La goccia dell’azione: inizio e comprensione nel pensiero arendtiano

1. La struttura dell’azione

La domanda intorno all’agire avvia una riflessione volta non solo a determinare l’incontro dell’uomo con il mondo, con il proprio io e con l’altro da sé, ma anche il legame che intercorre tra i concetti di inizio e comprensione. Interrogarsi sull’agire implica un necessario riferimento a questi concetti, colti come pure potenzialità a fondamento del fenomeno dell’agire, in quanto inizio e comprensione sono radicati nella struttura dell’azione e non si può prescindere da essa nel farne oggetto di riflessione.

Il concetto di azione, nel pensiero di Hannah Arendt, non è solo una prospettiva filosofica con cui affrontare l’enigma dell’esistenza, ma anche una modalità pratica con cui reagire e abitare lo spazio mondano: la filosofia dell’azione ha origine nel mondo, in uno sguardo diretto e sofferto alla storia passata e presente dell’uomo e nell’incessante bisogno di comprendere. Nel cammino umano della pensatrice questo bisogno emerge nel confronto con il prima, il durante e il dopo del fenomeno totalitario: la Arendt, offesa e umiliata da quell’“inferno in cui santi e peccatori erano parimenti degradati alla condizione di potenziali cadaveri”,1 ricerca una parola che la guidi verso la riconciliazione e le dia la possibilità di continuare a vivere nonostante tutto, dove il tutto è un involucro che nasconde una storia difficile da raccontare e da comprendere. La pensatrice trova una simile parola nell’azione: essa è la voce a cui dà materialità per non dimenticare e traspare come una traccia, come una goccia gettata nel mare del mondo per continuare a pensare l’agire e le potenzialità umane.2

Il naturale luogo dell’agire è il mondo ed è il costante riferimento a questo spazio, che comprende e in cui si è compresi, a fornire la materia per lo sviluppo delle modalità dell’azione, dall’apparenza al giudizio. La parola mondo vibra di echi diversi: è la totalità delle cose che tocchiamo, vediamo, usiamo, è un recipiente di fenomeni a cui attingere ogni qualvolta le nostre domande cercano una risposta, è uno spazio invisibile in cui si dipanano le storie degli uomini.3

In Vita activa, il rapporto tra mondo e azione è esplicitato nel concetto di spazialità, luogo privilegiato dell’agire.4 L’idea di spazialità introduce l’immagine di un mondo ambiente, pubblico e comune, sede dell’azione.5 Il termine pubblico indica un fenomeno di apparenza: agire in uno spazio pubblico, visibile a molti, significa apparire, mostrare.6 Apparenza è ciò che si mostra, ciò che è disvelato. Mostrare è presentarsi in un determinato modo alla percezione da parte di qualcuno o alla percezione di qualcosa, nel duplice risvolto in cui ciò che si mostra è al tempo stesso soggetto e oggetto. Come oggetto ciò che si mostra nello spazio pubblico, ambiente fatto dall’uomo e al tempo stesso legato a un mondo immutabile nella sua datità, ha la potenzialità di essere visto, udito, percepito dai sensi. Come soggetto ha la potenzialità di percepire e raccontare quel che viene percepito. La sfera pubblica consente questa relazione tra apparenze, cioè tra esseri che si mostrano nella spazialità mondana come oggetti e soggetti, che percepiscono e sono percepiti.7 La spazialità pubblica rappresenta la realtà, non tutta, ma quella che vediamo e udiamo, lasciando che essa venga interpretata e raccontata. La narrazione e con essa ogni forma di trasposizione artistica,8 rappresenta il modo attraverso cui si esplica la più ampia pubblicità possibile, poiché rende visibile e percepibile ciò che, se non mostrato, resterebbe ignoto e oscuro. E la realtà che nasce da questa dimensione e vive nella narrazione, è nulla senza la presenza di altri, come noi e diversi da noi, che partecipano continuamente al disvelamento.9 Dentro questa prospettiva, muta l’atteggiamento del pensiero dinanzi a ciò che si propone di scoprire, di portare alla luce, in quanto la mente cerca un riferimento con ciò che è visibile, un riscontro con un oggetto percepibile nello spazio mondano.10 Non tutto il percepito è coinvolto in questo apparire: resta fuori dalla luce della scena pubblica, l’insieme di gesta che appartiene a una realtà, intima e non esteriore, privata, non detta.11

Pubblico, nell’accezione arendtiana, assume anche il significato di mondo comune:12 la spazialità mondana in cui l’azione si mostra è ambiente di relazione, nel quale agire equivale a rapportarsi ad altro da sé (persone, idee, cose).13 L’azione produttiva del fare e del fabbricare costituisce uno spazio in cui tutto può essere aggiunto e nulla tolto, contraddistinto dall’interazione tra uomini, presenti sulla scena del mondo come singolarità particolare e unica. L’azione dell’interagire crea qualcosa di speciale: una spazialità essenziale al corso della vita, perché lega i soggetti in un dialogo ininterrotto tra passato e futuro, tra coloro che sono prima di noi e di cui troviamo, leggiamo, usiamo le tracce e quelli che verranno dopo di noi, a cui lasciamo la nostra azione, affinché sia vista. Nella filosofia arendtiana politico e pubblico sono due dimensioni che attingono l’una dall’altra, identiche. L’essere in comune non si rivela nell’appartenenza ad una patria, a una terra o una radice ma si manifesta come “esposizione al proprio altro”14 nella pluralità delle situazioni e delle attività umane.

La spazialità delineata come relazione trova il suo presupposto nel concetto di pluralità, con il quale l’agire è pensato primariamente, poiché l’azione è una forza che accompagna l’uomo nel suo stare nel mondo, in uno spazio plurale costituito dalla presenza di alterità diverse di uomini posti l’uno di fronte all’altro e non potrebbe attuarsi senza quella comprensione dell’altro che nasce dalla fiducia.15 La spazialità mondana mantiene le forme del manifestarsi e del relazionarsi nel presupposto della pluralità.16 L’esperienza umana dello spazio comune è plurale.17 L’idea di pluralità è il tassello mancante nel puzzle della spazialità mondana: se la si accetta come presupposto, quindi come dato apparente, visibile agli occhi della mente, la si rende il fondamento dei concetti costitutivi la spazialità mondana, relazione e interazione. Non c’è agire, politico o etico senza uno spazio pubblico e comune in cui svolgersi, così come, senza le infinite possibilità della interazione, non si avrebbe quella pluralità umana che è “la paradossale pluralità di esseri unici”.18

Il mondo dei fatti, delle cose e delle persone va letto attraverso queste categorie desunte dall’esperienza reale nel mondo: non possiamo esimerci dall’interpretare il mondo a partire dalla nostra individualità, ma questa interpretazione non potrebbe realizzarsi senza la partecipazione a un mondo comune, che ha molteplici punti di vista e possibilità. La pluralità mostra come l’attività accade nel naturale spazio mondano, non come essa vi è introdotta. La categoria che riveste il ruolo di principio, inteso come origine da cui diparte l’agire, è la natalità.

