternità, non si offre al tempo.

L’autentica arte moderna accoglie in sé, coscientemente e mostrando tale coscienza, sia il momento dinamico che quello statico: «Nell’arte moderna si trova cifrato il postulato di un’arte che non si piega più alla disgiunzione di statica e dinamica.»36 L’opera d’arte moderna è ontologicamente incompiuta, l’incompiutezza è in seno alla sua stessa idea, al suo stesso concetto. Fin dalla sua nascita, l’opera d’arte moderna sa della sua sconfitta.

Nella grande tradizione dell’arte del passato, è l’organicità conclusiva, spesso il messaggio a subordinare l’elemento formale. Il risultato finale di un capolavoro di Raffaello ci fa perdere di vista i singoli elementi formali che la compongono, proprio in quanto ogni singolo elemento è volto verso il tutto: il capolavoro e l’unità finale. Nell’unità finale però i mezzi formali perdono la loro specificità. Nell’arte moderna, in quanto cosciente dell’impossibilità di anelare all’assoluto e all’opera compiuta, i mezzi formali sono l’unica cosa che si offre alla vista dello spettatore. La linea di Klee è la protagonista dell’opera: essa non raggiunge una chiusura, non arriva ad una figura riconoscibile. La linea dell’arte moderna non intende raggiungere lo stato di forma formata, ma resta forma in formazione perché ha rinunciato alla possibilità di essere organica: «L’apparenza dell’arte, di essere conciliata con l’empiria eterogenea perché le dà una forma, deve rompersi; […] la negazione della sintesi diventa principio dell’attività di figurazione.»37 In ciò, una peculiarità esclusiva all’arte moderna è il mostrare il momento del suo prodursi, del suo farsi, elemento che nel corso di tutta la storia dell’arte era stato celato al fine di concentrarsi esclusivamente sulla compiutezza finale dell’opera: «In macroscopico contrasto con l’arte tradizionale, quella nuova mostra da sé all’esterno il momento, in altri tempi nascosto, del fare, del produrre.»38

L’opera d’arte moderna, oltretutto, ha anche coscienza del fatto che il messaggio, ovvero il contenuto, è sempre montato con la forma. L’elemento della riflessione, ed il suo fondersi con la forma, è un altro punto di distinzione dell’arte moderna.

Al fine di comprendere al meglio le differenze sostanziali tra arte moderna e tradizionale, prendiamo un paio di esempi concreti appartenenti a quest’ultima categoria: cominciamo con La Crocifissione di San Pietro di Caravaggio.

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L’opera, è innegabile, ha assorbito in sé tutta la storia ad essa successiva. Quest’opera è pregna di significati, tanto che, dopo quattrocento anni, ancora non smette di far emergere contenuti sempre diversi. Il suo statuto di capolavoro si rivela però in ciò: che ad imporsi alla visione è la sua bellezza.39 L’opera è costruita in maniera coerente, secondo assi compositivi riconoscibili; riconosciamo delle figure, degli oggetti resi con incredibile realismo. L’opera può piacere universalmente — per dirla con Kant — anche ai «non addetti ai lavori». La forma è compiuta, ed ha generato qualcosa di eterno e straordinario. L’elemento della riflessione sull’opera può avere un valore morale: l’opera può farci riflettere sull’idea di Dio, sul significato della morte e della sofferenza. Ma la bellezza e lo stato di perfezione dell’opera permette che essa continui ad esistere ed a legittimare la sua presenza a prescindere dall’elemento della riflessione. Ad una analisi accurata, possiamo benissimo dire che, ne La crocifissione di Pietro, ad uno stato di contemplazione — e perciò non di riflessione — data la sua natura di capolavoro, può subentrare ovviamente anche un processo di riflessione. Anche in quest’opera di Caravaggio, sono portato alla riflessione per merito della forma. La forma, anche qui, è contenuto sedimentato. Se Caravaggio non avesse organizzato in quella determinata maniera gli elementi formali, se non avesse costruito l’opera proprio intorno a quel contrasto di luce ed ombra tanto caratteristico, se non avesse dipinto il volto di Pietro mettendo in risalto il dolore e lo sconcerto, se non avesse affogato nell’oscurità i tre aguzzini impegnati all’atto infame di crocifiggere il santo, non ne sarebbe risultato un capolavoro, ed in caso l’opera avrebbe avuto una storia completamente diversa. Ma tutto questo l’opera non lo sa. La riflessione subentra in un secondo tempo. L’opera può anche accontentarsi di essere se stessa, dato il fatto che è principalmente un capolavoro che si offre alla contemplazione.

