Percorsi dell’intersoggettività, Trieste, 25-27 novembre 1999. Relazioni: Maurizio Pagano («Intersoggettività: le questioni di oggi a confronto con l’eredità di Hegel»), Karl-Otto Apel («Intersoggettività: un nuovo paradigma della filosofia trascendentale?»), Dieter Henrich («Soggettività e intersoggettività»), Wilhelm Vossenkuhl («Intersoggettività versus individualismo. La coerenza pratica»), Fulvio Longato («Comunicazione, intersoggettività, “principio di carità”»), Giovanni Ferretti («Primato dell’io — primato dell’altro: un’alternativa superabile?»), Mario Ruggenini («Parlare con altri»), Didier Frank («Posizione del problema dell’intersoggettività»), Pier Aldo Rovatti («La follia dell’altro in Husserl»).
Percorsi dell’intersoggettività è il titolo suggestivo del convegno che si è tenuto a Trieste dal 25 al 27 novembre, quale risultato di un progetto di ricerca pensato tre anni fa, cui hanno collaborato le Università di Trieste e di Macerata. Il convegno, che si è aperto col nome di Hegel e si è chiuso con quello di Husserl, si è mosso sul terreno dell’attuale dibattito sull’intersoggettività. Il nodo centrale della questione, emerso nel corso degli interventi, è senza dubbio l’impossibilità di ridurre ad un’unica domanda il problema dell’inter-sogget-tività, di conseguenza la necessità di ammettere e accettare i vari percorsi che intrecciandosi costituiscono la trama d’avvio ad una risposta inesauribile.
A rivelare la complessità delle questioni in cui ci s’imbatte solcando tale terreno è la struttura stessa del convegno, che si è articolato in una serie di interventi sia di natura argomentativa (Maurizio Pagano, Karl-Otto Apel, Dieter Henrich, Wilhelm Vossenkuhl), che metodico-prospettica (Fulvio Longato, Giovanni Ferretti, Mario Ruggenini, Didier Frank, Pier Aldo Rovatti).
Come ha affermato Maurizio Pagano introducendo il tema del convegno, porre il problema dell’intersoggettività significa percorrere molteplici strade, ognuna delle quali è necessaria ad illuminarne un aspetto. Il problema della relazione tra soggetti è infatti un problema di conoscenza e un problema etico, e non si può prescindere da nessuno di questi ambiti senza correre il rischio di concepire soluzioni affrettate e parziali. In più il problema dell’intersoggettività oltre alla relazione tra un Io e un Tu, impone anche di pensare l’universalità comune a tali individualità. È in questa ottica che Maurizio Pagano, con la sua relazione Intersoggettività: le questioni di oggi a confronto con l’eredità di Hegel, pone il problema. La rivalutazione di Hegel avviene sulla base della categoria del riconoscimento, e nasce dall’esigenza di riconoscere il singolo entro una trama di significati che non lo totalizzano. L’esigenza di fondo che spinge alla ripresa dell’eredità hegeliana è l’insopprimibilità dell’universalità come universo comune.
La coscienza singola è il don Chisciotte che incarna la legge nella sua individualità e fallisce perché incontra il mondo come limite. Il riconoscimento è la domanda quotidiana dei quotidiani rapporti reciproci e la genesi della coscienza comune. Il riconoscersi nell’opera dell’altro, e il riconoscere l’opera dell’altro, equivale a trovare una via che non è né individualistica né totalitaristica. Significa in altre parole voler cercare nel tu tutti gli altri, garantire un punto comune di partenza come garanzia di un universale di appartenenza.
Nonostante la legittimità di una prospettiva che intende riguadagnare come momento fondamentale dell’intersoggettività una dimensione universale, in realtà l’autentico problema della teoria dell’intersoggettività quale si è espresso nel pensiero del ’900 è quello dell’incontro tra un io e un tu singolari e irriducibili. Il disagio e una certa difficoltà a tentare vie nuove nella ridefinizione del Cogito e nella definizione dell’intersoggettività, che ho rilevato anche in altri interventi nel corso di questo convegno e di cui parlerò oltre, sono a mio avviso sintomatici di una situazione per lo più nuova di fronte alla quale il pensiero filosofico non dispone ancora degli strumenti adeguati.
