Impegno e fuga. Azione e contemplazione nella mistica di Simone Weil

1. Introduzione

Figura atipica nel panorama filosofico del Novecento, Simone Weil si distingue per la cristallina onestà intellettuale. Là dove, infatti, la stragrande maggioranza delle figure culturali del suo tempo paiono fare a gare per darsi una collocazione filosofica, ideologica, politica o religiosa, questa giovane donna francese incarna invece un tormentato ideale di ricerca spirituale che rifugge il conforto e l’autocompiacimento di etichettature identificanti.

La sua avventura umana, segnata da tale genuinità di pensiero, si può appunto rappresentare come l’odissea di un’anima incapace di impoltronirsi e crogiolarsi nelle prassi del sentire e del credere comune, accontentandosi di rassicuranti convenzioni passivamente ricevute dall’esterno. La cifra ultima della vita di Simone Weil, in definitiva, è data dalla passione personale che ha rivolto al duplice e complementare volto della Verità: quello storico della Giustizia e quello trascendente dell’Assoluto. Sebbene la sua vicenda interiore, infatti, non sia giunta ad un approdo religioso o filosofico certo, sono questi i due poli che hanno guidato l’intera esistenza di questa ebrea francese e ne riassumono il percorso. Da un lato, appunto, l’impegno nella storia, in un’epoca in cui il progresso industriale aveva creato grandi disuguaglianze producendo aberrazioni sociali di ogni tipo e preparando il terreno a quei totalitarismi da cui sarebbe poi derivato il più tragico conflitto bellico di ogni tempo; dall’altro la ricerca religiosa non prevenuta ed imparziale, mirata all’“attesa di Dio” e scandita da un’ansia ascetica tesa al distacco e alla liberazione dalle determinazioni angustianti del contingente.

Impegno e fuga, azione e contemplazione, si intrecciano dunque, e si completano, nella breve esistenza di Simone Weil. Risulta dunque opportuno, ai fini di una migliore comprensione della sua testimonianza filosofica, indagare quali siano le radici di questi due antitetici atteggiamenti e dove e come abbiano essi incontrato una sintesi. Da questo punto di vista, per quanto concerne i fondamenti della sua azione politica e sociale, vorremmo analizzare non tanto le radici marxiste, ma bensì, visto che pochi studi l’hanno approfondito, il contesto teologico dell’epoca e la possibile influenza che possono aver esercitato su di lei alcuni pensatori cristiani del primo Novecento. Per quanto riguarda invece la ricerca prettamente religiosa, anzi interreligiosa, cercheremo di mettere in risalto l’interesse dimostrato dalla Weil, negli ultimi anni di vita, verso la mistica renano-fiamminga e soprattutto verso la spiritualità Vedântica e quella della Baghavad Gîtâ, che a nostro avviso le ha appunto permesso di individuare una sintesi possibile tra l’impegno attivo nel mondo e la fuga ascetica da esso.

2. L’azione: le radici teologiche

Fin troppo nota è l’“azione” di Simon Weil, donna tanto rivoluzionaria da vestire i panni, nei primi decenni del Novecento, di filosofa, sindacalista, operaia e guerrigliera. Non è la storia di questo impegno, tuttavia, l’aspetto che vorremmo approfondire, quanto piuttosto le sue radici concettuali, il fatto, cioè, che le varie attività che l’hanno vista protagonista siano conseguenza e corollario di una lucida riflessione intellettuale. Già studiosa di Cartesio, infatti, il suo impegno nel sindacalismo di sinistra è stato indubbiamente influenzato dal pensiero di Marx, sebbene da esso, nel 1934, in occasione dello scritto Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale seppe anche prendere delle distanze.1

Proprio in quegli stessi anni, però, la Weil visse un profondo e per certi aspetti tormentato avvicinamento al cristianesimo che non soltanto l’ha condotta a meditare gli ideali spirituali del Vangelo, ma l’ha anche avvicinata alla riflessione teologica sul sociale che esattamente in quel periodo, e proprio in Francia, stava avendo uno sviluppo significativo.

È il caso di ricordare, a questo riguardo, la sua corrispondenza con Emanuel Mounier, che nel 1932 aveva fondato la rivista Esprit, tra i cui principi ispiratori c’era appunto l’idea di dare vita ad un cristianesimo rinnovato e di sinistra, impegnato, attraverso la riscoperta della “persona”, nelle problematiche politiche e sociali del secolo.2 La Weil fu appunto in contatto con Mounier e con alcuni dei personaggi che ruotarono intorno alla sua rivista, e non è dunque un caso che, negli anni successivi, egli sia stato uno dei principali filosofi che ne ha promosso la figura e celebrato l’opera.3 Quei primi anni Trenta, del resto, anche dopo la condanna del modernismo del 1907, sono stati contrassegnati da un vivo e rinnovato impegno da parte dei pensatori e dei teologi cattolici per cercare di interpretare criticamente le enormi trasformazioni storiche, politiche, sociali ed economiche che, dalla rivoluzione industriale in poi, avevano mutato l’assetto dell’Europa e più in generale quello dell’intero mondo occidentale.

