Il Prometeo moderno. Sul pensiero di Günther Anders

1. Il contesto del pensiero di Günther Anders

La riflessione antropologica di Günther Anders e la relativa indagine maturano a partire dagli eventi storici che hanno interessato l’intero arco di vita dell’autore. Le due guerre mondiali, i campi di concentramento nazisti e la bomba atomica, sganciata prima su Hiroshima e poi su Nagasaki, sono effettivamente definiti come dei punti di non-ritorno all’interno del percorso dell’umanità; dei momenti da cui è necessario prendere le mosse per una riflessione concreta.1 Alle esperienze di formazione se ne aggiunge una strettamente biografica. Nel 1933, con l’avvento al potere del nazismo, Anders si trasferisce prima a Parigi e poi negli Stati Uniti. È questa una tappa fondamentale per il pensiero andersiano: nell’America degli anni ’30 il filosofo conosce la realtà dell’industria di massa2 ed il dominio tecnologico da questa instaurato.

Il lavoro di fabbrica dominato dalla realtà tecnologica, gli incessanti ritmi richiesti dalla produzione, così come gli avvenimenti di Hiroshima ed Auschwitz, vengono inquadrati nel pensiero dell’autore come i prodotti dello sviluppo tecnico-scientifico e del suo carattere pervasivo. Le direttive della riflessione andersiana prendono le mosse proprio dall’idea che l’industria di massa abbia mutato profondamente e progressivamente l’animo dell’uomo moderno, i cui ritmi esistenziali sono ora scanditi da una produzione che riconduce ogni cosa a sé.

Un simile adeguamento dell’uomo alla produzione ed al consumo è palesato dai terribili risvolti dell’epoca moderna, dove persino la morte costituisce un oggetto di produzione. È l’orrore dei campi di concentramento la testimonianza che, nell’epoca dell’industria di massa, l’uomo ha avviato la produzione di cadaveri. Sono gli eventi atomici di Hiroshima e Nagasaki a comprovare l’avvento di un uomo nuovo, la cui produzione consiste nell’autodistruzione.

Eventi quali Auschwitz ed Hiroshima hanno segnato le ore più buie nella storia dell’umanità: Anders li definisce dei veri e proprio «punti di non ritorno». Tale definizione non riguarda esclusivamente l’aspetto morale, ossia l’imbarbarimento dell’uomo che si è fatto carnefice dei suoi simili, ma passa soprattutto per l’elemento tecnologico. Il «punto di non ritorno» andersiano si ha nel momento in cui i mezzi rendono l’evento replicabile: la morte riproducibile.

Gli eventi di Auschwitz e di Hiroshima possono anche essere rimossi dalla memoria (ammesso che vi siano mai penetrati), e questo di fatto è accaduto. Ma, al contrario, non può essere rimossa la loro ripetibilità.3

Anzitutto è opportuno chiedersi: Come è possibile che eventi così terribili della storia possano essere rimossi dalla memoria? Il motivo è presto detto ed è una somma di molte variabili insite nell’epoca della produzione: l’uomo deve utilizzare i prodotti che vengono continuamente fabbricati, deve farlo incessantemente e senza distinzione. Questo è il grande comandamento dell’era industriale, per la quale qualsiasi riflessione circa gli effetti prodotti dagli oggetti di consumo costituisce un indugio inammissibile. La situazione in cui si trova l’uomo appare paradossale: da una parte, in quanto detentore dei mezzi di produzione, produce la propria distruzione, dall’altra il continuo consumo lo introduce nella dimensione della dimenticanza. L’uomo moderno, dunque, produce due tipi di oblio: quello dell’esistenza e quello della memoria. Ciò avviene perché l’incessante produzione genera l’effetto simile al nastro delle catene di montaggio: nessun operaio può soffermarsi sul prodotto su cui sta lavorando ma può solo lavorare, così come ad ogni consumatore spetta solo il consumo dei prodotti. Entrambi sono esclusi dal pensiero ed assimilati nell’azione finita e chiusa in se stessa.

Al consumo come associato dell’incessante produzione si affianca il fattore ripetibilità. Alla dimenticanza di Auschwitz e Hiroshima, al diluirsi degli eventi nel flusso procedurale, non corrisponde la rimozione del potere tecnologico e non può corrispondervi. L’uomo, quindi, non è in grado di ristabilire la perduta innocenza atomica, ed anche nel momento in cui non possedesse più nessuna testata nucleare, resterebbe intatta l’idea. «In breve: noi siamo incapaci di non potere più ciò che un tempo abbiamo potuto. Dunque ciò che ci manca non è il potere, ma il non-potere».4

2. L’uomo prometeico

Una delle conseguenze dell’era tecnologica è l’incidenza diretta che questa ha avuto sulla sfera del sentimento, colpendo anzitutto la percezione che l’uomo ha di se stesso. Questo perché, per la prima volta nella storia, nasce un nuovo tipo di vergogna: non più quella tra uomo e uomo ma quella tra uomo e macchina, tra l’uomo ed il suo prodotto, verso il quale viene avvertito un senso d’inferiorità. Il problema fondamentale dell’inadeguatezza dell’uomo, nell’incapacità di tenere il passo con il mondo dei suoi stessi prodotti, viene utilizzato da Anders per introdurre la vergogna prometeica. All’interno di un mondo altamente tecnologizzato l’uomo è chiamato al confronto con un’infinità di prodotti perfetti, una fabbricazione calcolata nei minimi dettagli che va a contrastare con il «processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita».5