La questione dell’intersoggettività impone necessariamente la ricerca di un paradigma nuovo di interpretazione del cogito. È quest’aspetto che Karl-Otto Apel ha voluto illuminare, tentando di coniugare la tradizione analitica con quella continentale. La sua articolata e feconda relazione Intersoggettività — un nuovo paradigma della filosofia trascendentale?, volta a rideterminare il rapporto tra intersoggettività, linguaggio e autoriflessione del pensiero, prende le mosse dall’esigenza di ridefinire un nuovo paradigma della prima philosophia. Oltre la filosofia trascendentale, questo paradigma postkantiano e posthusserliano deve essere coniugato con la pragmatica linguistica, senza però porre tra parentesi, o eliminare, o perdere il soggetto trascendentale. Il suo programma, che egli definisce Pragmatica linguistica trascendentale, è quello di esplicitare l’io trascendentale nel quadro di un nuovo paradigma filosofico atto a farlo uscire dall’autarchia e dal solipsismo. Egli mostra come, attraverso questo programma, è possibile risolvere le aporie in cui si imbatte la filosofia contemporanea della soggettività, e come acquistano consistenza nuova le sue due questioni fondamentali: l’autonomia e l’autenticità.
Innanzitutto è necessario uscire dal dubbio filosofico del cogito cartesiano. La nota proposizione cartesiana cogito ergo sum, manca di un presupposto fondamentale, che dà rilevanza e spessore all’intuizione originaria, ovvero l’esistenza di un linguaggio e di una comunità della comunicazione. La validità del cogito non può essere provata come un solitario resoconto introspettivo, ma ha bisogno del discorso argomentativo in cui conta solo l’autocertezza performativa. In questo senso la proposizione cartesiana è vera perché io non posso assolutamente dire, senza cadere in un’autocontraddizione performativa, «affermo che non esisto». In tal modo è possibile risolvere anche il problema dell’esistenza di un mondo esterno e di altri soggetti. Infatti l’autoriflessione, l’autonomia e l’autenticità sono possibili soltanto in rapporto ad una comunità comunicativa. La certezza delle affermazioni del cogito, dell’autenticità delle sue espressioni, della fondatezza della sua vita etica e della sua libertà, tutte queste cose ricevono spessore e consistenza, concretezza e realtà attraverso la mediazione linguistica del sapere pratico performativo, per cui «l’accordo con sé della ragione» richiesto da Kant è salvato sul piano pratico. In altre parole pretendere che una affermazione abbia un senso all’interno di una comunità di persone che interagiscono, significa evidenziare nell’argomentazione le proposizioni incontestabili, di conseguenza quelle condizioni trascendentali perché gli atti argomentativi valgano intersoggettivamente.
Ciò non significa però ricondurre agli stessi criteri di verifica le scienze sociali empiriche e la filosofia. Questo Apel lo sottolinea in riferimento alla teoria dell’agire comunicativo di Habermas di cui accetta la ricostruzione genetica dell’autocoscienza. Habermas, connettendosi agli studi dell’antropologo e psicologo sociale G.H. Mead, giunge ad affermare che l’universalità delle argomentazioni si realizza perché l’io tiene presente l’altro universalizzato, dunque ogni membro di una comunità comunicativa. Il difetto della teoria di Habermas, secondo Apel, sta nel non aver statuito alcuna differenza tra la validità di un giudizio percettivo e quella di una asserzione filosofica. Infatti le asserzioni filosofiche a differenza dei giudizi percettivi, come afferma Apel «hanno una pretesa di generalità a priori che si retroriferisce a se stessa» e di conseguenza possono autocontraddirsi performativamente e non possono correggersi dall’esterno.
In che modo è allora possibile fondare l’autoriflessione filosofica? Apel risponde «nel senso di una mediazione linguistica dell’autoriflessione del pensiero su o mediante le pretese di validità della conoscenza scientifica […] e a partire da una linguistica pragmatica trascendentale». In altre parole il sapere pratico performativo che costituisce gli atti linguistici pragmatici deve essere tradotto in una descrizione proposizionale di cui si può elaborare una teoria dell’argomentazione controllata sulla base della comunanza di una lingua madre. Coniugare la pragmatica linguistica alla filosofia trascendentale, interpretare il cogito come originariamente rapportato alla realtà e dunque alla comunità, significa restituire senso all’autoriflessione ma non in modo diretto, una volta per tutte, ma «lungo il percorso di mediazione del linguaggio e della comunicazione intersoggettiva».