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Se osserviamo un’opera dell’arte moderna, però, le cose cambiano. Dov’è la bellezza in una tela di Klee? Come può un’opera del genere offrirsi alla contemplazione? In quest’opera, la riflessione è montata nella forma, è chiamata subito in causa. L’opera è costruita intorno alla riflessione, non esiste indipendentemente da essa. Lo spettatore è subito coinvolto, chiamato in causa per dare un senso a quella forma aperta, incompiuta. L’opera non può sussistere senza l’attività riflessiva di chi la guarda, cosa che invece, dall’altezza della sua maestosità e splendore, può fare una tela del Caravaggio.

L’opera moderna ha coscienza del suo stato di impotenza dinanzi al mondo, ed ha coscienza che nella nostra epoca non c’è più spazio per trionfalismi di alcun genere; qualsiasi tentativo di realizzare un capolavoro sul calco dei secoli passati sarebbe un’offesa nei confronti della storia e delle sue vittime, sarebbe come se niente fosse mai accaduto. Sarebbe, come vedremo meglio in seguito, agire come se Auschwitz non fosse mai esistito.

Il movimento dell’immagine artistica è una vita interna; la storia, sedimentandosi al suo interno, la arricchisce di significati; l’opera non smette di dire Altro dalla — o, meglio, della — forma, dicendolo comunque sempre e solo per tramite della forma stessa. L’opera è in movimento nella incessante produzione di contenuti e significati, che vengono alla luce per merito della configurazione formale, statica ed immobile. Tutto questo accade nell’arte moderna quanto — a maggior ragione — nei capolavori della storia dell’arte tradizionale. Ma l’opera d’arte moderna sa tutto questo, e lo riversa nella sua stessa struttura formale facendosi work in progress, rinunciando, nel fare ciò, alla bellezza ed alla possibilità di offrirsi alla contemplazione. In ciò, l’opera non solo «si offre» alla riflessione, ma la pretende, dato che si rivela essere la sua sola ragione d’esistenza. L’opera d’arte moderna non trova la sua ragione di esistenza nella sua magnificenza, ma nel suo perpetuo slittare nell’altro da sé, offerto dall’attività incessante del pensiero mai saturo. L’opera d’arte moderna non può autoappagarsi, non può godere di se stessa, ma è incessantemente altra da se stessa, e questa alterità le viene garantita dall’attività del pensiero riflettente che la mette in moto. In questo modo, l’arte, per continuare ad esistere, deve integrare in sé il momento dialettico della sua stessa negazione, farsi anti-arte, opponendosi a tutto ciò che il concetto di arte integrava prima di lei: «L’arte si è consegnata a questa dialettica con la concezione estetica dell’antiarte; non si può più pensare un’arte senza questo momento. […] l’arte deve oltrepassare il proprio concetto per restargli fedele.»40

4. Arte come testimonianza

«Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie».41 Così Adorno terminava un saggio scritto all’indomani della fine della seconda guerra mondiale. Sentenza lapidaria, su cui Adorno tornerà negli anni successivi, per sottolineare come, in realtà, la poesia, dopo l’orrore dei campi di concentramento, sia possibile, anzi, necessaria. Così come l’arte in generale, anche la poesia, se non vuole ridursi a «prodotto culinario», deve restare cosciente di quanto è accaduto, e non può esimersi dal dovere etico di essere testimonianza delle vittime della storia. Solo l’arte può donare la parola a chi ha subito l’imposizione di tacere; solo l’arte può raccontare e manifestare l’orrore, la sofferenza degli oppressi. Una poesia che facesse come se Auschwitz non ci fosse mai stato, sarebbe non solo offensiva nei confronti delle vittime, bensì anche e soprattutto pericolosa: diventerebbe prodotto integrato nella grande industria culturale, che è il cuore di quella società che ha determinato e permesso l’esistenza stessa di Auschwitz. Se l’arte rinuncia al suo essere «fatto sociale», se rinuncia al suo ruolo eteronomo di prendere posizione sul mondo, viene integrata da esso, concedendo al mondo che già si è reso colpevole dell’orrore, una ulteriore possibilità per ripetere ciò che è accaduto.