Il motivo della vergogna prometeica sarebbe dunque l’origine, il nascere ed il non essere-posto, caratteristiche tipiche dell’essere umano. A tal proposito Anders conclude:

Il desiderio dell’uomo odierno di diventare un selfmade man, un prodotto, va visto dunque su questo sfondo mutato: Non già perché non sopporta più nulla che egli stesso non abbia fatto, vuole fare se stesso; ma perché non vuole essere qualche cosa di non-fatto. Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (Dio, dèi, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati. .6

Questa condizione dell’uomo moderno, la vergogna prometeica, non coincide con la reificazione di quest’ultimo. Ciò di cui l’uomo si vergogna è, infatti, proprio il suo non-essere-cosa. In definitiva, la vergogna prometeica implica un passo in più rispetto alla reificazione: il riconoscimento effettivo da parte dell’uomo della superiorità delle cose.

Ma perché il mondo delle cose sarebbe superiore al suo stesso creatore? Sostanzialmente per due motivi. Il primo è strettamente pratico, ossia che nessun individuo ha fabbricato singolarmente le macchine: ognuno si limita a consumarle in quanto prodotti. Persino l’operaio che le costruisce partecipa al singolo processo, tuttavia il prodotto finale non lascia spazio all’orgoglio del creatore, proprio perché la produzione è suddivisa in numerosi atti singoli. In questo modo, nessuna parte della catena ha modo di lasciare tracce sul prodotto.

Il secondo motivo appartiene rispettivamente all’essenza dell’uomo e della macchina, quella frattura che conduce l’essere umano di fronte al cosiddetto «malessere dell’unicità». Caratteristica dell’uomo, in quanto essere non-fatto ma procreato (e dunque organico) è la sua facile deteriorabilità. Al contrario, la macchina, in quanto fabbricata, compensa la sua mortalità con la virtù della sostituibilità. «La nuova lampadina, che sostituisce quella vecchia bruciata, non ne continua forse la vita? Non diventa forse la vecchia lampadina? Ogni pezzo perduto o rotto non continua forse a vivere nell’immagine della sua idea-modello?».7

L’epoca odierna sarebbe dunque caratterizzata dal platonismo industriale, dove l’esistenza in serie dei prodotti si perpetua mediante l’idea: garanzia della reincarnazione di ogni singolo oggetto. Tuttavia, questo è un aspetto di cui l’essere umano non può (non ancora almeno) beneficiare. Benché nell’ambito della produzione e del consumo le istituzioni vedano gli uomini come meri «spare-men» intercambiabili, l’identità del singolo non può essere sostituita da nessun altro. Come testimonianza di questa triste condizione del singolo, nel volume primo de L’uomo è antiquato, Anders presenta alcune righe tratte dai suoi diari in cui racconta della visita ad un malato sul punto di morte. Constatato il fatto che i dottori non avessero a disposizione degli uomini di ricambio (spare-men), mentre nel mondo industriale la commutazione è prassi abituale, le ultime parole dell’uomo furono: «Isn’t it a shame?»8

È stato precedentemente accennato quanto l’uomo, con tutte le sue capacità, risulti obsoleto rispetto alla nuova situazione tecnologica. Di fatto, le tre rivoluzioni industriali hanno di fatto portato ad un superamento dell’essere umano. Una facoltà in particolare, secondo l’autore, risulterebbe compromessa: l’immaginazione. Ciò che Anders intende per capacità d’immaginazione coincide formalmente con l’abilità di prevedere le conseguenze derivanti dall’uso dei prodotti. Benché sia opinione comune che l’immaginazione umana sia infinita, il confronto con il potenziale illimitato della produzione ne rivela i grandi limiti.

«Prometeica» chiamo però quella differenza che si manifesta quale dislivello fondamentale; cioè quel dislivello che sussiste tra la nostra «prestazione prometeica», tra i prodotti fabbricati da noi, «figli di Prometeo» e tutte le altre prestazioni; il fatto che non siamo all’altezza del «Prometeo che è in noi».9

Il dislivello prometeico rappresenta dunque la costante asincronizzazione tra l’uomo e la sua stessa produzione, la quale ha raggiunto una tale velocità che lo stesso sentire resta, per così dire, indietro. Ciò significa, per dirla con le parole dello stesso Anders: «Che, nel sentire, siamo inferiori a noi stessi».10

Esempi chiari, a tal proposito, vengono forniti dal filosofo prendendo come caso la bomba atomica, mediante la quale possono essere distrutte più persone di quante la mente possa comprendere e rimpiangere.

Possiamo avere paura della nostra propria morte. È già al di sopra delle nostre possibilità sentire la paura moltiplicata per dieci, la paura della morte di dieci persone. All’idea dell’Apocalisse poi, l’anima rimane inerte. L’idea resta una parola.11

Tuttavia, l’apocalisse è inclusa nella sfera del sapere umano e la fine dei tempi può essere prodotta. Di fatto, tale possibilità è concretamente nelle mani dell’uomo, ma resta estranea alla sfera della comprensione. Proprio questa circostanza rende tangibile la discrepanza che impedisce all’umanità di prendere piena coscienza della situazione in cui si trova.

