Il progetto della psichiatria fenomenologica

La fenomenologia ha avuto un influsso enorme nel campo della psichiatra, della psicoterapia e della psicoanalisi. Tuttora molti psichiatri e psicoanalisti affermano di ispirarsi alla riflessione di Husserl, Minkowski, Jaspers, Heidegger, Szilasi o Binswanger. Cercherò qui di comprendere che cosa la psichiatria fenomenologica in fondo dice — facendo riferimento in particolare all’opera di Ludwig Binswanger, ma anche a quella di Franco Basaglia. Quindi il lettore dovrà seguirmi in una ricostruzione di quel che la fenomenologia vuol dire. Per chiarificare le ragioni della psichiatria fenomenologica, occorre capire che cosa la fenomenologia intende per «ragioni».

1. Andare verso le cose stesse

L’essenziale della fenomenologia è stato detto da Husserl con la frase «andare verso le cose stesse».

Certo, andare verso le cose non significa raggiungerle. Del resto, quale filosofia raggiunge veramente mai le cose? Altre filosofie — molto diverse dalla fenomenologia — paiono andare verso le cose stesse. Ad esempio, il positivismo oggettivista. Tuttavia, queste filosofie «oggettiviste» in realtà vanno piuttosto verso le rappresentazioni delle cose — insomma, verso il linguaggio — mai veramente verso le cose stesse. Una filosofia oggettivista può analizzare a quali condizioni enunciati del tipo «l’acqua bolle se riscaldata oltre i 100°» oppure «ogni bambino passa per il complesso edipico» siano veri o falsi, verificabili o falsificabili, significanti o non-significanti, scientifici o non-scientifici. Si occupa delle condizioni di validità di questi enunciati, non certo di acqua né di ebollizione né di bambini edipici. Non a caso il positivismo moderno viene chiamato logico, o linguistico, o analitico.

La fenomenologia invece vuole andare verso le cose stesse proprio come ogni soggetto — tranne forse quello psicotico — va verso le cose stesse, verso il mondo. Ma di fatto la fenomenologia va prima di tutto — e direi: quasi esclusivamente — verso l’ente che va verso le cose stesse: quel che Heidegger chiamò Esserci, Dasein. La fenomenologia ha esercitato un’influenza profonda nella psicologia e nella psichiatria proprio perché, paradossalmente, è nata sulla base di un programma radicalmente anti-psicologico: la fenomenologia nega che ci si possa occupare dell’anima, psyche, indipendentemente dal suo essere-nel-mondo, dal suo tendere alle cose e stare in mezzo alle cose stesse. Perciò Sartre disse di Husserl «ci ha liberato dalla vita interiore».

Dunque la fenomenologia nega il presupposto secondo cui la mente, lo spirito, la coscienza, o il pensiero possano essere descritti o analizzati in quanto tali, avulsi dal mondo in cui mente o spirito o coscienza o pensiero sono situati. Husserl va verso le cose stesse nella misura in cui ha scoperto l’acqua calda — ma che cosa la filosofia può scoprire mai, se non l’acqua calda? — cioè che «la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa, e sempre secondo una certa modalità». Il soggetto non è una monade ma sempre in situazione. Perciò la fenomenologia — disse Husserl — è una «scienza delle ovvietà». Questa è la sua forza e il suo limite.

Husserl vede la coscienza o il pensiero umani come inscindibili dalla loro intenzionalità, dal fatto cioè che siamo coscienti sempre di qualcosa e sempre secondo un certo modo. La nozione di intenzionalità nella fenomenologia così lega inscindibilmente il soggetto pensante e agente a ciò ch’egli pensa e fa. Quindi l’intuizione fenomenologica è assolutamente anti-analitica: si sforza di non dissociare mai il soggetto dai suoi oggetti. Ma d’altro canto questi oggetti mi appaiono solo come senso, mai come cose in sé: il senso è quel che fa apparire le cose come le cose che sono.

Considero questo libro che è davanti a me, qui sul tavolo. Se lo osservo come un bell’oggetto parte del mobilio, esso si offre al mio sguardo secondo un’intenzionalità estetica. Se invece lo voglio prendere per aprirlo, e lo afferro, diventa un altro oggetto: è il libro in quanto oggetto della mia intenzionalità prensile. Ora, un atto come prendere un libro sul tavolo può essere investito da almeno due modi conoscitivi radicalmente diversi. Un modo è quello della spiegazione oggettiva, un altro è quello della comprensione fenomenologica. «La fenomenologia comprende il comprensibile — dice Heidegger1 — le scienze naturali non si curano di questo comprensibile.» Tutto il pensiero del Novecento — filosofico, psicologico, etico, politico, estetico — è stato diviso tra questi due approcci incommensurabili.

Il primo approccio mirerà a spiegare il mio atto prensile, facendo appello di solito al metodo scientifico. Esso si interesserà ai muscoli che mi permettono di stendere il braccio per stringere il libro, quindi ai nervi che lo rendono possibile, e poi al cervello e ai processi neurali che sono alla fonte dell’atto, e così via andando all’indietro nella catena delle cause. Insomma, questo approccio mirerà a ricostruire e descrivere la macchina grazie a cui io posso mettere in opera la mia intenzione di prendere quel libro. La scienza, da Cartesio in poi, mira a descrivere il mondo come una grande e complessa macchina — non a caso abbiamo avuto una meccanica classica, oggi abbiamo una meccanica quantistica, ma sempre di meccanica si tratta. La macchina è un insieme di ingranaggi, dunque di mediazioni, grazie a cui il pensiero «prendo il libro» diventa l’atto di prendere il libro.

Si dirà: ma il pensiero «prendo il libro» non è prima, al di fuori della macchina prensile? Ora, la psicologia — o quel che si preferisce chiamare oggi scienze cognitive — mira a descrivere il pensiero e la mente come a sua volta una macchina. Oggi il cervello — quindi il pensiero — è descritto come una macchina dalle neuroscienze (gli psicologi cognitivisti offrono come modello di macchina la macchina di Turing, cioè il computer; i connessionisti propongono come modello di macchina le reti neurali, altri evocano la macchina darwiniana che seleziona le mutazioni). La psicologia e le scienze cognitive sono nate per spiegare la mente come una specie di macchina che usa altre macchine: che usa il corpo, il linguaggio, strumenti vari. Nella misura in cui queste scienze si vogliono esplicative, devono pensare la mente o la coscienza come un tipo di macchina.

Quante volte sentiamo evocare, da psicoanalisti o psicologi, «i meccanismi psicologici» che starebbero alla base di comportamenti dei loro amici o pazienti? Non si tratta solo di una metafora: davvero consideriamo la mente come meccanismo. Certo, si tratta di una macchina fatta di idee, desideri, pensieri, volizioni, ma sempre macchina è. Ora, un fenomenologo, anche se ha un dottorato in psicologia, non parlerà mai di «meccanismi psicologici». Non perché escluda che esistano, ma ne fa comunque epoché, li mette tra parentesi — insomma li ignora. Insomma, il fenomenologo si rifiuta di spiegare la vita soggettiva.

Un fenomenologo vuole invece comprendere un soggetto. Dico «soggetto» e non «mente» o «anima» — in verità, Binswanger non parla tanto di soggetto quanto di Esserci. Che differenza c’è tra soggetto o Esserci da una parte, e mente, mind, o anima dall’altra? È che le seconde sono oggetto di studio esplicativo, mentre i primi sono essere-nel-mondo da comprendere.

2. Spiegare o comprendere

In effetti, Binswanger si guarda bene dallo spiegare psicologicamente la schizofrenia dei pazienti di cui ha scritto,2 piuttosto la descrive. La fenomenologia non scopre né ricostruisce delle cause, si limita a descrivere dei modi di essere nel mondo. Questo esaspera gli psicoanalisti, i quali pensano invece di avere in mano una teoria esplicativa delle vere cause delle psicosi e delle nevrosi.

Alcuni dicono agli psicoanalisti «dovete decidervi! O siete degli psicologi come gli altri, che studiano e curano i loro pazienti come oggetti. Oppure rinunciate a qualsiasi spiegazione, e vi limitate ad interagire (Umgang3) con i vostri pazienti alla luce dell’approccio fenomenologico». Spesso storicamente la psicoanalisi — come teoria e come pratica — è stata sollecitata a questo dilemma cruciale: «trattamento terapeutico» oppure «tipo di rapporto»? Secondo me, però, il fascino della psicoanalisi è consistito nel suo voler sfuggire a questa alternativa, nel non volerla risolvere.4 L’analisi vuole essere un’attività ad un tempo comprensiva ed esplicativa, una pratica interpretante che si vuole anche una teoria causale. In questo senso, la psicoanalisi non trova mai veramente posto nella fenomenologia… La psicoanalisi, come un funambolo, cammina lungo una corda tesa: continuamente tende a ricadere o verso la psicologia oggettivista (e quindi a diventare una semplice branca della psichiatria o della psicologia) o verso il puro essere-con fenomenologico. Anche se oggi molti fenomenologi si dicono freudiani,5 e molti analisti simpatizzano con la fenomenologia, in senso rigoroso fenomenologia e psicoanalisi sono incompatibili. La psicoanalisi non potrà mai veramente rassegnarsi a quella che chiamo la Barriera Dilthey: alla dicotomia tra «scienza esplicativa della natura» e «scienza comprensiva dello spirito».

Questa Barriera Dilthey — la differenza tra spiegazione causale e comprensione interpretante — di fatto prolunga la dicotomia cartesiana che inaugura il pensiero moderno: la divisione netta tra mondo materiale e attività pensante. Ora, la psicoanalisi ha avuto l’ambizione di superare questa dicotomia.

Si prenda il sogno. Da una parte Freud, nella Traumdeutung,6 formula una teoria causale del sogno, pretende di dirci quali sono le cause per cui si sogna in generale, e anche le cause per cui ho sognato questo piuttosto che quello.7 Dall’altra Freud mette tra parentesi la pretesa scientifica (perciò il suo libro si chiamò Interpretazione dei sogni e non Scienza dei sogni o Spiegazione dei sogni) e si limita ad interpretare un sogno così come interpretiamo un film oppure una poesia un po’ ermetica. L’analista rischia sempre di scivolare nello psicologo clinico oppure in una sorta di critico artistico e letterario. La psicoanalisi scommette su una «terza via» tra scienza oggettiva e fenomenologia, la via dell’«interpretazione esplicativa».

È vero che la fenomenologia più moderna pensa di aver essa stessa superato il dualismo cartesiano grazie a quel che Richard Rorty — riferendosi soprattutto alla filosofia analitica — chiamò il linguistic turn. La dicotomia tra soggetto e mondo sarebbe superata dal tertium del linguaggio, come interpretazione che la coscienza fa del mondo. Il linguaggio renderebbe possibile sia la coscienza che il fenomeno. La deriva ermeneutica della fenomenologia riduce in effetti il mondo a quel che delle coscienze tematizzano come loro «mondo». Si tratta di una riedizione dello Spirito Oggettivo di Hegel: dell’idea che lo spirito non è semplicemente un fatto della mia coscienza ma si incarna nelle congregazioni umane. Lo Spirito Soggettivo (la coscienza) e il fenomeno (l’oggettività) sarebbero le due facce della realtà prima, il Linguaggio.

Ma oggi, da più parti, si sente che l’epoca della «svolta linguistica» è esaurita: la soluzione linguistica si è dimostrata un gioco di prestigio che di fatto rimandava il problema senza veramente risolverlo. All’interno del primato del linguaggio, infatti, la dicotomia si ricostituisce: o si descrive e si spiega il linguaggio come un oggetto particolare, oppure lo si riduce a interpretazione storica, a modo di una soggettività. Da un versante il linguaggio appare una macchina particolare (descritta dalla linguistica cognitiva), dall’altro un modo di coscienza (descritta dalla fenomenologia) dove tutti i suoi oggetti svaniscono nel «senso» che costituiscono dandosi ad una coscienza. Quando si tematizza il linguaggio, le sue due facce — il significante e il senso — si sconnettono; e si ripropone il taglio cartesiano.

