Belimà, ovvero il Senza-Cosa. Abissalità del Principio Divino in alcune dottrine della gnosi ebraica medievale

Dal punto di vista di Dio la creazione non è un atto di auto-espansione, ma di diminuzione e di rinuncia. Dio con tutte le creature è meno di Dio da solo. Dio ha accettato questa diminuzione. Egli ha annullato in sé una parte del suo essere.

— Simone Weil, Attesa di Dio.

Nothing is real, and nothing to get hung about.

— The Beatles, Strawberry fields forever.

1. Influenze neoplatoniche e anticipazioni in Giovanni Scoto Eriugena

In diverse forme della gnosi ebraica medievale è possibile rinvenire alcune tra le dottrine più paradossali sull’Assoluto. Quello che qui vorrei proporre è un breve esame di alcune delle nozioni più paradossali presenti in essa, spesso derivate dalle concezioni neoplatoniche. In molti dei concetti cabalistici vi sono indubbie influenze degli autori neoplatonici, messe in rilievo da uno dei massimi studiosi delle correnti mistiche ebraiche, Gershom Scholem;1 non sempre, però, si tratta di immediate corrispondenze o, peggio ancora, di semplici calchi o trasposizioni grammaticali, privi di una originale rifondazione semantica. Per esempio, se consideriamo il termine En-Sof, osserva Scholem, talvolta si è creduto che l’idea ad esso sottesa potesse indicare l’Incomprensibile «ad imitazione del greco Apeiros» (tesi, questa, sostenuta da Ch. D. Ginzburg);2 ma questa — continua Scholem — è «un’ipotesi del tutto errata».3 Come sottolinea Scholem, essa si fonda su una fonte risalente ad Azrièl, discepolo di Isacco il Cieco (importante cabalista della Provenza vissuto tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo), che scrisse un vero e proprio «catechismo neo-platonico delle sefiròth», in cui il concetto di En-sof è spiegato effettivamente mediante categorie molto vicine a quelle neoplatoniche. In realtà, per Scholem il termine En-sof non è una trasposizione di un vocabolo greco (e, in verità, viene fatto corrispondere quasi sempre a «infinito»), giacché in lingua ebraica egli precisa che «inconcepibile si dice biltì musàg», mentre «infinito si dice biltì bà’altakhlìt, e non en-sof».4 Questa parola deriverebbe da una sostantivazione di una forma avverbiale che vuol dire «fino all’infinito» (ad En-sof). Ma, al di là delle disquisizioni prettamente terminologiche, ciò che è rilevante è che comunque la tendenza ad ipostatizzare tale forma avverbiale e a dare un senso impersonale al termine, coincide effettivamente nel circolo cabalistico a cui appartiene Azrièl (e cioè il circolo di Isacco), con l’affermarsi di una propensione «per dei concetti neo-platonici della divinità, e più particolarmente per delle forme originali di questo pensiero, che non conoscono il carattere personale dell’«Uno», dell’Essere assoluto».5 A questo radicarsi sempre più incisivo di concetti neoplatonici nella cabalà medievale, corrisponde lo svilupparsi di forme di pensiero sull’Assoluto sempre più paradossali. Per quanto riguarda Isacco, nota Scholem:

Alla fonte stessa del suo pensiero, siamo posti subito davanti ad un paradosso. L’essere supremo appare sotto l’aspetto cangiante di due definizioni: una è il «pensiero puro», nozione usata per il Pensiero divino nei testi neo-platonici che si conoscevano anche in ebraico; l’altra, non meno neo-platonica, «ciò che è inafferrabile per il pensiero».6

Questa formula, prosegue Scholem, «fa l’effetto di una esatta riproduzione di qualche akatalepton greco o del suo equivalente latino, come, per esempio, l’incomprehensibilis di Eriugena».7 Se si propende per quest’ultima lettura, cioè quella che identifica l’Assoluto come En-sof con ciò che è persino inafferrabile dal pensiero divino stesso, allora «il pensiero puro sarebbe la sfera creatrice suprema dell’essere, mentre l’En-sof, inafferrabile, esiste già prima di ogni pensiero».8 Ciò, però, apre una questione non di poco conto, dato che secondo lo studioso, tutti gli allievi di Isacco «identificano l’Inafferrabile, sia espressamente, sia implicitamente con la prima sefirà».9 E questo lascerebbe supporre che lo stesso Chassìd Isacco professasse questa convinzione; di conseguenza, in quest’ultimo caso, ciò che è inafferrabile lo è solo nei confronti del pensiero umano, mentre in se stesso va identificato con lo stesso pensiero divino. In questa direzione vanno alcuni testi, riportati da Scholem, degli allievi di Isacco. Per esempio, Ezrà nel suo commento alle Aggadòth dice che «Dio è al di sopra di ogni pensiero» (Ms. Vaticano 185, f. 8a); Ashèr ben Davìd parla di Kèter ‘Elyòn (la prima sefirà, detta appunto «suprema Corona») «di cui il pensiero [umano] non può capir niente» (Ms. Parigi 823, f. 180 a); Ja’aqòv ben Shèshet si riferisce al primo emanato, dicendo «e noi lo chiamiamo l’inafferrabile fino all’infinito» (Ms. Oxford 1585, f. 28 b).

Tuttavia, pare che la questione non sia così chiaramente definibile, poiché in almeno un testo di Isacco, l’Inafferrabile è tale persino nei confronti dello stesso pensiero divino; non soltanto, quindi, nei riguardi del pensiero umano. Infatti, nel commento a Genesi 1, Isacco dice: «In ciascun passo [della Scrittura], dove trovi semplicemente barà, ’asà, «creò, fece», sappi che esso [il soggetto] è al di sopra del pensiero puro».10

Vi sarebbero, dunque, significati differenti secondo cui Isacco usa la parola Machshavà (pensiero), ma sicuramente, in quest’ultimo caso, ad avviso di Scholem, con essa egli intende proprio il Pensiero di Dio che, in tal modo, non riesce esso stesso ad afferrare l’Inafferrabile, cioè se stesso, l’essere più intimo e proprio di Dio in quanto En-sof, il quale pertanto in quanto assolutamente incoglibile va identificato col Nulla. Ciò vuol dire che «questo nulla è la prima sefirà, da dove esce la Sophia divina»,11 detta Chokhmà, la seconda sefirà. Scholem connette, anche in questo caso, tali concezioni cabalistiche con il neoplatonismo, in particolare con quello cristiano-latino di Scoto Eriugena: «l’«inafferrabile» di Dio è identificato per il neo-platonico cristiano Eriugena col nulla, da cui tutta la creazione prende origine».12 Per esempio, in un testo intitolato Sèfer ha-’Iyyùn, Libro della speculazione o della contemplazione (attribuito ad un oscuro cabalista, Rav Chammay, di cui non si hanno notizie biografiche precise),13 si può notare «una chiara invasione di un linguaggio e di concetti neo-platonici nella dottrina della cosmogonia e della Merkavà».14 Il testo sembra appartenere ad una corrente cabalistica per certi versi lontana dalla dottrina più tradizionale professata nei testi chiave come il Sèfer Bahìr, e più vicina alla gnosi. Già nel suo titolo, insolitamente lungo, vi si leggono espressioni di carattere esplicitamente neo-platonico, come la seguente riportata da Scholem: «esso [il Kavòd nascosto?] è nell’unità, senza distinzioni, nella perfezione della quale s’uniscono il superiore e l’inferiore, e esso è il fondamento di tutto ciò che è nascosto e di tutto ciò che è palese».15

Scholem sottolinea che «il concetto dell’unità senza distinzioni, in ebraico: achdùth shavà, non è conosciuto in testi ebraici prekabbalistici»; esso sarà ricorrente nei testi di Azrièl di Gerona, allievo di Isacco, e «si tratta dell’unità, in seno alla quale tutte le opposizioni divengono «uguali», cioè identiche».16 Sia questo concetto che quello «della coincidentia oppositorum in Dio e nelle più alte sefiròth, che avrà un’importante parte in Azrìel, sembra presentarsi qui per la prima volta».17 I concetti, le immagini e persino le espressioni appaiono, come rileva Scholem, non lontani dalle dottrine di Giovanni Scoto Eriugena e di Pseudo-Dionigi l’Areopagita. A tal punto che «presso i kabbalisti di Provenza, la dottrina degli eoni degli gnostici e del Bahìr s’è alleata, si direbbe, con la dottrina di Eriugena sulle cause primordiales, che in tutta la loro molteplicità, non di meno sono l’unità della Sapientia divina».18 Scholem ritiene che il pensiero di Eriugena sia stato sicuramente conosciuto dai cabalisti della Provenza e d’Aragona, a cavallo tra la fine del XII e gli inizi del XIII, e che prima della sua condanna da parte della Chiesa (1210), avesse un’influenza determinante. La reinterpretazione della dottrina della creatio ex nihilo in chiave di emenatismo neo-platonico, ad avviso di Scholem, è presente precisamente nella dottrina eriugeniana relativa alla «discesa» di Dio nelle «origini primordiali», discesa che Scholem identifica con una vera e propria «discesa verso il suo nulla»19 da parte di Dio stesso, affinché tutto possa essere creato. Leggiamo, a questo proposito, un testo di Giovanni Scoto Eriugena:

La Bontà divina dunque, per questo è detta nulla (quae propterea nihilum dicitur), dal momento che oltre tutte le cose (quoniam ultra omnia), che sono e che non sono, non si trova in nessuna essenza (in nulla essentia invenitur), dalla negazione di ogni entità o di ogni Essere scende da se stessa in se stessa (a se ipsa in se ipsam descendit) nella affermazione del Tutto intero dell’Essere, per così dire dal Nulla nel Qualcosa, dalla Non-entità alla entità, dalla non formazione (indeterminatezza) nelle innumerevoli forme e figure».20

Questa «discesa», prima ancora che dare origine al tutto, prima ancora che creare un mondo, «crea», in un modo incomprensibile, lo stesso essere di Dio (a se ipso creatur). Il senso del testo eriugeniano è, dunque, che Dio comincia a creare tutto, innanzitutto «creando Se stesso».21 E Scholem osserva che reinterpretazioni in questo senso della creatio ex nihilo (le quali finiscono per assimilare il Nulla a Dio stesso), si ritrovano «presso gli ismaeliti, gli gnostici neo-platonici dell’Islam sciita».22 Commentando proprio questi passi del Periphyseon eriugeniano, anche Beierwaltes interpreta la «discesa verso il suo nulla» da parte di Dio, come una sorta di «creazione» di se stesso. Per Beierwaltes, il Nulla in Dio va inteso come «la negatività assoluta quale pienezza dell’Essere o come Super-Essenzialità (superessentialitas)».23 Si tratta di un Nulla che non è pura e semplice negazione dell’essere, quanto piuttosto di un Nulla al di là dell’opposizione fra essere e non-essere: precisamente, «il Nulla «elevato» al di sopra di Essere e Non-Essere». E si tratta propriamente del «creare-se-stesso (a se ipso creatur)» da parte di Dio, ossia di un passaggio del nulla nel qualcosa che secondo Beierwaltes è totalmente immanente al Principio stesso, di modo che il nulla da cui vien fuori l’essere, è in Dio stesso. Si tratta, infatti, di «un «abbandono» del Nulla, uno «scendere» da lui in se stesso». Qui è da mettere in evidenza non solo il fatto che Dio sarebbe in un certo modo Colui-che-genera-se-stesso, ma anche il fatto che a «produrre» è il Nulla stesso. Beierwaltes parla di «negazione «produttiva» del Nulla […]. «Soggetto» attivo di questo passaggio che nega se stesso è il Nulla o la stessa superessentialitas dei».24

Come già anticipato, Scholem fa continuo riferimento sia a Giovanni Scoto Eriugena sia ad un grande mistico, Meister Eckhart, come fonti delle fondamentali nozioni della gnosi ebraica che stiamo considerando. Del primo, ad esempio, riporta proprio il brano in cui l’autore del Periphyseon identifica la Bontà divina con il Nulla: l’essenza divina infatti, per Eriugena, anche in quanto Bontà resta incomprensibile al pensiero umano e angelico, [e] nel linguaggio della teologia mistica si chiama nulla; in sé considerata, infatti, essa né è né era né sarà [proprio come l’Uno della prima ipotesi del Parmenide, corsivo mio] .25

In effetti, come abbiamo già visto, Eriugena afferma che Dio discende nelle cause prime delle cose, in modo che «creando contemporaneamente se stesso, comincia ad essere un qualcosa». E nella sua esegesi di Gen. 1, 2, Eriugena ritiene che l’abisso originario da cui il creato è stato tratto coincide con le cause primordiales che vengono descritte come «prive di figura» e «inconcepibili», tranne che per il pensiero divino stesso.26

Valutazioni analoghe anche per Etienne Gilson, il quale afferma che per Eriugena la Divinità «sapendosi incomprensibile» (precisamente nel senso di «inconoscibile, non soltanto per noi, ma per se stessa»),27 vuole emergere dal fondo abissale della sua propria natura, ad un tempo auto-manifestandosi e auto-creandosi. Quest’auto-manifestazione di Dio, come rileva Gilson, viene denominata dall’autore medievale come una vera e propria «teofania», e in ciò si richiama ai Padri della Chiesa come Gregorio di Nazianzo e Massimo il Confessore.28 Il rivelarsi, il mostrarsi di Dio è innanzitutto, e cioè nel Principio, un pro-porsi a se stesso, un auto-cogliersi da sé, prima ancora che un rivelarsi ad Altro da sé, alla creatura. L’auto-conoscenza divina non può avvenire che mediante l’auto-definirsi a se stesso, vale a dire attraverso un’auto-identificazione, in cui l’Autore di ogni cosa (e dunque autore anche del se-stesso) si dà appunto un proprio se-stesso. Questa individuazione in cui Egli si concepisce (concepisce se-stesso) è già un determinarsi, un rendersi, per così dire, «finito» a se stesso, senza però che ancora ci sia alcun Altro, oltre a Lui. Questo significa che, in Principio, Lui solo è l’«oggetto» per così dire di se stesso, il concepito di se stesso (ed in effetti Egli è anche il Figlio di se stesso). E poiché Egli è per natura infinito, indeterminato, nel preciso senso di trascendere qualsiasi essere, ciò comporta che il suo sapersi nel Verbo è il suo stesso iniziare ad essere ciò-che-è, il darsi la sua propria esistenza e, soprattutto, la sua propria natura di Creatore. Inoltre, questo implica già un necessario porre ciò che è altro, un evocare l’inizio del mondo, almeno idealmente:

Dio stesso non può conoscersi che come un essere, una natura, un’essenza, cioè come finito; ora egli è infinito, al di là dell’essere, della natura e dell’essenza; per conoscersi gli è quindi necessario incominciare ad essere, ciò ch’egli non può fare che diventando qualcosa d’altro da sé».29

Per tale motivo, Eriugena afferma addirittura che proprio nel creare gli enti, Dio crea anche se stesso, in quanto Creatore. In verità, la prima auto-creazione avviene anteriormente a qualsiasi ente realmente altro, giacché si compie ancora solo nelle cause primordiales, nelle Idee, mediante il proprio Verbum. Auto-creazione che è eterna, come eterno è il Logos en arché.30 Di certo, però, se Dio nell’auto-creazione è eternamente creatore di sé, al tempo stesso non può che essere anche eternamente creato da sé. In effetti, commenta Gilson, «le idee divine, considerate sotto questo aspetto, sono la prima autocreazione di Dio. In esse la natura divina compare contemporaneamente creatrice e creata».31 A mio avviso, si tratta tuttavia di «auto-fania» tutta interiore, ancora interna a Dio stesso, con cui Egli si auto-presenta pienamente solo a se stesso mediante le Idee o cause primordiales, nel suo Verbo. La prima e più autentica «presentazione» per Dio è soltanto quella che Egli fa a se stessoNessuno conosce il Figlio, se non il Padre, e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio», Mt., 11, 27). Ma ciò significa, appunto, rimanere in se stesso, non uscire propriamente dal proprio abisso. Una tale auto-presentazione non può non essere, appunto, abissalmente sprofondata in una coincidenza talmente irriflessa in sé, che non esce mai dal se stesso divino, dall’Uno. È, infatti, una prerogativa così esclusiva di Dio, da non consentire alcun disvelamento completo di Se stesso in quanto Se stesso ad Altro («Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre»»[Gv, 14, 8-9]); ciò significa che resta impossibile una diretta teofania verso ciò che è assolutamente altro da Dio, dato che la visio divina non è mai possibile immediatamente, ma sempre attraverso il Figlio: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato»(Gv, 1, 18).

