Una possibile definizione di «normativo». Lettura a partire dalla spiegazione di Ross

Intendiamo, col presente saggio, aprire un discorso sulla vasta gamma di significati che possiamo attribuire al concetto di «normativo».1 Per fare ciò ci riferiremo principalmente, e talvolta esclusivamente, al campo del diritto, sebbene la dimensione normativa sia propria anche di altre discipline come, ad esempio, l’etica o l’antropologia. Ciò, evidentemente, solleva alunne perplessità, non ancora delle difficoltà decisive. Pertanto, ci chiediamo: perché scomodare una disciplina austera e aliena da facili speculazioni come il «diritto»? D’altra parte ci appare impossibile parlare di «normativo» senza chiamare in causa, in un modo o in un altro, la nozione stessa di «diritto». Infatti: che sarebbe il normativo senza il diritto? Ma, privilegiare questo filone discorsivo, apparirebbe sminuire altri sensi tra i vari possibili che vi si potrebbero attribuire. Ragion per cui decidiamo di seguire la costruzione di Ross che ha il pregio, oltre a quello raro della chiarezza, di muovere da un’impostazione antropologica per cercare di spiegare le nozioni correlate di «normativo» e «diritto».

Allora, come intendiamo muoverci? Semplicemente, assumiamo il concetto di regola,2 schema qualificativo della condotta umana in un contesto dato e per destinatari dati, e vediamo come, all’interno dell’apposito contesto (sociale), fatto e regolato da/di regole, una singola norma (Q) assuma senso compiuto e «forza» nell’esplicare i suoi effetti in coordinazione con altre Q. Orbene, ci sembra ovvio che valendo Q1, Q2, … , Qn in un ordinamento X, questo fatto prenda il nome di «normatività». Ovvero: la validità3 di una norma Q generica fa sì che sia immediatamente efficace, cioè che esplichi da subito i suoi effetti obbliganti su un destinatario o insieme di destinatari. Tale efficacia coattiva prende il nome, nell’odierna scienza del diritto, di «normatività». Eppure, ci poniamo anche il problema di come, in termini logici, tale fenomeno sia definibile. Dunque, lo è? Un tentativo, sia pure parziale4 e non esente da limiti, in questa direzione è stato compiuto dalla c.d. «Logica Deontica».5 Eppure crediamo che, senza addentrarci nella problematica del calcolo deontico vero e proprio, sia possibile fornire una definizione, mantenendo invariate le caratteristiche di cogenza e chiarezza teoretica che solo la logica consente, il più possibile esaustiva del concetto in esame: la «normatività».

Per far ciò, poniamo mente, e seguiamo, l’argomentazione suggestiva propostaci da Ross.6

Pensiamo ad una un società primitiva, i Noît-cif, la quale usa qualificare come «tû-tû» le violazioni di certi tabù. La cosa strana — o: bizzarra, il che è lo stesso — è che anche la persona che ha commesso tû-tû è «diventata tû-tû».7 Ovviamente, difficile appare dire cosa si intenda con «tû-tû».

Soffermandoci su di un piano puramente intuitivo, e costatando la scrittura etnografica dei Noît-cif, sembra che con «tû-tû» si intenda:

una sorta di pericolosa forza od infezione che investe la persona colpevole e minaccia l’inera comunità di disastro.8

Per questo motivo, infatti, la persona colpevole deve essere sottoposta ad uno speciale rituale di purificazione per essere ri-ammessa nella comunità.