3. Mondo della vita e cartesianismo sentimentale

Quindi, il fenomenologo comprende i soggetti come Esserci, cioè come esseri che sin dall’inizio sono gettati nel mondo.8 Si prenda l’atto di afferrare un libro. Si tratta di un semplice movimento, che risulta comprensibile nella misura in cui l’ho colto come un atto intenzionale: desideravo prendere quel libro, e quindi l’ho preso. Se mi avessero amputato il braccio, avrei dovuto ricorrere a ganci, macchine o altre protesi: ma l’intero processo è comprensibile solo nella misura in cui è intenzionale, cioè nella misura in cui questo libro ha un senso per me. E questa intenzione va descritta non come un vissuto della mia mente, ma come connessa al mio vivere-in-mezzo-ai-libri. Il soggetto è descritto dalla fenomenologia non come capacità mentali ma come rapporto immediato con le cose in quanto queste hanno un senso. Mentre un approccio scientifico si occupa sempre delle mediazioni (mira agli ingranaggi non visti da me), la fenomenologia parte dal fatto che quando desidero, penso, amo o odio, ipso facto so che cosa desidero, penso, amo o odio. Insomma, per la fenomenologia l’inconscio non esiste veramente. Per inconscio possiamo solo intendere l’insieme di ingranaggi psichici che spiegano molti nostri vissuti di cui non sappiamo darci ragione. Invece la fenomenologia cerca di reintegrare nell’intenzionalità — nell’Esserci — ciò che per Freud è coglibile solo attraverso complesse mediazioni interpretative come «macchine psichiche». La fenomenologia chiama Erlebnis — la chiamerei coscienza vissuta — questa immediatezza dell’essere-nel-mondo di ogni soggetto.

Non bisogna certo descrivere Erlebnis — l’esperienza vissuta — come mie palpitazioni o sentimenti squisitamente interiori. Per la fenomenologia anche le emozioni più viscerali sono un nostro modo di essere-nel-mondo, un nostro rapporto alle cose. Come potrei in effetti descrivere il mio amore per una donna, ad esempio, se non parlando della donna che amo? Non c’è da una parte il mio amore «vissuto» e dall’altra il suo oggetto, eventualmente intercambiabile con altre donne. Un vero amore fenomenologico è un amore unico: il mio sentimento è intriso totalmente del suo oggetto. Quando amo una donna, l’essere proprio lei — quindi la sua unicità — è parte del suo essere-oggetto-del-mio-amore. Il mio amore e l’amabilità dell’oggetto sono fenomenologicamente inscindibili. Mentre la scienza oggettiva analizza mediazioni — ad esempio tra i miei impulsi sessuali, le mie rappresentazioni psichiche della donna desiderabile in generale, e la concreta Charlotte di cui sono innamorato — la fenomenologia è invece sempre sintetica: il mio amore è immediatamente amore-per-Charlotte.9 In termini linguistici: il referente (Charlotte in sé) è indissociabile dal senso (la Charlotte che amo). Per la fenomenologia l’essere umano è comprensibile in quanto lui o lei è Esserci, in quanto sa cioè di essere situato/a nel mondo senza identificarsi completamente con la cosa situata.

Il richiamo fenomenologico alla Lebenswelt — mondo della vita — è un richiamo all’unità del flusso della coscienza, identificato all’identità soggettiva. Mentre l’oggetto materiale (oggetto delle manipolazioni tecnico-scientifiche) è astorico e frammentabile, la cosa psichica secondo la fenomenologia è storica e costituisce un’unità inscindibile. Per gli atti psichici sono pertinenti non le leggi causali ma solo l’ordine delle motivazioni — la causa regola la «cosa estesa», ragioni e motivi regolano la «cosa pensante». E l’ordine delle motivazioni non è scomponibile; «l’Io puro e uno — dice Husserl — è costituito come unità in questa unità del flusso.» Il tempo vissuto della coscienza è non la mera diacronia del mondo fisico ma la storicità, cioè l’unità di fondo, non secabile in parti, del flusso della coscienza.

In questo modo la fenomenologia ha riattualizzato il cogito di Cartesio dandogli piuttosto lo spessore del sentio, «sento», come flusso temporale. L’Esserci è un ente affettivo, un essere «che si sente vivere». Come disse Husserl:10 «Io sono, questa vita è, vivo: cogito». Da qui una certa aura «sentimentale» della fenomenologia, lanterna che molti hanno preso per la lucciola di una conversione filosofica alla soggettività concreta. Come René Le Senne, il fenomenologo tende a dire «soffro, godo — dunque sono». La fenomenologia è un cartesianismo sentimentalizzato.11

Ora, il cogito ergo sum dava a Descartes quel fondo di certezza su cui poter fondare tutto ciò che, ahimé, rimane incerto — l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, le teorie scientifiche, la religione vera, ecc. Il cogito era lo zoccolo duro indubitabile su cui (ri)costruire tutti i saperi ancora dubitabili. Anche la fenomenologia partecipa di questo bisogno di certezza? In effetti la riduzione fenomenologica all’intenzionalità della coscienza trascendentale è pur sempre un tentativo di pensare l’incerto (incluso il sapere obiettivo) sul suolo del certo, vale a dire sulla roccia di qualcosa che nessuno potrà mai contestare: la mia sensazione immediata di vivere e di percepire (anche affettivamente) il mondo.

Come nell’atto del cogito pensare ed essere non solo si implicano reciprocamente ma coincidono, analogamente nell’atto di coscienza fenomenologico esistere e sapere coincidono. Il sogno della fenomenologia è di far poggiare tutto ciò che appare «atto di mediazione» — scienze, atti politici, comandamenti morali, ecc. — sull’immediata evidenza del vivere come sentirsi vivere.

Ma non è quello che la filosofia ha cercato di fare sempre? La regola del gioco dei filosofi è stata, nel corso dei secoli, una certa epoché di quello che i loro contemporanei sanno o credono di sapere — ogni filosofo si sforza di sapere unicamente che egli non sa. Il suo gioco consiste nel «pensare a mente nuda» — nel senso in cui si dice «lavorare a mani nude» — per giungere a vedere qualcosa senza mai usare i tesori e i gadgets della conoscenza, facendo appello solo a ciò che anche il più ignorante deve ammettere. Chi non capisce la filosofia dice spesso ai filosofi «perché vi ponete certi problemi senza minimamente curarvi di quel che le scienze hanno scoperto negli ultimi tempi proprio su questi problemi?» Ma come il bello della maratona consiste nel fatto che si usano solo le proprie gambe, così il bello della filosofia è nell’usare solo quello che ognuno può pensare. Le regole del gioco ci proibiscono di usare certi strumenti. Tuttavia, la tentazione del filosofo — e anche del fenomenologo — è di credere che il suo pensare attraverso ovvietà ci porti ad un sapere più profondo, o più vero, o più bello o più buono di quello di chi sa altrimenti. È come se il maratoneta pensasse che egli si sposta meglio di chi va in auto… Ma è ora che la filosofia rinunci all’arroganza di pensare che il proprio gioco sia il vero gioco.

A proposito di arroganza, si prenda ad esempio il modo in cui Heidegger rigetta il concetto freudiano di transfert (Übertragung):

Ogni rapportarsi è, fin dal principio, già sempre intonato-affettivamente, e perciò non ha proprio alcun senso parlare di «transfert». Non occorre che venga trasferito proprio niente, in quanto l’essere-in-una-tonalità-affettiva, di volta in volta attuale, a partire da cui soltanto e corrispondentemente a cui tutto ciò che si fa incontro è in grado di mostrarsi, c’è già sempre.12

Perché Heidegger respinge a priori l’idea di transfert come «gioco» errato, in nome del gioco fenomenologico per cui ogni nostra relazione «già da sempre» comporta una tonalità affettiva? Quello che aveva colpito Freud non era che il paziente nutrisse dei vivi sentimenti nei confronti dell’analista — e come potrebbe essere altrimenti, dopo mesi e anni di intimità analitica? — ma che questi sentimenti, più che essere suscitati dalla persona stessa dell’analista, fossero piuttosto «trasferiti» su di lui a partire da prototipi più arcaici, come i genitori. Ora, il concetto di «trasferimento» implica una mediazione: qualcosa non si trova più nel suo luogo originario perché viene traslocata, e quindi è altra-da-sé, alienata rispetto al luogo proprio iniziale. Il concetto di transfert implica che il referente e il senso non coincidono — una separazione che la fenomenologia non può tollerare. Essa non può accettare l’idea che un affetto possa essere un composto «analizzabile» in componenti, e che quindi un sentimento di rancore nei confronti di una certa persona (ad esempio, il padre) possa cambiare di persona (l’analista). Mentre per la psicoanalisi ogni affetto è articolato e quindi separabile in parti o elementi — l’affetto ha qualcosa di una macchina — per un fenomenologo, invece, l’essere-in-una-totalità-affettiva è inscindibile dalla cosa che manifesta in noi proprio quella tonalità. Per la fenomenologia — lo abbiamo detto — l’affetto non si sbaglia mai di persona. Se per esempio amo od odio Giulio Cesare, non amo od odio la mia rappresentazione di Cesare: amo od odio il Cesare della storia. Certo me ne faccio delle rappresentazioni, ma quel che conta è che queste si riferiscano al Cesare reale. Non possiamo quindi mai veramente scindere la cosa dall’oggetto-rappresentazione o senso che noi costituiamo. Ma perché «non possiamo»? Perché il fenomenologo crede che il proprio gioco — implicante la rinuncia a questa scissione — sia il solo che permetta di dire la verità sugli affetti umani.

4. La carità comprensiva

In particolare, la sfida di Binswanger è consistita nel descrivere l’Erlebnis psicotica come una forma di soggettività, per rendercela finalmente comprensibile. In effetti, per Binswanger la spiegazione freudiana delle sofferenze psichiche non ce le rende per questo più comprensibili. La scienza non ci rende mai il mondo comprensibile: ci permette solo di prevedere con esattezza certi fenomeni date certe situazioni di partenza.13 Il mondo tematizzato dalla scienza è una macchina, che possiamo conoscere ma dove non c’è nulla da capire. Quel che si può comprendere non sono gli enti materiali, ma il senso che questi enti costituiscono per un Esserci.

E che cosa può mai significare rendere comprensibile un delirio, qualcosa che — per definizione — ci risulta incomprensibile? È una specificità del nostro essere-nel-mondo il nostro distinguere oggetti immaginari e reali: l’intenzionalità che mi dà questo libro come oggetto di percezione è del tutto diversa da quella che me lo dà come oggetto della mia immaginazione. Ma appunto, lo psicotico infrange incomprensibilmente questa differenza di intenzionalità: qualcosa che per noi è immaginario viene da lui vissuto come evidenza reale, e qualcosa che per noi è reale e insignificante viene intenzionato da lui come supporto di intenzioni significanti. E questa incomprensibilità riguarda anche l’essere-con-gli-altri psicotico, vale a dire la sua vita morale.

Negli anni 70 uno studente giapponese uccise la sua fidanzata olandese, la fece a pezzi, conservò i pezzi in frigorifero e se li mangiò poco alla volta. Si tratta di un atto ai limiti dell’umano, mostruoso. La sfida dello psichiatra fenomenologo consisterà nel renderci comprensibile questo atto (il che non vuol dire perdonabile). Ma cosa vuol dire renderci comprensibile l’Erlebnis alla fonte di questo comportamento che ha ridotto un altro essere umano a cibo? Di solito, quando vogliamo essere capiti diciamo «mettiti nei miei panni» — ma è possibile mettersi nei panni di un cannibale? Ora, si può spiegare questo comportamento antropofagico attraverso le specificità delle connessioni sinaptiche nel cervello del cannibale, o attraverso le proiezioni introiettive nel suo rapporto precoce con il seno materno, o attraverso l’influsso della società consumistica occidentale su un giovane orientale — comunque sempre di spiegazioni causali si tratta. Il fenomenologo le ignorerà.