A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare che il dislivello viene avvertito in modo così potente perché il caso preso in esame da Anders — quello della bomba — è in assoluto il caso più estremo riguardante l’uomo moderno. Tuttavia, all’interno della riflessione andersiana, la bomba non è da considerasi come un semplice caso esemplificativo. La bomba atomica è Il caso: l’oggetto protagonista assoluto dell’era tecnologica. La bomba rappresenta proprio quel rapporto che è venuto a costituirsi, o meglio ad imporsi, fra uomo e tecnica; un rapporto tanto più coercitivo, quanto più lontana è la conoscenza degli apparecchi attorno a cui ruota la vita umana.

La nostra percezione non è all’altezza di quanto produciamo: come sembrano innocui i contenitori del gas Zyklon B — li ho visti ad Auschwitz — con i quali sono stati distrutti milioni di uomini! E come sembra pacifico un reattore atomico con il suo tetto a cupola!12

Ed è attraverso la comunicazione di siffatte esperienze che Anders definisce l’attuale situazione dell’uomo. Quest’ultimo è praticamente cieco di fronte ai prodotti della tecnica (ha una fantasia inadatta alla concreta percezione della realtà degli strumenti) e, al tempo stesso, si rapporta con degli apparecchi «muti»13: la loro forma esteriore non comunica la pericolosità di cui si fanno portatori. Ecco perché non è più pratica consigliata fare affidamento sulla percezione dei sensi per un esame effettivo della realtà. La vita dell’uomo è caratterizzata a tal punto dagli apparecchi che la distanza minima venutasi a creare tra esso ed i suddetti apparecchi ne invalida la capacità di assumere una posizione critica. In questo contesto il dislivello prometeico costituisce un importante strumento per analizzare la figura dell’uomo moderno, così come la sua progressiva caduta nel concetto di «antiquato». Alla luce del dislivello prometeico, dunque, appare chiaro quanto un accrescimento del sapere scientifico si accompagni ad una sempre più marcata regressione della comprensione.

Il pensiero scientifico e i prodotti della tecnica offrono l’illusione di uno sviluppo illimitato delle conoscenze umane, ma le altre facoltà non strettamente conoscitive, e che presiedono però ai processi di comprensione, restano indietro, rischiano di risultare antiquate.14

Nell’illusoria sincronia con la realtà tecnologica, l’essere umano non riesce a comprendere la vasta portata del dislivello prometeico. Cieco di fronte al nuovo status acquisito dagli oggetti, formula le sue obiezioni sulla base dell’assioma economico secondo il quale chi produce detiene il potere.

Perché mai tutti questi discorsi su una presunta mancanza valutativa?», si chiede. «Perché mai, in quanto creatore degli strumenti di cui si serve, egli non dovrebbe essere in grado di distaccarsene, osservando la situazione con l’opportuna coscienza critica?

In realtà la situazione è ben differente: gli apparecchi permeano ogni dimensione dell’esistenza umana, al punto che è difficile pensare l’uomo separato da questi. Gli info-oggetti di cui parla Righetto15 sono l’esempio più eclatante del carattere pervasivo della tecnica: lo strumento non è più inerte ed isolato ma è un tutt’uno con la pelle dell’uomo.

Ciò è dimostrato dalle innumerevoli funzioni che gli oggetti ricoprono nella vita quotidiana: una fitta rete di connessioni tecnologico-oggettuali costituisce l’interfaccia con cui l’umano si rapporta alla realtà. L’uomo è incluso nella situazione moderna solo tramite l’uso degli strumenti con cui ha costruito tale situazione. Sembrerebbe, dunque, che gli apparecchi siano definitivamente i nuovi mezzi d’interpretazione della realtà ed, in ultima analisi, costituiscano la realtà stessa. Per comprendere tale inversione sarà sufficiente porre l’esempio della televisione: il mezzo per eccellenza in grado di servire eventi reali a domicilio, in modo «che la montagna venga a Maometto, che il mondo venga all’uomo, e non viceversa».16 Alla luce di una simile prospettiva, prosegue Anders, l’uomo non è altro che un essere passivo in attesa dell’ennesimo prodotto con cui essere rifornito. Il mondo, a sua volta, non può più essere interpretato come luogo d’esperienza, ma come mero prodotto di consumo.

Queste considerazioni conducono ad un’ulteriore riflessione: Il mondo non è più posto esternamente rispetto all’uomo, bensì è un prodotto pronto da servire nelle case, al punto che «chi vuole sapere cosa avviene fuori di casa, deve andare a casa, dove gli avvenimenti, «preparati per essere visti», aspettano già di zampillare fuori dal tubo».17 Viene da sé la considerazione che il mondo fornito a domicilio non rappresenti più il mondo reale, bensì un simulacro. Questa nuova idea di mondo replica se stessa e si impone al giudizio, annullando ogni distanza col mondo reale. Il simulacro diviene l’unico mondo di cui l’uomo partecipa, la sola realtà cui quest’ultimo può fare riferimento. Ciò significa che l’uomo è espropriato del proprio mondo, ora fruibile solo sotto forma di fantasma, inoltre, egli viene a trovarsi nell’illusoria condizione dell’assenza di distanza tra sé ed il mondo reale.