Ma si tratta, ovviamente, della spiegazione più plausibile, per una mentalità occidentale, di usi e costumi tanto distanti dai nostri. L’antropologia culturale, infatti, non esiterebbe a dire che la nostra è un’interpretazione non culturale, ma mentale, di una società diversa dalla nostra.9 Detto altrimenti: potremmo non comprendere, come invece crediamo di fare, la società «primitiva» in maniera non dissimile da come faceva Frazer con il Ramo d’Oro secondo Wittgenstein.10

In quel caso, infatti, l’etnologo inglese interpretava come «false» e «superstiziose» le concezioni scientifiche dei primitivi mentre Wittgenstein, dall’alto della sua interpretazione delle società umane come insiemi retti da regole linguistiche, o «giochi linguistici», considerava erronea l’interpretazione di Frazer. Il fatto era che una comunità culturale, altra dalla nostra, veniva interpretata secondo la nostra cultura, destituendone il carattere di alterità e non considerandola nella sua ipseità,11 ma in relazione, di maggiore o minore prossimità, con la nostra. In parole semplici: l’errore di Frazer è quello di essere etnocentrico laddove l’adeguata prospettiva da assumere nell’ottica antropologica è il relativismo culturale.

Tornando a Ross, la sua forma mentis fortemente realistica, e a tratti neopositivista, lo porta a concludere che, a scanso di equivoci, «tû-tû» non è niente, è semplicemente una parola vuota di qualsiasi significato.12 Eppure, questo mero non-senso

svolge una funzione nel linguaggio quotidiano di quel popolo.13

In effetti, i giudizi espressi con «tû-tû» sembrano in grado di adempiere le due funzioni principali del linguaggio: prescrivere e descrivere.14 Meglio: tali giudizi servono per esprimere comandi o per fare asserzioni riguardanti fatti.

Orbene, tanto le prescrizioni quanto le descrizioni intrattengono un (dato) rapporto con la realtà, o «situazione di fatto». Infatti, se la descrizione è un accordo con la situazione di fatto, oggetto di descrizione, la tale descrizione è vera.15 In proposito Ross precisa che il riferimento semantico ad una data situazione di fatto di un dato enunciato dipende dagli usi linguistici della comunità. Pertanto, se fine del linguaggio sarà descrivere una situazione di fatto, avremo una descrizione. Ma se fine del linguaggio sarà prescrivere, certi comportamenti, o, detto altrimenti, produrre norme o regole,16 l’enunciato che avremo sarà non una descrizione ma una prescrizione.

In termini analitici, sebbene non vogliamo minimamente proporre in questa sede una definizione di «analitico»,17 la descrizione, nel secondo caso, esprime una direzione (di adattamento) parole-a-mondo; invece, la prescrizione una direzione (di adattamento) mondo-a-parole.

Possiamo, pertanto, dire che i giudizi di «tû-tû», quantunque e sebbene, privi di qualsivoglia significato, funzionano assai bene come espressione sia di asserzioni sia di prescrizioni.18

Il tentativo di Ross è volto a tentare di spiegare come tutto questo sia possibile.

Stando alle sue fonti,19 egli sostiene che siano particolarmente utilizzate dalla comunità locale le due asserzioni:

a) se una persona ha mangiato del cibo del capo, è tû-tû;

e,

b) se una persona è tû-tû, essa deve essere sottoposta ad una cerimonia di purificazione.

Anche prescindendo dal riferimento semantico, tale espressione noi otteniamo, combinando tra di loro (a) e (b), l’affermazione (c): «se una persona ha mangiato del cibo del capo, essa deve essere sottoposta ad una cerimonia di purificazione».

Questa conclusione, dato che lo schema logico qui adombrato è quello dell’inferenza pratica, è, ovviamente, una frase prescrittiva pienamente dotata di significato20 e per di più priva della minima traccia di misticismo.21 Come mai? Rigore vorrebbe che, data l’insensatezza di (a) e (b), anche (c) soffrisse del medesimo vizio. Ad esempio, stando alla lettera aristotelica,22 il sillogismo indeterminato pone illegittimamente in relazione X e Y, facendo sì che la conclusione (una qualsiasi) J sia del tutto improponibile. E il fatto è che nessuna linea di derivazione necessaria può essere scorta tra i termini posti in relazione da hypárchei.