Egli potrà piuttosto far notare che qui si tratta di un caso-limite di «amore divorante». Anche se i miei amori non fossero mai stati divoranti, capisco bene quando mi si dice «X ama Y di un amore divorante». È un modo di descrivere la specificità intenzionale di questo amore: una modalità affettiva che non si limita a penetrare, accogliere, tutelare l’altro, ma a farlo sparire dentro di sé distruggendolo appunto come altro-da-sé… Nel caso del giapponese la divorazione metaforica è divenuta letterale, così ci appare come un caso-limite di una modalità di amare che ci è familiare. Gli schizofrenici di Binswanger sono non meno «alieni» del giapponese cannibale, ma egli cerca di renderceli comprensibili: abbiamo l’impressione che ciò che sono è una prolunga estrema di quel che noi stessi siamo. Appaiono sempre ai limiti del comprensibile, ma Binswanger fa di tutto per non farli cadere oltre la linea del comprensibile.

Così il metodo fenomenologico ha avuto successo nella psichiatria del Novecento perché estendeva al folle quello che altri filosofi, nell’ambito della filosofia analitica, hanno chiamato principio di carità.14 In forza di questo principio si presuppone che argomenti che ci appaiono a prima vista illogici, irrazionali, insomma «folli», abbiano una loro logica e razionalità che ci impegniamo così a ritrovare. In questo modo, la fenomenologia ha ispirato il movimento anti-psichiatrico degli anni 60 e 70 (Laing, Cooper, Esterson in Gran Bretagna; Basaglia e Napolitani15 in Italia; Deleuze e Guattari in Francia), in sintonia con i movimenti di contestazione radicale dell’epoca. Questo movimento cercava di rendere intelligibile il modo di pensare psicotico a chi psicotico non è, annullando così la barriera discriminante tra sani e malati. Il progetto fenomenologico è apparso così a più di una generazione di psichiatri ciò che il marxismo apparve a chi voleva liberare i diseredati della Terra: come uno strumento concettuale sofisticato al servizio di una liberazione etico-politica. Per questa anti-psichiatria, non bisogna quindi tanto curare la follia: occorre piuttosto renderla intelligibile, attraverso il dialogo e la relazione empatica, come forma di soggettività, occorre insomma saper convivere con la follia. Deve convivervi non solo chi vive accanto allo psicotico, ma lo psicotico stesso.16

Non critico il progetto caritatevole di queste correnti. Credo però che questo movimento abbia trovato nella fenomenologia un alleato infido (così come, alla resa dei conti, le idee emancipazioniste hanno trovato nel marxismo uno strumento che ha rischiato, più tardi, di discreditarle). Come vedremo, la fenomenologia può condurre anche ad un rafforzamento della barriera tra sano e malato.

5. Lo scacco di Binswanger

Ma l’opera clinica di Binswanger, in particolare, è stata all’altezza del suo progetto? La risposta oggi può essere decisamente: no.

Nelle descrizioni «patografiche» di Binswanger colpisce in particolare gli psicoanalisti — soprattutto quelli che si ispirano alla fenomenologia — la quasi totale eliminazione di se stesso psichiatra da queste descrizioni. Benché egli mostri una cultura filosofica di gran lunga più sofisticata di quella di Freud, la sua scrittura clinica — benché di alta qualità letteraria — appare in fondo di un secolo indietro rispetto a quella di Freud. Quando quest’ultimo parla dell’analisi di Dora o dell’Uomo dei Lupi, ad esempio, vediamo pur sempre una relazione tra l’analista da una parte e Dora o l’Uomo dei Lupi dall’altra: sappiamo che cosa «i pazienti» hanno detto a Freud o fatto di fronte a Freud, e come questi ha reagito. In questo Freud rompe — nella forma e nella sostanza — con la letteratura psichiatrica classica. Invece Binswanger stesso non appare quasi mai nelle sue analisi cliniche, nemmeno come osservatore — nella linea della classica tradizione psichiatrica, segnata dall’opera di Kraepelin.

Eppure Binswanger ha scritto:

Il punto di partenza, cioè il fondamento, del giudizio diagnostico dello psichiatra non è solo l’osservazione dell’organismo del paziente, ma è soprattutto il mettersi in rapporto e il comunicare con lui in quanto egli è un uomo, cioè in quanto è co-esserci (mitdaseiend); in questo senso non si tratta essenzialmente solo dell’atteggiamento del «clinico» verso il suo oggetto scientifico, ma del suo comportamento con-umano «fondato» in uguale misura sulla «cura» e sull’amore. In questo modo l’essenza della condizione dello psichiatra si spinge oltre ogni sapere materiale ed anche oltre le possibilità oggettive che vi sono connesse, cioè oltre la sfera della scienza, della psicologia, della psicopatologia e della psicoterapia.17

Contro le spiegazioni oggettive della psicologia, Binswanger fa ricorso continuamente a espressioni come «messa in rapporto», «comunicare», «co-esserci» o «co-presenza», «co-umanità», «essere-con», «cura e amore per l’altro», e simili. In generale, la letteratura psichiatrica fenomenologica dispiega la sagra di tutte le connotazioni possibili di un’intersoggettività che si auto-esalta come affettuosa. Per questa ragione si è tanto più colpiti, leggendo il Binswanger clinico, nel constatare quanto il suo approccio resti legato alla tradizione descrittiva della psichiatria classica — una grande tradizione «oggettivista».

Ha voglia Binswanger di ripeterci che vuole comprendere «in base alla trascendenza stessa [dalla materialità e oggettività] l’essere umano come essere-nel-mondo ed essere-oltre-il-mondo»: il suo modo di scrivere e descrivere smentisce la sua «ideologia» filosofica. I suoi soggetti malati restano comunque, nella sua scrittura, oggetti di indagine di un’entomologia fenomenologica. Binswanger scrive come un Dio contemplatore, che comprende dall’esterno l’essere-nel-mondo dei suoi pazienti. Dice che la sua è «la teoria, puramente descrittiva, dell’essenza delle configurazioni immanenti della coscienza».18 Al che Heidegger giustamente ribatte: «Che cosa significa «descrizione» («Deskription»)? Ogni descrizione è un’interpretazione!»19 Non si può non condividere la sua esclamazione: eliminando completamente una riflessione sul suo modo di essere-con-il-sofferente-mentale — occultando quindi la sua decisione interpretante — Binswanger di fatto ci ripropone una descrizione ancora oggettivista della malattia mentale.

La scrittura di Binswanger è oggettivista perché, a differenza di Freud, egli non racconta la sua pratica terapeutica? Certo Binswanger cercava anche di curare i suoi pazienti — sappiamo che di fatto usava quelle tecniche psicoanalitiche da cui prendeva distanza filosofica.20 È esistita una discrasia tra lo Binswanger psicoanalista-terapeuta — che opera ma non scrive — e lo Binswanger antropoanalista21 — che non opera ma scrive.22 Come scrittore, Binswanger coltiva l’illusione di una descrizione che possa rivelare in modo trasparente l’essere-nel-mondo del malato alla coscienza aperta di un osservatore che non interferisce con il suo oggetto attraverso i suoi desideri, pregiudizi, attese, anticipazioni. Ma allora, l’unità dell’essere-nel-mondo del paziente che Binswanger pensa di ricostruire risulta un’unità congelata, come i fiumi che vediamo sulle carte geografiche: delle linee blu immobili che non fluiscono.

Oggi predomina, e non solo tra i fenomenologi, la posizione «pragmatista» illustrata dal motto «per conoscere una mela, occorre prima di tutto mangiarla». La conoscenza è concepita come una forma di interazione. Spiegare implica sempre delle azioni sull’explicandum: domandare, misurare, far scattare, provocare, isolare, ecc… Dunque, il solo modo di capire la malattia mentale è… curarla, cioè in fondo cancellarla. Questo modo attivo di comprendere il comprendere pare quello più vicino anche allo spirito fenomenologico. Così, per capire il mio paziente come per spiegarne la sofferenza, devo comunque fare qualcosa — fargli domande, ad esempio, oppure sottoporlo ad una TAC o a dei test. Quel che avrò capito di lui sarà il risultato di quel che avrò fatto con lui e di lui.

Questo però implica anche che la distinzione — anzi, l’abisso diltheyano — tra comprensione e spiegazione non regge più: ambedue implicano delle strategie perché «la cosa» mi riveli un segreto. Proprio perché la comprensione dell’altro passa attraverso la decisione della mia prassi, sempre parziale, la comprensione dell’altro non può essere immediata — e quindi essa è anche tentativo di spiegazione. Se posso capire una mela solo addentandola, la mia comprensione sarà dipendente dalla mediazione dei miei morsi, che diventeranno strumento esplicativo. La mia comprensione — anche dello psicotico — sarà insomma sempre costruita. Andrebbe allora abbandonato il presupposto fenomenologico di una comprensione totalizzante e immediata dell’altro.

6. L’anatema di Heidegger

Non c’è allora da stupirsi che il metodo di Binswanger sia stato attaccato — anche con violenza — dai fenomenologi stessi. E in primo luogo dallo stesso Heidegger, il quale ha scritto:

Sostituendo il termine soggetto con quello di soggettività, Binswanger non oltrepassa la rappresentazione del soggetto, bensì, al contrario, con ciò, egli la accentua e consolida, in quanto il concetto di soggettività designa e mette in rilievo solo ancora espressamente il modo d’essere particolare del soggetto. Se poi Binswanger crede inoltre di poter oltrepassare il «male insanabile della psichiatria», come egli lo chiama, intendendo con ciò la scissione soggetto-oggetto, facendo «trascendere» una soggettività fuori da se stessa verso le cose del mondo esterno, in tal caso, egli ha completamente frainteso «la trascendenza», quale essa viene pensata nel mio scritto Vom Wesen des Grundes… In secondo luogo, egli non svela in che modo un trascendere, nel senso sopra menzionato, potrebbe accadere, in che modo, cioè, una soggettività, rappresentata primariamente in quanto immanenza, sarebbe in grado di avere anche solo il minimo presagio di un mondo esterno. L’essere-nel-mondo non intende proprio mai una qualità propria di una soggettività rappresentata come che sia, bensì è, fin da principio, l’esistere dell’uomo stesso.

Tuttavia, il fraintendimento del mio pensiero, nel modo più grossolano, Binswanger lo tradisce con il suo libro Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins. In esso, egli crede di dovere integrare la «cura» e lo «aver cura» attraverso un «modo d’essere duale» e attraverso un «essere oltre il mondo». Con ciò, rivela soltanto che egli misconosce onticamente l’esistenziale fondamentale, vale a dire, il tratto essenziale dell’esistere umano, cui io diedi il titolo superiore di «cura», vale a dire, egli scambia il concetto di «cura», da me pensato ontologicamente, con un singolo modo di eseguimento ontico di questo tratto essenziale, cioè, con quello di un modo di comportamento nel senso di un contegno tetro e preoccupato-premuroso di un determinato uomo. «Cura», invece, in quanto costituzione esistenziale fondamentale dell’esser-ci, nel senso di Sein und Zeit, è nulla di più e nulla di meno che il nome per l’essenza complessiva dell’esser-ci, in quanto questi è sempre già rimesso a qualcosa che gli si mostra e rispetto a cui egli, costantemente fin dal principio, è sempre assorbito ogni volta da un rapporto, quale che sia il suo modo, con questo. In tale essere-nel-mondo in quanto «cura» si fondano cooriginariamente, perciò, anche tutti i modi ontici di comportamento sia di coloro che amano, che di coloro che odiano, che dello imparziale scienziato della natura, etc. Altrettanto poco, quindi, occorre parlare di un «esser oltre il mondo», se non si scambiano — come costantemente fa Binswanger — cognizioni ontologiche con datità ontiche. Il «mondo», nel senso dell’analitica dell’esserci di Sein und Zeit, «all’interno» del suo ambito, lascia divenir manifesto anche ciò che giace al di là del «mondo» di Binswanger, cosicché lo «esser-mondo», rettamente inteso, nella connessione con l’esistere umano, non solo non abbisogna di un «esser oltre il mondo», bensì rende qualcosa di tal specie per nulla affatto possibile.23

Una stroncatura davvero dura, non c’è che dire. Siccome essa veniva da un tale pulpito, lo stesso Binswanger ha dovuto «riconoscere i propri errori» e fare atto di contrizione fenomenologica. Però ha preferito ispirare i suoi scritti più tardivi all’ermeneutica della soggettività di Husserl.24 (Una malignità: il vantaggio di riferirsi ad Husserl piuttosto che ad Heidegger, negli anni 60, consisteva nel fatto che Heidegger era vivo, mentre Husserl era morto).