L’atto della nascita è un inizio, un principio che ha il carattere della casualità e che richiama su di sé il mito del destino e dell’imprevedibilità, un carattere “di sorpresa iniziale”.19 La sorpresa iniziale si rivela nella potenzialità dell’apparire per la prima volta e del discendere, ossia mostrarsi come nuovo venuto da, dove il da del dare, donare, implica un’agire anteriore alla comparsa: la capacità di dare inizio a qualcuno. L’individuo entra in una spazialità creata e in una pluralità data e vi si inserisce attraverso la parola. La comunicazione alimenta l’in-fra del mondo e apre ad una possibilità per l’uomo: rivelare se stesso.20 Se, infatti, il chi individuale e particolare, che caratterizza ogni persona, non è inserito, attraverso l’atto del relazionarsi ad altro, in un mondo comune, rimane una realtà intangibile e inafferrabile. La possibilità concessa dalla narrazione, dalla parola consta di questo afferrare l’inafferrabile. L’atto della natalità assume, così, la forma di azione noetica, ossia di un’intuizione che guida gli uomini alla conoscenza di sé, come esseri dotati della capacità di incominciare e creare e come singole unicità nel mondo condiviso con altri.21 La nascita è una possibilità, ma una volta che un nuovo venuto appare e procede lungo la strada, accumulando esperienza e idee, la possibilità iniziale si trasforma in vita che appartiene interamente all’uomo ed è azione: quella vincolata al cominciamento.22 Nello spazio plurale che circonda gli uomini, la nascita rappresenta l’eccezione: non solo essa è initium per il nuovo venuto, e quindi possibilità di agire, ma è anche azione, in quanto creazione, cioè capacità di dare la vita inserendo sulla scena nuovi attori, che a loro volta ne inseriranno altri, sempre e di nuovo.23

L’attività della natalità, azione che si realizza nel dare inizio e nel porsi come inizio, è espressione di un agire secondo la capacità del fare, che è la possibilità di, poiché “un essere la cui essenza è l’inizio può avere abbastanza originalità dentro di sé per comprendere senza categorie preconcette”.24 Ma fino a che punto può spingersi questa capacità, questo initium? Il carattere costitutivo della natalità è la libertà poiché la nascita reca in sé il fondamento della libertà, la condizione di ogni inizio: la possibilità di. Nell’istanza della possibilità, da cui discende l’agire come apparenza e relazione e nella libertà a lei intrinseca di dare inizio e di essere inizio, ha origine l’attività. I caratteri in cui viene elaborato il concetto di natalità (il dare inizio a qualcuno, incominciare qualcosa, possibilità di fare, potenza di entrare nella spazialità mondana) fungono da preambolo alla problematica dell’inizio, che si offre come snodo di partenza di ogni azione e di ogni pensiero. Il valore dell’incominciare guadagna un’aurea di potenza, di forza che irrompe e sfugge i meccanismi mondani per inserirsi nei fenomeni del mondo attraverso il semplice fatto dell’esistenza che interrompe, genera cambiamento, produce inizi. Qui, nel rapporto con l’atto della natalità, esistenza equivale a inizio: inserire nel mondo un nuovo.

Le categorie della pluralità e della natalità vengono problematizzate tra le pagine di Vita activa, dove centrale è il piano dell’agire pratico, dove dall’attività dell’Animal Laborans e del Homo Faber, si passa a quella dell’uomo politico, inserito in un contesto linguistico e sociale. La relazionalità postulata nel piano della pluralità e la naturale apparenza data nel venire al mondo inserito nel concetto di natalità, trovano la propria pietra di paragone nell’elemento della comunicabilità, analizzato secondo la categoria del discorso. Essa costituisce il punto di articolazione tra una modalità di azione vincolata ad uno spazio fondato sulla relazione e sull’apparenza, e l’attività del pensare, intesa come dialogo della mente con se stessa. L’atto della mente che pensa è oggetto di studio nell’ultimo scritto arendtiano, La vita della mente. Gli anni che separano la pubblicazione dei due scritti sono intensi e protagonisti di una maturazione nello studio del legame tra pensiero e parola, tra azione e pensiero, tra mente e mondo, tra comprensione e pensiero.

La mente è il luogo, tanto evanescente e intangibile quanto reale e esperito, in cui è possibile ambientare il discorso, che concilia azione e mondo. Questo spazio invisibile somigliante a un mondo, compresenza di immagini, parole, idee, suoni, sensi, alimenta l’attività del pensiero e l’uso della parola. La mente come mondo non prescinde da quella natura fenomenica che la Arendt individua nell’apparenza, intesa come condizione primaria in cui si dà l’azione nello spazio pubblico, e risolve nella prospettiva di un mostrarsi, in una costante esibizione sulla scena comune da parte di coloro che vi si presentano con atti e parole. Le azioni della mente trovano un canale di realizzazione attraverso la pluralità composta da individui diversi, a cui si rivolgono, in quanto destinate ad essere comunicate, udite, comprese da altri. Prima ancora di essere comunicate, udite o comprese, queste azioni sono concepite nel pensiero, e dal pensiero il mondo della mente trova origine. Ma il pensiero non è di questo mondo, la sua condizione è un non luogo dove la mente si ritrae, per poi ritornare presente nello spazio dell’apparenza, con atti e parole e l’atto del pensare si contraddistingue dall’azione pratica e manifesta in uno spazio pubblico e plurale, per i caratteri dell’invisibilità e del ritrarsi.25 Invisibilità significa non-apparire, non manifestarsi alla realtà, ai sensi o agli altri. Essa costituisce un punto di distacco tra il pensiero e l’azione disvelata, ma dona alla mente la peculiarità di un agire che può essere noto solo a colui che si fa soggetto pensante: la mente è signora e padrona delle sue attività. Lo stato dominante è il ritrarsi26 che si rivela in un trascendere la datità, il quotidiano, estraniandosi in un non-luogo dove protagonista è chi compie l’azione del pensare. Il dialogo del pensiero, non esposto alla pluralità, si caratterizza in una forma di relazione, non tra concetto e mondo o tra il pensato e ciò da cui questo si ritrae, ma tra l’io e l’io stesso, poiché è peculiarità essenziale al pensiero esistere come un dialogo dell’io con l’io, della mente con se stessa. Non appena qualcuno o qualcosa interviene in questo dialogo, lo interrompe, riportando la mente nello spazio del visibile. L’opposizione tra pensiero, attività invisibile e privata della mente, in quanto legata alla prospettiva del dialogo interiore e non detto, e azione, attività pubblica e aperta alla pluralità culmina nel discorso: non appena il contenuto, l’oggetto del pensiero è detto, si espone alla pluralità mondana, poiché diviene oggetto conoscibile, deindividualizzato e udibile dagli altri.

La parola trascende la dimensione dell’invisibilità. Discorso e azione “sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini”.27 La parola, generata nel pensiero e manifesta nella comunicazione, fa dell’uomo un soggetto pubblico. Il discorso, attraverso la parola, si rivela come luogo di svelamento di ciò che è nascosto. La parola funziona come organo di esposizione alla pluralità: è la linfa vitale dello spazio plurale.

Nel pensiero arendtiano, natalità è azione nella forma di inizio, pensiero è azione senza scopo, fine in sé, che assume il modo dell’inizio quando perde l’invisibilità nell’atto del discorso, e la parola è azione manifesta e diretta all’apparenza nella pluralità mondana. Questa corrispondenza è il pilastro che sorregge il dialogo tra pensiero e azione.