La teoria di Apel è in un certo senso ripresa da Wilhelm Vossenkuhl con la sua teoria della coerenza pratica. Egli, infatti, nella sua relazione Intersoggettività *versus individualismo. La coerenza pratica*, sebbene rinunci ad elaborare una teoria dell’argomentazione sulla base del presupposto che alla relazione intersoggettiva manca una simmetria forte, in realtà offre un criterio d’interpretazione dell’intersoggettività che oserei definire minimale, fondata sul riconoscimento dell’asimmetria dei soggetti, ma che riconosce la possibilità della comunicazione come effetto di una coerenza di cooperazione. La pretesa di trasparenza e di uguaglianza dei valori di verità dei singoli è mantenuta solo ipoteticamente, in realtà dalla relazione di due soggetti riflessivi non è possibile dedurre alcuna simmetria od equipollenza dei loro atti di pensiero, così come non è possibile dedurla neanche dal rapporto autoriflessivo. Detto esplicitamente, «l’atto di affermazione di una persona non può essere l’atto di affermazione di un’altra». La simmetria tra più soggetti è priva di riflessività, ed è relativa all’uso di regole, significati e determinazioni convenzionali.
È una posizione che da una parte salva l’individualismo metafisico, ovvero la capacità di ogni soggetto di formulare proposizioni vere, attraverso il principio di carità, dall’altra rende ragione dell’asimmetria propria dell’autoriflessione e della relazione intersoggettiva. La coerenza pratica, l’accordo esplicito sempre rinnovato, seppure non forniscono soddisfazione alcuna alle pretese metafisiche dell’individualismo, rendono possibile il dialogo e una base concreta da cui partire per la risoluzione di problemi etici. E infine è proprio dal riconoscimento del valore teoretico della coerenza pratica, conclude Vossenkuhl, che possiamo ripensare l’individualismo e superarne le aporie.
Un’altra risposta originale, che è di nuovo un tentativo di coniugare la filosofia analitica e la filosofia continentale, è quella di Fulvio Longato con la sua relazione Comunicazione, intersoggettività, «principio di carità». Egli ha sottolineato il ruolo ineliminabile della sensibilità e della perspicacia dell’interprete e dell’interlocutore. Oltre le regole, il metodo di comprensione dell’altro chiama in causa altri elementi che sono la condizione di possibilità dell’interpretazione, e che richiamano da vicino la coerenza pratica di Vossenkuhl. Il principio di carità, formulato da Davidson in polemica con la pretesa di universalità del progetto ermeneutico di Gadamer, è la cerniera tra filosofia analitica e continentale. Secondo Davidson in una comunicazione si devono tener presenti due principi, riguardanti la forma e il contenuto, perciò: a) presuppongo che le affermazioni dell’altro non siano in contraddizione (principio di benevolenza). Attribuire consistenza al discorso dell’altro significa innanzi tutto ascrivergli la possibilità di inferire, dare consistenza all’insieme delle sue credenze e supporre che il soggetto in questione agisca per lo più in accordo con loro. Inoltre non è neanche possibile giudicare radicalmente incoerenti le argomentazioni dell’altro, formulando tale giudizio ho già, infatti, compreso qualcosa, ovvero l’incoerenza coerente al discorso; b) Io e l’altro apparteniamo ad un mondo comune, comunichiamo sulla base delle stesse esperienze. La comprensione dell’altro non può prescindere dal riferimento al mondo. Il principio di carità è presupposto metodologico per comunicare e comprendere, e rinvia ad uno status trascendentale che non è solo analitico e razionale, ma un gioco di razionalità e percezione intuitiva e irrazionale. Il principio di carità in ciò non differisce dalla fenomenologia: dà fiducia.
Appartenere ad una lingua madre significa che non v’è divorzio, ma sintonia epistemica tra noi e il mondo. Ciò che è oggettivo lo è perché è condiviso o soltanto compreso da più soggetti, in altre parole è intersoggettivo. La verità e l’oggettività sono veicolate dalla tradizione e dal contesto da cui non si può assolutamente prescindere. Con questo, sottolinea Longato, è necessario tener presente oltre alla tradizione gli attori. Perché la comunicazione sia una comunicazione riuscita oltre la base comune, la tradizione, bisogna considerare l’interpretazione personale di ognuno all’interno di essa, le singole «recite» e quindi tener presente che l’altro non è anticipabile e che nessuna forma stereotipata di comprensione deve entrare in gioco.