Se alcuni studiosi, per esempio, hanno individuato “il lavoro” come il centro dell’opera della Weil, non si deve ignorare che proprio in Francia, con Gustave Thils, è nata la teologia della realtà terrestri, e, al suo interno, una prima teologia cristiana del lavoro.4 Soprattutto, però, è in questo Paese che si è originato quel glorioso dibattito, come è stato definito, tra incarnazionisti ed escatologisti, la cui importanza è facile sottolineare ricordando che da esso ha avuto origine uno dei più importanti documenti conciliari, la Gaudium et Spes, la quale si propose appunto di fare una sintesi tra le opposte posizioni espressa da queste due correnti.5

Incarnazionismo ed escatologismo rappresentano, sebbene non sia possibile ricostruirne adeguatamente le radici bibliche e teologiche, due anime di verità da sempre presenti nella spiritualità cristiana. Al di là di ciò, in prima e generica approssimazione, l’incarnazionismo corrisponde all’attenzione alla storia, all’uomo (integrale), all’impegno, alla prassi, all’attività umana nel mondo; l’escatologismo, invece, è il riconoscimento dell’elemento trascendente e metastorico. Se gli incarnazionisti, da questo punto di vista, sottolineano una continuità tra l’attività umana ed il progresso del Regno di Dio, gli escatologisti affermano invece che la salvezza cristiana nasce in primo luogo dal distacco dal mondo, che è appunto una realtà ineliminabilmente segnata dal peccato. La prima posizione, quindi, è contraddistinta da un certo ottimismo, mentre la seconda dall’attributo contrario.

Benché pochi autori siano appartenuti radicalmente ed integralmente all’una o all’altra corrente, possiamo tuttavia collocare tra gli escatologisti, con i rispettivi accenti più o meno drastici, teologi come L. Bouyer, J. Daniélou, H. de Lubac, G. Marcel, V. Lossky, Questa scuola di pensiero, almeno in Francia, si radunò intorno alla rivista Dieu vivant, ma ovviamente, essendo per sensibilità vicina al protestantesimo, nella teologia tedesca potremmo trovare molti altri autori ad essa riconducibili, primo fra tutti Karl Barth. Tra gli incarnazionisti, invece, che da un lato volevano rispondere al marxismo e dall’altro raccogliere gli spunti provenienti dall’opera di Blondel — L’action venne appunto pubblicata in due volumi nel 1936-37 — ma anche da pensatori come Péguy, Lacordaire e Lamennais, dobbiamo ricordare teologi come G. Thils, Y.-M. Congar, P. Teilhard de Chardin, Y. De Montcheuil. Una menzione a parte deve poi essere fatta per il gesuita Alfred de Soras, che nel 1938 scrisse Action catholique et action temporelle, dando appunto alla corrente incarnazionista un’espressione sistematica. Non va dimenticato, del resto, che anche il movimento scoutista e l’Azione Cattolica erano nati per superare il divorzio tra la Chiesa ed il mondo.

La Weil, anche se il dibattito vero e proprio si è sviluppato dopo la sua morte, non poteva non cogliere questi rivoluzionari fermenti della cultura teologica francese degli anni Trenta. Sebbene allora in una fase embrionale, possiamo anzi dire che la sindacalista francese li ha ad un tempo intuiti, partecipati e provocati. Considerando la sua vita ed i suoi scritti, infatti, la si deve considerare una prima ispiratrice e quasi una profetessa del cristianesimo impegnato nelle realtà terrestri. Simone Weil, se possiamo arrischiarci nel tentativo di dare una collocazione al suo modo precipuo di storicizzare il messaggio evangelico, è stata appunto un’incarnazionista. Tuttavia il suo incarnazionismo “ante litteram” è contrassegnato da un vivo senso della Croce, che, paradossalmente, ricorda molto da vicino l’escatologismo.

Al di là del suo modo specifico di vivere la sensibilità incarnazionista, comunque, dobbiamo ribadire l’importanza e la significatività del suo rapporto epistolare con Mounier, che non solo è stato un vero promotore di questo movimento ecclesiale, ma era anche a sua volta in corrispondenza con quello che è forse il principale ispiratore dell’incarnazionismo: Teilhard de Chardin. Proprio come l’ebrea francese, Emmanuel Mounier è stato un promotore dell’engagement. È anzi opportuno, a questo riguardo, ricordare le due espressioni di tale “impegno”; che negli anni Trenta era finalizzato al confronto con la cultura di destra, in particolare il fascismo ed il nazismo, e, a partire dal 1945, al confronto con la cultura di sinistra, contro quella che Mounier stesso chiamava “tentazione del comunismo”.