Il problema in Ross nasce dal fatto che, in matematica, «se a = b e b = c, allora a = c», ma tale schema funziona anche in presenza di frasi, come «tû-tû», del tutto insignificanti, e per di più senza alcun riferimento semantico con la realtà.

Questo meccanismo è stato efficacemente studiato dalla c.d. logica classica. Infatti, noi abbiamo, in termini non formali, che A => B, B => C = A => C. E questo perché, dicendola à la Lévinas, mutuando argomentazioni adoperate in tutt’altro tipo di discorsi, si utilizza un medio di contraddizione per operare la sintesi di tesi e antitesi, sciogliendo hegelianamente la contesa.23 Tale medio ha la stessa funzione di (b): fungere da termine (inter-)medio che consente la derivazione da (a) di (c). La cosa stupefacente, e che qui fa problema, è che il meccanismo funziona a prescindere dal fatto che (b) (o: B) abbia un riferimento con la realtà o abbia un dato significato. Ai fini della deduzione non importa che «tû-tû» abbia significato o sia vero, lo schema logico funziona ugualmente. Così non avveniva, per inciso, in Aristotele.

A questo punto, Ross ritiene che non possa più sfuggire al lettore che, posto «tû-tû», il ragionamento discusso tende a mostrare se la persona in questione ha commesso una delle violazioni rilevanti di tabù, e se la norma di purificazione è, di conseguenza, applicabile o meno. Questo perché, sebbene la parola «tû-tû» non abbia alcun significato, le frasi in cui questa parola ricorre non sono fatte a caso.24 Ciò spiega come mai la frase in cui ricorre «tû-tû», priva di alcun significato, abbia comunque riferimento semantico. Infatti, (c) (o: C) si compone di una particolare dimensione semantica con una complessa situazione in cui si possono distinguere due parti:

  1. stato di cose in cui X ha infranto il tabù (stato di cose 1);
  2. stato di cose in cui la norma valida che richiede la purificazione è applicabile a X

(1) e (2) descrivono una situazione secondo cui, nella migliore delle ipotesi, e parafrasando tra le righe, X sarà esposto con ogni probabilità ad una reazione da parte della comunità.25 Questa situazione la chiamiamo stato di cose 2.

Orbene, data l’esistenza di stato di cose 1 e stato di cose 2, si assumerà per vero il giudizio che «X» è tû-tû.26 Ne consegue che

è la combinazione di questi due stati di cose che […] costituisce il riferimento semantico della frase27

In questo modo un’asserzione che X è «tû-tû» è verificabile provando l’esistenza della prima o della seconda situazione di cose. L’una o l’altra, infatti, non fa differenza perché nella cultura della tribù queste due situazioni di cose (stato di cose 1 e stato di cose 2) sono sempre legate l’una all’altra. In questo modo è corretto dire che X è tû-tû perché ha mangiato del cibo del capo28 e X è tû-tû perché la norma di purificazione gli è applicabile.29 Ma si evita il caratteristico circulus vitiosus perché «tû-tû» non sta per nulla, venendo così a cadere l’obiezione che stando «tû-tû» per qualcos’altro sia impossibile fondare una relazione tra la condizione e la conseguenza.

In realtà (a), (b) e (c) esprimono, ognuno a suo modo, il fatto che chi ha mangiato del cibo del capo deve sottostare ad una purificazione cerimoniale.30 Per il fatto di essere inserita nella frase «X è tû-tû», non importa che tû-tû non significhi nulla. Infatti, soltanto la frase intera ha riferimento semantico. Ma in tale riferimento è impossibile distinguere una certa quantità o qualità ascrivibile a X e che corrisponda alle parola tû-tû. Parimenti, destinato al fallimento è qualsiasi tentativo di

ascrivere alla parola «tû-tû» un riferimento semantico indipendente31

Ciò vuol dire che il meccanismo funziona ugualmente, anche quando gli attori sociali non siano consapevoli di tale meccanismo e funzione di «tû-tû». In questo modo Ross sostiene, dimostrandolo, come i vari (e possibili) tentativi di ascrivere riferimento semantico a «tû-tû» siano destinati a fallimento.