È possibile rintracciare dei prodromi di tale posizione preconizzati all’interno del pensiero heideggeriano, precisamente nelle Conferenze di Brema e Friburgo:

La precipitosa eliminazione di tutte le distanze non porta alcune vicinanza, giacché la vicinanza non consiste nella minor distanza. Ciò che, grazie all’immagine cinematografica e al suono radiofonico, sta alla minima distanza da noi in termini spaziali, può rimanere per noi lontano. Ciò che, in termini spaziali, ci è infinitamente distante, può esserci vicino. Una grande distanza (die Entfernung) non è ancora lontananza (die Ferne).18

Le parole di Heidegger descrivono un’assenza di distanza, tuttavia la mutata situazione non implica una nuova vicinanza. Si assiste semplicemente ad uno stato di sospensione, nel quale l’uomo non è lontano dal mondo ma neppure può concepirsi come essere-nel-mondo. Questo implica uno sradicamento dell’essere umano, poiché, tornando all’approccio andersiano, il mondo posto come fantasma sopprime certamente ogni distanza fisica, tuttavia non è ancora il mondo e non lo sarà mai. Appare chiaro che l’uomo non è in grado di distaccarsi dal mondo degli oggetti per prendere coscienza della situazione in cui si trova. Gli apparecchi, in quanto strumenti indispensabili dell’azione umana, nullificano le distanze rendendo la tecnica la situazione.

Scrive Anders: «se abbiamo iniziato a omologarci con il moto di una macchina, riusciremo a sincronizzarci ancor meglio con questo suo moto se la macchina l’abbiamo già un po’ sotto controllo, o se essa ha già un po’ sotto controllo noi. E quanto più a fondo ci addentriamo in questo meccanismo, tanto più a fondo ne saremo coinvolti […] finché non siamo sprofondati in quel punto ideale, nel quale il nostro servire la macchina e il funzionamento della macchina formano un unico processo».19

Dunque, l’uomo moderno vive la situazione in cui gli apparati (sia in senso amministrativo che in senso fisico-tecnico) formano il suo mondo quotidiano. Nella sincronizzazione di uomo e macchina, la tecnica non è più confinata all’interno dei singoli apparecchi, tantomeno negli impianti industriali necessari alla loro produzione. Gli sviluppi dell’era moderna esonerano la tecnica dalla categoria di semplice oggetto in mano all’uomo, rendendola, come si vedrà in seguito, il nuovo soggetto della storia.

3. L’antropologia e la tecnocrazia

Nella Prefazione al secondo volume de L’uomo è antiquato Anders definisce il libro stesso «un’antropologia filosofica nell’era della tecnocrazia».20 Per comprendere la posizione di tale disciplina all’interno dell’epoca tecnocratica, occorre anzitutto partire dall’indagine andersiana sull’antropologia filosofica stessa.

«La domanda fondamentale dell’antropologia filosofica: «che cosa è l’uomo?» sarebbe semplicemente l’affermazione di una mera «differentia specifica»?21 Secondo Anders ciò andrebbe senz’altro negato. Determinare l’essenza umana sulla base della differenza rispetto alle altre specie, le quali sono del tutto contingenti, sarebbe sicuramente un tentativo «filosoficamente infantile»22 di risolvere la questione. Proprio le domande sul «che cosa» e sul «chi» sia l’uomo, prosegue Anders, farebbero parte dell’insuperabile autocompiacimento umano, secondo il quale egli sarebbe beneficiario di una posizione metafisica e teologica del tutto particolare. In tal caso, l’essenza dell’uomo verrebbe definita in base ad una funzione specifica che egli svolge all’interno dell’universo: una missione che solo un Dio creatore avrebbe potuto assegnargli. Tutto ciò implicherebbe secondo l’autore de L’uomo è antiquato delle conseguenze ben precise:

In altre parole, la domanda sull’essere ha significato solo se ha presupposti teistici, il che naturalmente non dice nulla circa la loro verità, e piuttosto tutto contro la possibilità di una definizione dell’essenza dell’uomo.23

Ed è proprio contro una definizione positiva di uomo che Anders interviene, dichiarando «Il fatto che “l’uomo non è un essere fisso”»,24, caratterizzato da una natura che lo determini e lo vincoli. Ciò, secondo Anders, sarebbe confermato dalla storia delle morali, mediante le quali l’umanità si è imposta degli obblighi: tentativi di compensare la sua indeterminatezza imponendosi un dover essere.

Un’ulteriore conferma di quanto detto poco sopra viene data dal fatto che l’uomo, a differenza degli altri animali, non possiede uno schema sociale fisso, bensì «porta in sé soltanto una “socialità generica”». Di conseguenza l’uomo si trova a dover creare per conto proprio, di volta in volta, lo schema del suo mondo e della sua società.25 Proprio a partire da questa prospettiva si sviluppa la critica alla concezione heideggeriana di uomo, frutto di una — secondo la definizione che ne dà lo stesso Anders — «antropologia delle radici», la quale renderebbe il soggetto dell’indagine immobile al pari di un vegetale.26

La critica di Anders prosegue soffermandosi sul ruolo di ««pastori dell’essere», quali Heidegger ci ha eletti».27 Una tale affermazione, secondo l’autore de L’Uomo è antiquato , sarebbe formulata «in un modo ancora pienamente biblico, cioè antropocentrico», sovrastimando la posizione dell’uomo nel cosmo. L’affermazione heideggeriana si esporrebbe ulteriormente alle critiche se si tiene conto del mondo entro il quale l’uomo moderno si muove. L’industria dei consumi, la produzione e l’intero universo degli apparecchi scandiscono la vita umana, a tal punto da plasmarne gli aspetti fondamentali. Se proprio si vuole definire l’uomo come il «pastore» di qualcosa, allora egli potrà esserlo solo del mondo dei prodotti. Gli stessi prodotti che egli produce e che gli sono ontologicamente superiori: i prodotti per i quali egli vive.