L’interazione di mente e mondo, il discorso, la peculiarità del non visibile rispetto al visibile, dell’interiore rispetto al pubblico, aprono una struttura più complessa e profonda dei mondi della mente. Uno di questi mondi significa attraverso il ricordo, un altro attraverso la ricerca. Il ricordo nasce dall’assenza e l’azione che la pensatrice apostrofa come fermati e pensa,28 trova origine in questa mancanza, per la quale il ripensare è ricordare attraverso la memoria e il distacco da ciò che è momentaneamente presente.29 La solitudine dell’attività del pensare appare nella capacità della mente di operare attraverso l’immaginazione. Il ricordo che isola l’uomo nel pensiero, solo con se stesso, è filtrato da immagini: si ricordano scene che non hanno più una realtà sensibile, si creano progetti a partire da esperienze o cose già viste, (de)scritte manipolando immagini liberamente, nella totale invisibilità e fuori dal tempo. In una seconda accezione pensare è ricerca.30

La capacità di azione del pensiero si rivela nel discorso: l’azione del pensare è primariamente il dialogo dell’io rivolto a se stesso, dove l’io che pensa si rapporta solo a se stesso, nella solitudine e nel silenzio di una dimensione individuale. In una dimensione dominata dal silenzio e dalla sola presenza dell’io, qualunque pensare sussume la forma di un dialogo in cui il pensiero appare rivolto alla mente e per la mente: pensando, la mente è con se stessa e per se stessa. Nell’uso della parola il linguaggio congiunge pensiero e discorso.31 La parola svela ciò che è nascosto, interrompe il dialogo silenzioso del pensiero, funge da veicolo di trasmissione nello spazio plurale, agevola l’incontro tra l’uomo e il mondo ed è voce dell’azione.32

La comunicabilità del mondo discende dal potere del discorso e il pensiero dona questo potere alla parola. L’atto del discorso e l’attività del pensare dipingono l’azione come un dialogo ininterrotto, dove il mondo della mente e i modi della natalità e della pluralità si relazionano vicendevolmente. All’interno di questa sfera fatta di relazioni, il linguaggio opera il connubio tra i due estremi, pensiero e discorso, attraverso la parola, che agisce come una sorta di medium tra i due, fornendo alla lingua il potere di attuare l’azione del discorso. L’elemento del linguaggio che innesca il passaggio dal pensiero al discorso, dal dialogo del due in uno alla parola è la metafora.33 Essa è l’esito più alto della parola che è il volto apparente del pensiero e la sua realtà, la sua efficacia, la sua comprensione dipende dal discorso, allo stesso modo in cui questi dipende dal pensiero.34 Il discorso è la lingua per mezzo della quale trova voce l’azione. Nella parola e nel pensiero ha inizio l’intento dell’agire, dominato dall’atto del volere e dotato di libertà.

2. Il potenziale dell’inizio

A conclusione del capitolo dedicato all’azione in Vita activa, Hannah Arendt scrive:

Se lasciate a se stesse, le faccende umane possono solo seguire la legge della mortalità, che è la più certa e implacabile di una vita spesa tra la nascita e la morte. È la facoltà dell’azione che interferisce con questa legge perché interrompe l’inesorabile corso automatico della vita quotidiana, che a sua volta abbiamo visto interferire col ciclo del processo vitale biologico, interromperlo. Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare.35

Qui nasce la filosofia dell’inizio e procede in parallelo alla teoria dell’azione. L’inizio è un fenomeno che riveste lo spazio dell’agire e dell’essere, perchè è ciò da cui un’azione trova origine ed è qualcosa a cui possono accostarsi le forme dell’essere. Penso a questo accostamento sia per il carattere della presenza e dell’universalità, che per la funzione di riferimento e connessione tra le diverse figure dell’agire e il mondo, tra le attività della mente, ipostatizzate nel pensiero, nella volontà, nella parola e una temporalità complessa imprescindibile per ogni riferimento. Come fenomeno, l’inizio è sempre in bilico tra una fine e un progetto, tra la memoria e l’immaginazione, tra un evento concluso e la goccia che esso ha lasciato nel mare del mondo, per continuare a pensare l’azione.

Il fenomeno dell’inizio è imprescindibile da una prospettiva temporale, poiché la prima forma con cui esso fa il suo ingresso nella teoria dell’azione è attraverso la categoria della natalità, totalmente presente all’orologio temporale. Inserito nel continuum temporale, scisso nelle forme di passato, presente e futuro, l’inizio agisce interrompendo la corrente ininterrotta di questo continuum semplicemente per mezzo del suo potenziale: origine di vita sempre tra ciò che è stato e ciò che non è ancora.36 In modo perspicace, Boella spiega il vincolo tra tempo e origine nell’esistenza di una “stretta corrispondenza tra la nascita come evento naturale inserito nel ciclo biologico della vita e della morte e la seconda nascita dell’azione”.37 La seconda nascita a cui allude Boella è l’inizio che interrompe il continuum temporale, introducendo nel luogo a-spaziale del tempo mondano “una novità inaspettata che si attua costantemente nella molteplicità di nuovi inizi che sono le azioni”.38 L’uomo si inserisce in una dimensione temporale in quanto essere che possiede il potere di iniziare qualcosa dentro la spazialità mondana e come essere presente che individua il movimento del tempo, perché il solo in grado di porsi in relazione con esso: il passato e il futuro esistono in uno spazio totalmente umano, perché soltanto l’uomo coglie la distinzione tra ciò che è stato e non potrà più ripetersi e ciò che non è ancora e potrebbe anche non manifestarsi. Il misterioso processo del pensiero racconta tutto questo, nel momento in cui, ritratto in una dimensione priva di realtà spaziale e intangibile, percepisce il senso del continuum temporale: il non più e il non ancora appaiono come due avversari39 che contendono per l’uomo. Una lotta continua e mai paga si trova alla base della percezione umana della temporalità e descrive l’uomo come costantemente in bilico in un gioco di forze che non può dominare, ma solo cercare di comprendere.

Rispetto alla temporalità e attraverso la natalità, l’inizio rivela un potenziale: agire creando un intermedio tra non più e non ancora, tra nascita e morte. Questo tra vincolato alla linea temporale è l’origine dove il potenziale dell’inizio trova presenza e universalità come arto di relazione tra il soggetto agente, l’uomo, e il tempo della storia, tra possibilità e azione. Come arto di relazione, il tra conservato dal potenziale dell’inizio è più atemporale che temporale.40

La dimensione atemporale del pensiero e la dimora temporale dell’azione nello spazio pubblico e mondano, ossia l’apparire, vengono descritti dalla Arendt per mezzo dell’immagine di un parallelogramma41 di forze, dove le direzioni descritte dalle rette del passato e del futuro, si incontrano ad angolo in un punto da cui diparte una diagonale, indice della direzione del pensiero, mentre il punto d’incontro delle due forze è il luogo in cui si inserisce il tra della relazione temporale e l’attività del pensiero è raccolta in esso. Il potenziale dell’inizio trova la sua origine in questo palcoscenico del tra temporale, lacuna tra passato e futuro, non luogo riempito dall’atto della nascita, vuoto ricolmo di azione. L’essenza dell’inizio non è soltanto nell’esperire tale origine, ma anche nell’essere presente all’attività del pensare. Trovandosi nella dimensione atemporale, interposta tra passato e futuro, l’inizio mostra le proprie potenzialità anche attraverso la parola e il pensiero: l’atto dell’io che pensa vive in questa dimensione intermedia. Attraverso la parola, la comunicazione e nell’apparire continuamente come singolarità alla pluralità dello spazio pubblico e comune, l’uomo introduce sempre nuovi elementi nella dimensione temporale: la lacuna tra il passato e il futuro, il vuoto tra il non più e il non ancora che domina ogni esperienza individuale e intima, ricorda che esiste un presente in cui si agisce con atti e parole.

La dimensione temporale del discorso e dell’azione dell’apparire coincidono con questo presente, il luogo in cui la relazione tra il passato e il futuro può essere infinitamente riempita da atti nuovi e diversi. Il potenziale dell’inizio unisce discorso e azione nel luogo del presente, dove ogni elemento che entra, ogni nuovo processo innescato dall’azione costituisce la risposta umana al divenire incessante del tempo: l’uomo, soggetto agente nella spazialità mondana scandita dall’orologio del tempo, si pone come essere in grado di pensare la temporalità, come attore in una dimensione fuori dall’ordinario ciclo del tempo, come natalità che ha in sé la potenzialità dell’agire, in quanto possibilità di dare inizio.