Simone Weil, in ogni caso, al di là del dibattito sull’esito confessionale della sua ricerca religiosa, concepiva l’impegno contro le diseguaglianze e le ingiustizie della storia un principio implicitamente cristiano. Con un laico spirito incarnazionista, scriveva appunto: «Considero coloro che non credono in Dio e praticano veramente l’amor fati, l’amore totale e incondizionato per la città del mondo, come cristiani più puri e più autentici».6 Al di là di queste sue convinzioni, comunque, una diretta influenza su di lei sia del pensiero sociale della Chiesa che della complementare riflessione teologica del tempo, lo si può dedurre persino dalla forma personale che assunse il suo impegno sindacale. La Weil, infatti, sebbene membro della Confèdération Général du Travail (CGT), che comprendeva gli insegnanti, era disposta ad accettare talune posizioni della Confédération Francaise des Travailleurs Chrétiens (CFTC), che aveva come riferimento i documenti del Magistero ecclesiale in materia di Dottrina Sociale.7 Da questo punto di vista, si può forse persino azzardare che se la Chiesa, in quegli anni, non avesse iniziato ad interessarsi con vigore ai problemi sociali e alle condizioni di vita degli ultimi, forse questa giovane sindacalista non si sarebbe nemmeno avvicinata al cristianesimo.

In definitiva, quindi, se l’“impegno” della Weil ha indubbiamente attinto ad un pensiero filosofico di matrice marxista, ha anche goduto, in quella straordinaria stagione culturale che furono gli anni Trenta, di una riflessione teologica che proprio in quel periodo aveva assunto come tema prioritario la storia ed i problemi delle realtà terrestri. Sotto questo aspetto il legame con Mounier, e attraverso lui con il pensiero teologico dell’epoca, andava messo in evidenza, anche perché troppo spesso l’engagement dell’ebrea francese è stato letto esclusivamente in chiave filo-comunista, trascurando appunto il fatto che esso ha anche delle remote radici teologiche.

In conclusione, cioè, deve essere affermato che dietro la teologia francese del primo Novecento, che ha riposizionato il rapporto tra i principi evangelici ed il mondo, c’è stato un grande movimento di laici cristiani all’interno del quale si può appunto inscrivere e ricondurre anche l’azione di Simone Weil.

3. La contemplazione: una ricerca filosofica ed interreligiosa incessante

La vita attiva della Weil si è accompagnata, con altrettanto vigore e fervore, ad una vita profondamente contemplativa. La sua esistenza, cioè, è stata contrassegnata dallo studio filosofico e soprattutto da una ricerca religiosa senza preconcetti o pregiudizi che l’ha condotta dalla natia famiglia ebraica, sebbene agnostica, prima al cristianesimo e successivamente alle religioni cinesi e dell’India, salvo poi concludersi, in prossimità della morte, con un battesimo laico che è ancora oggi oggetto di discussione.8

Questo estuario cattolico della ricerca interiore della Weil, al di là degli aspetti controversi, è tanto più significativo, come si accennava, perché si compie dopo studi filosofici improntati anche all’ateismo, e perché consegue ad un approfondimento di varie tradizioni religiose. Proprio in virtù del suo articolato percorso pregresso, però, il cristianesimo espresso dalla studiosa ebrea, se cristiana può veramente dirsi, ha dei tratti indubbiamente peculiari ed originali. In primo luogo, infatti, il cattolicesimo verso cui la Weil ha finito con l’orientarsi nella fase finale della sua esistenza è quello marcatamente mistico-neoplatonico, ancorché discusso, dei renano-fiamminghi. In secondo luogo, inoltre, la sua adesione a Cristo non è disgiunta da una sensibilità che a tratti ricorda più il Vedânta che la Bibbia.