Appare chiaro, a questo punto, quanto l’interrogativo andersiano sull’uomo non rifletta la domanda kantiana: «Cosa è l’uomo? » e non si proponga neppure di rispondervi. Al contrario, se proprio si deve formulare una domanda sull’uomo, questa dovrà riguardare la possibilità o meno di parlare di esso quale essere libero e storico. Soprattutto, appare fondamentale la domanda: «l’umanità continuerà ad esistere?», ed ancora: il suo dover essere sarà definito a partire da se stessa oppure per la necessità degli apparecchi di produttori e consumatori?

Che sia necessaria un’antropologia filosofica nell’era della tecnocrazia e che questa debba rispondere alle domande sopra menzionate, dipende strettamente dal fatto che la tecnica è divenuta il nuovo soggetto della storia.

Voglio dire che noi — e con «noi» intendo la maggioranza dei nostri contemporanei viventi nei paesi industriali […]abbiamo rinunciato (o ci siamo lasciati costringere a questa rinuncia) a considerare noi stessi (o le nazioni, o le classi o l’umanità) come i soggetti della storia; ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un solo altro soggetto: la tecnica.28

L’enorme portata di una simile rivoluzione storica non è tuttavia comprensibile per l’uomo: ogni riflessione sul proprio status di essere astorico è, di fatto, impossibile. La coscienza è immersa nella tecnica, la quale produce quotidianamente l’esclusione dell’essere umano dalla dimensione storica. In questa «rinnovata astoricità di ritorno»,29 l’uomo è quotidianamente posto di fronte ad un mondo nuovo, caratterizzato dalle continue innovazioni della tecnica e dai prodotti appena sfornati. La ripetizione del «nuovo» cancella la storia stessa: ogni prodotto elimina l’altro e viene cancellato a sua volta da quello che seguirà. In tal modo, la storia diviene solo «una inosservata successione»30 in cui l’uomo «si trascina avanti, giorno per giorno, senza neppure volgere uno “sguardo all’indietro”».31

D’altra parte non si può neppure affermare che l’uomo moderno viva proiettato verso il futuro: il futuro stesso è già nel presente, diluito nel flusso di una «storia» ininterrotta della produzione. Senza la possibilità di periodizzare la storia e, dunque, di poterla analizzare e comprendere, quest’ultima viene proiettata sul presente, sotto le spoglie di un’istantaneità che continuamente si supera. Proprio all’interno di questa instabilità l’uomo tenta di storicizzare il presente, di porlo davanti a sé per poterlo guardare. Il risultato è la cancellazione istantanea del presente,32 in un incessante dilatarsi che lo porta a sparire nell’oblio.

Se prima di essere narrazione o memoria la storia è anzitutto l’accadere, e se un tale accadere è determinato dai soggetti storici attivi, risulta chiaro quanto l’uomo andersiano sia privo di una dimensione storica. Guardando ad una visione storica come storia delle classi sociali — questa la linea guida di Anders — si farà sempre riferimento a chi scrive la storia e chi, al contrario, la subisce. Nello specifico, le classi dominate sarebbero tali proprio per l’assenza di uno sviluppo autonomo: condizione implicita nell’impossibilità di agire della classe stessa.

Se si volesse scrivere una storia del proletariato, si dovrebbero analizzare sempre soltanto delle risposte, la catena delle reazioni con le quali esso, giorno dopo giorno, ha reagito e risposto (o ancora reagisce e risponde) alle reazioni e situazioni storiche della classe dominante.33

L’uomo moderno, dunque, nel suo vivere sotto il continuo bisogno degli apparecchi, alla stregua del proletario fa parte di quella classe che subisce la storia. Le sue azioni sono tutt’al più delle reazioni prive di un movimento autonomo: non generano rivoluzioni né l’inizio di una nuova epoca storica. Al contrario, l’uomo vive nella possibilità della fine di ogni epoca storica. Una tale prospettiva è fortemente legata ad un oggetto in particolare: la bomba atomica.

La bomba è, di fatto, lo strumento che tiene sotto scacco l’esistenza stessa dell’uomo. Con essa non ha senso domandarsi se l’uomo sia in grado di agire, quanto piuttosto chiedersi se la specie umana continuerà ad esistere o meno. In tal modo, la bomba non è solo un semplice mezzo, essa costituisce quell’evento che per eccellenza supera la soglia storica. La bomba, nella sua incalcolabile grandezza distruttiva, rappresenta la fine della storia.34 Qualora si verificasse una guerra atomica, prosegue Anders: «ciò che resterebbe non sarebbe più una situazione storica, ma un campo di rovine sotto cui sarebbe sepolto tutto ciò che una volta è stato storia. E se l’uomo sopravvivesse, nonostante tutto, non sarebbe più un essere storico, ma un miserevole residuo: natura contaminata nella natura contaminata».35

L’eventuale fine atomica metterebbe ulteriormente in luce il ruolo marginale dell’uomo: relegato ancora di più in una dimensione astorica, all’interno della quale neppure la sua fine gli apparterrebbe più. La guerra atomica, assieme agli scenari di desolazione che porterebbe con sé, rappresenterebbe ciò che comunemente si intende con il termine «end of civilization». Tuttavia, sottolinea Anders, proprio questo diffuso modo di dire tradisce una gerarchia ontologica. Non la fine della vita o della specie umana, ma la fine della civilizzazione.