2. …E la «Chokhmà» viene dal Nulla

Scholem pensa che ci sia una notevole corrispondenza tra queste dottrine eriugeniane e alcune categorie tipiche della dottrina mistica del cabalista Azriel da Gerona. Questi denomina esplicitamente abisso la natura più profonda di Dio; essa, infatti, è un infinito, illimitato e imperscrutabile abisso, che estende fin nel puro nulla la dimensione, interna a Dio stesso, in cui tutte le essenze delle cose dimorano; ma ciò che è più importante è che esse coincidono, come rileva Scholem, in una «assoluta, coesa indifferenza [gestaltose Ungeschiedenheit]».32 Questa assoluta Indifferenza, in certi testi della cabalà, finisce per coincidere esattamente con il Nulla. Occorre tuttavia ricordare che la nozione di «nulla» non sempre ha, nella mistica ebraica, lo stesso senso. All’inizio della storia della gnosi medievale (stando alla ricostruzione di Scholem), pare vi fossero delle oscillazioni riguardo alla terminologia e al concetto; è attestato, a suo giudizio, che vi sia stata una «paradossale» quanto sempre più radicata «reinterpretazione della creazione dal nulla». È, comunque, altrettanto documentabile che la Divinità, nella gnosi ebraica, non solo venga denominata Nulla, ma venga anche fatta coincidere con l’Abisso dell’Indistinzione, nozione presente in talune paradossali espressioni del neoplatonismo, soprattutto in Damascio, ricollegabili a loro volta con le conseguenze aporetiche della prima ipotesi del Parmenide. In Azrièl, per esempio, troviamo che «l’abisso è pure il belimà nell’espressione: sefiròth belimà […] il «Senza Cosa», l’indeterminabile, dove domanda e risposta si annullano».33 Scholem ci informa che per gli autori cabalistici «l’oscuro epiteto belimà», indica «lo stato chiuso di una cosa» (potremmo dire: ciò che è abissalmente «irriflesso» rispetto a qualsiasi identificabilità e determinabilità); e questo epiteto è riferito alle sefiroth, che non vengono mai riportate nei testi da sole, ma sempre accompagnate dall’attributo belimà, e denominate infatti sefiroth belimà.

Nel confronto con questi testi, mi preme in special modo mostrare la sorprendente corrispondenza concettuale tra l’assenza del «tì»34 nell’Uno-neppure Uno della prima ipotesi del Parmenide, e l’assenza assoluta di «qualcosa», o l’esser-senza-che-cosa (belimà), dell’Abisso divino della mistica ebraica. In questo contesto, a mio avviso, assume eccezionale rilevanza la corrispondenza pure tra la nozione di belimà, intesa propriamente come un «senza-cosa», e l’assenza di «pràgma» con cui va caratterizzato l’Ineffabile (tò apòrreton) per il neoplatonico Damascio, insieme alla sua totale ateticità (l’espressione con cui il diadoco allude all’Ineffabile è: «totalmente atetico», pànte àthetos).35 È vero che il procedimento attraverso peritropé36 con cui Damascio ricerca una Meta-principio epékeina toù enòs, lo conduce poi a invertire persino questa stessa mancanza di pràgma del Meta-Principio, ma non certo per acquistarne una qualche determinatezza, anzi proprio per sottrarsi anche a questa stessa possibile concepibilità in negativo, come se il principio potesse essere un «qualcosa» che è negato: l’Ineffabile, afferma Damascio, non è «né negazione né posizione (oudé apòfasis, oudé thésis), bensì totale soppressione, la quale non è «non-qualcosa» (ouchì «où tì») — perché anche [il] «non-qualcosa» fa parte degli esseri».37

Persino il «non-qualcosa» fa parte degli enti, essendo determinato da ciò che è qualcosa; dunque, se cancelliamo dal Meta-Principio anche il suo non-esser-qualcosa, ciò non comporta uno suo ricadere all’interno della determinabilità, ma anzi un ulteriore «eclissarsi» di esso, giacché è proprio per non ricondurlo nell’orizzonte dell’essere che si elimina di esso anche il suo risultare un «negato», qualifica che lo mette pur sempre in connessione con qualcosa di «posto», che verrebbe successivamente tolto. Il Meta-Principio, per Damascio, è così paradossalmente ciò che non è «nemmeno non-qualcosa» (ouchì «ou tì»). Anche in certi testi della mistica islamica si può documentare una tale concezione dell’identità tra Dio e il Nulla, dottrina che, com’era da aspettarsi, riadatta anche in questo caso concetti neoplatonici. In un testo che viene attribuito a Shelomoh ibn Gabirol, è scritto riguardo alla Parola divina (Kalima) che «questa parola di per sé non è in movimento né riposa, e poiché essa sta al di sopra della quiete e del movimento […], proprio perciò la si è chiamata nulla, rassamuha bi-laissa».38 Ciò che, però, costituisce l’interesse maggiore ritengo sia il fatto che, come rileva Scholem, «la creazione dal nulla, così come riaffiora costantemente nelle tradizioni mistiche, è la creazione da Dio stesso».39 Come i teologi (più che le Sacre Scritture), anche i mistici accettano la creatio ex nihilo, ma l’originalità della loro interpretazione rispetto ai teologi sta nello scoprire un senso recondito che starebbe dietro di essa. La stessa dottrina ortodossa della creatio, in verità, nasconderebbe un significato molto più profondo e sconcertante: nella mistica, «il nulla è la divinità stessa».40 Di conseguenza, creare dal nulla non significa altro che «la creazione è accaduta e ha avuto la sua origine in Dio stesso».41 Secondo la Cabala, la creazione da parte di Dio, nel suo senso fondamentale, si esaurisce all’interno della stessa Divinità, nelle sue Sefiròth. La produzione di un mondo finito è soltanto «l’aspetto esteriore» di un processo che si svolge «in Dio stesso».42 In questo punto, vi è una decisa presa di distanza dalla concezione neoplatonica; contrariamente a quest’ultima, in cui le emanazioni delle ipostasi fuoriescono effettivamente dall’Uno, nella gnosi ebraica invece, «le Sefiròth non sono delle essenze intermedie che stiano tra Dio e il mondo»,43 dato che esse costituiscono la stessa Divinità, secondo vari aspetti della sua Gloria, ma tutti riducibili a quella Indifferenza, in cui tutto è essenzialmente Uno. Che la creatio ex nihilo abbia, dunque, un senso più profondo che si rivela nella coincidenza del Nulla con Dio stesso, mette a nudo anche il nesso stretto che tale nullità originaria mantiene con l’Indistinzione, e quest’ultima con una vera e propria coincidenza degli opposti. Infatti, per Azrièl, «En-sof, nell’indifferenziato assoluto, si chiama «Uno»», dove «la Volontà abbracciava ancora l’unità indifferenziata di tutti i contrari».44 E che si tratti di una coincidenza di opposti lo mostra quest’altro passo in cui Scholem parafrasa alcune espressioni del Perush Aggadòth di Azrièl: «tanto En-sof che la Volontà sono «indifferenti quanto ai contrari». […] Poiché i contrari sono «uguali», cioè inseparati in seno ai principi supremi, coincidono in essi».45 Addirittura Azrièl giunge a considerare come una sorta di «deviante» colui il quale non accetti di considerare Dio, in quanto En-Sof, come assolutamente Indifferenziato:

L’ottavo traviamento è … [credere] che Esso [En-sof] non è indifferente [indistinto] rispetto al tutto […] non riconosce [re] il principio secondo il quale, nel visibile e nel nascosto, Esso è senza distinzione «uguale» rispetto al nulla e all’essere, nella completa semplicità e non-separazione che si chiama Unità.46

È, dunque, indistinto non solo «nel nascosto», ma anche «nel visibile», in ciò che è manifesto, in quell’esperienza sensibile che dovrebbe rispettare rigorosamente la non-contraddizione. Questi concetti fondamentali del gruppo cabalistico di Provenza sono presenti in vari testi in cui si parla dell’etere primordiale (avìr qadmòm), il quale avrebbe una sua natura immateriale, in quanto non è percepibile. In esso la volontà divina si dispiegherebbe, anzi esso è presso il Creatore, persino «identico al Kavòd» divino.47 Ora, la caratteristica di questo etere primordiale è che esso è «indifferente identità», la quale accoglie tutte le cose persino in quanto «opposizioni», tanto che in essa «tutto si fonde».48 In uno di questi testi, La fonte della saggezza, si parla, poi, enigmaticamente della «luce della fonte», «luce che è troppo scura per brillare», e che addirittura viene chiamata «tenebre», ma non perché essa non splenda, anzi paradossalmente proprio perché splende troppo, tanto che «nessuna creatura, né angelo, né profeta la può sopportare né cogliere». Ora, per Scholem, «è molto evidente che queste definizioni della «luce oscura» concordano con le determinazioni del nulla».49 Ed è appena il caso di rievocare l’espressione «divina caligine», che è «luce inaccessibile» e «luce invisibile», usata dallo Pseudo-Dionigi.50