Di fatto, in una chiave fenomenologica Heidegger rivolge a Binswanger critiche molto simili a quelle avanzate da me più sopra. Heidegger denuncia in Binswanger, nei suoi propri termini, quella «oggettivazione della soggettività» che ho rilevato nella sua stessa scrittura, ancor prima di entrare nel merito dei suoi contenuti concettuali.

Ma allora subentra un’altra domanda: sarà mai davvero possibile una psichiatria davvero fenomenologica, che non cada nella oggettivazione della soggettività?

Ridotta all’osso, la critica di Heidegger gira attorno all’accusa secondo cui Binswanger avrebbe confuso l’ontologico con l’ontico, cioè non avrebbe capito addirittura la differenza ontologica, la distinzione tra enti ed Essere. Ma allora: è possibile una psichiatria — intesa come avere-a-che-fare (Umgang) con persone sofferenti — che non appiattisca l’ontologico sull’ontico? È insomma possibile far emergere la Cura dell’Essere come costitutiva anche della sofferenza mentale? (Il fenomenologo preferisce parlare di «sofferenza» piuttosto che di «malattia» mentale: la malattia evoca un processo materiale, mentre la sofferenza è sempre soggettiva.)

Di fatto, non mi pare che i contributi di altri psichiatri fenomenologi — più ligi al senso della differenza ontologica, come Medard Boss — siano andati molto oltre una bella enunciazione di un progetto etico di rispetto del malato come essere umano (il che certo non è da buttare via).

Di fatto, la letteratura psichiatrica fenomenologica ha preso due vie diverse. In una ha fatto proprio il metodo analitico di Freud, avendo cura di distinguere — in modo quasi ossessivo — l’approccio etico-terapeutico di Freud dalla sua metapsicologia. Molta psichiatria fenomenologica — che oggi si dice ermeneutica — sembra giocare tutte le sue carte nell’operare una separazione chirurgica tra «i due Freud»: da una parte ci sarebbe il Freud che si volge ad un dialogo con la persona sofferente in modo da rilevare il senso (non la causa!) delle sue sofferenze (non sintomi!); dall’altra ci sarebbe «l’auto-fraintendimento scientistico» di Freud, che costruisce una teoria causale dell’apparato psichico, basata su ipotesi biologiche e psicologiche. Insomma, una parte della psichiatria fenomenologica di fatto si promuove come una depurazione spiritualista della teoria psicoanalitica.

Un altro atteggiamento psichiatrico ispirato fenomenologicamente, invece, include la psicoanalisi — e le psicoterapie in generale — in una contestazione radicale dell’approccio tecnico alla sofferenza mentale. Di questo filone diremo ora qualcosa.

7. Basaglia, la follia e il suo doppio

È stata molto importante in Italia l’opera di Franco Basaglia, che mirava alla distruzione degli ospedali psichiatrici. Il suo apostolato ha portato nel 1978 ad una legge che di fatto impedisce in Italia il costituirsi di ospedali psichiatrici. All’estero però si ignora che la campagna etico-politica di Basaglia deriva essenzialmente dalla sua formazione fenomenologica.25 Basaglia non voleva solo liberare i malati dagli ospedali psichiatrici, la sua era una campagna in senso lato metafisica: le istituzioni psichiatriche, di qualsiasi tipo, erano per lui solo una variante di risposta tecno-scientifica alla sofferenza umana.

Basaglia era un intellettuale rotto alla dialettica fenomenologica. Così egli si guardava bene dal dire che causa della malattia mentale erano proprio le istanze che lui denunciava — l’ospedale psichiatrico, la società segregante. Egli non ha mai aderito ad una grossolana teoria sociogenetica della psicosi, diffusa all’epoca: «si diventa matti perché la nostra società ci rende tali»… Egli non negava che la malattia mentale fosse reale, che potesse avere ad esempio cause organiche. Perciò non cadeva nell’ingenuità di criticare la cura psichiatrica in quanto tale: ne criticava gli usi segreganti e oggettivanti. Soleva dire che la sua campagna consisteva piuttosto nel confrontarsi con il doppio della follia, vale a dire con la risposta della società al folle: il suo isolarlo in manicomi, il farne oggetto passivo delle manovre dello psichiatra tecnocrate, ecc. «Non sappiamo nemmeno che cosa la follia veramente è — diceva — perché abbiamo di fronte solo ciò che la psichiatria ha fatto di essa». Grazie a questa distinzione — tra una «follia in sé» e «un doppio» che è l’interpretazione che la società tecnoscientifica fa di essa — Basaglia certamente evitava l’anatema che il fenomenologo lancia nei confronti di chiunque usi strumenti fenomenologici per ricadere nelle determinazioni causali.

Eppure l’escamotage basagliano resta provvisorio e fragile. Oggi, grazie anche a riforme come quella di Basaglia, «il doppio» della follia — il filtro delle istituzioni psichiatriche classiche — è stato in gran parte eliminato: lo psichiatra si confronta sempre più con la vera malattia (ammesso che esista). Questo confronto gli ripropone drammaticamente la questione delle cause di questa malattia — e allora il dilemma si ripropone. Se penso che la malattia abbia comunque delle cause — neurologiche, psicologiche o sociologiche che siano — non potrò evitare il ricorso alle tecniche adeguate a rimuovere queste cause (mi pare che oggi gli psichiatri già seguaci di Basaglia abbiano recuperato pienamente le tecniche, e abbiano quindi di fatto rinnegato la sfida del loro maestro). In questa prospettiva, la speculazione fenomenologica si rivela alla fin fine irrilevante proprio in psichiatria. Oppure — è questa la scommessa del fenomenologo più ambizioso — «la vera follia» si rivelerà essere, comunque, un doppio di se stessa. Ovvero, egli dirà che la causa della malattia sarà proprio una forma di vita che riduce l’uomo all’homo natura, cioè la causa sono le tecnoscienze che intendono controllare e manipolare gli esseri umani. Ma se le cose stanno così, allora la comprensione della malattia si risolve in un’ipotesi esplicativa classica: una forma di vita causalista è la causa della sofferenza.

8. Tecnica e società bambina

Dunque la fenomenologia è stata impugnata da alcune generazioni di psichiatri come arma per lanciare una campagna in grande stile contro l’approccio tecnico al disturbo mentale… Anche le tecniche puramente psicologiche vengono respinte in quanto esse necessariamente spezzettano, frammentano l’unità vivente del soggetto come essere-nel-mondo. In questo modo, la rinuncia a trattare tecnicamente l’altro soggetto si risolve in militanza etico-profilattica: si denuncia la fonte della malattia nella Tecnica stessa.

All’unità — come un tutto non scomponibile in parti — del flusso storico e vivente dell’Io, si oppone ciò che per la tradizione fenomenologica è propriamente il Male. Questo assume varie figure — la burocrazia che non ti guarda in faccia, le istituzioni rigide, le chiese costituite, la computazione universale, il calcolo utilitarista, lo scambio mercantile, la spiegazione oggettiva degli atti umani, ecc. — ma l’istanza più inquietante e pervasiva è quella della Tecnica. Spesso chi indulge alla fenomenologia è uno che detesta le tecnoscienze, e tutto ciò che ad esse è connesso (in particolare, l’anglo-americanizzazione del pianeta). Un’ostilità certo non limitata ai fenomenologi, perché trova le sue basi nella tradizione umanistica dell’Occidente cristiano. La fenomenologia ha ereditato pienamente l’ostilità romantica alla ragione computativa come «perdita dell’essenziale»; essa ha preso il posto dell’idealismo tedesco dell’Ottocento come filosofia d’elezione di tutti coloro che si oppongono all’arida ragione illuminista calcolativa e calcolatrice. A differenza però dell’idealismo, che faceva appello all’Infinito e all’assolutezza del Geist, la fenomenologia opta per la soggettività finita (l’Esserci come cura per l’Essere) e per il primato del mondo-della-vita. È sullo sfondo di questa opzione «romantica» che anche la speculazione fenomenologica più pura va compresa.

La tecnica è una forma di vita che si oppone alla Vita — anche se la Vita è fonte di tutto ciò che deriva nelle forme distinte e separate in cui consiste la tecnica. La tecnica scinde, analizza ciò che dovrebbe restare, nella sua essenza originaria, unità del flusso. La speculazione fenomenologica è quindi storicamente inscindibile da una denuncia radicale del mondo moderno in quanto dominato dalle tecniche e dal sapere esplicativo. Questa critica fa appello all’integrità della vita contro le divisioni di ogni modo di pensare analitico.

Ma la vita a cui si appella la fenomenologia non è la vita che studiano il biologo o lo psicologo, come oggetto del loro sforzo esplicativo. Nei suoi laboratori il biologo non incontra mai veramente la vita: incontra solo cellule, cromosomi, DNA, neuroni e sinapsi, insomma meccanismi materiali. E lo psicologo non incontra che rappresentazioni oggettivabili. Invece il mondo della vita (Lebenswelt) del fenomenologo è una «vita trascendentale» che non ha rapporto (o meglio, ha un rapporto misterioso, irrisolto) con la vita delle scienze psico-biologiche. È vita vivente — più che vita vissuta — che non può essere oggettivata. Essendo questa vita inseparabile dall’auto-coscienza, da essa sono esclusi i poveri animali.

Insomma, il «cuore fenomenologico» ha ripreso motivi e cure della tradizione rousseauiana. La società tecnoscientifica di oggi viene infatti rigettata come inautentica, contro-natura — e la natura o Lebenswelt, nell’ottica fenomenologica, è la spontaneità immediata del sentire.

Di solito, sono i rappresentanti più ingenui, meno sorvegliati filosoficamente, di un filone intellettuale a mostrare in piena luce certi presupposti etico-estetici viscerali di chi si muove in questo filone. Così nella fenomenologia. Ricordo un dibattito, anni fa, sulla riforma psichiatrica in Italia. Uno psichiatra seguace di Basaglia, imbevuto di Husserl e Binswanger, quando sentì parlare di tecniche di cura sbottò dicendo: «Ma quali tecniche! Per me la salute è stare in mezzo a dei bambini per strada, che gioiosamente giocano e sgambettano!» Mi chiedo se uscite del genere — malgrado l’unto di Kitsch di cui sono imbevute — non offrano la chiave per capire fenomenologi certo ben più raffinati di quello psichiatra. Il bambino che gioca per strada evoca un «mondo vitale» pre-tecnologico felice — prima della puericultura razionalizzata di oggi — proposto come modello idilliaco di «società naturale» nella quale l’alienazione mentale sarebbe impensabile. Ogni tecnica viene condannata come contro natura perché si ipotizza una «cultura naturale» di cui il convenire infantile sarebbe il prototipo: un essere-con immediato, diffuso, nel quale non si apra nessuna distanza individualista per calcolare e massimizzare l’utilità personale. La fenomenologia ha nostalgia di un Eden filosofico e morale (che però, purtroppo, non è mai esistito): la spontaneità di un ente a contatto della sorgente del mondo come apparizione meravigliosa.