Gli uomini di Stato da Truman a Kissinger a Carter (e i mass media americani senza eccezione), quando parlano della minaccia della fine (atomica), non la chiamano mai «end of mankind» bensì sempre «end of civilization», dando a intendere che ciò che ai loro occhi in nessun caso deve andare distrutto e in ogni caso deve venir salvato non è l’umanità, con il suo passato e il suo futuro, bensì il mondo dei prodotti e dei mezzi di produzione.36

Appare ora chiaro come la tecnica non sia solo il soggetto della storia, ma si presenti a tutti gli effetti come finalità della storia. Pertanto, l’uomo deve preoccuparsi di conservarlacontro la distruzione che questa stessa produce. Ecco che l’esistenza umana viene investita di un nuovo significato e la stessa sopravvivenza assume un nuovo valore: l’uomo deve esistere affinché, mediante il lavoro ed il consumo, possa servire i mezzi di produzione. Tutto ciò perché, nell’era della tecnica, lo scopo degli scopi consiste nel provvedere alla produzione dei mezzi: l’uomo, in accordo con il suo ruolo di pastore del mondo di prodotti ed apparecchi, deve evitare che questi esistano senza l’uso che compete loro.

«Se questi (ma la definizione è insoddisfacente) «tecnocrati», nonostante tutto, ritengono degna di essere conservata anche l’esistenza dell’umanità, è soltanto perché ai loro occhi ci devono essere dei proprietari che scongiurino l’eventualità che i prodotti e i messi di produzione sussistano senza un padrone e senza un senso, in modo dunque miserevole».37 Ecco dunque definita la condizione umana, o per meglio dire, la sua essenza. L’uomo esiste solo in quanto lavoratore ed unicamente come consumatore dei prodotti. Gli stessi prodotti lo rendono schiavo della tecnica, dal cui corso ed impiego dipende l’essere o il non-essere dell’umanità.

La detronizzazione dell’uomo conseguentemente all’affermazione della tecnica è un processo impercettibile quanto graduale. Proprio nel secondo volume de L’uomo è antiquato Anders si sofferma sulle tre rivoluzioni industriali, analizzando i cambiamenti che la tecnica ha apportato alla concezione di mondo ed al panorama umano.

La prima rivoluzione industriale è caratterizzata dal «fabbricare macchinalmente macchine»,38 ossia dalla produzione di macchine mediante altre macchine, caratteristica che è perlopiù divenuta una regola. Secondo quanto scrive Anders, questa cornice costituisce il presupposto per la catena di produzioneall’interno della quale i prodotti divengono a loro volta mezzi per la produzione di altri prodotti. Tutto ciò conferisce all’uomo un ruolo marginale: egli è infatti presente solo all’inizio della catena (come inventore) ed alla fine (come consumatore). Ma è corretto parlare di una fine della suddetta catena se non esistono dei prodotti finali? Ed ancora: esistono dei prodotti finali se ogni prodotto non è altro che il mezzo per produrre altri prodotti-mezzi?

Queste due domande, considerate nella loro effettiva realtà, ne sollevano una fondamentale: cosa ne è dell’uomo all’interno di una produzione in cui i mezzi provvedono a produrre se stessi? L’uomo, imprigionato nella catena di produzione proiettata all’infinito, non conoscerà più neppure un inizio del processo. L’unica funzione che resterà all’individuo sarà quella di consumare i prodotti, di essere atto di consumo, cosicché possa garantire la vita dei nuovi prodotti. Egli, in quanto essere non-creato, può solo veder correre davanti a sé l’ineluttabilità della lampadina nuova che sostituisce quella vecchia.

La seconda rivoluzione industriale è la diretta conseguenza della sovrapproduzione caratterizzata dalla prima. I ritmi frenetici consentiti dalla produzione macchinale, in aggiunta alla possibilità di una produzione in serie, danno luogo ad una situazione in cui i prodotti in commercio sono più della richiesta o dell’effettiva necessità. La performante industria produttiva ha causato una saturazione del mercato.

Come suggerito da Anders, l’uomo si trova di fronte al terzo grado di dislivello prometeico. Mentre il primo viene descritto nel volume uno de L’uomo è Antiquato secondo la formula: Ciò che è possibile produrre è maggiore di ciò che può essere immaginato (soprattutto riguardo le applicazioni e le conseguenze), ed il secondo rappresenta la differenza fra il massimo che si può produrre ed il massimo che è possibile utilizzare, il terzo dislivello, prosegue Anders: «consiste adesso tra il massimo di ciò che possiamo produrre e il massimo (vergognosamente piccolo) di ciò che possiamo aver bisogno».39 Nella situazione in cui l’eccesso di prodotti sovrasta i consumatori, occorre generare in questi ultimi il bisogno, ossia la fame per il consumo di quei prodotti. Questa è dunque la seconda rivoluzione industriale, in cui è il bisogno stesso a divenire un prodotto.