In un altro testo, la Corona regale di Shelomò Gabiròl, si parla in maniera molto colorita di «fissione del nulla, da cui Dio ha fatto uscire l’etere».51 È molto importante questa immagine della fissione, poiché dà l’idea di come, dall’abissale Indistinzione originaria, possa essere sorto un qualcosa che, inizialmente, è ancora indistinto dalla «pura luce», la quale tuttavia è enigmaticamente identica all’oscurità. Anche nel Libro della vera Unità si fa cenno ad un atto di «fissione» originaria nella vita divina; a proposito della prima sefirà (la Corona suprema), identificata con l’«inafferrabile etere primordiale», si dice che essa è anche chiamata «luce chiara, poiché si produce in essa come una fessura, che cambia d’aspetto, fino a che [l’etere] si fende e in questa fissione, la forza di tutte le sefiròth nasce dal flusso, che scorre da esso».52 Sempre nella Corona regale, è scritto che «la Chokhmà primordiale, è una luce di vita, pura e del tutto integra, scolpita e suggellata nello splendore della volta suprema [shafrìr], che si chiama il nulla sottratto ad ogni concetto. È qui il mistero di [Giob. 28, 12]: «la Chokhmà viene dal nulla».53 Persino la stessa sapienza di Dio (Chokhmà) viene dal Nulla, che è dunque lo stesso Abisso divino. Dunque, la prima sefirah, la «corona suprema» di Dio, dalla quale proviene la sua Sapienza, che è la seconda sefirah, è essa stessa la dimensione abissale che può esser «denotata come «ajin gamur», come nulla primordiale».54 In Azriel la prima sefirah è volontà divina originaria e insieme è il nulla, ossia «un abisso infinito in Dio stesso nominato con il termine che la Bibbia usa, in Gen. 1, 2, per indicare appunto la profondità dell’abisso: techom».55 Come rileva Scholem, anche nella mistica della kavvanàh (letteralmente: «direzione», «intenzione»), elaborata dal gruppo cabalistico di Gerona, a cui appartiene anche Azrièl, «tutte le cose escono dall’Uno e ritornano all’Uno, secondo la formula che hanno attinto dai neo-platonici». Tale ritorno all’Uno dell’origine «si compie nell’elevazione della kavvanà, nell’introversione della volontà, che invece di esercitare la sua volontà verso l’esterno, nella molteplicità, si concentra e, purificata da ogni egoismo, raggiunge il contatto con la volontà di Dio».56 Mediante la preghiera è possibile realizzare la deveqùth, la comunione o unificazione con Dio, che comporta al tempo stesso l’auto-annullamento della volontà dell’uomo e insieme paradossalmente il suo potenziamento: «i due motivi della abolizione della volontà personale e del suo rafforzamento per il fatto stesso di questa abolizione e di questo dono di se stessa, che sembrano contraddirsi, si giustappongono, anzi si compenetrano nell’idea della deveqùth».57 Ma, ciò che è ancor più interessante in questo stato mistico, è la coincidenza dell’auto-annullamento della volontà umana con il nulla divino. Azrièl, infatti, afferma che la meta di colui che prega è proprio «ricondurre la parola alla sua origine, letteralmente al suo nulla».58 È importante sottolineare che alcuni di questi aspetti della mistica della kavvanàh, ad avviso di Scholem, sono sicuramente riconducibili alle radici della tradizione ebraica, tanto che se ne possono vedere significativi esempi nei testi della Mishnàh (letteralmente: «ripetizione», «insegnamento»), ossia della raccolta della «Legge orale» ebraica (Torah she-be-’al peh), in cui sono contenute le interpretazioni rabbiniche della Legge scritta (Torah shebi-khthabh). In un passo riportato dallo studioso, contenuto nei trattati della Mishnàh, si descrive l’elevazione alla deveqùth di colui che prega «per la forza della sua kavvanà, derivata dalla perfetta gloria della luce che si contrae, che non ha né figura né immagine, né misura né grandezza, né valutazione né limite, né fine, né fondo, né numero, e che non è finita da nessun punto di vista» (Mishnà, Berakhoth, V, 1,).59 Qui, è interessante notare, da un lato, la descrizione di un atto proprio della divinità, che consiste nell’auto-ritrarsi in lei stessa, in un coincidere simultaneo della «gloria perfetta» e della «luce che si contrae» (sono due aspetti che ne formano uno solo, secondo la stessa interpretazione di Scholem, che, in nota, afferma: «qui, dunque, i due concetti di «gloria perfetta» e di «luce che si contrae» sono uniti in uno solo»); dall’altro, la descrizione della assoluta assenza di determinazioni dell’essere divino, che quindi coincide con il Nulla. E proprio a proposito dell’assoluto non-essere di Dio, nel suo Via della fede e dell’eresia (1220), Azriel di Gerona scrive:

Se qualcuno ti chiede: «Cos’è Dio?» Rispondi: «Colui che non è manchevole sotto nessun aspetto». Se ti domanda: «Come ha fatto ad uscire il suo essere dal nulla, poiché la differenza è così grande tra l’essere e il nulla?» Rispondi: «A colui che fa uscire il suo essere dal nulla, non gli manca niente per questo fatto, poiché l’essere è nel nulla alla maniera del nulla, e il nulla è l’essere alla maniera dell’essere». E a questo riguardo l’autore del Sèfer Jetzirà ha detto: ha fatto del suo nulla il suo essere, e non ha detto: ha fatto l’essere dal nulla. Ciò c’insegna che il nulla è l’essere e che l’essere è il nulla. […] L’essere non è dunque altro che un nulla, e tutto è uno nella semplicità dell’inseparato assoluto.60

Mi sembra della massima importanza questa sorta di «inversione» secondo cui in Dio l’essere è nel nulla, alla maniera del nulla, e viceversa il nulla è l’essere, alla maniera dell’essere. Azrièl precisa, tra l’altro, che non si tratta semplicemente di creare o trarre fuori l’essere dal nulla, bensì di fare «del suo nulla il suo essere», vale a dire che la sua (di Dio) essenza più profonda si dà come il Nulla. Tuttavia, non va trascurata la peculiare inversione reciproca che qui viene espressa, tra essere e nulla, in modo che paradossalmente il nulla è alla maniera dell’essere, ma anche l’essere non è altro che nulla, puro nulla. Da questo punto di vista, Dio non può coincidere con l’Essere, con il Nulla, separatamente intesi. Essi, infatti, in Lui coincidono entrambi: «L’essere e il nulla non sono dunque che differenti aspetti della realtà divina».61 Ancora Azrièl utilizza il passo di Jetzirà, II, 6, in cui si parla della creazione dal nulla, dicendo che Dio «ha formato dal tòhu [scil. : l’indeterminato] il reale», e che «ha fatto di ciò-che-non-è ciò-che-è».62 Ora, Scholem commenta dichiarando che l’interpretazione che Azrièl dà della creatio ex nihilo è tra le più audaci e originali, e ritengo opportuno riportare integralmente il brano.