Interessante da questo punto di vista, seppur secondo prospettive diverse, è l’inter-vento di Pier Aldo Rovatti, La follia dell’altro in Husserl. Husserl è il filosofo della normalità, nella descrizione fenomenologica dell’estraneo la relazione si consuma in uno scenario normale in cui si condensa la razionalità. L’analogia husserliana secondo Rovatti non riesce a normalizzare l’esperienza enigmatica dell’altro, e la «fretta di rincasare» di Husserl equivale alla perdita dell’altro. Non sopportare lo spaesamento vuol dire mancare irrimediabilmente l’altro che mi spossessa, e nella sua enigmaticità mi ossessiona. La follia dell’altro non è solo dell’altro, ma apre uno spazio che non ci è familiare, e in questo spazio siamo coinvolti. Occorre andare oltre il muro della normalità, afferma Rovatti, e accettare la follia. Ciò significa, a mio avviso, attuare in modo ancor più radicale il menzionato principio di carità, andare oltre l’ansia di fornire teorie argomentative, accettare lo scarto e l’abisso che la comunicazione apre senza voler necessariamente trovare l’accordo con sé della ragione. Questo significa rinunciare a dedurre il soggetto, ma anche il rapporto intersoggettivo: accettare la sfida.
In questo senso risulta illuminante e fecondo il contributo di Dieter Henrich, con la sua relazione Soggettività e intersoggettività. Secondo Henrich il problema della soggettività e dell’intersoggettività è stato mal posto dalla filosofia. Come egli stesso afferma, «il significato di vita di una intersoggettività riuscita non può essere compreso al livello di un accordo di fondo sul rapporto di soggettività e intersoggettività. Tuttavia proprio l’intendimento fondamentale di questo rapporto deve cogliere che da quel momento in poi non è escluso di giungere ad una intesa reciproca su questo significato della vita». Un’intesa che non è possibile raggiungere attraverso la deduzione, comprendere l’altro vuol dire comprendere la sua resistenza e irriducibilità. Ma, come afferma Henrich, ammettere questo fatto fondamentale non significa rinunciare alla teoria, ma accettare che «lo stesso fatto fondamentale della nostra vita cosciente, la nostra autorelazione conoscitiva, è resistente ad un’analisi compiuta». Un’intersoggettività è riuscita se si comprende l’essere-per-sé «come scopo vitale e realizzazione di vita». Ciò non significa che l’autorelazione conoscitiva sia autosufficiente o fondamento dell’intersoggettività, solo che il soggetto è irriducibile e impenetrabile, e che se riconoscessimo il primato conoscitivo del soggetto ciò implicherebbe la perdita del soggetto nell’altro o la presunzione di esaurirlo e assimilarlo a sé. Conclude Henrich: «L’intesa fra soggetti presuppone dunque la capacità di potersi rendere presente la soggettività degli altri, senza entrare in essa».
Ma come è possibile dare conto dell’altro se, come afferma Husserl, non c’è dato di avere una intuizione originaria dell’altro? È la domanda cui tenta di rispondere Dieder Franck nella sua relazione Posizione del problema dell’intersoggettività. Franck, tenendo conto delle aporie della fenomenologia husserliana, tenta, a partire da Husserl, una via in grado di rendere conto dell’oggettività, dell’intersoggettività e del senso che si costituisce. Secondo Husserl, l’intenzionalità che costituisce l’alter ego non è mai una intuizione originaria, ma sempre una intenzionalità indiretta mediata da una trasposizione appercettiva che proviene dal mio corpo proprio. In una descrizione della percezione dell’altro Husserl afferma:
Nel dominio percettivo della mia natura primordinale si fa luogo un corpo che, per essere primordinale, è naturalmente un mero momento costitutivo di me stesso (trascendenza immanente). Poiché in questa natura o mondo il corpo proprio organico è in effetti l’unico corpo fisico che sia originariamente costituito e che possa originariamente costituirsi come organico, ossia come organismo funzionale, anche quell’altro corpo, che è pur compreso come corpo proprio organico, deve possedere il senso di una trasposizione appercettiva proveniente dal mio corpo proprio. Ma tutto ciò esclude pertanto una giustificazione realmente diretta e primordinale dei predicati specifici del corpo proprio, una giustificazione cioè tratta da percezioni vere e proprie. È chiaro innanzitutto che solo una somiglianza, interna alla mia sfera di primordinalità, tra quel corpo e il mio può fornire il fondamento della motivazione della appercezione analogica di quel corpo in quanto corpo organico altro (E. Husserl, Meditazioni cartesiane, trad. it. di F. Costa, Bompiani, Milano 1989, § 50, p. 131).