L’aspetto sicuramente più originale della sua riflessione filosofico-religiosa, consiste appunto nel fatto che in essa si interseca una duplice Weltanschauung, una doppia visione del mondo che attinge a due tradizioni e sensibilità religiose differenti. Indubbiamente, però, la sua finale propensione verso la mistica di un Eckhart, di cui lei, tra i primi a farlo, mise in evidenza le affinità con quella indiana, è stata preparata dalla formazione filosofica ricevuta all’École Normale. Secondo la Weil, infatti, lo studiare produceva “attenzione”, qualità che riteneva essere una sorta di premessa necessaria alla vita contemplativa interiore e alla preghiera.9

Al di là dell’orientamento marcatamente mistico, per vari aspetti disincarnato ed acosmico, a cui è giunta la Weil negli ultimi anni di vita, attraverso, come si diceva, le influenze neoplatoniche e quelle upanišadiche, dobbiamo però mettere in evidenza il carattere tradizionale delle prime “illuminazioni” cristiane della giovane ebrea francese. Simone Weil, infatti, tra il 1935 ed il 1938, visse tre esperienze spirituali improntate al devozionismo del cattolicesimo popolare, le quali, però, si armonizzavano perfettamente alla sua personale comprensione della figura di Cristo, concepito come uomo del dolore e vittima dell’ingiustizia che si fa carico delle sofferenze dell’umanità. In un villaggio di pescatori portoghesi durante la processione del santo, alla porziuncola o durante la solennità liturgica della passione a Solesmes, la giovane ebrea “diviene” cristiana quasi arrendendosi all’evidenza che Cristo, e con lui la Chiesa, compie la stessa opzione per i poveri, per i diseredati e per gli emarginati dalla giustizia a cui lei dedicava la sua attività sindacale, e, più in generale, aveva laicamente consacrato la vita.

È dunque una fede cristiana molto incarnazionista quella della prima Weil. In essa, tuttavia, è già presente una visione escatologistica e finanche tragica del mondo che approfondirà e rileggerà ulteriormente dopo la lettura dei testi filosofici dell’India, nei quali, pur essendo poco presente la “croce”, è però messa in risalto la vanità illusoria del cosmo (mâyâ), ed il dolore intrinseco connesso all’esistere su cui si fonda il messaggio del Buddha. Questa sensibilità di fondo, è esattamente l’aspetto che allontanava la giovane francese dall’ebraismo e dall’islam, religioni che tradizionalmente guardano alla vita terrena con un atteggiamento maggiormente positivo.10 Proprio considerando queste sue posizioni, per esempio, Monchanin definì la Weil spiacevolmente marcionista.11 Non è un caso, quindi, che Martin Buber l’abbia poi accusata di ignorare la complessità della religione ebraica.

In ogni caso, la spiritualità che emerge dai suoi ultimi scritti appare essere una sorta di reinterpretazione del più classico escatologismo cristiano, meditato, però, attraverso una sensibilità che ha assunto e fatta propria anche le dottrine del buddhismo e del Vedânta, le quali insegnano una simile fuga acosmica dalla dolorosa catena karmica del mondo. Scriveva appunto la Weil riecheggiando convinzioni interreligiose: «L’uomo è un’animale sociale, e il sociale è male. Non possiamo farci niente, e ci è proibito accettarlo, se non vogliamo perdere la nostra anima. Pertanto la vita non può essere che lacerazione. Questo mondo è inabitabile. Per questo bisogna fuggire nell’altro».12

Uno dei concetti chiave di quella che potremo definire teologia weiliana è infatti quello di “de-creazione”, categoria vetero testamentaria che si fonda in verità su di una logica ben poco biblica. A suo avviso, infatti, la contemplazione della natura del mondo deve condurre ad un distacco che, all’opposto di certi testi dell’Antico Testamento che chiedono una lunga vita e celebrano l’esistenza terrena, si tinge finanche di disprezzo: «Il disgusto, in tutte le sue forme, è una delle miserie più preziose che siano date all’uomo come scala per salire. Partecipo larghissimamente di questo dono celeste. Rivolgere ogni disgusto in disgusto di sé».13

Secondo la Weil, è attraverso un atto di discernimento e distinzione, per altro molto simile al viveka indù, che la coscienza del dolore, del relativo, del contingente, dell’apparente diventa la premessa necessaria per risalire all’Assoluto. Scriveva, per esempio, che «Quando l’uomo si vede come uno scoiattolo che gira nella sua gabbia rotonda, allora, se non mentisce a se stesso, è vicino alla salvezza».14 Su questa linea, se tra i luoghi fondanti dell’ascetica indiana c’è la spersonalizzazione e l’annullamento dell’io psicologico, anche la Weil affermava che «Quel che bisogna dare a Dio, cioè distruggere, è questo. Non c’è assolutamente nessun altro atto libero che ci sia permesso, eccetto la distruzione dell’Io».15 Al di là di tali evidenti affinità spirituali con l’India, però, l’antropologia dell’ebrea francese non sposò mai il panteismo indù, ed anzi sembra suggerire una proposta che media tra il monismo dell’identità ed il dualismo della differenza, sostenendo appunto che «L’anima è là dove si intersecano la creazione ed il Creatore».16