Queste parole: asà enò yeshnò, potrebbero significare: ha fatto del non-essere, un essere […] ma potrebbero benissimo significare pure: ha fatto del nulla qualcosa. Azrièl ha tratto vantaggio dalla struttura particolare della frase ebraica, poiché enò non ha solamente il significato di «non è», ma pure quello di un pronome possessivo: «il suo nulla». Egli afferma per conseguenza che Dio ha fatto del suo nulla il suo essere […]. Il nulla non è il nulla, indipendente da Dio, ma il suo nulla. La trasformazione del nulla in essere è un avvenimento che si pone in Dio stesso.63

Anche nel suo saggio Creazione dal nulla e autolimitazione di Dio, Scholem riprende la temeraria interpretazione di Azrièl, secondo la quale il termine «eno, non è», può esser letto anche come pronome possessivo: «suo nulla». In tal modo, occorre considerare l’essere e il nulla «come due differenti prospettive interne al divino stesso. Il nulla, dunque, non è il nulla indipendente da Dio, bensì il suo nulla».64 D’altra parte, «il Dio nascosto […] non ha né qualità né attributi», ossia è in effetti nulla. Ora, ciò che più conta è che questa nullità viene a trovarsi direttamente in Dio, in ciò che i cabalisti chiamano En-Sof, se è vero che «questa sua più intima essenza è chiamata volentieri, dallo Zòhar e dalla maggior parte dei cabalisti col nome di En-sof, e cioè «l’Infinito».65 Quest’intima essenza della Divinità ha, a sua volta, un nesso inscindibile con l’atto stesso con cui Dio inconcepibilmente concepisce se stesso. Come ora vedremo, l’En-Sof per far venire all’essere il creato compie un atto che un altro cabalista, Yitzchàq Luria, denomina tzimtzùm, traducibile con «concentrazione» o «contrazione» (ma Scholem precisa che «sarebbe da tradursi assai meglio con «ritiro» o «ritorno»).66 È pur vero che quest’atto è correlato con la creatio, cioè con un auto-ritrarsi il cui fine è un produrre ad extra; tuttavia, sappiamo già che Dio auto-concepisce se-stesso nelle dieci sefiròth, e in quest’atto Egli non si «esteriorizza» affatto, ma procede, come dire, da se stesso in se stesso, oppure, meglio, pone appunto il proprio se-stesso innanzitutto nella propria Sapienza (Chokhmà), traendolo letteralmente, come abbiamo ripetutamente constatato, dal suo Nulla. Di conseguenza, inizialmente, cioè ancor prima dell’auto-ritrarsi per far posto alla creazione, bisogna pensare già una più abissale auto-contrazione da parte della stessa Indistinzione divina verso il proprio stesso abisso, per «concepire» o «espellere», se così si può dire, ma sempre al proprio interno, il se-stesso di Dio, in un certo senso «identificandolo», sebbene in un modo che resta assolutamente inconcepibile per qualsiasi pensiero.

In effetti, Scholem descrive il movimento verso l’esterno come «successivo» a quello con cui Dio prima si auto-dispiega nelle Sefiròth, a partire dal suo Nulla. In altre parole, il produrre o creare all’esterno è solo qualcosa di derivato da un atto più originario e abissale: esso è il successivo «esteriorizzarsi» della «divinità ripiegata in se stessa, prima irradiante la sua luce solo all’interno»,67 ossia un atto che è a sua volta preceduto da un più originario auto-introflettersi in se stesso della Divinità, la quale nel momento stesso in cui si «involve» nel proprio abisso, paradossalmente «irradia» innanzitutto a se stessa la propria luce, così auto-concependosi. Lo stesso atto originario di auto-illuminazione che Dio è in sé e per sé, è allora insieme un atto che sprofonda simultaneamente e misteriosamente il suo se-stesso nella tenebra divina, nel suo nulla-di-tutto (perché non c’è, tra tutti i sé possibili, nessun sé che gli possa convenire); un atto, cioè, con cui Dio fa «implodere» la propria Ineffabilità, per preservarla da qualsiasi entificazione, nell’insondabile abisso, inafferrabile persino per il pensiero divino stesso.68 Quest’atto di auto-sprofondamento nella propria belimà, nell’esser-senza-che-cosa, senza-fondo, da parte di Dio, atto che è insieme e simultaneamente il far posto alla propria Luce auto-illuminante (innanzitutto auto-illuminante il proprio «interno», prima ancora che l’esterno), è, secondo le stesse parole di Scholem, comunque una «rivoluzione prospettica [che] trasforma l’En-sof, la ineffabile pienezza, nel «Nulla».69

3. Lo Tzimtzùm

Come abbiamo già anticipato, per una delle correnti della cabalà la creatio ex nihilo può avvenire soltanto se Dio stesso «si ritira» in se stesso per fare spazio al mondo. È questa l’idea di fondo nata nella gnosi ebraica grazie a Yitzchàq Luria (1534-1572) di Safed (alta Galilea). È un’idea spesso ripresa e talvolta rielaborata da vari filosofi,70 ma che non sempre è stata compresa nel suo significato più radicale. Innanzitutto, è necessario precisare che il ritrarsi di Dio, spesso inteso come un «concentrarsi» in un «luogo» seppure atopico, dovrebbe essere pensato più propriamente come un ritrarsi assolutamente al di là dell’Essere, totalmente fuori da ogni dimensione d’essere; tutt’al più come un contrarsi infinito in un «punto» adimensionale, mediante un’auto-implosione che, nel richiudersi su sé, paradossalmente apre infinitamente al porsi in essere. Ricordiamo che molto spesso la cabalà ricorre al simbolo del punto per indicare proprio quell’inconcepibile momento intermedio tra essere e nulla in cui consiste l’atto creatore di Dio. In questo senso, il «punto» non è per niente essere, eppure non è nemmeno nulla e permette inoltre il passaggio all’essere: «l’improvviso passaggio dal Nulla all’Essere è rappresentato con il simbolo del punto primordiale».71 Scholem nota che anche

in un passo del Midràsh è detto che Dio avrebbe concentrato la sua Shekhinà, la sua sacra presenza, nel Santo dei Santi, nel luogo dei Cherubini, e così Egli al tempo stesso avrebbe concentrato tutto il suo potere, e lo avrebbe contratto in un sol punto».72

Tuttavia, come abbiamo già detto, lo tzitzùm non è da pensare come un ritrarsi in un qualche punto, nel senso di un «luogo» interno alla dimensione dell’essere, bensì come fuoriuscita assoluta da Tutto, insomma come un vero e proprio annullare iniziale, originario, che è l’autentica condizione del poter-essere. Secondo Scholem, «il cabalistico Tzimtzum non significa la concentrazione di Dio in un luogo, ma il suo ritrarsi fuori da ogni luogo».73 È questo il senso in cui va intesa la stessa creatio ex nihilo; senza quest’atto preliminare di radicale auto-annullamento, di totale sottrazione da qualsiasi dimensione, essa non può porsi in essere: il preliminare atto annullante di Dio, non solo nei confronti del Tutto (del resto, già implicito nell’idea stessa di creazione la quale, appunto, non può che avvenire a partire da Nulla), ma anche nei confronti di se stesso. Si è già visto, infatti, che la Divinità stessa pone se stessa nelle Sefiròth, solo a partire dal suo Nulla, soltanto auto-ripiegandosi nel proprio abisso. Il cabalista si chiede come possa Dio creare tutto dal nulla, «se non può esservi un nulla, dato che il suo Essere penetra ogni cosa?».

È necessario proprio il Nulla affinché Tutto sia. Luria sostiene che Dio, per rendere possibile il creato, rese letteralmente «vuoto» uno spazio, anzi creò proprio questo spazio, per offrire il luogo in cui gli esseri potessero venire all’Essere. Ma «dove» precisamente Dio fece il vuoto? Se non c’è ancora alcuno spazio, se non c’è ancora l’Essere, se non c’è assolutamente niente, è chiaro che il vuoto fu fatto in Dio stesso. Dio, così, si fece vuoto, ossia si auto-annullò per dare l’essere agli esseri. E fece il vuoto, appunto, ritirandosi non certo da qualcosa, o da uno spazio preesistente, ma propriamente da se stesso. In tal modo «il primo di tutti gli atti dell’Essere infinito, dell’En-sof, non fu pertanto un movimento verso l’esterno, ma verso l’interno, un movimento entro se stesso, un restringersi in sé — se posso usare questa ardita espressione — di Dio, «da sé in se stesso».74 Anziché produrre fuori di sé o emanare il proprio essere, «l’En-sof al contrario si sprofonda giù nel fondo di se stesso, si concentra in se stesso».75 Con la conseguenza fondamentale che quest’atto originario di Dio è in un modo paradossale, non già «un atto di rivelazione, ma un atto di occultamento».76 Si tratta, cioè, di una vera e propria, «autolimitazione dell’essenza divina», e ancor più di un auto-annullamento al suo interno, col risultato che «viene alla luce il nulla»: il primo nato, anziché essere l’Essere, è il Nulla, mentre l’Essere è successivo al Nulla, ed è il secondo nato. Come afferma infatti Scholem, «siamo cioè in presenza di un atto che suscita il nulla».77