Concludendo, Ross sostiene che si tratta tutta di una favola.32 I Noît-cif non esistono, né tantomeno esiste qualcosa che venga detto «tû-tû». Il rovesciamento di aspettative avviene rivelando che tutto questo parlare di Noît-cif e «tû-tû» non sia altro che parlare, mutatis mutandis, di «noi» e della problematica «diritto-dovere». Infatti:

le nostre regole giuridiche sono in ampia misura redatte secondo una terminologia di «tû-tû»33

Rendiamo comprensibile il presente rovesciamento dei presupposti. Ad esempio, avendo: 1) se si concede un prestito, nasce una pretesa; 2) se esiste una pretesa, il pagamento deve essere fatto alla scadenza dovuta; abbiamo una circonlocuzione per dire: 3) se si concede un prestito, il pagamento deve essere fatto alla scadenza dovuta.

La «pretesa», ricorrente in (1) e (2), come «tû-tû», è del tutto irreale, una parola vuota, priva di alcun significato, di un qualunque riferimento semantico. Questo ci porta a dire che, come i Noît-cif, ci esprimiamo

come se qualcosa fosse venuto in essere tra il fatto condizionante (fatto giuridico) e la conseguenza giuridica condizionata34

In altri termini, esprimendoci come i fantasiosi Noît-cif, avanziamo una «pretesa», un «diritto» che, alla stregua di un «veicolo intermediario»,35 o «termine medio» (Aristotele) o «medio di contraddizione» (Levinas), come l’anello di una catena causale, produce un effetto, o fornisce il titolo per una conseguenza giuridica. Il che non impedisce, quando non suggerisca, di associare al «diritto»

una specie di interiore e di invisibile facoltà di dominio sull’oggetto del diritto36

Un potere, né più né meno, che si manifesta attraverso l’esercizio della forza per mezzo del quale l’uso e il godimento manifesto e fattuale del diritto si effettua, ma che dall’uso della forza è nondimeno diverso.37

Ovviamente, possiamo pure notare, sotto la veste del «tû-tû», l’operare di una mentalità primitiva che sussiste anche nella nostra post-moderna civiltà.

Tuttavia la cosa che dovremmo chiederci è: possiamo addurre solidi e validi motivi per mantenere la struttura del «tû-tû» per fornire un’efficace presentazione delle regole giuridiche?38 La risposta (possibile) che possiamo dare non è scevra da conseguenze, anche rilevanti. Infatti, una (eventuale) risposta affermativa limiterebbe il ferreo bando che l’impostazione epistemologica giuspositivistica impone alla trattazione dei «diritti», rights nella Jurisprudence contemporanea, nonostante che recentemente molte, e fondate, voci critiche si siano levate al riguardo.39

Comunque, sostiene Ross:

compito del pensiero giuridico sia quello di ridurre sotto forma di concetti le regole giuridiche in modo che esse siano riportate ad un ordine sistematico, e in questo modo dare una redazione del diritto vigente il più piano e il più conveniente possibile.40

Infatti, la struttura condizionale (se … allora) che possiamo individuare nell’impostazione normativa, e in un determinato ordinamento normativo, che della prima è la realizzazione sistematica e su grande scala, è, astraendo le caratteristiche comuni,41 del tipo seguente:

F1-C1 F2-C1 F3-C1 … Fp-C1 F1-C2 F2-C2 F3-C2 … Fp-C2 F1-C3 F2-C3 F3-C3 … Fp-C3 F1-Cn F2-Cn F3-Cn … Fp-Cn

Nella terminologia rossiana, il fatto condizionante F1 è connesso con la conseguenza giuridica C1; il fatto condizionante F2 con la conseguenza giuridica C2; e così via. Alla fine otteniamo che la struttura formale di un sistema normativo è Fn-Cn, ovvero a illecito I corrisponde sanzione S.42 Sul fatto che il diritto è costitutivamente un uso, sia pur disciplinato, della forza, tale da apparire come una «tecnica sociale coattiva»,43 ne parla Kelsen nel 1934,44 in un periodo in cui sorge un’attenzione nuova attorno agli usi sociali e alle sue implicazioni normative.