L’analisi andersiana tocca a tal proposito due punti: il modo in cui l’industria provvede a saziare la fame di prodotti e la costituzione di tali prodotti. Caratteristica peculiare di ogni prodotto, il cui destino è quello di essere sostituito, deve essere infatti la scarsa longevità, cosicché ognuno di essi muoia per la vita dell’industria stessa. Il primo aspetto riguarda la pubblicità: la produzione del bisogno per eccellenza, configuratasi, secondo la definizione andersiana, come una vera e propria «industria che deve rendere uguali la fame delle merci di essere consumate e la nostra fame di merci».40 Il secondo aspetto concerne l’interminabilità performativa della catena di produzione. Affinché l’industria non si arresti, si devono continuamente privare di utilità le merci che essa stessa crea: ogni prodotto deve rinviare già al successore e così via. Ammettere lassi temporali che diano l’opportunità di gustare i prodotti, equivarrebbe a tollerare dei punti morti all’interno della produzione.

Se dunque, come è stato detto, ogni prodotto rimanda direttamente alla necessità di un altro e la pubblicità mira a produrre un’incessante fame, una regola si rende necessaria ai precetti appena menzionati: i prodotti vecchi devono poter essere eliminati da prodotti più freschi. Il consumatore che assimila la massima secondo la quale la vecchia generazione di prodotti va sostituita rapidamente con la nuova generazione è l’alleato più potente dell’industria. Al contrario, colui che rifiuta di perseguire la massima di cui sopra è da considerarsi al pari di un sabotatore.

Ma come si viene a creare questo perverso meccanismo per il quale la spietatezza contro le merci viene accolta come imperativo morale? Cosa rende gli altri consumatori gli stessi guardiani dell’industria contro i cosiddetti sabotatori? Si deve notare che l’esortazione doverosa al consumo è una presenza costante nella quotidianità dei consumatori, ciononostante non viene imposta per via diretta, ma viene servita mediante il camuffamento operato dal chiasso delle rèclame. E non stupisce che il camuffamento avvenga mediante ciò che è particolarmente vistoso, questo perché l’occhio può essere accecato se lo si relega nel buio, ma anche mediante un continuo bombardamento di luce.

Precedentemente è stato illustrato quanto il non consumatore sia ritenuto a tutti gli effetti un sabotatore, ma qual è il mezzo con cui viene posta sotto pubblica accusa quest’oltraggiosa resistenza all’industria? Il confronto con il testo andersiano ha suggerito che le réclame obbligano il singolo al consumo ininterrotto, tuttavia, per quanto sia forte questa pressione, l’imposizione riguarda esclusivamente la volontà del singolo individuo. Non vi è ancora un coinvolgimento dell’intera collettività, in modo tale che il comportamento del singolo consumatore sia esposto al giudizio della massa dei consumatori.

Ciò che pone definitivamente l’individuo di fronte all’inadeguatezza causata dai prodotti obsoleti è la moda, che Anders definisce «il provvedimento di cui si serve l’industria per rendere i suoi prodotti bisognosi di essere sostituiti».41 La moda suggerisce al consumatore di essere spietato con i prodotti, affinché egli non si senta inadeguato rispetto al contesto. Ed è proprio attraverso l’uccisione dei prodotti antiquati che il consumatore cerca la liberazione dall’anatema dell’inadeguatezza,all’insegna di un’elevazione del suo status esistenziale. Se le réclame vengono definite da Anders i comandamenti che obbligano alla spietatezza, sembra possibile affermare che la moda sia lo sguardo di controllo collettivo che vigila sul singolo consumatore, inducendolo ad una tale spietatezza.

Tuttavia, la seconda rivoluzione industriale non è ancora l’ultimo gradino della scala. Un ulteriore mutamento si è verificato mediante l’introduzione di un nuovo apparecchio: la bomba atomica. Questo strumento, sottolinea Anders, rappresenta l’oggetto che più di ogni altro ha alterato la condizione dell’esistenza umana. La bomba atomica è l’unico oggetto che ha posto l’umanità nella condizione di poter «produrre la propria distruzione».42

È la terza rivoluzione industriale, dove la produzione regna sovrana persino sui criteri morali. L’atomica ne è l’esempio più eclatante e rappresentativo: non si pensa alle conseguenze cui conduce la creazione e l’uso di un simile strumento. Al dislivello prometeico tra sentire e produrre, nella forma di una cecità umana di fronte le conseguenze derivanti dall’uso dei prodotti, si aggiunge la regola d’oro dell’epoca industriale: ciò che può essere prodotto deve essere prodotto. Appare chiaro che tale principio non rappresenta un punto d’arrivo, ma il trampolino di lancio dell’homo faber nell’epoca del consumismo di massa, dove vige il principio assoluto: ciò che può essere prodotto deve essere usato.

Ciò che emerge è il ritratto di un uomo inadeguato al proprio tempo, ridotto alla mera funzione di ingranaggio di fronte alla produzione macchinale. Tuttavia, proprio questo essere parte di un apparato pone l’uomo di fronte ai limiti del proprio corpo, il quale non riesce ad essere performativo come il sistema richiede. Quest’uomo, la cui identità è smarrita nel continuo flusso della produzione, si trova a dover migliorare la sua struttura limitata attraverso lo Human Engineering. In quest’ottica, l’uomo-ingegnere non prova nessuno scrupolo nel trattare se stesso e qualsiasi cosa incontri lungo il suo cammino come mera materia prima. È il trionfo della scienza che misura e sonda, quantificando l’utilizzabilità intrinseca di ogni ente.