L’azione pensata nei caratteri del discorso è sempre nel tra, evanescente realtà dove l’inizio non è mai davvero un’origine, poiché l’azione che colma l’abisso della lacuna temporale discende da qualcosa che non è più e si proietta sempre verso ciò che non è ancora. Questo accade perché l’azione prodotta nel tra, dimora del potenziale dell’inizio, non è un’origine, ma ha origine in ciò che non è più e una direzione proiettata verso il non ancora. Il potenziale dell’inizio rivela il tra della lacuna temporale come il punto d’incontro di due dimensioni diverse unite nel pensiero per mezzo del ricordo e dell’immaginazione, e nella vita attraverso l’azione dell’iniziare. Come azione, il potenziale dell’inizio sfocia nella possibilità di dare cominciamento a qualcosa: sempre in bilico tra le due dimensioni del passato e del futuro: la scelta di dare inizio prende le mosse da qualcosa che appartiene a un finito e cresce in un progetto rivolto a un futuro indefinito. Il non ancora assume la figura dell’indefinito perché sconosciuto e visibile solo in un progettare che presuppone un atto di volontà.

L’inizio senza origine della lacuna temporale, rivolge il proprio sguardo al non più attraverso l’atto del pensiero, dove ogni pensare è un ripensare e al futuro attraverso l’atto del volere, dove ogni pensare è un progettare.42 Volere implica agire. L’atto del pensiero nella forma del ricordo e del ripensare colloca il soggetto agente nel tra verso il passato, l’atto del pensiero nella forma del progetto apre la mente al futuro. L’organo della volontà, in quanto attività della mente, è una modalità dell’agire, ma trascende la dimensione dell’azione perché quest’ultima ha un grado di imprevedibilità e incontrollabilità che non si lascia incastrare nel regno del volere. Il potere della progettualità ha a che fare con cose che non sono certe, forse probabili, e questo determina la novità dell’azione della volontà rispetto ad ogni altro agire. La volontà è una forma di azione solo nella misura in cui l’io che vuole è in grado di fare progetti e promesse a se stesso o ad altri. In questo fare risiede l’agire e la differenza con le altre attività: discorso e apparire sono azioni concrete, che oscillano tra imprevedibilità e fattibilità, comunque dirette in uno spazio reale e mosse da uno scopo; l’atto del volere funziona attraverso la mente, può creare uno scopo e innescare atti infiniti, può rivolgersi a uno spazio reale, ma può anche non vedere mai la luce, rimanendo assente al corso reale degli eventi.

Rispetto all’attività del pensare, il volere appare immerso nel mondo della possibilità e non della certezza.43 Il volere si manifesta nell’attesa, atteggiamento che non appartiene né al pensiero, né al discorso e neanche all’apparire: l’attesa è una scelta e l’atto dello scegliere richiama un atto di volontà, per cui si sceglie di aspettare qualcosa che si vuole. Questo oggetto di attesa figura come un progetto che perdura nella capacità di aspettazione, presente come potenzialità che colloca l’oggetto del volere verso ciò che non è ancora e lo distingue dal pensiero e dal resto delle azioni. La potenzialità insita nell’attesa è espressione di un atto di volontà, che, nella memoria di ciò che si lascia nel passato, volge lo sguardo nella direzione di un non ancora che può essere solo immaginato e atteso.

Le modalità in cui appare il volere sono fari che attirano l’attenzione su caratteri che concorrono nello spazio della lacuna temporale: la paura e la speranza sono le forme che innescano i processi di azione nel tra del tempo, poiché si teme e si spera qualcosa che ancora non è o si ha paura e attesa verso qualcosa che è già stato e, in questo caso, o si vuole che accada di nuovo o, al contrario, che non accada.44 Il meccanismo della volontà attiva una forza differente che entra in gioco nel momento in cui si fa garante della possibilità dell’attesa: la libertà. Il potenziale dell’attesa e l’azione del volere discendono dalla libertà che, nel pensiero arendtiano, incontra il vuoto aperto dalla lacuna tra il passato e il futuro e lo trasforma in potenzialità: l’inizio e l’attesa sono forme di azione, costruite rispettivamente nella natalità e nella volontà, che hanno la propria dimora nel non luogo atemporale e possibilità di essere nella libertà.

Il discorso e l’azione riempiono il vuoto creato nel tra della relazione temporale in virtù del potenziale dell’inizio, che è il potenziale dell’agire, la volontà ricolma questo vuoto in virtù del potenziale della libertà, insito in ogni scelta dettata dalla volontà, sia che si presenti come attesa, paura o speranza, sia che non si presenti sotto queste sembianze. In questa prospettiva, la possibilità della libertà diviene fondamentale e carica di un valore nuovo il concetto di azione: l’apparire in uno spazio pubblico e comune, l’atto del pensare e il volere accadono a partire da una libertà che si manifesta come possibilità di agire scegliendo qualcosa che può anche non essere oggetto di scelta. In questo poter scegliere risiede la libertà e, poiché l’atto della scelta ha origine in un atto di volontà, prima ancora del pensiero e dell’apparire, l’atto della libertà investe il volere.45

La libertà interferisce, positivamente o negativamente, è solo un giudizio di valore, con le attività della mente e dell’uomo soggetto agente, poiché le relativizza alla dimensione della possibilità: là dove l’inizio è un potenziale di fatto che si espone e procede come principio di azione, la libertà, invece, si qualifica come ciò che imprime possibilità, per cui qualcosa può anche non verificarsi, e non necessità all’azione, come un poter fare e non come un dovere. La libertà si pone al di fuori dell’ordine in quanto si fonda oltre il potenziale dell’inizio e pone come proprio centro il potenziale della scelta: ciò che è stato fatto poteva non compiersi, si può non volere ciò che si vuole, ciò che si decide in una prospettiva futura può anche non essere deciso. In relazione alla potenzialità di iniziare, la libertà ne costituisce il campo di realtà: il potenziale dell’inizio nasce nella natalità e si realizza nella libertà.46 Nel rapporto con il potenziale della libertà, la natalità del principio illumina la libertà della luce dell’inizio: come all’origine dell’agire vi sono il pensiero e la scelta dell’inizio, in quanto la capacità del cominciamento si coglie nel pensare e si sceglie per mezzo di un atto di volontà, così all’origine di un atto libero vi è la capacità di realizzare l’inizio. Nella filosofia dell’azione, per l’uomo, la natalità coincide con l’essere inizio e la libertà si introduce nel ciclo mondano come possibilità di dare inizio. Indipendentemente dal fatto che l’azione si realizzi o meno nei caratteri che le sono propri, possiede il potenziale dell’inizio. La comprensione che l’azione ricerca nasce da un costante dialogo con ciò che, una volta accaduto, fa parte del bagaglio della memoria e non può essere dimenticato; immersa in questo dialogo, Hannah Arendt trova la necessità dell’azione nella potenzialità dell’inizio. Essa assurge al compito di dimostrare che, nonostante i limiti circoscritti dell’agire, esiste un’azione in grado di porsi nell’ottica di un non ancora, un ignoto che lentamente appare.