Pertanto, ad ogni singolo fatto condizionante di una certa totalità di fatti condizionanti (F1-Fp) è connesso con ogni singola conseguenza giuridica di un certo gruppo di conseguenze giuridiche (C1-Cn). Ciò significa che ogni singolo F è connesso con lo stesso gruppo di conseguenze giuridiche (C1+C2 … +Cn). O anche: una pluralità di conseguenze giuridiche è connessa ad una pluralità disgiuntiva di fatti condizionanti.

La stessa tecnica vale sia nei riguardi del c.d. «diritto soggettivo», come nel caso della «proprietà», sia nel caso del c.d. «diritto oggettivo». Ad esempio, nel diritto internazionale una serie di regole può stabilire quale area appartenga ad un certo stato, come territorio di esso. Ad ogni modo, infatti, l’anello intermedio non è solo un diritto, ma una condizione giuridica composita di diritti e doveri.45

Queste argomentazioni servono a Ross per definire la scienza giuridica come processo di spiegazione dei diritti a partire dalle regole di una data società. Tuttavia ancor prima della rivoluzione scientifica dei giorni nostri le comunità umane si sono già date regole per poter vivere,46 anche se spesso, e per molti secoli, hanno assunto la forma del totem identitario e/o del tabù.47

Il discorso ci conduce, dunque, a individuare il «senso» del diritto, ed anche del fenomeno complesso del «normativo», e che possiamo spiegare per il tramite della metafora del «tû-tû». Infatti, qualunque sia la costruzione, la realtà che vi è dietro è la medesima: rappresentare con chiarezza ed ordine le assai spesso, se non sempre, complicate serie di regole giuridiche. Da questo punto di vista, concetti come «proprietà», «pretesa», «diritto» hanno lo stesso senso di «tû-tû»: sono termini privi di alcun significato, ma utili se adoperati come tecnica di presentazione.48

La medesima tecnica di presentazione ci consente, tra le altre cose, di scorgere una vera e propria struttura, anche e per lo più inconscia, che regge le comunità umane e che ne spiega il carattere fondante dell’unità comunitaria. Senza «tû-tû», in altre parole, non comprenderemmo il «perché» del carattere normativo delle nostre società e il concetto, derivato dal primo, di «normativo».

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  1. In realtà, tra tutti ne privilegeremo uno in particolare. ↩︎

  2. D’ora in poi Q. ↩︎

  3. Cos’è la validità di Q se non il semplice fatto che Q esiste in un ordinamento X tale da applicarsi e da esplicare da subito i suoi effetti? Ci serviamo, al riguardo, delle importanti riflessioni di H. Kelsen, Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985. ↩︎

  4. Al riguardo, vedansi P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992 e T. Mazzarese, Logica deontica e linguaggio giuridico, CEDAM, Padova, 1989. ↩︎

  5. Su cosa sia la c.d. Logica Deontica si veda soltanto G. Di Bernardo, Introduzione alla logica dei sistemi normativi, il Mulino, Bologna, 1972, pp. 7-8. ↩︎

  6. Cfr. A. Ross, TÛ-TÛ, 1958. Ora in U. Scarpelli — P. Di Lucia (a cura di), Il linguaggio del diritto, LED, Milano, 1994, pp. 119-134. ↩︎

  7. Ibidem↩︎

  8. Supra↩︎

  9. Per una presentazione essenziale e discorsiva dell’antropologia culturale, vedasi Fabietti — Malighetti — Matera, Dal tribale al globale, Mondatori, Milano, 2002. ↩︎