9. La sorgente e il fiume

L’antica figura della sorgente e del fiume può servire per capire l’ambizione della fenomenologia — e forse anche il suo scacco. Il richiamo fenomenologico all’unità vivente dell’Io nella sua storicità è come il richiamo al primato della sorgente sul fiume: la fonte di un fiume non è una parte del fiume, ne è però la condizione antecedente che ne rende possibile l’esistenza. La sorgente, come Apertura del fiume, è la metafora della condizione trascendentale del fiume stesso. E ogni parte del fiume è inscindibile dalla totalità del fluire: è proiezione anticipatoria del suo passato. Il «fiume» è la vita mondana che scorre — è il fluire della nostra vita ontica, mentre la «sorgente» è ciò verso cui la fenomenologia ci volge. La fenomenologia in fondo disprezza la foce del fiume — oggi, il mondo dominato dalle tecnoscienze, dal liberalismo e dal mercato — ha rimpianto del fiume quando era, ancora ruscello, prossimo alla sorgente. Il punto è che è impossibile per il fiume risalire alla sua fonte. Il mondo — in ogni epoca — è una tappa del fiume, un flusso che ha, da sempre, abbandonato la propria origine. È quel che la fenomenologia chiama la deiezione inevitabile dell’Esserci nel mondo.

La fenomenologia ha voluto tematizzare l’essenza — nella nostra metafora: la sorgente — del vivere umano. Il punto è che quando parli dell’essenza la oggetivizzi, cioè in fondo la perdi. Nella misura in cui parli della sorgente con un fiume di parole, ti allontani da essa.

Così la migliore fenomenologia si è resa anche conto di come sia votata allo scacco la pretesa di dire la sorgente attraverso il fiume di parole. Certo, la sorgente — la Vita che produce le forme di sapere e di vita come sue possibilità — va sempre pre-sup-posta. Ma non è un’illusione filosofica credere che si possa porre discorsivamente il presupposto senza perderlo? Fuor di metafora: non appena il presupposto (la Lebenswelt) viene posto e tematizzato nel discorso (filosofico o altro), cessa ipso facto di esser tale, tende ad alienarsi nei concetti che pretendono di manifestarlo — si aliena nella propaganda fenomenologica, cioè in una visione del mondo che, per me, dopo tutto non è peggiore né migliore di qualsiasi altra. Si finisce allora col sognare — anche politicamente — un fiume che risalga alla propria origine… una società felice di bambini che si curino solo dell’Essere.

Come allora la sorgente — il presupposto, l’antecedenza, la vita — può essere detta nel discorso-fiume fenomenologico, restando però sorgente? Ad esempio, è possibile parlare dell’Essere in modo che non si riduca esso stesso ad un ente?26

Così la fenomenologia più sofisticata cerca di avere un atteggiamento ostensivo nei confronti di ciò che è essenziale, la sorgente: cerca di limitarsi ad indicarla come il presupposto, e di non porla mai come oggetto del discorso. Questa è la scommessa disperata della fenomenologia: se è vero che di ciò di cui non si può parlare si deve tacere,27 lo si può per lo meno indicare. (Da qui l’idea che l’essere dell’ente possa essere testimoniato solo eticamente ed esteticamente.) Ma questo gesto ostensivo si doppia spesso con un’illusione: credere che l’allontanarsi fenomenologico dalla sorgente — perché il fiume non può mai tornare alla sua sorgente — sia migliore dell’allontanarsi di qualsiasi altro. Che ci possa essere una vita più autentica — «più vera», più essenzialmente vita — di un’altra. Ma temo che non si possa vivere essenzialmente, non ci sono «vite ontologiche». Il fiume della vita (la deiezione dell’Esserci) è sempre, necessariamente, inautentico, è un allontanarsi dall’essenza.

Data questa impossibilità di inscrivere la sorgente nel fiume ontico della storia, la fenomenologia si trova allora di fronte ad un doppio canale verso cui rifluire. Da una parte è portata ad una critica della «foce moderna» in quanto avrebbe dimenticato la sorgente — è tutto il tema husserliano della «crisi delle scienze europee» che avrebbero dimenticato l’essenza. Ma il gioco predittivo e ricostruttivo delle scienze non è altro che parte del fluire del fiume… Allontanandosi dalla sorgente il fiume non la tradisce, piuttosto la dispiega, la installa post factum. Personalmente, il mondo moderno tecnoscientifico non mi appare né più vicino né più lontano rispetto all’essenza della vita di qualsiasi altro mondo: dispiega semplicemente una possibilità di sviluppo della vita. Il filosofo dovrebbe vedere che la vita avrebbe potuto attualizzare altre possibilità, che potrebbe attualizzare in futuro — e non denunciare la possibilità attuale come una… perdita della possibilità.

D’altra parte la fenomenologia è portata a mostrare l’impatto della sorgente nel fiume stesso, insomma, ad «oggettivare l’essenza» anche se proibisce a se stessa di farlo. Nella psicopatologia, si tratterebbe allora di mostrare come quest’essenza umana — l’essere-nel-mondo, la libertà dell’Esserci — venga talvolta mancata. Ma nella misura in cui la fenomenologia descrive l’oggettivazione della vita come patologia, essa finisce inevitabilmente con l’oggettivare proprio quella essenza il cui oblio porterebbe all’oggettivazione. La soggettività risulta alla fin fine oggettivata dalla stessa fenomenologia, e così la fenomenologia pare diventare complice dell’oggettivazione morbosa: «vivere secondo l’essenza» diventa una norma di funzionamento, un criterio di discriminazione diagnostica.

Per Freud il disturbo psichico ci mette in contatto con qualcosa di universale in prospettiva negli esseri umani: grazie all’alienazione mentale, emerge un livello autentico di ciascuno. Invece la fenomenologia evoca l’autenticità del soggetto in un registro normativo: la follia viene descritta come una deviazione dall’autenticità come norma implicita della soggettività… Anche quando la fenomenologia diventa anti-psichiatrica, la sua preoccupazione per la norma resta in primo piano: quel che conta in questa variante, è mostrare come la follia non sia anormalità, dato che esprime una possibilità dell’Esserci. Anche in questo caso l’obiettivo di «normalizzare» prevale sull’assunzione di quel che la follia porta di radicalmente altro in rapporto a ciò che nell’uomo appare essenziale o normale — proprio quando la fenomenologia si dedica completamente a mostrare che l’a-normalità non esiste, normalizza forzosamente la follia stessa, disinnescandone la radicalità aliena.

Ora, quando Heidegger rimprovera Binswanger di aver confuso il piano ontico con l’ontologico, in fondo rileva lo scacco inevitabile del pensiero discorsivo nel mostrare l’ontologico: una volta posto chiaramente nel discorso, il presup-posto del discorso cessa di essere tale. Quella «oggettivazione della soggettività» che Heidegger denunciava in Binswanger è un corollario del fatto che l’ontologico si aliena e si dimentica incurabilmente nell’ontico. La tentazione fenomenologica è allora quella di opporre il presup-posto al posto (l’ontologico all’esplicativo) rivendicandone il primato. Si tratta qui solo dell’errore del dottor Binswanger, o di una critica a cui ogni applicazione fenomenologica alla vita data si troverà sempre, necessariamente, esposta? Così la psichiatria fenomenologica oscillerà senza posa tra una descrizione oggettivante della soggettività e la mera denuncia romantica del Male.

Ad esempio, Heidegger nega recisamente — direi dogmaticamente — che l’angoscia possa essere oggetto di indagine psicologica. L’angoscia può essere solo tematizzata, non può essere oggetto da spiegare, dice. E perché? Perché spiegarla come un oggetto sarebbe un modo «non adeguato alla natura della cosa-angoscia». Ma Heidegger più di ogni altro ha criticato la metafisica occidentale come basata sul criterio di verità come adeguazione del discorso alla cosa. Heidegger dice: «fare discorsi scientificamente adeguati all’angoscia non è adeguato alla cosa-angoscia». Nella scienza e nella psico-filosofia si tratta di livelli diversi di adeguazione, ma pur sempre di adeguazione.28 Si potrebbe rimproverare qui, ad Heidegger, quel che lui rimprovera a Binswanger: che il suo modo non-metafisico di concepire la verità è pur sempre metafisico. La Sorgente viene allora tematizzata come una sorta di Super-fiume. Ho il sospetto che ogni analisi fenomenologica sarà sempre troppo poco fenomenologica. Dal momento che la fenomenologia si mette a parlare, cessa di essere pura, quindi, si può sempre farne di migliore — ma il miglior discorso fenomenologico non potrà allora essere che una ostensione silenziosa.

10. La Barriera cartesiana e i suoi dilemmi

L’approccio fenomenologico pare spesso impuntarsi sui criteri di distinzione tra sano psichico e malato psichico — in fin dei conti su criteri diagnostici, come nella psichiatria tradizionale. «[Le nuove vedute di Heidegger] — scrive Medard Boss, psichiatra allievo di Heidegger — ci danno in mano i mezzi per determinare in modo appropriato all’uomo e rigorosamente l’esser sano e l’esser malato di un uomo».29. In altre parole, la fenomenologia permetterebbe una diagnostica nuova che si basi su considerazioni non più oggettive ma ontologiche, vale a dire sulla comprensione dell’Essere come costituiva dell’Esserci.

In effetti la psichiatria fenomenologica oscilla tra due estremi. Da una parte tende all’anti-psichiatria, ad annullare ogni distinzione tra patologia mentale e salute. Dall’altra tende all’opposto a rinforzare il progetto psichiatrico classico, dando una fondazione esistenziale ai criteri puramente sintomatici della psichiatria. La fenomenologia porta o alla morte della psichiatria, o alla sua apoteosi fenomenologica.

Questa ambiguità è connessa al fatto che la fenomenologia eredita nel fondo il dualismo cartesiano, benché ridefinito in termini ontologici. La fenomenologia resta, malgrado tutto, una «meditazione cartesiana». Il pensiero degli ultimi secoli è stato in gran parte dominato dalla distinzione tra le due sostanze cartesiane: la pensante e l’estesa. Tra le due c’è un’assoluta eterogeneità. Il mondo esteso è meccanismi misurabili, in esso vigono solo le concatenazioni causali; invece la res pensante — che vediamo manifestarsi in un solo ente esteso, l’homo sapiens — è retta dalla libertà della ragione, e vigono solo concatenazioni logiche. Da una parte le cose sensibili spiegabili con cause, dall’altra il regno libero del pensare retto da regole e fini. «Il cielo stellato sopra di me, disse Kant, la legge morale nel mio cuore»30 — da una parte la meccanica delle stelle, dall’altra la libertà incondizionata del soggetto razionale e morale. Da qui l’alternativa senza uscite: da una parte una psicologia che vuole fare dell’anima una parte del cielo stellato, oggetto tra altri oggetti, dall’altra una fenomenologia che vuole ignorare i nostri «meccanismi stellari» in nome delle leggi del cuore. Tertium non datur.

E che non mi si venga a dire che il tertium sarebbe il linguaggio! Il linguaggio per la fenomenologia è il prolungamento della coscienza, una sorta di coscienza incarnata nei segni.

Ora, il pensiero cartesiano si è trovato sempre imbarazzato quando investe l’essere umano concreto, nel quale le due sostanze paiono intersecarsi. Da oltre tre secoli, il pensiero occidentale è alla ricerca di ghiandole pineali che permettano di descrivere la vita degli esseri umani ad un tempo come effetto di processi materiali e come espressione di atti cogitativi. Come e dove separare, negli esseri umani, ciò che è spiegabile da ciò che può essere solo compreso?