L’originalità dell’idea dello tzimtzùm sta nel fatto che essa permette di pensare la Divinità: 1) non più in maniera statica, bensì dinamica (vorrei far notare, qui, una notevole corrispondenza con la nozione di «bullitio» eckhartiana),78 2) non come necessità, bensì come libertà. Ed è importante evidenziare che qui non è in gioco solo il superamento della necessità riguardo al proprio essere (che, in verità, è sempre frutto di una iniziativa libera dell’En-Sof), ma soprattutto il superamento della necessità di «auto-fecondarsi» (anche qui, infatti, Dio solo decide se e quando dare-Inizio anche al proprio Inizio).79 Solo tramite l’atto di auto-annullamento in se stesso con cui Dio ritrae sé da qualsiasi concepibile dimensione d’essere, atto che è insieme libera scelta e gesto radicale di autentica «revoca» di sé, paradossalmente Egli fa se-stesso in quanto se-stesso, e fa se-stesso anche in quanto Creatore. Tale annichilimento di sé, lungi dall’essere un destino necessario, è un poter-essere nel senso più pieno del termine, in cui si rende assolutamente disponibile l’essere, vale a dire indifferente all’iniziare e al non-iniziare: «lo tzimtzum, anzi, è l’autentico contenuto di questa libertà, che è libertà di limitare, sia pure soltanto in modo puntuale, l’infinita pienezza della sua essenza».80

Prima di concludere, mi sembra degna di nota l’insistenza di Scholem riguardo a quella che potrebbe essere denominata la «reiterazione» continua dello tzitzùm, ogni volta che si istituisca un atto creativo da parte di Dio, negli altri gradi della creazione. Si è già detto che il ritrarsi dell’En-Sof è simultaneamente e misteriosamente «irradiazione» della propria auto-illuminazione nello spazio originario (Urrahum) in cui viene lasciato il vuoto: proprio grazie a questo fare il vuoto, «Dio ha inviato un raggio dell’emanazione della sua luce». Ciò significa che ogni atto di contrazione è simultaneamente un atto di «espulsione» o «irraggiamento» della luce divina. Ma al tempo stesso e all’inverso, ogni atto creativo è simultaneamente «un rinnovato, continuo concentrarsi [kontinuierliches Sich-Zusammennehmen] e ritrarsi [Sich-Zuruckziehen] del divino».81 Non c’è, insomma, nessun atto con cui la Divinità ponga in essere un qualcosa, che non sia simultaneamente «sempre di nuovo tale discesa-in-sé [In-sich-selber-Steigen] e procedere-fuori-di-sé [Aus-sich-selber-Steigen] di Dio».82 Non solo Dio, quindi, ma qualsiasi essere creato, è costituito grazie a questa «profonda dialettica: ovunque il nulla, insorto dallo tzimtzum, gioca nell’intimo dell’essere». Col risultato che il Tutto è sempre frutto di un «doppio movimento, secondo cui per un verso Dio si ritrae in sé, e per l’altro contemporaneamente irradia qualcosa dal suo essere».83


  1. Cfr. Gershom G. Scholem, Die Judische Mystik in ihren Heuptstromungen, Zurich 1957, tad. it. Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Saggiatore, Milano 1965 (d’ora in poi: Scholem (1965)); e dello stesso autore: Le origini della Kabbalà, Il Mulino, Bologna 1973 (d’ora in poi: Scholem (1973)); Uber einige Grundbegriffe des Judentums, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1970, trad. it. I concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986 (d’ora in poi: Scholem (1986)); Die Geheimnisse der Schopfung - Ein Kapitel aus dem kabbalistischen Buche Sohar, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1971, trad. it. Gabriella Bemporad, I segreti della creazione - Un capitolo del libro cabalistico «Zohar», Adelphi, Milano 2003 (d’ora in poi: Scholem (2003)). ↩︎

  2. Cfr. Scholem (1973), p. 328, in nota, il quale fa riferimento a questo testo di Ch. D. Ginzburg, The Kabbalah, London 1865. ↩︎

  3. Ibid. ↩︎

  4. Ibid. ↩︎

  5. Scholem (1973), p. 333. Scholem riferisce che Isacco il cieco parla di una «Causa infinita», a cui non attribuisce mai un carattere personale (ivi, p. 332). ↩︎

  6. Ivi, pp. 333-334. ↩︎

  7. Ivi, p. 334. ↩︎

  8. Ivi, p. 335. ↩︎

  9. Ibid. ↩︎

  10. Ms. Halberstam 444, f. 29 b (riportato da Scolem (1973), p. 334). ↩︎

  11. Ivi, p. 336. ↩︎

  12. Ibid. ↩︎

  13. Scholem riferisce che sia vissuto o nel IX o nel XII secolo, cfr. ivi, p. 385. ↩︎

  14. Ivi, p. 386. ↩︎

  15. Riportato ivi, p. 387. Scholem cita le pp. 6-10 dal manoscritto dell’edizione di A. Jellinek, Auswahl kabbalistischer Mystik, Leipzig 1853 (il corsivo è mio). ↩︎

  16. Ibid. (corsivo mio). ↩︎

  17. Ibid. ↩︎

  18. Ivi, p. 389. ↩︎

  19. Cfr. ivi, p. 523 (corsivo mio). ↩︎

  20. Eriugena, Periphyseon III 168, 10-15. ↩︎

  21. Cfr. la medesima interpretazione in Scholem (1973), p. 523. In un altro suo testo, Scholem ribadisce che «la discesa di Dio nelle peculiari cause prime di tutte le cose […] è la discesa nel suo proprio nulla da cui tutto proviene» (cfr. G. Scholem (1986), pp. 59-60, corsivo mio). ↩︎

  22. Scholem (1973), p. 523. ↩︎

  23. W. Beierwaltes, Denken des Einen. Studien zur neuplatonischen Philosophie und ihrer Wirkungsgeschichte, Frankfurt, Klostermann, 1985, trad. it. Pensare l’Uno, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 306. ↩︎

  24. Ibid. Commentando gli stessi luoghi eriugeniani, uno studioso di Platone, Salvatore Lavecchia, afferma che «proprio in quanto somma Bontà, questo Bene non può essere geloso del proprio trascendere, e quindi, a partire da se stesso e verso se stesso, discende da quella negazione nell’affermazione dell’essenza del Tutto, negando il proprio Nulla, si genera dal nulla come Principio dell’Essere, ponendo in se stesso l’abisso» (cfr. S. Lavecchia, Oltre l’Uno ed i Molti - Bene ed Essere nella filosofia di Platone, Mimesis Edizioni, Udine, 2010, p. 86). ↩︎

  25. Eriugena, Periphyseon, III, 5-23. ↩︎

  26. Cfr. Eriugena, Periphyseon II, 17. ↩︎

  27. Cfr. E. Gilson, La philosophie au Moyen-Age, 1947, trad. it. La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 255 (corsivo mio). ↩︎

  28. Cfr. ibid. ↩︎

  29. Ibid. ↩︎

  30. Che il Verbum sia nel Principio, come è scritto in Giov. 1, 1, è ciò che sollecita una tra le questioni più abissali sulla natura divina in Meister Eckhart, e cioè per quale motivo appunto venga detto «in principio erat verbum», anziché «a principio» (Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem, 40-42). Il Logos, infatti, è nel Principio, e non dal Principio. Ciò apre una aporia di grande rilievo protologico: se, da un lato, il Verbo non è identificato con il Principio, proprio in quanto è nel Principio (ma non, appunto, il Principio); dall’altro, il Verbo finisce per legare a sé inevitabilmente la funzione generativa immanente del Padre. In altre parole, che il Verbo (o Figlio) sia en arché significa che necessariamente deve venirsi a concepire un Principio che sia intimamente generante, iniziante, cioè che sia destinato a produrre ciò di cui è principio. Già nel Principio, dunque, viene a trasferirsi quella relazionalità necessaria che costituisce il Padre in quanto Padre, il quale non può esser tale se non è in Lui eternamente il Figlio (stessa argomentazione in Agostino - In Ioh. Ev., 19, 13 -). Tuttavia, quell’aporia viene ulteriormente aggravata dal fatto che, come interpreta a mio avviso correttamente la questione Massimo Cacciari, il sussistere del Logos nel Principio non può riguardare semplicemente e soltanto il Logos o Figlio, ma addirittura anche il Padre, in quanto è proprio la loro «reciproca prossimità» a darsi per entrambi a partire dal Principio, in quanto essa «sussiste nel principio» ma non è il Principio: «l’arché non si identifica né col Logos, né con ò Theòs, e quindi ò Theòs è da intendersi come l’abissale arché o «Inizio» in cui Padre e Figlio sono ancora «In-differenza dei distinti», ossia Inizio non condizionato ad-iniziare necessariamente, ad ek-sistere. Più esplicitamente, «Padre e Figlio - e l’intero dramma della loro distinzione - sono nel principio; il principio è di entrambi» (cfr. M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 180, corsivo mio). L’Inizio, così com’è pensato da Cacciari, non è mai necessitato ad iniziare, ad esser-causa di un mondo, e d’altra parte non è nemmeno necessitato a non-iniziare, a restare eternamente un nulla sterile. Esso, piuttosto, pur non essendo «potenza» delle determinazioni che da esso devono necessariamente provenire, non è nemmeno la «negazione della loro possibilità». Di conseguenza, esso «è compossibilità del procedere ad esse come del non-procedere»; e, per tale motivo, «l’arché in cui consistono non è né Figlio, né Padre, e neppure è non-Figlio o non-Padre» (ivi, p. 181). Questo vuol dire che il Principio in se stesso considerato, in quanto Inizio puro non-necessariamente-iniziante (ma nemmeno necessariamente-non-iniziante), non può essere considerato già come il Padre: «se il nome dell’arché fosse il Padre - e perciò simul la relazione cui il Padre, in quanto tale, appartiene - l’Inizio escluderebbe silenzio e abisso» (ibid.); ma, «in quanto In-differenza dei distinti, l’arché è, invece, silenzio e parola, manifestazione e abisso» (ivi, pp. 181-182). Silenzio e parola: non-dirsi, cioè, e simultaneamente dirsi. In questo paradosso dall’ineluttabile auto-contraddizione interna consiste l’Inizio abissale. ↩︎