  10. A tal fine, rinviamo a L. Wittgenstein, Osservazioni sul «Ramo d’Oro» di Frazer, Adelphi, Milano, 1992. ↩︎

  11. Sarebbe tal caso perfettamente in uso il caratteristico meccanismo chiamato «imperialismo del medesimo», consistente nell’assimilazione, o omologazione, dell’oggetto al soggetto, secondo la ben nota struttura del pensiero obiettivante, messo in luce, sia pure in discorsi diversi dal nostro, da: E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano, 1998. ↩︎

  12. Cfr. A. Ross, cit., p. 119. ↩︎

  13. Ivi, p. 120. ↩︎

  14. Ibidem. Ross segue in questa sede l’impostazione canonica sugli usi del linguaggio. In analogia con Hare (1952), egli distingue tra due delle principali funzioni svolte dal linguaggio: descrivere e prescrivere. Sulla distinzione descrivere vs. prescrivere vedere la sezione relativa acclusa nella presente. Ad ogni modo generalmente si ritiene che due siano le funzioni principali del linguaggio: prescrivere e descrivere stati di cose. Per esempio, Tarello distingueva due funzioni fondamentali del discorso umano: 1) funzione descrittiva; e, 2) funzione prescrittiva. Al riguardo, vedasi G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Il Mulino, Bologna, 1974 oppure vedasi anche L. Ferrajoli, Linguaggio assertivo e linguaggio precettivo, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1963, pp. 514-545. ↩︎

  15. Viene seguita in questa sede la nota impostazione aristotelica del principio di verità, specie in riferimento al concetto di lógos apophantikós, o «discorso dichiarativo» da apophemi, dichiaro, asserisco. Su una strada originale, pur nel solco della tradizione aristotelica, si inserisce R.M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma, 1968 con la sua nota analisi del linguaggio della morale o linguaggio imperativo. Coerentemente con questa impostazioni, si vedano inoltre A. Visalberghi, Esperienza e valutazione, La Nuova Italia, Firenze, 1958 e B. Celano, Asserzioni e prescrizioni, in G. Nicolaci (a cura di), Segno e evento nel pensiero contemporaneo, Jaca Book, Milano, 1990, pp. 107 e ss. ↩︎

  16. Le regole, o norme, perché enunciati intenzionali volti a dirigere la condotta umana, sono, nella terminologia kelseniana, schemi qualificanti l’azione. ↩︎

  17. Per un’adeguata definizione rimandiamo, invece, a: F. D’Agostini, Analitici e continentali, Cortina, Milano, 1997; F. D’Agostini — N. Vassallo, Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002; G. Pontara, Il presupposto teorico del razionalismo etico, in L. Gianformaggio — E. Lecaldano, Etica e diritto. Le vie della giustificazione razionale, Laterza, Roma — Bari, 1986, p. 117. Invece, ai fini di un collegamento della c.d. «analitica» con la sfera più vasta del «normativo", con riferimenti alle origini storiche della corrente, al dibattito attuale e all’applicazione dell’analisi al diritto, vedasi V. Villa, Conoscenza giuridica e concetto di diritto positivo. Lezioni di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 1993, pp. 64-98. Per una presentazione breve m a efficace, oltre che più approfondita rispetto a Villa (1993), rimandiamo a V. Villa, Filosofia del diritto, in F. D’Agostini — N. Vassallo, Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 355-389. Per una introduzione efficace e argomentata all’analitica dei sistemi normativi, con analisi e giustificazione di «legge di Hume», di «is-ought question», rimandiamo alla monumentale B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994. ↩︎

  18. Cfr. A. Ross, cit., p. 121. ↩︎

  19. Perché, paradossalmente, inesistenti, lo si scoprirà in seguito. ↩︎

  20. Ibidem↩︎

  21. Supra↩︎

  22. Ci rifacciamo liberamente a Aristotele, Analitici primi, I, 138-140. ↩︎

  23. Non è, infatti, l’Aufhebung una sorta di scioglimento della contesa tra una (qualsiasi) tesi e una (qualsiasi) antitesi? ↩︎