Comprendere e spiegare rappresentano due punti di vista sullo stesso fatto, o l’adeguatezza dell’uno elimina la validità dell’altro? Ad esempio, un uomo affamato ruba del cibo. Uno psicologo scientifico spiegherà questo furto come effetto della carenza di calorie nell’agente, per cui questi sottrae cibo non diversamente da come potrebbe fare un cane affamato. Un giudice che dovrà processarlo si chiederà invece se la fame sia stata la vera motivazione di quel furto. Lo psicologo e il giudice stanno parlando della stessa cosa da due diversi punti di vista, secondo due diversi «giochi sociali», o stanno parlando di cose diverse? Uno dei due giochi elimina l’altro come valido? Ora, il radicalismo fenomenologico dice «il ladro, in quanto essere umano, è un essere libero; la fame è per lui una motivazione, non una causa; avrebbe potuto anche sopportare la fame e non rubare.» Per questo radicalismo, nell’essere umano la carta motivazionale cancella la carta esplicativa, che verrà denunciata come inadeguata alla cosa-uomo. In questo caso viene a crearsi un conflitto insanabile sul modo di vedere il fatto umano: o si spiega o si comprende, tertium non datur.

In Heidegger, abbiamo non più la differenza cartesiana tra due sostanze, ma la differenza ontologica. Allora la fenomenologia, quando si deve confrontare con gli esseri umani concreti — per esempio, con malati mentali o nevrotici — viene a trovarsi in un double bind alquanto simile a quello della tradizione cartesiana. Un tempo Pascal diceva che l’uomo era una canna pensante, oggi si dice che è un ente che ha cura dell’Essere. Ma quando la canna pensante delira, come vederla allora? Nel delirio, la canna sta ancora davvero pensando? — ma allora occorre mostrare come il pensiero possa comprendere anche, come sua possibilità, il delirio, tematizzando un pensiero-non-veramente-pensante — oppure ormai è rimasta solo la canna?

Di fronte a questo inghippo, il fenomenologo ha davanti a sé più strade possibili — ma tutte risulteranno (per lui stesso) insoddisfacenti.

Una prima strada consiste nel considerare la malattia mentale come qualcosa di semplicemente e stupidamente ontico: una lesione cerebrale non permette ad un essere umano di esercitare la sua libertà ontologica. Allora la psichiatria resta estranea all’approccio fenomenologico, che verte sempre su un essere umano con un cervello a posto. Questa soluzione libera il fenomenologo dall’onere di comprendere la malattia mentale, ma viene da lui avvertita come una sconfitta etica e speculativa.

Eppure il fenomenologo è tentato di separare rigorosamente il sano — chi illustra pienamente l’essenza dell’essere-uomo — dal malato — chi manca questa essenza. Questo spiega l’insistenza di tanti fenomenologi sulle categorie diagnostiche.

Fino a che punto certi comportamenti nell’essere umano incomprensibili — ad esempio un delirio, o i discorsi di chi è affetto da Alzheimer — sono comprensibili fenomenologicamente in quanto essi costituirebbero pur sempre una modalità del comprendere umano? E non è un gioco di prestigio speculativo riportare ciò che si può spiegare ad una comprensione, ad ogni costo?

Una seconda strada consiste nel concentrarsi sui modi di essere-nel-mondo di chi manifesta comportamenti e pensieri malati — la strada presa essenzialmente da Binswanger. Il prezzo che questo approccio è però costretto a pagare è il suo suscitare la sensazione di una certa fatuità letteraria. Il fatto che la sua descrizione fenomenologica dell’essere-nel-mondo psicotico non si arrischi mai ad inaugurare un agire nei confronti della malattia acuisce questa fastidiosa sensazione. In termini brutali: ma che cosa ne ricavano questi malati mentali dall’essere fenomenologicamente descritti con tanto acume, in un tedesco così elegante? Tanto più che — Heidegger dixit — questa descrizione si rivela alla fine anche fenomenologicamente scorretta? La sensazione che ci sia del futile nella descrizione fenomenologica deriva proprio dal suo rifiuto di prendere in considerazione le cause della sofferenza, concentrandosi sul come essere sofferenti. Certo può essere affascinante — soprattutto per uno scrittore — descrivere in modo perspicuo la sensazione del dolore quando un molare è cariato, il modo in cui questo dolore modifica il rapporto al nostro corpo in generale, al nostro mondo circostante, ecc.; ma certo la nostra preferenza va al dentista che non si cura dell’Erlebnis dolorifica ma, avendo scoperto le cause del dolore, cura il molare.31

Ci si chiede insomma fino a che punto le descrizioni fenomenologiche di Binswanger non siano l’otium dopolavoristico dello psichiatra; invece il suo negotium non può ignorare — per ragioni etiche — le connessioni causali, qualunque esse siano.32

Un’altra via della fenomenologia, che appare meno futile, consiste nel correlare finalmente spiegazione causale e comprensione interpretativa (anche se questa combinazione di solito non viene ammessa dal fenomenologo). Questa tendenza prende l’aspetto di una denuncia etico-politica dell’oggettivazione della vita — soluzione che abbiamo visto all’opera nell’anti-psichiatria.33 Non si tratta di formulare una spiegazione della sofferenza mentale: questa verrà vista come essa stessa sottoprodotto di un mondo dominato dall’esplicatività scientifica. Le parti nella relazione esplicativa permutano: ciò che appariva spiegazione causale del male, diviene ora causa del male tout court. L’avversario filosofico — l’oggettività esplicativa — diviene ora un flagello sociale da denunciare, in quanto si concretizza in istituzioni e forme di potere malefiche: la società tecnoscientifica di cui il malato è manifestazione (non effetto!).

Però, l’evitamento della futilità descrittiva della fenomenologia à la Binswanger ha un prezzo salato: il fenomenologo rientra nel discorso esplicativo causale proprio attraverso la sua manovra dialettica. In effetti, la sua «comprensione» della malattia come prodotto dell’esplicatività causale (incarnata in forme socio-tecnologiche di controllo e di dominio) funziona di fatto come una spiegazione della malattia: causa della malattia è il potere della spiegazione causale in generale! La determinazione delle cause, cacciata dalla porta del tempio comprensivo fenomenologico, ritorna dalla finestra attraverso la denuncia morale — da parte dell’anima bella — di un mondo dominato tecnoscientificamente. E difatti, gran parte dei militanti che hanno seguito le orme dei maîtres penseurs fenomenologi hanno preso la denuncia anti-psichiatrica in questo senso causale: occorreva, attraverso un’azione politica, profilattica, eliminare le cause della sofferenza (la società repressiva, la famiglia rigida, i manicomi burocratici e segreganti). Per tutti, persino per i fenomenologi, la migliore prassi resta pur sempre quella che rimuove le cause del male, non quella che si limita a comprenderne le ragioni.

11. Malattia come colpevolezza

Ritorniamo allora al dilemma cartesiano: l’essere umano che si mostra non libero — che non ragiona bene — è effetto di cause ontiche oppure è proprio la sua libertà ontologica che lo porta paradossalmente a privarsi di libertà? Questa rinuncia alla propria libertà, in cui consiste la malattia mentale, deve essere compresa come una vicissitudine della libertà umana. Questo paradosso ricalca quello che non ha mai cessato di tormentare il pensiero cattolico: come accade che sia proprio il libero arbitrio di cui l’uomo è dotato a portarlo a quella negazione della propria libertà che è il peccato?

La fenomenologia descrive come «vita inautentica» ogni forma di scelta progettante che rinuncia appunto alla scelta progettante: sono le vite che optano per la routine, per il conformismo del «si dice, si fa», che considerano la loro esistenza una cosa data e non qualcosa da creare. È allora forte la tentazione, per il fenomenologo, di riportare le varie forme di psicopatologia alla inautenticità descritta da Heidegger: si vorrebbe assimilare la malattia alla chiacchiera, alla curiosità e al malinteso, cioè alle tre forme di vita inautentica. Sono malato perché ho scelto di non essere libero. Ma allora il fenomenologo rischia di ri-moralizzare la malattia in un modo che il Medio Evo teologico non aveva mai osato: di farne lo scotto per una colpa morale, per un peccato di mancata esistenza. L’umanismo fenomenologico rischia di risolversi in un avere-a-che-fare davvero troppo severo nei confronti di chi soffre. Sappiamo quanto la nostra cultura modernista sia andata lontano nella colpevolizzazione del malato, anche di quello affetto da malattie fisiche. È quella concezione che Susan Sontag giustamente ha attaccato in La malattia come metafora: «se hai il cancro, è colpa tua!» La voga della psichiatria organica, oggi, è in parte una reazione ad un’eccessiva responsabilizzazione etica del malato mentale o della sua famiglia, della quale la fenomenologia ha le sue responsabilità.

12. Differenza eidetica e Grande Riforma

Se il mondo tecnico — e la stessa sofferenza mentale — sono una manifestazione dell’essenza ontologica dell’essere umano, perché allora criticarli? Perché la differenza ontologica — su cui si basa la filosofia di Heidegger — sfocia di fatto in una critica della modernità e delle sue pratiche, comprese quelle psichiatriche? Che cosa, nel pensiero della differenza ontologica, porta alla Grande Riforma (anche psichiatrica) che la fenomenologia ha storicamente promosso?

Benché Heidegger ed heideggeriani considerino la loro filosofia una rottura radicale rispetto al pensiero metafisico occidentale, penso che la loro filosofia piuttosto abbia portato ad oltranza il progetto originario della filosofia, dalla Grecia in poi. E dico questo non come una critica, anzi: non è detto che la nostra epoca debba ad ogni costo rompere con la propria tradizione filosofica! In effetti, la differenza ontologica riprende e aggrava una differenziazione costitutiva dell’atto filosofico originale, che chiamerei la differenza eidetica… A cominciare da Socrate, o prima di lui. Nei Dialoghi platonici, Socrate chiede al suo interlocutore, ad esempio, «che cosa è la bellezza?» L’interlocutore se la cava di solito con una lista: le belle anfore, le belle navi, i bei ragazzi, i bei discorsi, ecc. Al che Socrate obietta che lui non ha chiesto una lista di enti belli, ma l’eidos della bellezza stessa (eidos è l’aspetto, l’apparenza formale — l’apparizione). Tutta la forza e il candore della tradizione filosofica occidentale vien fuori da questo svincolo inaugurale: che non bisogna confondere l’insieme delle cose belle con la bellezza (come idea, forma, ousia, universalium, ecc.), né l’insieme delle cose sagge con la saggezza, ecc. La filosofia si regge tutta su una decisione di astrazione che presuppone una differenza fondamentale: in termini platonici, tra l’eidos (aspetto) intelligibile e l’ente (eidolon) sensibile. In Aristotele, questa differenza verrà formulata come differenza tra l’essere in potenza delle forme e l’essere in atto; in Kant, come differenza tra il mondo fenomenico e l’Io trascendentale legislatore del mondo. Non è vero che in Platone, come nei pensatori successivi, questa differenza sia pensata come una separazione.34 La separazione è solo la forma mitica, metaforica, in cui la filosofia — sin dall’inizio — ha cercato di illustrare la differenza su cui la filosofia stessa si regge: quella tra le cose molteplici (cose sensibili e concetti) e l’unificazione concettuale. Non a caso i neo-platonici diranno che la vera realtà è l’Uno, «il solo saggio», che si manifesta nella pluralità delle cose sensibili. Tutta la tradizione metafisica sfrutta questa differenza, e punta a mostrare che solo considerando l’unificazione intelligibile delle cose siamo in grado di dire cose sensate, rigorose, vere, adeguate, sulle cose molteplici stesse.