L’essere umano, impegnato nella lotta contro il suo essere obsoleto, getta se stesso nelle reti del pieno «dislivello tra il fare e l’immaginare, l’agire e il sentire, la conoscenza e la coscienza, la macchina e il corpo».43 Di fatto, l’homo faber ha affidato il mondo alla produzione. Egli è l’artefice degli strumenti che lo sostituiscono nel lavoro e dettano alla sua volontà i ritmi del consumo. Di fronte alla perfezione del mondo dei congegni, l’uomo ha preso le distanze dal proprio corpo. Annullando la sua stessa anima, ha cercato di ridurre la distanza rispetto all’apparato, fondando i propri precetti morali sulla produzione e sull’utilizzabilità del mondo dei prodotti.


  1. Si veda a tal proposito G. Anders, Opinioni di un eretico, trad. it. R. Callori, presentazione di S. Velotti, Theoria, Roma-Napoli, 1991, pp. 71-74. Il testo propone un’intervista all’interno della quale Anders illustra le situazioni politico-culturali che ne hanno caratterizzato la vita. ↩︎

  2. Su Opinioni di un eretico Anders descrive l’importanza che ha avuto per il suo pensiero il periodo di fabbrica a Los Angeles : «[…] un’esperienza che veramente non vorrei aver persa: oh, come i lavori sbagliati alle volte possono essere i più giusti perché ci danno delle esperienze che, in una professione fatta su misura, non si potrebbero mai fare. Senza il periodo in fabbrica, in effetti, io non sarei mai stato in grado di scrivere la mia critica all’era della tecnica, ossia il mio libro Die Antiquiertheit des Menschen [L’uomo è antiquato]. E ancora oggi, mentre preparo la seconda parte di quel libro, continuo a nutrirmi di quelle esperienze« (G. Anders, Opinioni di un eretico, cit. p. 64). ↩︎

  3. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 377. ↩︎

  4. Ivi, p. 368. ↩︎

  5. G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. I: über die Seele in Zeitalter der zweiten industriellen Revolution(trad. It. a cura di L. Dallapiccola, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale , Bollati-Boringhieri, Torino, 2003), p. 32. ↩︎

  6. Ivi, p. 33. ↩︎

  7. Ivi, p. 56. ↩︎

  8. Ivi, p. 58. ↩︎

  9. Ivi, p. 253. ↩︎

  10. Ivi↩︎

  11. Ivi, p. 252. ↩︎

  12. G. Anders, Opinioni di un eretico, cit., p. 74. ↩︎

  13. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 27. ↩︎

  14. S. Velotti, presentazione, Opinioni di un eretico, cit., p. 11. ↩︎

  15. Cfr. Gabriele Righetto, La scimmia aggiunta. Una specie dotata di oggetti, Paravia Bruno Mondadori Editori, Torino, 2000, pp. 96-116. ↩︎

  16. G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p.107. ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, trad. it. G. Gurisatti, Adelphi, 2002, pp.19-20. ↩︎

  19. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 129. ↩︎

  20. Ivi, p. 3. ↩︎

  21. Ivi, p. 116. ↩︎

  22. Ibidem. ↩︎

  23. Ivi, p. 116. ↩︎

  24. G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 289. ↩︎

  25. Sull’indeterminatezza umana e sulla trattazione di Anders riguardo la storia delle morali e la socialità generica si veda L’uomo è antiquato. I, Appendice, Sulla plasticità dei sentimenti, in particolare pp. 289-291. ↩︎

  26. Illuminante è a tal proposito l’opinione di Anders sull’esser-ci heideggeriano: «[…] io gli rimproveravo di avere trattato come «esistenziale» solo il tempo ma non lo spazio […] Insomma, gli rimproveravo di aver trascurato l’uomo come nomade, viaggiatore, come essere internazionale o di aver rappresentato, in fondo l’esistenza umana come quella di un vegetale, come l’esistenza di un essere radicato in un posto che non abbandona mai. Cosa che in realtà lo riguardava anche biograficamente, dato che lui era rimasto. attaccato al suo luogo di nascita con una viscosità che non mi fu mai dato di riscontrare in altri contemporanei di quella nostra epoca frettolosa, Quando finì il suo periodo a Marburgo e potè tornare nella sua Foresta Nera, allora si sentì libero: libero dall’essere altrove, dalla non-prigione.» (G. Anders, Opinioni di un eretico, cit., pp.30-31). ↩︎

  27. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 260. ↩︎

  28. Ivi, p. 258. ↩︎

  29. Ivi, p. 275. ↩︎

  30. Ibidem↩︎

  31. Ibidem↩︎

  32. Ibidem↩︎

  33. Ivi, p. 254.↩︎

  34. «La distruzione dell’Atlantide (ammesso che abbia avuto luogo) non fu una catastrofe storica, non fu una catastrofe nella storia; ma piuttosto, in quanto fine di storia, qualche cosa che non potè più inserirsi nella storia: un “evento al di sopra della soglia storica”». Queste sono le parole con cui Anders, in L’uomo è antiquato. I, cit. p. 246 descrive eventi la cui enormità oltrepassa persino il setaccio della storia. ↩︎

  35. G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 246. ↩︎

  36. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 259. ↩︎

  37. Ivi, p. 260. ↩︎

  38. Ivi, p. 9. ↩︎

  39. Ivi, p. 12. ↩︎

  40. Ivi, p. 10. ↩︎

  41. Ivi, p. 41. ↩︎

  42. Ivi, p. 13. ↩︎

  43. Francesco Miano, Günther Anders: critica della tecnica e fine dell’umano, in Hermeneutica, 2008, p. 201. ↩︎