In bilico tra il non più e il non ancora, il potenziale dell’inizio si presenta a chiunque incontri la teoria dell’azione come una speranza generata nel sapere ricominciare a pensare e nel riuscire a ripartire da zero,47 sempre e di nuovo. Esso offre un pensiero dell’azione radicato nell’uomo e nelle proprie capacità, si presenta come il soffio che guida verso qualcosa che non è ancora, in una ricerca che può dare senso a una vita intera, ricordando che pensare rende vivi e il primo debito è verso il pensiero, affinché non si dimentichi che nonostante tutto, o anche grazie a questo tutto, rimane sempre una parola per raccontare, per continuare, per iniziare, per ricominciare a cantare la melodia del mondo. Hannah Arendt, da teorica della politica e da figlia della filosofia, ha lasciato questa parola al potenziale dell’inizio e, a partire da questa traccia, all’azione.

3. La potenzialità della comprensione

Nell’incipit del saggio Comprensione e politica, Hannah Arendt affronta la problematica del comprendere sotto la prospettiva dell’azione:

La comprensione, che va distinta dal possesso di informazioni corrette e dalla conoscenza scientifica, è un processo complesso che non produce mai risultati inequivocabili: è un’attività senza fine, con cui, in una situazione di mutamento e trasformazioni costanti, veniamo a patti e ci riconciliamo con la realtà, cerchiamo cioè di sentirci a casa nel mondo48

Il rapporto tra comprensione e azione è il porto in cui approdano le riflessioni intorno al legame che intercorre tra mondo e azione e al vincolo che unisce le diverse modalità dell’agire, ossia l’apparire. Hannah Arendt ha valorizzato l’azione e la comprensione come espressioni fondamentali della condizione umana: stare nel mondo, essere nel mondo equivale ad agire e comprendere. Nella filosofia dell’azione, la comprensione costituisce il paradigma di un atto universale che ha origine nella parola e nel discorso, che non si trova in bilico in un dimensione atemporale, ma è radicata nella relazione al mondo, alla storia e all’in-fra plurale. Il dialogo della comprensione è il sentiero che conduce al riconoscimento del potenziale dell’inizio.

La potenzialità della comprensione è la riconciliazione e, come l’azione, si fonda su due assunti morali: il perdono e la promessa. In Vita activa, tali concetti assurgono al ruolo di rimedi49 all’irreversibilità e imprevedibilità che entrano nel mondo dell’azione come elementi naturali al verificarsi dell’agire stesso. L’irreversibilità può essere intesa in questo modo: l’azione non è reversibile per definizione, poiché procede in modo continuo da un atto che nel momento in cui si compie diventa passato, verso un atto che non è ancora, ma può essere compiuto. Non esiste azione di ritorno nella prassi reale, essa è solo nel e del pensiero, in quanto questo si muove nel mare della memoria, rivivendo azioni che non possono essere più compiute. Mentre il concetto di imprevedibilità lo si può intendere in questi termini: accade avvolte che non ci sia corrispondenza tra ciò che si è pensato e ciò che si compie, poiché il non ancora può essere solo immaginato, non previsto.

La non previsione, il mistero che già la natalità reca in sé, appartiene all’azione nel mondo comune: le azioni di un individuo, per quanto progettate o normativizzate, nella realtà sono limitate dalla presenza di altri sulla scena che non possono essere costretti a fare ciò che noi vorremmo facessero e sono vincolate alla casualità e all’incertezza. L’immaginazione appartiene soltanto al pensiero. La potenzialità dell’azione è nella mente: pensare, ricordare il passato e immaginare il futuro. Il potere dell’azione del perdono risiede nell’agire non per cancellare ciò che si è fatto o subito, ma per riconciliarsi a ciò che non può essere dimenticato. Il potere di fare promesse equivale ad agire per trovare dei punti a cui aggrapparsi per difendersi dall’imprevedibilità del futuro. È il regno della volontà. Il luogo in cui agiscono il perdono e la promessa è nel pensiero, poi si manifestano concretamente nella prassi reale dinanzi agli altri. Il tempo della loro azione gioca tra passato e futuro, e, nell’attimo in cui vengono realizzati, si rivelano nel presente.50 Perdonare e promettere sono azioni possibili nella vita reale solo nella relazione con gli altri. Si tratta di un’interazione reciproca nella quale si perdona ad altri e si può essere perdonati da altri: ecco il potenziale plurale dell’azione e il principio della riconciliazione. Lasciare perdono e promessa solo al pensiero, senza trasformarli in atti nella prassi reale, significa non renderli vivi e dotati di un qualche valore nel mondo comune. Se potere di perdonare e di essere perdonati, se promessa e potere di mantenere le promesse sono azioni morali, lo sono nella prospettiva di un’apparenza agli altri e di una realizzazione nella prassi mondana.

Natalità, pluralità, mondo comune, spazialità, sono le idee in cui è intagliato e rifinito il pensiero dell’azione. Pensare l’azione, in una prospettiva arendtiana, dove “nessuna coerenza a priori garantisce reciprocamente mondo e azione”,51 in virtù del carattere originale e illimitato di quest’ultima, assume un significato innovativo: vedere con gli occhi della mente la persona umana come potenza capace di agire e generare dall’azione un mondo.

Il gesto del perdono non attua una riconciliazione: perdonare implica un passare oltre senza entrare nel dialogo vivo del comprendere con ciò che è accaduto ed è stato dato.52 La riconciliazione prende le mosse dal perdono e si compie in un’elaborazione, in un dialogo reciproco che presuppone l’uguaglianza e l’accordo reciproco. Nel perdono il meccanismo è unilaterale e si fonda in uno stato di disuguaglianza (“ti perdono” o “ho bisogno di essere perdonato”, per cui c’è un superiore e un inferiore nella relazione), dove il comprendere è in gioco come riconoscimento individuale. Nel riconciliarsi, il riconoscimento lega le due parti in azione e la comprensione si realizza nell’ascoltare l’altro o mettersi nei panni dell’altro. L’origine di questo processo va ricercata nel pensiero e nel mondo, che sono strumenti per l’azione della comprensione: nel pensare e nel relazionarsi al mondo, l’uomo acquista l’esperienza per tentare l’attività della comprensione.

La comprensione è proiettata sul mondo, poiché si rivolge al modo di essere dell’uomo nel mondo, mentre il pensiero, in quanto attività interiore, dialogo con se stessi, guida la mente verso il proprio modo di venire a patti con le situazioni reali: questo fa sì che ogni individuo giunga alla comprensione per vie intime e diverse da quelle di altri, perché i modi di cogliere i cambiamenti sono particolari e individuali. In quanto legata alle modalità di azione nel mondo e al dialogo tra il pensiero e il mondo, l’attività della comprensione non è seguita da risultati certi: si può cercare la strada della comprensione e relazionarsi con la parola all’apparenza mondana, ma è anche possibile non trovare il sentiero che guidi alla riconciliazione. A mio parere, i concetti attraverso cui la Arendt costruisce una teoria dell’azione sono utili all’attività senza fine della comprensione: in quanto attività essa è sempre rivolta a uno spazio plurale e come processo diretto alla riconciliazione chiama in causa la parola. La comprensione, come ogni agire, è un’azione dotata di un forte grado di imprevedibilità e vincolata al complesso rapporto che attraversa il mondo e l’azione.

Hannah Arendt, nel pensare l’azione, ha individuato la comprensione come il potenziale d’inizio di ogni possibile riconciliazione.53 L’esito della riconciliazione si rivela nella possibilità di potere osservare e raccontare un evento come una storia compresa tra un principio e un termine. Se questo accade, l’azione del comprendere si mostra come il volto pratico del potenziale dell’inizio: l’azione insita nella scelta del dare inizio a qualcosa e nel ripartire da zero trova espressione nell’atto della comprensione. In questa prospettiva, comprendere significa guardare l’inizio come una nuova possibilità di agire: la comprensione completa l’azione attraverso la capacità di trasformare eventi e mutamenti in un inizio a partire da qualcosa che si è rivelata una fine.