Ora, Heidegger ha osato compiere un passo di astrazione ulteriore. La bellezza o la saggezza come aspetti o concetti, dice, sono pur sempre enti, cose che in qualche modo sono. Occorre volgersi verso quell’Essere per cui ogni ente è… Non si tratta più di volgersi dalle cose belle verso la Bellezza stessa, e nemmeno dalle cose molteplici verso l’Uno che le precede, ma di vedere tutte queste cose come enti che manifestano l’Essere. Questo Essere non va inteso come ciò che è comune a tutti gli enti — sensibili o intelligibili che siano — ma come apertura grazie a cui gli enti appaiono, insomma l’Essere come differenza rispetto ad ogni ente (ma anche la Bellezza è stata pensata dalla tradizione filosofica come differenza da ogni cosa bella; la saggezza come differenza da ogni cosa saggia, ecc.). L’Essere è insomma Antecedenza, sorgente del fiume storico degli enti, che differisce da questo fiume. Certo Heidegger è più vicino ad Aristotele che a Platone: l’idea che non ci sia Essere senza ente, e nessun ente senza Essere, è una ripresa dell’energheia (essere in atto) di Aristotele. Ma l’unità di materia e forma da una parte, di Essere ed ente dall’altra, presuppone appunto la differenza essenziale che non si dà mai «in atto». In ambedue i casi, l’atto è pensato totalmente a partire dalla separazione platonica.

Comunque venga considerato l’Essere,35 è indubbio che il gesto di Heidegger rappresenti un salto straordinario verso l’astrazione (anche se Heidegger lo nega36) — cioè di estrazione del pensiero dagli enti. In questo senso, l’oltrepassamento heideggeriano della metafisica va inteso come una meta-metafisica: non un ridiscendere del pensiero verso le cose e gli eventi, ma una sua ulteriore risalita verso l’Oltre-oltrecielo, nel quale ormai non si considerano più enti, foss’anche Dio o l’Uno, ma unicamente l’Essere (a cui non a caso Heidegger attribuisce sempre una qualità singolare). Una decisione impressionante, non c’è che dire. Ma che va nel senso in cui la metafisica occidentale in fondo è sempre andata: che più ci si detrae dalle cose belle, buone e molteplici, più si sarà in grado di dire la Verità anche sulle cose belle, buone e molteplici.

Non voglio qui criticare la differenza ontologica così come non mi sognerei di criticare la differenza eidetica, vale a dire il gesto che inaugura la filosofia. L’astrazione dagli enti ha i suoi rischi, ma costituisce una conquista così importante per gli esseri umani, che costoro non sono più in grado di farne a meno. E la differenza ontologica è una conquista del pensiero, nel senso in cui è valida la frase di Amleto, «Horatio, ci sono più cose in cielo e in terra che in tutta la tua filosofia!» Parlare dell’Essere è mostrare quel «più» che non bisogna dimenticare. La differenza ontologica ci ricorda che non dobbiamo mai confondere il reale stesso con le rappresentazioni che la scienza e la filosofia della nostra epoca ci danno del mondo. La coscienza ironica di questo scarto è un arricchimento che Heidegger ha portato. Temo tuttavia che il gesto fenomenologico di differenziazione cada nell’equivalente dell’illusione platonica rispetto alla differenza eidetica: credere che il fatto di aver stabilito la differenza permetta poi di tornare agli enti nel solo modo finalmente adeguato. Il filosofo cova l’illusione — che comincia con La Repubblica di Platone — che egli si possa mettersi al comando della Grande Riforma del sapere e della vita.

13. La Grande Riforma

C’è infatti un’altra continuità tra la tradizione metafisica e Heidegger (in fondo, Heidegger critica la metafisica per non essere stata abbastanza metafisica, ancora troppo impastoiata negli enti). Questa sfida della differenza astraente, da Platone in poi, di solito si accompagna ad un movimento inverso, che riporta il filosofo nel bel mezzo del mondo e dei suoi concittadini. Si prenda il mito platonico della caverna.37 Gli esseri umani, in catene, vedono le ombre dei loro simili sul fondo della caverna e prendono queste ombre per realtà. Il filosofo è capace di liberarsi dai ceppi, di vedere la luce solare, e di conoscere le vere cose. Ma poi il filosofo torna nella caverna, per istruire i suoi simili sulla realtà vera. Dunque il filosofo ha come missione una paideia: liberare i suoi simili dai vincoli delle illusioni.38 Da Platone in poi, il gesto inaugurale della filosofia — passare dal molteplice sensibile all’Unificazione intelligibile — è doppiato da un gesto inverso e altruistico di Bildung: la Grande Riforma di cui tante grandi filosofie si sono volute promotrici. Anche la grande riforma psichiatrica.

Ed è allora che sono incominciati i guai. Come valutare oggi, dopo oltre 2000 anni di filosofia, le Grandi Riforme — politiche, scientifiche, estetiche, etiche — di cui i filosofi si sono fatti promotori? Oggi, il bilancio globale ci lascia davvero perplessi. A cominciare dalla proposta della Repubblica platonica, che consideriamo il modello di ogni totalitarismo.

Come ogni grande filosofia, anche la fenomenologia ha appoggiato una Grande Riforma — anche se spesso si è alleata a progetti riformatori diversi (marxisti, emancipazionisti, nazionalisti, ecc.). La sua idea di fondo era che accorgersi dell’Essere — la fine dell’oblio della questione dell’Essere — potrebbe salvare il mondo, e curare anche dei malati mentali. Nel mondo antico i filosofi volevano curare le malattie dell’anima ricordando la differenza eidetica (che non bisogna perdersi nelle cose belle ma mirare alla Bellezza, e così via), oggi i filosofi vogliono curare le malattie dell’anima ricordando la differenza ontologica. In questo modo, la fenomenologia non si pone semplicemente come un modo di parlare degli esseri umani, ma come l’unica Verità possibile sugli esseri umani.

Si dirà: non è male che la filosofia non sia stata solo un puro gioco di astrazione, che abbia voluto cambiare il mondo. In effetti, molti grandi scienziati, artisti, politici, scrittori, sono stati profondamente influenzati da qualche filosofia. Ma costoro hanno potuto essere creativi proprio perché la filosofia è stata per loro una fonte di ispirazione, non un modello da applicare deduttivamente. La filosofia di fatto resta sempre sorpresa da ciò che il creatore o lo scopritore fa, ispirato o meno ch’egli sia da una filosofia.

Invece, Binswanger ha fatto ciò che il vero creatore, in qualsiasi campo, non dovrebbe fare: applicare in modo diligente e deduttivo al proprio campo un modulo filosofico. Binswanger ha creduto troppo nella Grande Riforma che la maggior parte dei filosofi hanno sognato: «applicare» le loro astratte estrazioni al mondo delle pratiche concrete. Ma credere che si possa fare della psichiatria veramente fenomenologica è non meno illusorio del credere che siano possibili una politica veramente marxista o un’arte veramente nietzscheana o una fisica veramente popperiana. L’illusione consiste nel credere che una riflessione filosofica possa guidare direttamente un campo concreto (ontico) specifico.

Heidegger dice che un’angoscia, ad esempio, non è un oggetto, che la si può al massimo tematizzare. Che cosa allora pensare del fatto che la psichiatria faccia continuamente dell’angoscia — chiamata oggi «attacco di panico» — il suo oggetto? Certo la fenomenologia si vuole una scienza rigorosa (il che non significa scienza esatta), e una scienza è davvero rigorosa quando è adeguata alla cosa a cui si volge. Per la fenomenologia, tematizzare l’angoscia — e non conoscerla come oggetto — è il modo adeguato alla cosa-angoscia. In generale, la fenomenologia si vuole il modo adeguato di cimentarsi con la vera natura dell’uomo: è convinta insomma che la natura umana — essendo ontologica — non si presti all’analisi oggettiva, ma solo alla comprensione fenomenologica. Questo assunto alla base della denuncia fenomenologica ispira la sua Grande Riforma.

Ma se si chiede al fenomenologo come lui faccia ad essere sicuro del fatto che il solo modo adeguato di trattare la natura umana sia la comprensione ontologica, alla fine egli può dire solo che questa è la sua decisione: decidere di rapportarsi all’essere umano in termini appunto ontologici, escludendo l’obiettività esplicativa. Vediamo qui l’incessante oscillazione della fenomenologia. Da una parte essa tende a volersi solo una pura meditazione filosofica sull’Esserci e sull’Essere che di fatto lascia ad altri approcci all’essere umano l’onere di una vera cura; dall’altra invece essa scommette sulla natura ontologica dell’essere umano per articolare il solo discorso vero che se ne possa fare, e quindi si propone come unica e vera Scienza dell’Uomo; e la fenomenologia è tentata di contrapporre aggressivamente questa Scienza a tutte le psicologie e sociologie. Da una parte la fenomenologia è un semplice rammentare la separazione del comprendere dallo spiegare, dall’altra la sua comprensione si propone come una sorta di Super-spiegazione. Così la fenomenologia critica la scienza moderna per il suo volersi adeguata alla cosa in nome di una superiore Adeguazione ontologica alla cosa-uomo. O la fenomenologia è un puro gioco filosofico, oppure è il solo modo di salvare gli esseri umani — o troppo, o troppo poco.

14. Umanismo e verità

Il guaio è che non c’è coincidenza perfetta tra la definizione ontologica dell’umanità — come Esserci, cura per l’Essere, ecc. — e quella antropologica, per cui diamo il nome di «esseri umani» ad alcuni viv-enti più o meno simili a noi. Resta difatti sempre aperta la domanda: chiamiamo esseri umani coloro che paiono adeguarsi ai nostri criteri ontologici, oppure il dato ontico di essere degli homines sapientes implica ipso facto la loro dignità ontologica? Ad esempio, si consideri il modo di essere di chi è affetto da sindrome di Alzheimer avanzata. La causalità neurologica — oggi accertata39 — dell’Alzheimer ci autorizza a ritirare la qualità di umanità in senso ontologico a chi ne è affetto? (Ovviamente qui non discuto il problema etico — i malati di Alzheimer vanno curati come esseri umani — discuto il problema speculativo.) Ma anche quando ignoriamo la possibile causa neurologica — come nei casi di autismo, per esempio — possiamo dire che qui siamo di fronte ad «Esserci» in senso pieno? Per la fenomenologia l’essere-con-gli-altri è una determinazione fondamentale dell’Esserci, nessun Esserci è costitutivamente solo — il solipsismo non è umano. Eppure la psichiatria descrive gli autistici come esseri solipsistici, che non paiono preoccupati dagli altri in quanto altri-come-me. Attraverso quale ontologia potremo comprenderli?

Ora, la sfida di Heidegger consiste nel definire l’umanità a partire dalla consapevolezza filosofica: un Dasein, un essere umano, è chi comprende l’Essere. Anche l’analfabeta è umano perché, in fondo, è filosofo senza saperlo. Ma come distinguere il filosofo — proposto come, in fondo, paradigma dell’umanità — dagli esseri umani che sono ben poco filosofici, da coloro che, come i deliranti o i malati di Alzheimer o gli autistici, ci rendono dubbiosi addirittura sulla loro umanità? Questo problema molto antico deriva dal platonismo.

Nel mito del Fedro — quello delle anime che contemplano le ideai nell’Oltre-cielo — anche Platone considera la psyche filosofica quella più pienamente «psichica», cioè più umana delle altre.40 Anche l’anima più abbrutita — quella del tiranno — è anima umana nella misura in cui è stata a contatto filosofico, anche se per poco, con l’ousia, con gli Aspetti. L’anima filosofica è quella che ha dimenticato meno di qualsiasi altra la visione della verità. La differenza tra il culmine dell’umanità — il filosofo — e l’umanità più abietta è una differenza di grado di oblio di ciò che veramente è, non di natura. In questa gerarchizzazione psico-metafisica, il rango delle anime umane è determinato dalla misura di memoria o di rimpianto di una verità essenziale. Il cattivo, lo stupido, il malato mentale, il tiranno e chi si lascia tiranneggiare, l’abbrutito sono forme di vita riportate ad una dimenticanza della verità di ordine filosofico. Anche per Heidegger il grado di oblio in qualche modo discrimina gli esseri umani — anche se per lui conta l’oblio dell’Essere, non l’oblio di qualcosa che più di ogni altra veramente è. Per Heidegger, la nostra epoca dominata dalle tecnoscienze segna lo zenith dell’oblio dell’Essere ed è perciò la meno umana di tutte. La fenomenologia quasi sempre denuncia la «malattia» dell’epoca moderna. Il progresso scientifico e tecnico segnerebbe di fatto una parallela regressione del riconoscimento della verità essenziale: il fiume ha dimenticato radicalmente la propria sorgente.