  24. Cfr. A. Ross, cit. , p. 121. ↩︎

  25. Cfr. A. Ross, cit. , p. 122. ↩︎

  26. Ibidem↩︎

  27. Supra↩︎

  28. Idem↩︎

  29. Supra↩︎

  30. Ibidem↩︎

  31. Cfr. A. Ross, cit. , p. 123. ↩︎

  32. Infattti, tal Ydobon, autore della scrittura etnografica dei Noît-cif, e il luogo di pubblicazione, Erehwon, da cui Ross avrebbe tratto ispirazione per il suo saggio, non sono altro che l’anagramma, rispettivamente, di Nobody e Nowhere, nessuno e nessun luogo. Ciò vuol dire che Ross, per sua stessa ammissione (vedi nota 1 in A. Ross, cit., p. 119), si è inventato tutto per rendere maggiormente plausibile la sua interpretazione della scienza del diritto e della struttura (complessa) diritto — diritti — usi sociali. ↩︎

  33. Cfr. A. Ross, cit. , p. 125. ↩︎

  34. Ibidem↩︎

  35. Ivi, p. 126. ↩︎

  36. Ibidem↩︎

  37. Supra↩︎

  38. Ovvero: dobbiamo mantenere una forma in cui tra il fatto e la conseguenza giuridica sono inseriti immaginari diritti (p. 126). ↩︎

  39. Tra tutte: R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1981. ↩︎

  40. Cfr. A. Ross, cit. , p. 127. ↩︎

  41. D’altronde non potremmo avere pensiero giuridico se ci limitassimo solamente a conoscere il diritto. Per questo orizzonte del discorso, rinviamo a: G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Giuffrè, Milano, 1962 e K. Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, Giuffré, Milano, 1970. ↩︎

  42. Nella terminologia di Anderson Op = def ? (~ p=> S), ovvero: «obbligatorio (fare) p» significa (definizione di O) che «è necessario che fare non-p comporta un provvedimento di sanzione S». La nostra fonte è G. Di Bernardo, Introduzione alla logica dei sistemi normativi, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 100. ↩︎

  43. A tal proposito, vedasi F. Viola — M. Urso, Scienza giuridica e diritto codificato, Giappichelli, Torino, 1989. ↩︎

  44. Nella traduzione italiana H. Kelsen, Lineamenti di teoria pura del diritto, Einaudi, Torino, 1952, è stata aggiunta un’appendice dal titolo «Causalità e imputazione» (pp. 207-227), in cui l’autore propone una caratteristica assimilazione tra il principio di causalità per le scienze naturali e il principio di imputazione («a illecito segue sanzione», I => S) per le scienze sociali, in primis per la scienza giuridica. Recentemente, tale struttura logica, deontica ante litteram, è stata attenzionata da B. Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen. Un’introduzione critica, Il Mulino, Bologna, 1999. ↩︎

  45. Cfr. A. Ross, cit., p. 129. ↩︎

  46. Scrive, al riguardo, C. Perelman, Logica giuridica. Nuova retorica, Giuffrè, Milano, 1979, p. 34: la giustizia primitiva è stata per secoli condizionata dalla conformità scrupolosa a formule sacre. D’altra parte è risaputo che esiste una base antropologica del sistema-diritto. A tal fine, vedasi S. Cotta, Perché il diritto, La Scuola, Brescia, 1979. ↩︎

  47. D’altro canto, considerare il fenomeno «diritto», senza l’adeguato strumentario concettuale vuol dire correre il rischio di considerarlo esattamente come un fenomeno magico. Al proposito, rinviamo a K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffré, Milano. ↩︎

  48. Cfr. A. Ross, cit., p. 130. ↩︎