  31. Ibid. Ed in effetti, Eriugena sostiene che nelle proprie Idee, attraverso il Verbo, quindi nel suo seno stesso la Divinità fa se stessa mentre fa l’altro da sé; così leggiamo nel seguente passo eriugeniano: «essa stessa vi si crea (seipsam creat), cioè essa incomincia ad apparirvi nelle sue teofanie (in suis theophaniis incipit apparere), volendo emergere, per così dire, dal segreto più nascosto della sua natura (ex occultissimis naturae suae finibus volens emergere)» (Eriugena, Periphyseon, III, 23). ↩︎

  32. G. Scholem (1986), p. 67. In un testo di Azrièl, il Perùsh Aggadòth, il mistico riconduce il «luogo» originario del Genesi, in cui avviene la creazione, ad un «abisso» (tehòm), che sconfina nel puro nulla. Ma ciò che è più importante è che l’abisso non è qualcosa di esterno a Dio, «ma il simbolo di un elemento proprio di Dio stesso» (cfr. Scholem (1973), p. 530). Scholem ricorda che «anche Pico della Mirandola, il primo dei cosiddetti cabalisti cristiani, […] nelle sue Tesi cabalistiche edite a Roma nel 1486, parla di Dio «nell’abisso della sua tenebra» (Conclusiones Cabalisticae secundum propriam opinionem, § 35, citato da Scholem (1986) p. 67). Tra le corrispondenze più evidenti va, comunque, ricordata quella tra il Nulla della Divinità, e l’Abisso senza-fondo, nozione ripresa da molti filosofi e teosofi. Scholem stesso paragona l’En-sof all’«Ungrund» bohmiano, «il senza-profondità appena intuito, nascosto ancora nel nulla assoluto» (cfr. Scholem (1973), p. 547), e afferma appunto che «i discorsi di Azrièl ricordano l’Ungrund di Jakob Bohme» (ivi, p. 539). ↩︎

  33. Scholem (1973), p. 530 (in nota). ↩︎

  34. Il fatto che la prima ipotesi si concluda con l’auto-annullamento dell’Uno, il quale non è neppure-Uno, implica non solo che l’Uno non abbia l’essere, ma addirittura che non sia nemmeno tale da essere Uno (scrive, infatti, Platone: «E allora per nessun modo l’uno è. […] Non è tale quindi da essere uno» — Parm., 141 e; corsivo mio). Ciò vuol dire che l’Uno non solo non è, nel senso di non esistere (non ha l’esti), ma non ha nemmeno l’ousìa, intesa non soltanto come mancanza dell’essenza o essere sostanziale, bensì proprio come mancanza della sua «natura», della sua (unica) determinazione più propria, il suo eidos, o anche il suo «ô?», cioè il suo essere un qualcosa, una certa determinazione: quella che lo fa per l’appunto Uno. Di conseguenza, l’Uno, sciolto già dall’essere («né è»), ossia già non-essente, rimane anche privo del suo ô?, della sua determinazione essenziale, ossia della sua idea di unità in contrapposizione a molteplicità, idea di unità che è data dalla sua semplice auto-identità, dal suo concetto (che, del resto, è assolutamente «vuoto» e indeterminato, per stessa ammissione di Platone: «non c’è quindi modo né di nominarlo né di farlo oggetto di un discorso né di opinare su di esso né di conoscerlo», 142 a 4-5). ↩︎

  35. Damascio scrive che il Meta-Principio ineffabile, al di là persino dello stesso Uno, è «al di là di tutto ciò che è posto in una qualsiasi maniera che sia (tò pànton epékeina tòn oposdèpote titheménon)» (cfr. Damascius, Traité des premiers principes, texte établi par L. G. Westerink et traduit par J. Combès, Les Belles Lettres, Paris, vol. I, De l’ineffable et de l’un, 1986; vol. II, De la triade et de l’unifié, 1989; vol. III, De la procession de l’unifié, 1991. La citazione è dal vol. II, p. 23, 3-6). ↩︎

  36. Damascio usa il termine peritropé («capovolgimento» o «rovesciamento» del discorso), in quanto parlare del Principio totalmente ineffabile significa invertire qualsiasi cosa si dica o si predichi di esso: «se invece è necessario dare qualche indicazione [del Principio], bisogna allora servirsi delle negazioni di questi predicati; dire che non è né uno né molti, né generatore né non generatore, né causa né non causa. Bisogna per l’appunto servirsi di queste negazioni che, non so come, si capovolgono [peritrépesthai] totalmente all’infinito» (cfr. Damascius, ivi, vol. I, p. 22, 15-19). ↩︎

  37. Cfr. Damascius, vol. I, p. 62.4-9. ↩︎

  38. Citato da Scholem (1986), p. 57. E lo studioso ricorda che «anche il grande mistico ismailita Nasir-i Khusraw (XI sec.) afferma che la volontà di Dio non è qualcosa, è ben lungi dall’essere una cosa (Ding)» (ivi, p. 58, corsivi miei). ↩︎

  39. Ivi, p. 55 (corsivo mio). ↩︎

  40. Scholem (1965), p. 44. ↩︎

  41. Ibid. (il corsivo è di Scholem). In altri cabalisti, troviamo non solo l’identificazione del Nulla con Dio, ma persino con il Bene in quanto tale, o, meglio, in quanto Principio. Per esempio, Scholem afferma che «Ezrà riferiva il «molto buono» di Gen. 1, 31, alla comunione di tutte le cose con il nulla àyin, che, egli nota, è per l’appunto il vero principio del bene» (Scolem (1973), p. 521, corsivo mio). ↩︎

  42. Scholem (1965), p. 296. ↩︎

  43. Ivi, p. 287. E, poco più avanti, Scholem precisa che «l’emanazione delle Sefiròth è un processo che ha luogo in Dio stesso». ↩︎

  44. Scholem (1973), p. 542 e nota (corsivo mio). ↩︎

  45. Ivi, p. 543 (tutti i corsivi miei). ↩︎

  46. Azrièl, citato da Scholem (1973), p. 545. ↩︎

  47. Cfr. ivi, p. 409. ↩︎

  48. Ivi, p. 411. ↩︎

  49. Ivi, p. 415. ↩︎

  50. Cfr. Pseudo-Dionigi, V Lettera al Ministro Doroteo (Ep. V, 1073 A), in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, cit., p. 425. Qui, Dionigi afferma che «la divina caligine (gnòphos) è la luce inaccessibile nella quale si dice che abita Dio. Questa luce è invisibile a causa dello splendore supereminente e non si lascia penetrare» (nelle Sacre Scritture troviamo «nube oscura», gnophòdes nephéle, per esempio in Es. 20,21; in Gb. 22,13; in Sir. 45,5). ↩︎