La possibile fonte della comprensione, a cui l’atto del pensiero e l’azione del discorso aspirano, risiede nel cuore umano, in grado di usare la facoltà dell’immaginazione, capacità di individuare una giusta prospettiva, personale e individuale, con cui porsi dinanzi alle presenze naturali e artificiali che affollano il mondo e la storia:

Lontano tanto dal sentimentalismo quanto dalla pedanteria, il cuore umano è la sola cosa al mondo che potrà farsi carico del fardello che il dono divino dell’azione, di essere un inizio e quindi di poter dare vita a un inizio fa gravare su di noi. Solo un cuore comprensivo e non la mera riflessione o il mero sentimento, ci permette di sopportare di vivere con gli altri, sempre estranei, e consente a loro di sopportarci. Potremmo definire la facoltà dell’immaginazione il dono di un cuore comprensivo. Solo l’immaginazione ci permette di vedere le cose nella giusta prospettiva, e ci dà la forza sufficiente per porre ciò che è troppo vicino a una distanza tale da poterlo vedere e comprendere senza distorsioni e pregiudizi.54

Attraverso l’inizio e la comprensione si fa esperienza dell’agire. Si tratta di due modalità necessarie alla consapevolezza dell’azione: questa può essere individuata in diverse forme e praticata sotto differenti figure, ma l’espressione ultima è da rintracciare nella due potenzialità. Inizio e comprensione saldano l’unità dell’azione, poiché l’origine introduce la possibilità di agire, sia che questa si esplichi nel pensare o nelle diverse attività della mente, sia che si realizzi praticamente nell’operare e nel produrre. La comprensione presuppone un sostrato fondato sulla comunicazione, sulla parola, dove non soltanto interviene la sensazione, ma anche l’immaginazione, in quanto, insieme, aprono a una riconciliazione il cui sguardo è diretto alla comunità mondana e allo stupore per il continuo susseguirsi delle vite. Il potenziale della comprensione inaugura un tipo di agire che si pone come relazione conoscitiva rispetto al mondo, alla storia e alla alterità naturale. In questa prospettiva comprendere è riconciliarsi, capire e entrare in contatto con qualcosa o qualcuno. La dimensione di questo atto comprensivo è vincolata primariamente alla facoltà sensitiva, che coglie nell’immaginazione e nell’intuizione ciò che va esperito, portato all’attenzione; successivamente, tale dimensione si sposta nella mente e nelle sue facoltà, dove l’esperito può essere colto, pensato, elevato a interlocutore in un dialogo teso alla riconciliazione e alla comprensione. L’atto che realizza la sostanza formale di questo potenziale è la carità, la cui sede d’origine è il cuore comprensivo, scelto dalla pensatrice come segno dell’azione del comprendere. La carità è un fenomeno vincolato alla relazionalità, poiché per attuarsi necessita di una prospettiva bisognosa del riconoscimento dell’altro e di sé come in funzione per qualcuno di altro da se stessi. Nella reciprocità, essa esprime la forza insita nella capacità della comprensione.

L’inizio, si è detto, è il soffio vitale di ogni azione ed è una forza in grado di unificare il senso di ogni agire. Ogni atto può essere apparenza di un qualcosa che non si mostra, rimanendo nascosto, accessibile al pensiero: la capacità di agire, esperita nella nascita, nel dialogo, nel pensare o nel ripensare, nella costruzione di un tavolo o in qualunque cosa chiami in gioco l’attività nelle sue molteplici forme. Nel tentativo di interrogare, scoprire e penetrare dentro l’intricato mondo dell’azione, Hannah Arendt ha lasciato all’inizio il compito di illuminare la via dell’agire.


  1. Hannah Arendt, The Image of Hell, recensione a The Black Book: The Nazi Crime Against Jewish People, a cura del World Jewish Congress, in Essays understanding 1930-1954. Uncollected and Unpublished Works by Hannah Arendt, a cura di J. Kohn, Harcourt Brace & Company, New York 1994; trad. it. di P. Costa, L’ immagine dell’inferno, in S. Forti (a cura di), Archivio Arendt 1 (1930-1948), Feltrinelli, Milano 2001, p. 232. Il riferimento è al campo di Auschwitz e agli anni del regime nazista. ↩︎

  2. Hans Jonas offre l’immagine del “pane” gettato sulla superficie dell’acqua, per sottolineare il senso e il peso di un pensiero costante intorno alla problematica dell’agire, come quello proposto dalla Arendt; H. Jonas, “Acting, Knowing, Thinking: Gleanings from Hannah Arendt’s Philosophical Work”, Social Research, 1, 1977; trad. it. di E. Greblo, “Agire, Conoscere, Pensare: spigolature dall’opera filosofica di Hannah Arendt”, Aut Aut, 239-240 (1990), p. 62. ↩︎

  3. Nell’ultimo lavoro della Arendt si legge: “noi siamo del mondo e non semplicemente in esso: siamo nello stesso tempo soggetti e oggetti che percepiscono e sono percepiti”; H. Arendt, The Life of the Mind, Harcourt Brace, New York 1978, p. 20; trad. it. di G. Zanetti, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, p. 100. ↩︎

  4. “La vita umana in quanto è attivamente impegnata in qualcosa è sempre radicata in un mondo di uomini e di cose fatte dall’uomo che non abbandona mai o non trascende mai del tutto […]”; H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago 1958, p. 22; trad. it. di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2003, p. 18. ↩︎

  5. Questo spazio è sede dell’azione nella misura in cui, scrive Boella, “gli uomini vivono insieme mettendo in circolazione i loro corpi come cose tra le cose, che devono essere mantenute in vita e poi si inseriscono nel ciclo di produzione e consumo proprio dell’ambiente naturale, formando un mondo comune”; L. Boella, Hannah Arendt: Agire politicamente, pensare politicamente, Feltrinelli, Milano 1995, p. 125. Nel prosieguo del lavoro, l’autrice indica la dicotomia tra pubblico e privato come il carattere fondante questo ambiente comune; ivi, p. 126. ↩︎

  6. H. Arendt, Vita activa, cit. alla nt. 4, p. 50: “Ogni cosa che appare in pubblico può essere vista e udita da tutti ha la più ampia pubblicità possibile […]”. ↩︎

  7. Una visione ripresa in H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, pp. 19-23. Nel testo originale il termine usato per indicare l’atto dell’apparire è appear↩︎

  8. Si pensi alla scrittura, alle molteplici potenzialità della poesia, al montaggio di immagini nelle scene di un film o ai differenti ritmi di una canzone. ↩︎

  9. Il gesto del disvelare richiama l’azione dello scoprire in senso heideggeriano: “Togliere da qualcosa il nascondimento […], portare per la prima volta qualcosa alla luce”, nella possibilità di intendere ciò che si mostra come dotato di verità e conoscibile; M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, 1976; trad. it di U. Ugazio, Logica, il problema della verità, Mursia, Milano 1986, p. 86. ↩︎

  10. “Non meno dei sensi, nella sua ricerca [del concetto, del vero, dell’essere] la mente aspetta che qualcosa le appaia”, H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 24, (corsivo mio). ↩︎