L’arte, in quanto negazione determinata, si oppone al mondo che ha permesso che Auschwitz esistesse; per questo l’arte si mette anche contro se stessa, dato che tutta la cultura, arte compresa, è responsabile della catastrofe a cui ha assistito il mondo intero. L’arte si fa portavoce di ciò che è stato escluso, eliminato nel nostro mondo; sono le vittime, coloro che sono stati tenuti fuori dal circolo soffocante della razionalità dominante. Le loro voci, le loro storie, la loro sofferenza non è materia della storiografia ufficiale o della cronaca. Primo, perché la storia e la cronaca sono sempre dalla parte dei vincitori, il tentativo di ricordare da parte della società odierna è pura ipocrisia. Secondo, perché il dolore e l’orrore non possono sottostare a nessun tipo di linguaggio dichiarativo: il dolore non si può dire, può solo emergere attraverso la forma artistica. Perciò l’arte, se rivendica a sé l’unica opportunità che le vittime della storia hanno per parlare, non deve fare ciò in senso esplicito. Adorno non promuove la letteratura che intenzionalmente racconti di Auschwitz, perché, come abbiamo visto in precedenza, un’arte dichiarativa, in quanto positiva, torna vittima del giogo opprimente dell’ordine vigente. La storia sedimentata nella forma è proprio la storia di sangue delle vittime, di coloro a cui non è stata concessa la parola. Per questo, in Adorno, Auschwitz ha un ruolo più grande di quanto si possa pensare. Auschwitz è uno spartiacque storico, dopo il quale la cultura, l’arte, la filosofia stessa non possono più essere gli stessi; ad Auschwitz si è rivelata la natura illusoria di qualsiasi teoria finalistica ed ottimistica della storia; ad Auschwitz l’orrore si è concretizzato in evento; ad Auschwitz il razionalismo assoluto ha raggiunto il suo acme capovolgendosi nella brutale irrazionalità dello sterminio.

La storia sedimentata nella forma non è la storia che possiamo leggere sui manuali scolastici, ma sono le voci e le vite delle vittime che risuonano come echi lontani. Per questo l’arte è Mnemosyne,42 ricordo degli oppressi ed omaggio alla diversità. Senza addentrarci nello specifico nel problema di Auschwitz, quello che maggiormente ci interessa in questa sede è notare come la questione della dinamizzazione dell’immagine abbia a che fare con la natura di testimonianza che è propria dell’immagine stessa. La forma, lasciando che la storia stratificata al suo interno emerga a poco a poco, comunica la sua storia, la sua memoria. Per ogni contenuto che viene alla luce, c’è ne sempre un altro che resta nell’oblio. Questo oblio è la condizione necessaria affinché un qualsiasi contenuto venga alla luce, ed è l’avversario contro cui l’arte oggi deve combattere: «L’oblio è disumano perché fa dimenticare la sofferenza accumulata: giacché la traccia della storia nelle cose, nelle parole, nei colori e nei suoni è sempre quella della passata sofferenza.»43