  51. Ivi, p. 422. ↩︎

  52. Citato in Scholem (1973), pp. 421-422. ↩︎

  53. Riportato da Scholem, ivi, pp. 422-423 (corsivo mio). È proprio dall’Abisso divino, coincidente con l’Indistinzione del Nulla, che viene concepita la Sua Sapienza; tant’è vero che, poco più avanti, si legge: «poiché dalla sua parola e dalla sua volontà, l’Essere è stato prodotto dal nulla» (ibid., corsivo mio). In Scholem (1986), lo studioso riporta un documento di estremo interesse, presente nel Cod. Hebr. 249 della Vaticana, f. 20 b; si tratta di un commentario al Sefer Jetzirah di poco successivo al 1300, ove si legge: «La Sapienza emana dalla Corona, che si chiama ’En sof o nulla; ma l’essere, che costituisce il mistero delle sefiroth chockhmah e binah, origina dalla Corona suprema, che si chiama nulla, e proprio questo è il mistero della creazione dal nulla» (cfr. ivi, p. 63, in nota). ↩︎

  54. Cfr. Scholem (1986) p. 62. ↩︎

  55. Ivi, p. 63. ↩︎

  56. Scholem (1973), pp. 513-514. ↩︎

  57. Ibid. ↩︎

  58. Citato ibid. ↩︎

  59. Questo passo viene riportato da Scholem (1973), a p. 517 (corsivo mio). ↩︎

  60. Citato ivi, 524-525 (il corsivo è mio). ↩︎

  61. Ivi, p. 525. Anche un altro cabalista, Nachmanide, nel suo commento a Jetzirà, I, 7, sostiene che l’essere supremo va inteso come il «nulla assoluto», precisando che si tratta proprio «della divinità stessa o per lo meno della prima sefirà» (citato ivi, p. 524). ↩︎

  62. Citato ivi, p. 525. ↩︎

  63. Ivi, p. 526. ↩︎

  64. Scholem (1986), p. 65. ↩︎

  65. Scholem (1965), p. 286. Lo Zòhar è «il testo più importante della Qabbalah», come ci informa Scholem ne I segreti della creazione (cfr. Scholem (2003), p. 13), tradotto col titolo di «Libro della radianza» o «Libro dello splendore»; sia la data di pubblicazione che l’identità dell’autore di tale testo cabalistico sono tuttora controversi; si ipotizza la seconda metà del XIII secolo. ↩︎

  66. Ivi, p. 354. ↩︎

  67. Ivi, pp. 296-297 (corsivi miei). ↩︎

  68. È il caso di ricordare che nella cabalà qualsiasi porsi in essere dell’Assoluto è preceduto già sempre da uno sprofondare nel Nulla, o, comunque, è simultaneo al suo «ritrarsi», al suo «eclissarsi»: «un abisso si apre insieme al darsi di ogni qualcosa» (Scholem (1986), p. 73). ↩︎

  69. Scholem (1965), p. 297. Il nesso tra Nulla ed Essere in Dio, così come quello tra Indistinzione e impossibile posizione del proprio sé, pare avere un’ulteriore conferma nell’esito ultimo dell’auto-concezione dal Nulla, da parte di Dio stesso, che nelle sefiròth alla fine giunge a porre il proprio Sé. Infatti, «la parola ebraica per «nulla», «’àyin», ha le stesse consonanti di ’anì, «io» […]. In quanto quindi l’’àyin diventa anì, il Nulla nell’atto della progressiva manifestazione del suo contenuto trapassa repentinamente nelle Sefiròth e da ultimo si trasforma nell’Io» (ibid). ↩︎

  70. In epoca contemporanea la ritroviamo in modo più o meno implicito, presso molti filosofi, soprattutto di nazionalità ebraica. Vorrei ricordare Simone Weil, la quale (Attente de Dieu, Paris 1949, trad. it. Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008) parla della creazione non come «un atto di auto-espansione, ma di diminuzione e di rinuncia», atto che implica necessariamente un auto-annullamento di Dio stesso: «Egli ha annullato in sé una parte del suo essere». Non va dimenticato anche un autore umanistico come Bovelles, la cui dottrina del Nulla riprende il concetto di auto-contrazione rispetto all’essere (cfr. C. de Bovelles, Libellus de nihilo, trad. it. Il piccolo libro del nulla, cur. P. Necchi, Il Melangolo, Genova 1994). La dottrina bovilliana del nulla è stata fatta oggetto di attento esame da parte di Sergio Givone (cfr. S. Givone, Storia del nulla, Editori Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 155-160). ↩︎

  71. Cfr. Scholem (1965), p. 297. Altrove, possiamo leggere: «i cabalisti amavano denotare, con simbolismo geometrico, la sapienza divina come il «punto originario» di tutte le cose: come quel punto cioè che, senza esso stesso propriamente «essere», rappresenta tuttavia l’origine di ogni essere. Nella successiva emanazione delle sefiroth prossime, il punto assume, per così dire, dimensioni» (Scholem (1986), p. 65). È appena il caso di ricordare che nel Parmenide, proprio per indicare quel punto intermedio (metaxy) tra essere e non-essere che deve permettere il passaggio contraddittorio tra stati opposti, Platone ricorre ad una figura misteriosa, simile proprio al «punto» senza dimensioni, qual è l’exaìphnes: «Ma dunque ci sarà questa cosa assurda (àtopon) in cui esso [scil.: l’Uno] è allorquando muta? — Che cosa? — L’istante (exaìphnes). Pare che ‘istante’ significhi qualche cosa di simile: ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte» (Parm.156 c - d). Ho affrontato queste tematiche nel mio Dialettica aporetica. Il Parmenide di Platone nella dialettica hegeliana, Il Prato, Padova 2010, al quale mi permetto di rinviare il lettore. ↩︎

  72. Scholem (1965), pp. 354-355 (corsivo mio). ↩︎

  73. Ivi, p. 355. ↩︎

  74. Ibid. E in Scholem (1986), p. 71, lo studioso ribadisce che «il primo atto della creazione non può, allora, consistere in un procedere di Dio fuori di sé — […] processio Dei ad extra -, bensì deve essere un processo di Dio in se stesso». ↩︎

  75. Scholem (1965), p. 355. ↩︎

  76. Ivi, p. 356. ↩︎

  77. Scholem (1986), p. 70. ↩︎

  78. Meister Eckhart, nella sua esegesi del passo biblico in cui Dio autodefinisce se stesso come «Ego sum qui sum» (Esodo 3, 14), afferma che la Deità (Gotheit) si auto-genera come Padre, Figlio e Spirito Santo, mediante un’auto-riflessione in se stessa della sua stessa Indistinctio (Dio è, per Eckhart, purissima Indistinzione che però al tempo stesso si distingue da tutto proprio grazie alla sua stessa Indistinzione: «Indistinctum oppositum distincto, quo sua indistinctione distingitur» — Eckhart, Commento al Libro della Sapienza, n. 154). Ora, quell’auto-presentazione mostra che la Gotheit, pur essendo nel proprio Abisso non necessitata a generare («nec generans nec genita est», né generante né generata), si decide, prima ancora che a creare un mondo o un Altro da Sé, a dare origine a Se-Stessa. L’auto-affermazione dell’Esodo, per Eckhart, non è che un duplicare (e perciò auto-generare) se stesso da parte di Dio; precisamente si tratta di una «ripetizione» di sé, la quale «rende visibile la purezza dell’affermazione nell’esclusione di ogni negazione (affirmationis excluso omni negativo ab ipso deo); rende inoltre visibile un rivolgersi a sé e un restare in se stesso (in se ipsum et super ipsum reflexivam conversionem et in se ipso mansionem sive fixionem), o uno star saldo; poi ancora un ribollire o un generar se stesso (bullitionem sive parturitionem sui) […] l’unità genera - o ha generato - unità (monas monadem gignit - vel genuit -) ed ha rivolto a sé il suo amore e il suo fuoco» (Eckhart, Expositio libri Exodi, LW II, 21, 7). Sebbene dunque nel suo più profondo e intimo Abisso la Deità non debba necessariamente generare, nondimeno per auto-presentarsi e per auto-affermarsi (così come avviene nell’auto-definizione biblica «Ego sum qui sum») Dio deve avviare dentro di sé un «ribollire o un generare se stesso». Solo perché Dio viene ad auto-definirsi innanzitutto a se stesso, ha un senso il generare se stesso, giacché solo per auto-identificarsi la Deità si decide ad auto-individuarsi, vale a dire a concepire appunto un Se-Stesso, divenendo Padre, Figlio e Spirito Santo. Altrimenti, essa resterebbe eternamente «nec generans nec genita est». ↩︎

  79. I concetti di cui qui si discute sono, per certi versi, riconducibili alle speculazioni di Massimo Cacciari svolte in Dell’Inizio (1990). ↩︎

  80. Scholem (1986), p. 71. ↩︎

  81. Ibid.. ↩︎

  82. Ivi, p. 72. ↩︎

  83. Ivi, p. 71. ↩︎