In sintesi, potremmo quindi dire che la teologia spirituale di Simone Weil utilizza il linguaggio biblico e la “condanna” escatologistica del mondo attraverso una logica filosofica che però è anche indiana, se non prevalentemente indiana. Persino la sua concezione del male, infatti, che per lei rappresentava un luogo di espiazione, ma anche di ascesa evolutiva, è più induista che cristiana, sebbene proprio in quegli stessi anni Teilhard de Chardin facesse delle considerazioni simili. Affermava comunque la Weil, sostenendo praticamente l’identità del reale e del bene, che «Mediante il dolore che redime Dio è presente nel male supremo».17

Proprio in virtù di questi accostamenti con la sensibilità dell’India e le sue religioni, comunque, come notava anche Marie-Madeleine Davy, la Weil si era convinta che le varie tradizioni mistiche si ricongiungessero arrivando quasi ad identificarsi.18 Aveva confessato, a questo riguardo, che la lettura dei testi sanscriti l’inducevano «a pensare a una filosofia indœuropea anteriore alla separazione dei due popoli».19 Si spiega dunque in questa chiave di affinità tra la mistica neoplatonica cristiana e quella vedântica, anche se non risulta che conoscesse il celebre testo di Rudolf Otto, Mistica d’Oriente, mistica d’Occidente, uscito nel 1927, il parallelismo che Susan Visvanathan ha proposto con Henri Le Saux, prete e monaco benedettino che ha vissuto in India esperienze mistiche influenzate dallo Yoga e dal Vedânta.20

Se la Weil, tuttavia, risulta più cristiana che indiana, non è per la sua lettura espiatoria e sacrificale del dolore, ma per la celebrazione dell’amore. L’argine più grande che separa il pensiero vedântico dal cristianesimo, infatti, non è tanto il pelagianesimo, il quietismo o lo gnosticismo, ma bensì quel solipsismo monadico che “rende l’amore un assurdo”, come scriveva Monchanin. La giovane studiosa, infatti, non soltanto credeva nell’amore, e con esso nell’alterità e nella differenza ontologica, ma la considerava anche il primo e principale simbolo che unisce a Dio: «Dio ha creato per amore e a fin d’amore. Dio non ha creato altro che l’amore stesso e i mezzi dell’amore. Egli ha creato tutte le forme dell’amore».21 In definitiva, quindi, possiamo dire che la contemplazione e la spiritualità della Weil si colloca tra la Croce abbracciata per amore e la fuga acosmica da solo a solo insegnata dall’India come da Plotino.22 O meglio, l’ebrea francese, rispetto alla storia, con la sua ferma convinzione che un cristiano dovesse impegnarsi in politica e nel sociale, si dimostra una cristiana incarnazionista, mentre con il suo disprezzo delle cose terrene, e con la sottolineatura della loro futilità, si rivela invece una radicale escatologista.

Da questo punto di vista la sua religiosità sembra avere due tensioni opposte ed inconciliabili, che, di fatto, come andremo ad approfondire, trovarono una loro ideale armonizzazione solo negli ultimi mesi di vita, quando, alla stregua di Gandhi, Vinoba e Lanza del Vasto, lesse la Bhagavad Gîtâ come una sorta di completamento del Vangelo. Su una tale complessa spiritualità, comunque, vale il giudizio di Monchanin, che, esperto dell’India quanto della teologia cristiana e della filosofia occidentale, pur criticandone l’antisemitismo, la mancanza di prospettiva storica e l’estrema affinità con l’esoterico, la considerava un «dono di Dio nei nostri tempi tragici».23

4. La sintesi attraverso l’India

Una delle chiavi di lettura possibili all’opera della Weil, è, come si accennava, la tensione fra azione e contemplazione; fra impegno nella storia e fuga acosmica dalle relatività del mondo. È questa, del resto, una tensione classica nella letteratura cristiana, specialmente quella a sfondo monastico, nella quale non si ritiene armonizzabile la vita operosa in società con il perfezionamento interiore, o, per usare un linguaggio maggiormente teologico, la consapevolezza escatologistica della vanità e della peccaminosità delle realtà terrestri ed il coinvolgimento incarnazionista in esse.

È questa, in sintesi, la tradizionale questione che impone di scegliere a quale modello di vita accordare la priorità. Poco dopo la Weil, per esempio, anche Hanna Arendt, in un contesto oltretutto prettamente filosofico, ha parlato di primato della “vita contemplativa” sulla “vita attiva”, raccogliendo appunto una distinzione implicitamente già presente negli scritti della ebrea francese. Una sorta di continuità tra queste due dimensioni, del resto, o meglio la consapevolezza che la stessa contemplazione abbia una ripercussione nella prassi, era già presente nel pensiero greco, dal momento, per esempio, che lo stesso theorein neoplatonico, secondo vari studiosi, ha una ricaduta nel politico.24 Grazie ad i suoi studi platonici, la filosofa francese era probabilmente consapevole di questo significativo sviluppo del pensiero greco, e comunque, al di là di esso, già nell’incarnazionismo di Mounier aveva trovato i lineamenti di un cristianesimo ad un tempo contemplativo ed attivo.