Il ricorso all’analogia secondo Franck rende impossibile la costituzione dell’alter ego, poiché l’altro è sempre una componente di me stesso. Husserl stesso che si era reso conto di queste difficoltà nel settembre del 1933 afferma:
Non siamo forse autorizzati o costretti a presupporre una intenzionalità pulsionale universale, che costituisca unitariamente ogni presente originario come temporalizzazione costante e che concretamente sospinga di presente in presente, di modo che ogni contenuto sia contenuto di riempimento e sia anticipatamente intenzionato…? (E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Husserliana XV, Nijhoff, Den Haag 1973, p. 64).
L’intersoggettività a partire dalle pulsioni. Husserl, non ha portato a termine questo compito, e si tratta di vedere, come afferma Frank, se l’analisi pulsionale del corpo è in grado di rispondere dell’oggettività e dell’intenzionalità. Franck risponde che ciò è possibile se modifichiamo i termini in cui l’intersoggettività e il suo senso sono posti. L’analisi di Nietzsche sulla coscienza e la riconduzione della sua genesi al corpo apre a questa possibilità.
Acquistar coscienza secondo Nietzsche significa rispondere ad un malessere del corpo, comprenderlo e ristabilire l’equilibrio tra le pulsioni. La pulsione è il linguaggio segreto e sotterraneo del corpo sottoposto al divenire, è l’interpretazione inconscia del divenire. La coscienza è allora sempre inseparabile da un oggetto originario che, in quanto si presenta come uno stato che opera in noi, è sempre un altro soggetto. La struttura intersoggettiva del corpo è riconosciuta, secondo le parole di Frank «come struttura ed evento del corpo che considero mio». Invece di un unico soggetto si ammettono una pluralità di soggetti che stanno alla base del nostro pensiero e delle nostre azioni. Se la soggettività è questa molteplicità di stati che operano in noi, e che determinano la genesi della nostra coscienza allora, conclude Frank, «è il corpo che pensa veramente, è il corpo che conosce, molto più dell’anima o della coscienza.»
Queste risposte sono state in parte riproposte nella ripresa della posizione heideggeriana espressa da Mario Ruggenini in occasione della sua relazione Parlare con altri. Seppur in termini diversi, entrambe queste posizioni non escono dal soggetto. Affermare che il problema dell’intersoggettività è risolto ponendo un soggetto per così dire plurale, e che tale soggetto riconosce l’oggettività sulla base della composizione delle sue pulsioni, a un tempo soggetti e oggetti del suo agire, e l’intersoggettività come struttura ed evento del corpo proprio significa solo spostare l’ego dal cogito al corpo, in ogni caso non esce fuori di sé. Il primato dell’io.
Giovanni Ferretti, nella sua relazione Primato dell’io — primato dell’altro: un’alternativa superabile?, tenta di trovare una alternativa attraverso il confronto delle posizioni divergenti di Levinas e Husserl, per riconoscere l’origine ultimativa del senso in termini etici. Decidere per uno di questi due poli significa scegliere tra una fondazione gnoseologica e una fondazione etica del problema. Si tratta secondo Ferretti di comprendere la complementarità delle due posizioni. Il problema fondamentale dell’intersoggettività riguarda la possibilità di entrare in relazione con l’altro senza renderlo omogeneo ai miei parametri, schemi o pregiudizi. Il primato dell’altro.
È vero anche che la garanzia di un tale atteggiamento risiede nel riconoscimento dell’altro a partire da me, appercepisco l’altro come mio simile. La derivazione dell’altro dall’io sul piano gnoseologico (Husserl) è preliminare riconoscimento dell’avvertenza etica. Ma è anche vero che non è possibile, come insegna Levinas, far derivare anche l’etica dall’io. Ciò significa riconoscere la differenza dell’altro sostanzialmente uguale alla mia differenza, alla mia alterità, dunque a partire da me ma solo nella forma (Husserl), non nel contenuto particolare che è ciò che propriamente mi rende differente e mi specifica. Il contenuto della differenza proviene dall’altro al quale sono esposto.