  11. In diverse pagine di Vita activa, la pensatrice si sofferma su tutto ciò che non è ambito dell’azione pubblica, ma tesoro serbato da un mondo privato, come l’amore e l’amicizia, o possibili atti etici, quali la carità e la bontà, che, non appena detti, si spengono. H. Arendt, Vita activa, cit. alla nt. 4, pp. 52-53, 38- 39; 73-78, 53-57. ↩︎

  12. Comune, sottolinea Esposito, “non è tanto ciò che appartiene a tutti, ma ciò che è più specificatamente sotto i loro occhi, esposto al loro sguardo. Visibile, noto, riconosciuto”; R. Esposito Polis o communitas? , in Aa. Vv. (a cura di S. Forti), Hannah Arendt, Mondadori, Milano 1999, p. 94. ↩︎

  13. L’immagine proposta è quella del tavolo: “Vivere insieme nel mondo significa che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni in-fra, mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo […]. Il mondo comune è ciò in cui entriamo quando nasciamo e ciò che lasciamo alle nostre spalle al momento della nostra morte […]”; H. Arendt, Vita activa, cit. alla nt. 4, p. 53. ↩︎

  14. Ivi, p. 98. ↩︎

  15. Un concetto che la Arendt ha espresso con chiarezza nell’intervista concessa a Gaus: “Nell’agire la persona si esprime in un modo che non è possibile in ogni altra attività. L’azione è semplicemente concreta perchè non si lascia conoscere. Questo è un rischio. E vorrei dire che questo rischio è possibile solo se si ha piena fiducia negli uomini. Ciò significa — è difficile da dire, ma è fondamentale — fiducia in ciò che è umano in tutti gli uomini”, A. Reif, Was Bleit? Es bleit die Muttersprache, Piper, München 1976; trad. it. di A. Dal Lago, Che cosa resta? Resta la lingua materna. Conversazione di Hannah Arendt con Günther Gaus, in “Aut Aut”, 239-240 (1990), p. 30. ↩︎

  16. La pluralità è condizione dell’azione nel mondo, nella misura in cui tiene conto dell’esistenza di un noi necessaria per l’affermazione stessa dell’io: noi siamo la pluralità, io sono parte di questa pluralità in quanto io e in quanto io nel noi. Così si legge: “Nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è è fatto per essere percepito da qualcuno […]”; H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 19. ↩︎

  17. A proposito di quest’esperienza, Boella scrive: “La pluralità definisce la condizione umana solo in quanto agisce come forza di differenziazione e arricchimento di ambiti e di esperienze”. Questo è in parte vero, ma tende a sminuire la centralità di tale idea nel pensiero della Arendt. Per quanto la pluralità sia leggibile come forza di arricchimento, non si limita solo a questo: è presupposto di ogni disvelamento, in quanto io singolo mostro me stesso agli altri, di ogni percezione mondana, in quanto ricevo e decodifico i messaggi provenienti dallo spazio che mi circonda, di ogni comprensione, perché è solo attraverso la presenza di altri che conosco il mondo in cui vivo. Questi presupposti si trasformano poi nell’arricchimento che intende Boella; L. Boella, Agire politicamente, pensare politicamente, cit. alla nt. 5, p. 127. ↩︎

  18. H. Arendt, Vita activa, cit. alla nt. 4, p. 176. ↩︎

  19. Ibid↩︎

  20. Si può rispondere alla domanda “chi sei? ” nel semplice relazionarsi a un altro volto del noi della pluralità. ↩︎

  21. Inserita in questa prospettiva, la natalità, in quanto potenzialità che reca in sé l’enigma dell’origine, è la causa dell’apparenza: “gli esseri viventi fanno la loro apparizione come attori su una scena allestita per loro”, appaiono come soggetti dotati di initium, possibilità di fare, costruire, creare. Lungo la linea della vita, tra l’initium della nascita e la morte sta una strada, quella dell’agire, per conoscere chi si è, per fare, per lasciare una traccia; H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 21. ↩︎

  22. “Il cominciamento inerente alla nascita può farsi riconoscere nel mondo solo perché il nuovo venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire […]”;H. Arendt, Vita activa, cit. alla nt. 4, p. 9. ↩︎

  23. “La nascita dei singoli uomini, essendo nuovi inizi, riafferma il carattere originale dell’uomo in misura tale che l’origine non può mai diventare una cosa del passato; il fatto stesso della continuità memorabile di questi inizi nella successione delle generazioni garantisce una storia che non può mai finire perché è la storia di esseri la cui essenza è l’inizio”; H. Arendt, Understandig and Politics, “Partisan Review”, XX/4, 1954. Riedizione in J. Kohn (a cura di), Essays Understandig, cit.; trad. it di P. Costa, Comprensione e politica, in S. Forti (a cura di), Archivio Arendt 2 (1950-1954), Feltrinelli, Milano 2003, p. 96. ↩︎

  24. Ibid↩︎

  25. “Nella prospettiva del mondo delle apparenze e delle attività da esso condizionate, la caratteristica principale delle attività della mente è la loro invisibilità. A rigore esse non appaiono mai […]”; H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 71. ↩︎

  26. “La vita della mente nella quale tengo compagnia a me stesso non è mai muta […]. Io sono consapevole delle facoltà della mente e della loro riflessività, solo finché dura la loro attività […]”; ivi, p. 75. La dimensione dominata nella mente dall’atteggiamento del ritrarsi è condizione soggettiva dell’attività del pensare: il pensiero si presenta come un dialogo dell’io rivolto a se stesso. Quando la mente si ritrae dallo spazio circostante verso un non luogo, a-spaziale, non-pubblico e invisibile, realizza, in un distacco che dura tanto quanto dura il corso dei pensieri, l’azione del pensare. Il ritrarsi, sottolinea Jonas, nel senso voluto dalla Arendt è “parte della dotazione naturale comune ad ogni essere umano”, in quanto possibilità generale e non riservata a pochi. H. Jonas, “Agire, conoscere, pensare”, cit. alla nt. 2, p. 59. ↩︎

  27. H. Arendt, Vita activa, cit. alla nt. 4, p. 176. ↩︎

  28. Ivi, pp. 77-78. ↩︎

  29. “Il pensiero è fuori dall’ordine non solo perché arresta tutte le altre attività così indispensabili alle faccende del vivere e del sopravvivere, ma perché capovolge tutti i rapporti ordinari […]. Nell’atto di pensare io non sono dove sono in realtà: non mi circondano oggetti visibili, ma immagini invisibili a chiunque altro […]. Il pensare annulla le distanze, quelle temporali non meno delle spaziali. Posso anticipare il futuro e pensarlo come se fosse già presente, posso ricordare il passato come se non fosse scomparso”; ivi, p. 85. ↩︎

  30. Dinanzi a questa seconda accezione dell’atto del pensiero, Jonas intravede l’idea di una ricerca costruita lasciando vagare la mente, nella direzione di un “indefinito di più, un di là”, poiché “il pensiero ricerca o crea il significato. Ma il significato, che appare ogni volta in modo fugace, non assicura una risposta certa”; H. Jonas, “Agire, conoscere, pensare”, cit. alla nt. 2, pp. 56-57. ↩︎

  31. “Il nesso tra azione e linguaggio, nella forma di discorso con e assieme ad altri inscrive il soggetto nell’esperienza stessa della pluralità”; G. Rametta, Comunicazione, giudizio e esperienza del pensiero in Hannah Arendt, in Aa. Vv (a cura di G. Duso), Filosofia politica e pratica del pensiero, Franco Angeli, Milano 1988, p. 239. ↩︎