Una tale forma di esistenza cristiana, però, non era ancora una vera e propria conciliazione tra le opposte esigenze della vita contemplativa e della vita attiva. In questa breve riflessione vorremmo invece mettere in evidenza come, in corrispondenza della piena maturazione cristiana della Weil, azione e contemplazione abbiano incontrato una certa armonizzazione. A partire dal periodo di Marsiglia, infatti, dopo il quale, come si diceva, si avvicinò sia alla mistica renano-fiamminga che a quella indù, diede vita ad un cattolicesimo trasversale ed interreligioso capace di sintetizzare i due vettori che avevano guidato la sua esistenza.

Marsiglia, quindi, può essere considerata, come si accennava, il luogo della svolta nella vita di Simone Weil. Qui gli scambi con padre Perrin e Gustave Thibon si fecero serrati, e qui ritrovò l’ex compagno di studi René Daumal, che la iniziò allo studio del sanscrito.25 Nella medesima città, inoltre, sempre nel 1941, conobbe Lanza del Vasto, il quale, amico di Daumal, era da poco tornato da un pellegrinaggio in India dove era divenuto discepolo di Gandhi.26 Grazie alla mediazione dell’amico comune, quindi, Simone Weil e Lanza del Vasto si poterono incontrare in un caffé di Marsiglia, passando l’intera notte tra il 13 ed il 14 maggio a conversare. Fu proprio lei la prima persona alla quale il filosofo nonviolento confidò il progetto di creare una comunità sul modello degli âshram gandhiani in India.27 Tra la studiosa ebrea ed il discepolo europeo di Gandhi non si può parlare di una vera influenza reciproca, il loro, però, fu certamente un incontro tra spiriti affini.28 Lanza del Vasto introdusse la Weil ad un possibile nuovo modo di essere cristiani. Egli, cioè, la iniziò ad un cristianesimo comunitario influenzato dall’India e dalla nonviolenza gandhiana, nella quale azione e contemplazione, come era appunto avvenuto nel maestro indiano, si fondono tra loro. Tra i fondamenti teorici dell’opera di Gandhi, infatti, c’è il messaggio della Bhagavad Gîtâ, la quale insegna che l’impegno sociale compiuto senza secondi fini e rinunciando ai frutti dell’azione, è in se stesso una forma di avanzamento e di realizzazione spirituale. È questo un mârga, cioè un percorso di unione a Dio, denominato karma yoga, di cui, attraverso la meditazione del celebre capitolo del Mahâbhârata, fece poi un’elaborazione ulteriore anche il successore di Gandhi, Vinoba Bhave.29 La Weil, pur senza conoscere approfonditamente il messaggio gandhiano, fu appunto illuminata dalla dottrina di questo testo che aveva iniziato a leggere solo qualche mese prima.30 Di esso scrisse in quel periodo che «La Bhagavad Gîtâ e il Vangelo si completano».31

Il periodo di Marsiglia, quindi, può essere considerato, come si diceva, quello della piena maturazione religiosa di Simone Weil. Qui l’approfondimento del cristianesimo con padre Perrin andò ad arricchirsi con la spiritualità indù alla quale, al di là del fatto che già il fratello matematico si interessasse di indologia, la stava iniziando Daumal, e, in una forma che già profilava un possibile adattamento trinitario, Lanza del Vasto. Sempre a Marsiglia, inoltre, la giovane francese ha probabilmente fatto il suo primo vero incontro con la mistica renano-fiamminga, sebbene ne abbia approfondito i testi solo a New York e Londra.32

La sintesi tra fede ed opere nel personale cristianesimo di Simone Weil trova appunto attuazione in questo duplice incontro finale: da un lato quello con la più acosmica delle mistiche cristiane e dall’altro quello con la più attiva tra le mistiche dell’India.