Da qui l’esigenza di rendere complementari le due posizioni menzionate. Se è vero, come afferma Ricœur nel confronto Husserl-Levinas, che il discorso di Levinas in Totalità e infinito rimanda ad un essere essenzialmente passivo e la relazione all’altro è una sorta di vocazione etica senza reciprocità in cui l’altro mi ossessiona e pesa sulla mia libertà, ciò che qui mi sembra rilevante prima del discorso propriamente etico è la messa in evidenza dell’altro come enigma e l’assoluta asimmetricità degli interlocutori. La relazione con altri è allora al di fuori del comprendere inteso come presa assoluta, esaurimento. È invece comprensione se iscriviamo tale relazione nell’ottica dell’appello a cui possiamo o no rispondere, del dono che possiamo o no accogliere, della responsabilità che possiamo scegliere se assumerci o meno. È comprensione nel senso di una abbraccio, accoglimento, che liberamente possiamo decidere di dare o non dare. È intuizione dell’ulteriorità indefinibile a partire da un comune terreno: l’essere uomini. Ferretti, pensando al Levinas di Altrimenti che essere giunge a tali conclusioni. In Totalità e infinito prevaleva la provocazione dell’altro, in Altrimenti che essere il soggetto è esposto all’altro, desiderio originario che volge sin dal principio nella responsabilità. La differenza si struttura come non-indifferenza originaria al bene.
Al termine di questa schematica presentazione vorrei addurre delle conclusioni che a me sembrano rilevanti. La questione dell’intersoggettività, abbiamo visto, presenta notevoli problemi già nella posizione stessa del problema. L’intersoggettività è un problema recente della filosofia, e impone di ripensare il soggetto nelle sue relazioni a se stesso e al mondo esterno in un modo radicalmente nuovo. Il motivo per cui ho citato alla fine la relazione di Ferretti è che mi sembra rilevante da questo punto di vista. Come estremamente rilevante mi sembra la posizione di Dieter Henrich volta a smascherare qualsiasi fraintendimento sul significato di comprensione dell’altro ma anche di sé. Parlare di intersoggettività significa parlare delle differenze e dei valori comuni dei membri del genere umano. Significa interessarsi ai problemi che emergono nei micro- e nei macro-orizzonti relazionali. Significa pensare l’uomo nella sua vita e, che ci piaccia o no, bisogna tener conto anche delle zone d’ombra e spesso di buio che ne fanno parte. Per questo il presupposto preliminare è quello di abbandonare qualsiasi velleità di esaurimento, perché non tutto può essere detto, ma molto rivelato.
La differenza è qualcosa che si può accogliere, ma che si deve accettare. Oltre la comprensione perché non tutto può essere compreso, ma nel rispetto e nella consapevolezza dei limiti dell’essere uomini. E se è vero che gli uomini comunicano perché appartengono alla stessa lingua, alla stessa tradizione, è vero anche che lo fanno perché appartengono allo stesso genere, alla stessa origine e allo stesso destino, e genere origine e destino non possono essere normalizzati. Bisogna tener conto di quella dimensione in cui non è possibile condensare alcuna razionalità, e volerlo fare significa produrre violenza. È la dimensione che Rovatti ha identificato come quella in cui abita l’uomo folle di Nietzsche, che non si riconosce nei valori comuni e urta le ovvietà. Accettare normalità e follia significa allora vivere pienamente nel tempo e nella storia personale e della comunità, significa incontrare l’altro a partire dalle convenzioni, dai valori comunemente condivisi e, non dimenticando che quelli sono solo un terreno comune, mantenere desta l’attenzione a quel fondo oscuro e impenetrabile. In tal modo l’incontro con l’altro è una preziosa occasione anche con l’alterità presente in me. È una reciproca donazione di senso che è anche capacità di coglimento, non di com-prensione assoluta e di deduzione. Il mio interlocutore è allora colui al quale posso rispondere e domandare, colui attraverso il quale e con il quale posso comprendere ulteriormente e sempre di nuovo, co-creatore di nuovi mondi, in cui entrambi siamo sempre di volta in volta presenti, di nuovi orizzonti che si allargano insieme alle nostre reciproche evoluzioni (o anche involuzioni, dipende dalla natura della relazione. Ma qui si aprono altre questioni che la filosofia può risolvere in un lavoro comune con le scienze psicologiche e sociali).