  32. Scrive Boella: “Agire è parola, gesto visto e udito, dialogo e scambio di prospettive sulla realtà. Vedere ed esperire il mondo nella sua realtà, come qualcosa che è comune a molti, li separa [discorso e azione] e li unisce e si mostra ogni volta diversamente a ognuno, è possibile innanzitutto se molti ne parlano tra di loro e si scambiano reciprocamente le loro prospettive”; L. Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente. Pensare politicamente, cit. alla nt. 5, p. 135. ↩︎

  33. La metafora, nel pensiero arendtiano, assume l’immagine di un ponte che unifica il mondo della mente e il mondo plurale delle apparenze, in quanto effettua un trasferimento di ciò che è visto, udito, esperito, sentito, toccato allo stato di immagine in funzione del pensare o, viceversa, dallo stato esistenziale del pensare a tutto ciò che è parte del mondo. ↩︎

  34. Così Dal Lago interpreta l’uso del termine metafora nel linguaggio arendtiano: “ Se le apparenze ci si mostrano nel gioco di luce e di ombra dominato dalla figura dello sguardo, esse possono essere comunicate solo nello spazio della parola, del dialogo e dell’ascolto. Ma ciò che permette al pensiero di non essere recluso nella contemplazione, nella visione, è la relazione necessaria dell’ambito della visione con quello della parola. Proprio a causa di questa necessità il pensiero non può che essere metaforico. La metafora ha per Hannah Arendt la funzione di un ponte tra le attività interiori invisibili e il mondo delle apparenze”; A. Dal Lago, La difficile vittoria sul tempo. Pensiero e azione in Hannah Arendt, introduzione a H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 48. ↩︎

  35. H. Arendt, Vita activa, cit. alla nt. 4, p. 246. ↩︎

  36. H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 203. Qui la Arendt focalizza la relazione tra l’uomo, soggetto dotato della capacità di essere e dare origine (il richiamo è a quanto detto sulla natalità) e il ciclo temporale esperito: “Il continuum temporale, che è mutamento, si spezza nei tempi passato, presente, futuro; col che, passato e futuro sono avversari l’uno dell’altro come il non più e il non ancora solo a causa della presenza dell’uomo che possiede un’origine, la sua nascita, e una fine, la sua morte, e perciò in ogni dato istante sussiste tra loro: questo tra si chiama presente. E proprio l’inserimento dell’uomo, con l’arco limitato della sua vita trasforma la corrente ininterrotta del proprio mutamento — che si può concepire tanto in forma ciclica quanto come moto rettilineo senza essere in grado di concepire un inizio e una fine assoluti — nel tempo quale noi lo conosciamo”. ↩︎

  37. L. Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente. Pensare politicamente, cit. alla nt. 5, p. 129. ↩︎

  38. Ibid↩︎

  39. Il riferimento tenuto qui presente dalla Arendt è all’aforisma kafkiano, Egli, citato sia ne La vita della mente sia in Tra passato e futuro nella medesima funzione di descrizione dello stato interiore dell’io pensante la dimensione temporale e nel duplice ruolo di espressione del potenziale insito nell’iniziare come azione e del processo della comprensione. H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 202.; H. Arendt, Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought, articoli apparsi su “Partisan Review”, “Review of Politics”, “Chicago Review”, tra il 1954 e il 1961; tr. it. di T. Gargiulo, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 2001, p. 29. ↩︎

  40. Hannah Arendt si serve del termine atemporale per indicare la lacuna tra passato e futuro, dove tanto il pensiero quanto l’inizio si dispongono come forze produttive e contrarie al semplice scorrere del tempo storico. ↩︎

  41. H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 208, e Tra passato e futuro, cit. alla nt. 39, pp. 34-35. ↩︎

  42. H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, pp. 11-12, parte II, 322-324. ↩︎

  43. Ivi, p. 35, parte II, 349. ↩︎

  44. Esposito individua la relazione che lega speranza e paura nella loro presenza nell’abisso temporale della lacuna tra passato e futuro: “La paura è il terribilmente originario: l’origine per ciò che essa ha di più terribile. Anche se nella vita quotidiana la paura non è mai sola, è sempre accompagnata da ciò che l’uomo le contrappone nell’illusione che sai il suo opposto, mentre, invece, ne è solo la fedele compagna, vale a dire la speranza. Cos’è, infatti, la speranza se non una sorta di paura a testa sotto? ”; R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, p. 5. Paura e speranza appartengono all’organo della volontà, per questo sono l’una il risvolto dell’altra: nascono dalla stessa matrice, l’attesa che è il fenomeno che trasporta la volontà nella dimensione temporale. In quanto l’uomo spera o teme qualcosa, cioè vuole, proietta le proprie azioni verso ciò che non è ancora senza rinunciare all’avversario che lo afferra alle spalle. ↩︎

  45. H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 26, parte II, pp. 339-340. ↩︎

  46. “L’uomo è libero perché è un inizio […]. Con la nascita di ogni uomo si riafferma quell’originario inizio, in quanto con ogni nascita si introduce qualcosa di nuovo in un mondo preesistente e che continuerà a esistere dopo la morte di ciascun individuo. E proprio in quanto è un inizio, l’uomo può dare inizio a cose nuove: umanità e libertà coincidono. Dio ha creato l’uomo per introdurre nel mondo la facoltà del dare inizio: la libertà”; H. Arendt, Tra passato e futuro, cit. alla nt. 39, p. 222. ↩︎

  47. “Dal punto di vista pratico, pensare vuol dire che ogni volta che ci troviamo di fronte a qualche difficoltà nella vita siamo costretti a decidere ripartendo da zero”, H. Arendt, La vita della mente, cit. alla nt. 3, p. 177. “Questa tuttavia è la funzione di tutte le azioni, in quanto distinte da un puro e semplice comportamento: interrompere ciò che altrimenti sarebbe andato avanti automaticamente e quindi in modo prevedibile”; H. Arendt, On Violence, Harcourte Brace e Company, New York, 1970; trad. it. di S. D’Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 2002, p. 36. ↩︎

  48. H. Arendt, Comprensione e politica, cit. alla nt. 23, p. 79. ↩︎

  49. H. Arendt, Vita activa, cit. alla nt. 4, p. 236. ↩︎

  50. “Le due attività si completano poiché una, il perdonare, serve a distruggere i gesti del passato, i cui peccati pendono come la spada di Damocle sul capo di ogni nuova generazione; e l’altra, il vincolarsi con delle promesse, serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, quale è il futuro per definizione, isole di sicurezza senza le quali nemmeno la continuità, per non parlare di una durata di qualsiasi genere, sarebbe possibile nelle relazioni tra gli uomini”; Ibid↩︎

  51. E. Tassin, L’azione contro il mondo, in Aa. Vv. (a cura di S. Forti), Hannah Arendt, cit. alla nt. 12, p. 139. ↩︎

  52. La riflessione sul rapporto tra perdono e riconciliazione è stata affrontata dalla Arendt in parte del Denktagebuch. Qui la base su cui poggia la riconciliazione è la gratitudine; H. Arendt, Denktagebuch 1950 bis 1973, a cura di U. Ludz e I. Nordmann, Piper, München 2002; trad. it. di L. Savarino, Hannah Arendt: Dialogo filosofico. Frammenti (1950-1964), in “MicroMega”, 5 (2003), pp. 28-31. ↩︎

  53. “Noi possiamo comprendere un evento solo come la fine e il culmine di tutto ciò che è accaduto in precedenza […], solo nell’azione prenderemo senza esitazioni le mosse dal mutato insieme di circostanze, lo tratteremo cioè come un inizio”. H. Arendt, Comprensione e politica, cit. alla nt. 23, p. 93. ↩︎

  54. Ivi, pp. 97-98. ↩︎