  1. Nel testo, che fu molto apprezzato dal suo maestro Alain, la Weil non manca, in vari punti, di prendere la distanze anche da Marx. In particolare, all’interno del saggio, con una riflessione che anticipa la sua ricerca religiosa, viene svolta una critica alla categoria di progresso, affermando che dovrebbe essere sostituita con un’altra scala di valori concepita al di fuori del tempo (cf A. Accornero—G. Bianchi—A. Marchetti, Simone Weil e la condizione operaia. Con una antologia degli scritti, Editori Riuniti, Roma 1985, 177). ↩︎

  2. Pe un approfondimento sull’autore si cf A. Rigobello, Il contributo filosofico di E. Mounier, Bocca, Roma 1955. ↩︎

  3. Mounier, che oltretutto deve essere ricordato come un promotore della laicità in teologia, è stato uno dei principali protagonisti di quel cristianesimo di sinistra che negli anni Trenta in Francia aveva ben chiaro che incarnare la fede significava creare delle istituzioni sociali cristiane o piegare quelle esistenti ai principi evangelici. Ispirandosi anche a Charles Péguy, sul quale nel 1931 aveva scritto un saggio, egli fu un teorizzatore della categoria dell’engagement, sulla quale ritornò anche in Révolution personaliste et communautaire (1935). Attraverso la rivista da lui animata, Esprit, Mounier fu una sorta di megafono per quei pensatori e teologi cristiani che si occupavano di sociale. Le idee di autori come Maritain, Blondel, Marcel, Gilson, Congar, Teilhard de Chardin o Landsberg, ricevettero, attraverso la sua rivista, eco e diffusione. ↩︎

  4. Gustave Thils pubblicò le sue due opere più importanti, Théologie des réalités terrestres e Théologie de l’histoire, nell’immediato dopo guerra, tuttavia le idee da lui sintetizzate circolavano già dai primi anni Trenta. ↩︎

  5. Cf G. Frosini, La fede e le opere. Le teologie della prassi, Edizioni Paoline 1992. Il teologo pistoiese, che ha dedicato una vita allo studio di queste tematiche, definisce appunto gloriosa la polemica tra incarnazionisti ed escatologisti, ricostruendo la storia che ha condotto il pensiero teologico ad occuparsi anche di tematiche sociali. ↩︎

  6. S. Weil, Attesa di dio, Adelphi, Milano 208, 78. ↩︎

  7. Cf T.R. Nevin, Simone Weil. Ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, Bolati/Boringhieri, Torino 1997, 92. ↩︎

  8. Padre Perrin affermò che Simone Weil si sarebbe fatta battezzare da un’amica, Simone Deitz, in ospedale, con l’acqua del rubinetto. ↩︎

  9. Cf S. Weil, Attesa di dio, cit., 191. ↩︎

  10. Anche su un piano prettamente concettuale e filosofico, però, la Weil sembra considerare la religione islamica e quella ebraica “inferiori”. Scriveva a questo proposito: «Dio uno, puramente uno, è cosa. Antico Testamento - Corano. Dio uno e tre è pensiero» (Ead., Quaderni II, Adelphi, Milano 1985, 202). ↩︎

  11. Cf J.C. Weber [ed.], In Quest of the Absolute: the Life and Work of Jules Monchanin, Kalamazoo: Cistercian Publications, London 1977, 118. ↩︎

  12. S. Weil, Quaderni III, Adelphi, Milano 1998, 158. ↩︎

  13. Ead., L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2007, 319. ↩︎

  14. Ib. ↩︎

  15. Ib., 49. ↩︎

  16. Ead., Attesa di dio, cit., 188. ↩︎

  17. Ead., L’ombra e la grazia, cit., 51. ↩︎

  18. Cf M.-M. Davy, Nozze mistiche. Sulla metafisica degli opposti, ECIG, Genova 1995, 91. La studiosa di mistica cita appunto Lettre à un religieux, Gallimard, Paris 1951, 49. ↩︎

  19. S. Weil, Attesa di dio, cit., 271. ↩︎

  20. S. Visvanathan, An Ethnography of Mysticism. The Narratives of Abhishiktananda. A French Monk in India, Indian Institute of Advanced Study, Shimla 1998. Il capitolo secondo: “Simone Weil and Abhishiktananda: the mystical journeys”, è interamente dedicato al confronto tra le due figure. ↩︎

  21. S. Weil, Attesa di dio, cit., 177. ↩︎

  22. La meditazione orientale è simile alla contemplazione o theoria neoplatonica, che è appunto la capacità superiore del nous, un vedere che realizza, al di là del dualismo del pensiero razionale, il ritorno al Dio-Uno. Scriveva Plotino: «Questa è vita degli dèi e degli uomini divini e felici: affrancamento dalle cose estranee di questo mondo, vita non prova piacere per le cose di quaggiù, fuga da solo a solo» (Plotino, Enneadi, VI, 9,11). ↩︎

  23. J.C. Weber [ed.], In quest of the absolute: the life and work of Jules Monchanin, cit., 118. ↩︎

  24. Platone, secondo Giovanni Reale, sarebbe giunto a scoprire che la contemplazione ha valenza sia politica che etica, dal momento che l’imitazione del divino comporta il dovere di coinvolgere anche gli altri in una prospettiva, appunto, che non può che dirsi politica. Sulla scia di Platone, inoltre, la theoria plotiniana avrebbe anche uno sfondo etico, perché indica un puro assistere al vero dimentico dei propri interessi immediati. Il theorein greco, in altri termini, anche a prescindere dalla convinzione aristotelica della superiorità del bios theoretikos sul bios politikos, non sarebbe un astratto pensare, ma un pensare che incide profondamente sulla vita etico-politica (G. Reale, Storia della filosofia greca e romana. Assi portanti del pensiero antico e lessico, Vol. 9, Bompiani, Milano 2004, 14-25). ↩︎