L’immagine non si palesa mai totalmente, e così come è strutturata la memoria — che non può darsi mai in maniera assoluta ed una volta per tutte — essa mostra attraverso la sua forma il suo essere sempre altro da ciò che è appena stato. Così come ogni vita, anche la vita dell’immagine si fonda sulla sua memoria, ed interpretarla significa coglierne qualcosa che ancora non era stato messo alla luce. Ovviamente, questo diviene un percorso infinito. E l’arte, essendo l’unica possibilità offerta nel mondo odierno di manifestare l’alterità, ciò che si estrania dalla ratio dominante, si fa cassa di risonanza per i morti, le vittime spazzate via dal mondo. Ciò che non si integra nella società attuale, trova voce solo nell’arte moderna, ovvero l’arte autentica, che ha coscienza della sua funzione e che rende onore alle vittime della barbarie della storia. La riflessione adorniana riguardante la shoah ed i campi di sterminio nazisti, e perciò le relative problematiche estetiche che si aprono all’indomani di Auschwitz, sono state solo accennate in questa sede; questo perché la complessità e la vastità di questo argomento, celebre per chi studia e si occupa di Adorno, meriterebbe uno spazio apposito ed uno sviluppo teorico riservati ad esso, che qui siamo impossibilitati a compiere perché ci porterebbe fin troppo lontano dalle tematiche che ci siamo presupposti di toccare.


  1. T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 105. ↩︎

  2. Ivi, p. 207. ↩︎

  3. Ivi, p. 9. ↩︎

  4. Ivi, p. 4. ↩︎

  5. T. W. Adorno, Conciliazione sforzata in Note per la letteratura 1943-1961, Parte Seconda, Einaudi, Torino 1979, p. 257. ↩︎

  6. T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p. 75. ↩︎

  7. Ivi., p. 136. ↩︎

  8. G. Di Giacomo, Arte e rappresentazione nella «Teoria estetica» di Adorno, Cultura tedesca, 2004, n. III, p. 2. ↩︎

  9. T. W. Adorno, Mahler in Wagner Mahler, Einaudi, Torino 1965, p. 207. ↩︎

  10. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 2002. ↩︎

  11. G. Di Giacomo, Postfazione in Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Laterza, Bari 2008, p. 213. ↩︎

  12. T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p. 9. ↩︎

  13. G. Di Giacomo, Arte e rappresentazione nella «Teoria estetica» di Adorno, op. cit., p. 4. ↩︎

  14. T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p. 115. ↩︎

  15. Ivi, p. 119. ↩︎

  16. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adeplhi, Milano 2002, p.145. ↩︎

  17. T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p. 134. ↩︎

  18. Ibid. ↩︎

  19. Ivi, p. 133. ↩︎

  20. Ivi, p. 115. ↩︎

  21. Ivi, p. 123. ↩︎

  22. Ivi, p. 116. ↩︎

  23. Ivi, p. 251. ↩︎

  24. G. Di Giacomo, Postfazione in Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, op. cit., p. 213. ↩︎

  25. T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p. 154. ↩︎

  26. Ivi, p. 189. ↩︎

  27. Ivi, p. 186. ↩︎

  28. Ivi, p. 261. ↩︎

  29. Ivi, p. 79. ↩︎

  30. Ivi, p. 129. ↩︎

  31. Ivi, p. 80. ↩︎

  32. Ivi, p. 78. ↩︎

  33. Ivi, p. 79. ↩︎

  34. Ivi, p. 41. ↩︎

  35. Ivi, p. 210. ↩︎

  36. Ivi, p. 316. ↩︎

  37. T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p. 221. ↩︎

  38. Ivi, p. 39. ↩︎

  39. I contemporanei del Caravaggio non la pensavano affatto così; il Bellori, l’Agucchi ed i più illustri critici e storici dell’arte ritenevano che Caravaggio, contrapponendosi così al Carracci, aveva concentrato il suo lavoro esclusivamente sul «vero», trascurando il «bello». È innegabile che oggi però l’opera di Caravaggio si ponga sotto il segno del capolavoro; affrontare la «storicizzazione» della nozione di «bello» ci porterebbe fin troppo lontano. ↩︎

  40. Ivi, p. 43. ↩︎

  41. T. W. Adorno, Critica della cultura e della società in Prismi, Einaudi, Torino 1972, p. 22. ↩︎

  42. T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p. 116. ↩︎

  43. T. W. Adorno, Sulla tradizione in Parva aesthetica, Feltrinelli, Milano 1979, p. 33. ↩︎