  25. Simone Weil iniziò a studiare il sanscrito all’inizio del 1941 con René Daumal che le prestò una grammatica ed il testo della Bhagavad Gîtâ. In estate lessero insieme anche le Upanišad (cf S. Weil, Quaderni I, cit., 225). Questi, come scrisse Lanza del Vasto, sul quale nel 1942 Dauml scrisse anche un saggio, frequentava con Luc Dietrich il gruppo di Gurdjieff, arrivato a Parigi sin dal 1922, grazie al quale e alla Salzmann era uscito dalla dipendenza dalle droghe (Cf Lanza del Vasto, Les faccettes du cristal, entretiens avec Claude-Henri Roquet, Le Centurion, Paris 1981, 174). ↩︎

  26. Cf G. Maes, Ombre et lumiere a Marseille: La recontre de Simone Weil et de Lanza del Vasto (1941-1942) in Cahiers Simone Weil 4 (1997) 299-318. ↩︎

  27. Raccontava Lanza del Vasto in un libro-intervista: «Fui subito colpito da questo spirito così vivace, dalla sua cultura enorme e dalla sua fede per la Chiesa e Cristo. Si indignò di me perché frequentavo i surrealisti. “Come fai a conoscere quella gente che attacca in modo così violento la Chiesa”, mi chiedeva. Sì, è vero, ero presente ai loro piccoli giochi di caffé, ma quello era l’unico luogo riscaldato nel quale per un franco potevi avere un caffé è passare tutto il pomeriggi. [..] «Cosa percepì Simone Weil nel vostro discorso?» Lei capì subito! “È un diamante bellissimo”, disse. “Si” risposi “è vero. Ha solo un minuscolo difetto: che non esiste”. E lei: “Ma esisterà, esisterà, perché Dio lo vuole”. L’indomani partiva. Morì di fame pochi anni dopo, considerando la sua vita come un dono continuo» (R. Pagni, Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, Edizioni Paoline, Roma 1981, 58-59). ↩︎

  28. Non si può parlare di una vera influenza reciproca tra Lanza del Vasto e Simone Weil, sia perché si frequentarono poco, sia perché, nel 1941, entrambi avevano maturato autonomamente le loro convinzioni. Al tempo stesso, però, è persino sorprendente la convergenza tra le loro idee. Questi due personaggi, infatti, erano in un certo senso destinati ad incontrasi. Entrambi criticavano il progresso e celebravano la povertà ed il lavoro manuale. Entrambi, pur cristiani, erano affascinati dall’India. Entrambi, infine, si sono occupati di nonviolenza. Si può ricordare, inoltre, che la scelta della Weil di essere “cristiana dal di fuori” ricorda appunto quella di Lanza del Vasto che, prendendo spunto da un testo di Daniélou, I santi pagani dell’Antico testamento, intitolò le sua comunità a San Giovanni Battista, santo, appunto, non cristiano. ↩︎

  29. Raccogliendo l’insegnamento di Gandhi, il suo successore portò a maturazione quello che definiva lo yoga dell’azione o karma yoga (cf Vinoba Bhave, Discorsi sulla Bhagavadgita. I principi spirituali dell’azione nonviolenta, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2006). ↩︎

  30. Annotava la Weil: «Nella primavera del 1940 ho letto la Bhagavadgîtâ. Curiosamente, mentre leggevo quelle parole meravigliose dal suono così cristiano, proferite d un’incarnazione di Dio, ho sentito con forza che alla verità religiosa si deve ben altro che l’adesione accordata a un bel poema, le si deve un’adesione ben altrimenti categorica» (S. Weil, Attesa di dio, cit., 31) ↩︎

  31. Ead., Quaderni I, cit, 233. ↩︎

  32. Cf M. Vannini, Mistica e filosofia, Le Lettere, Firenze 2007, 163. L’autore, esperto di mistica renano-fiamminga, sottolinea che la Weil lesse a New York il Il libretto della verità di Suso e a Londra Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete. Vannini, che nel suo testo dedica un intero capitolo alla Weil, aggiunge anche che «fu l’India a farle scoprire il patrimonio della mistica medievale cristiana, giacché ella trovò nell’induismo quello che avrebbe potuto trovare già nel primo cristianesimo» (ib., 164). ↩︎