Ma come situare la psicopatologia in questo percorso di oblio? Che differenza ontologica c’è tra lo psichiatra odierno perfettamente calcolatore, oggettivo, scientifico e il povero delirante — sempre esistito — a cui egli fa fare una TAC al cervello? Se ambedue testimoniano di un oblio della verità dell’Essere, come esprimere la loro differenza? Davvero l’oblio dell’essenza dell’essere umano rende conto delle forme di sofferenza e di disagio di cui si occupa la psichiatria? Se la malattia mentale fosse solo una mancanza filosofica — per dirla brutalmente — come situare allora le esperienze psicotiche di Lucrezio, Hölderlin o Nietzsche? Un loro scacco filosofico ci renderebbe comprensibili le loro follie? O dobbiamo ripiegare sulle spiegazioni scientifiche, e concludere che le loro follie non hanno a che fare nulla con le loro filosofie? Credo che la fenomenologia non abbia mai dato una risposta a queste domande fondamentali su quelle che chiamerei «umanità diminuite» — anche se, in un certo senso, la fenomenologia non ha mai cessato, in un modo o nell’altro, di porsi proprio queste domande. Il dramma della fenomenologia è insomma il suo non essere riuscita a rendere davvero comprensibile a se stessa lo scacco dell’umanità in quanto comprendente.

15. Causa e forza

Nel fondo, la fenomenologia punta sulla separazione tra spiegazione e comprensione perché condivide la ricostruzione della spiegazione causale data dall’empirismo positivista, che deriva dalla critica humiana della causalità… Per il positivismo come per la fenomenologia, «la causa» si riduce a calcolo di regolarità e quindi a struttura di previsioni a partire da questa regolarità probabilistica. Per le filosofie positiviste, dire «il calore è causa dell’ebollizione dell’acqua» equivale a dire «ogni volta che dell’acqua è stata riscaldata a 100c ed oltre, ha bollito». In questa ottica «pratica», il concetto popolare, intuitivo di causalità — che era anche quello dei filosofi greci — è andato perduto. Credo però che sarebbe ora di rivalutarlo filosoficamente. Qui non posso far altro che accennare a questa possibile rivalutazione.

Nel senso comune «causa» non è una computazione di regolarità ma qualcosa che ha la forza di modificare un corso di eventi. Il che include la causa storica, la quale si esercita una volta sola. Ad esempio, se dico «una congiura di palazzo è stata la causa della morte di Giulio Cesare», indico qui l’impatto di una forza — il corso regolare della vita di Cesare è stato modificato da questa congiura. Regolarità, prevedibilità, controllo computazionale sono non ciò a cui si riduce la causa ma, al contrario, ciò che la causa rompe. La causa è «traumatica». In questo senso non humiano — come ciò che ha avuto la forza di modificare un processo regolare — la causa è il riferimento anche di un’interpretazione comprendente. Ad esempio, se diciamo che la dottrina marxista è stata una delle cause della Rivoluzione bolscevica del 1918, ad un tempo pretendiamo di capire e di spiegare la Rivoluzione russa. Comprendere e spiegare sono inestricabili nella misura in cui indicano una causa — una forza — come determinante un cambiamento. Non importa poi tanto se questa causa sarà a sua volta analizzata secondo le metodologie scientifiche oppure ci si accontenterà di una descrizione intuitiva «comprendente». La differenza di approccio dipenderà tutt’al più se da giovani si è fatto il liceo scientifico oppure il classico. Quel che conta, è che ad un certo punto della ricostruzione storiografica — cosa che facciamo ogni giorno nella nostra vita — si disegni perspicuamente, come esercitante forza causale, un ente come «dottrina marxista». È l’esistenza di questo ente, e il suo avere o meno esercitato forza causale, che interessa quando facciamo storia. E così, nella psicopatologia e nella psicoterapia non conta sapere se la determinazione di una forza causale — ad esempio, l’ipotesi «i sistemi educativi del padre del presidente Schreber sono all’origine del suo delirio» — sia genuina comprensione o spiegazione: l’importante è portare prove, di qualsiasi tipo, del fatto che davvero Schreber non avrebbe delirato se avesse avuto un padre diverso. Credo che sia ora di abbandonare la dicotomia tra spiegazione e comprensione, sulla quale la fenomenologia comprendente e il positivismo esplicativo hanno stabilito una sorta di complicità.

(È vero che l’abbandono della divisione tra spiegazione e comprensione implica necessariamente una metafisica della natura diversa da quella oggi accettata. Ammettere che la natura possa essere «compresa» significa abbandonare la visione meccanicista cartesiana della natura: dobbiamo supporre che la natura non sia tutta una macchina deterministica, ma che in essa ci possa essere dell’evento — del nuovo, dell’indeterminabile, dell’emergente puro. In altre parole, occorre ammettere — sulla scia di Bergson — che la natura è anch’essa, in fondo, libera. In questa ottica, la stessa libertà umana andrebbe pensata non più come eccezione della — o addirittura rivolta contro la — natura, ma come un modo di manifestarsi della sua stessa naturalità.)

Di solito le filosofie dette «continentali» (non-anglo-americane) del Novecento hanno pensato che soltanto le scienze possano dire qualcosa del reale — la filosofia poteva interessarsi unicamente della soggettività. Ma scienza e realtà non contano molto per il «continentale» — che cosa me ne può mai importare delle galassie e dei processi sub-nucleari rispetto al mio soffrire e al mio godere? Lo spiritualismo moderno non dice però, come i platonici, che la realtà sensibile è illusione: dice che, presa in sé, della realtà non ce ne importa nulla. Eppure credo che sarebbe ora, per i filosofi, di occuparsi persino del reale — quindi, dei soggetti nella misura in cui sono anch’essi reali. In quanto fatti non solo di filosofica «carne» ma anche di nervi, polmoni, genoma e sinapsi. Il sapere non può essere totalmente delegato, con una sorta di sprezzante accondiscendenza, alle scienze esatte.

16. Comprensione come perdono

Il fascismo comincia quando si insulta un animale, o anche l’animale nell’uomo. L’idealismo autentico consiste nell’insultare l’animale nell’uomo, o nel trattare l’uomo come un animale.

— Jacques Derrida41

Non ho mai potuto aderire al progetto fenomenologico — nemmeno in psichiatria — non perché sia filosoficamente confutabile. Del resto, ogni grande filosofia è in qualche modo inconfutabile, un sistema perfettamente auto-sostenuto. Si è insoddisfatti di una grande filosofia non perché si hanno argomenti logici contro di essa, ma perché si è particolarmente sensibili a qualcosa che, pur nella sua perfezione, essa manca. La fenomenologia manca a mio avviso la complessità dell’essere-umano. La pura comprensione dell’essere umano — e del sofferente mentale in particolare — mi appare come una comprensione vuota. È un po’ futile riportare l’opacità delle cause del dolore alla trasparenza del verstehen fenomenologico. Credo che quel che chiamiamo «comprensione dell’altro» (e di noi stessi come altri) si approfondisca quando riusciamo anche a spiegare molte sue cose. Ovvero, ricostruire le cause di certe sue azioni può liberare altre sue possibilità, non è solo un modo di controllarlo tecnologicamente. Spiegare l’altro — nel senso di scoprire le forze che lo condizionano —, nella misura in cui questa spiegazione lo aiuta, è anche un atto d’amore. Una buona madre deve spiegare il proprio bambino, per avere a che fare con lui «con scienza e coscienza». La coscienza (nel doppio senso del termine, come conscience e come consciousness) senza scienza si riduce a chiacchiera umanista.

La fonte della comprensione è quella che possiamo chiamare la pietà per l’altro come vivente, vale a dire per il suo essere un ente che gode e soffre come ogni altro animale… I nostri sentimenti affettuosi nei confronti di certi esseri umani — diciamolo con franchezza — di fatto non sono radicalmente diversi dai sentimenti che portiamo al cane che amiamo, ma non dovremmo vergognarcene. In fondo, ci fidiamo molto di più di questi «sentimenti naturali» di benevolenza per gli altri (fossero anche cani) che dei filosofemi sull’umanità come comprensione dell’Essere. Giustamente diffidiamo di più di uno che si mostra crudele nei confronti di un povero cane che di un filosofo anti-umanista che inneggia all’«Oltre-uomo aldilà del bene e del Male».

Non credo nella Riforma fenomenologica in quanto la distinzione troppo radicale tra umanità e animalità (in termini filosofici: tra enti da comprendere e enti da spiegare) mi appare, in qualche modo, inumana. Penso — in questo in accordo con Freud — che la vera comprensione dell’altro essere umano significhi riconoscere, accettare anche la sua animalità, e che questo riconoscimento sia la base di ogni atteggiamento caritatevole e affettuoso. (Penso che, contrariamente alla tendenza fenomenologica a «spiritualizzare» Freud — propensione che ha trionfato soprattutto nella psicoanalisi francese — sarebbe ora invece, finalmente, di tornare ai presupposti naturalistici del suo pensiero.) La caritas (che significa amore) è stata troppo spesso vista dalla nostra tradizione filosofica — di cui la fenomenologia è parte integrante — in modo eccessivamente sublime: come risultato del riconoscimento della pura umanità dell’altro. Secondo questa tradizione, dovremmo essere buoni per ragioni squisitamente logiche: perché, tracciato un albero di Porfirio, dobbiamo riconoscere che tutte le razze umane rientrano nella specie «homo sapiens» analiticamente definibile come «animale razionale» oppure come «Esserci comprendente». Ma nessun spirito caritatevole lo è per ragioni logiche! Prima della secolarizzazione contava solo l’anima dell’altro, senza il suo corpo; oggi conta solo la sua comprensione dell’Essere, molto prima del suo godere e soffrire ontici della vita. Eppure tutta la nostra vita affettiva smentisce questo esclusivismo filosofico: la nostra carità è veramente tale proprio quando dietro il sussiego della mens rationalis ritroviamo l’animal che vive. È la sofferenza di chi è affetto da Alzheimer che ci porta a trattarlo caritatevolmente, anche se in lui la res cogitans è carente.

L’atteggiamento più umano nei confronti degli altri esseri umani è quello che riconosce anche la loro animalità, cioè le forze causali che li smuovono. Per questa ragione, la descrizione che Freud dà, in termini di impulsi libidici, del piccolo Hans o di Dora ci appare tutto sommato più «umana» delle frigide ed eleganti descrizioni fenomenologiche, peraltro clinicamente notevoli, che Binswanger dà dei suoi pazienti. Così possiamo perdonare i nostri simili quando si comportano appunto «animalescamente», spinti da pulsioni che magari ci danneggiano. Perdoniamo l’essere umano quando ne riconosciamo l’animalità — se lo consideriamo sempre e solo uomo, per onorare la sua umanità lo condanniamo a morte.

La mia impressione è che quando diciamo «l’ho compreso» o «quell’atto va spiegato», vogliamo dire che accettiamo che questi non si comporti da santo o da eroe, lasciandosi condizionare dalle forze causali. «Si spiega» che la gente parli sotto tortura per le sofferenze fisiche loro inflitte, ma sappiamo che alcune persone — poche — non parlano sotto tortura. Eppure non diciamo mai dei pochi che non parlano sotto tortura che «comprendiamo» il loro eroismo: casi come il loro ci permettono solo di parlare di «libertà umana», anche se la maggioranza cede alla forza causale del dolore. «Comprendiamo» invece che una persona coraggiosa possa tuttavia parlare sotto tortura. La «comprensione» implica quindi la libertà del vivente — per cui in fondo possiamo comprendere anche un animale, nella misura in cui è libero — ma il fatto di comprendere quell’atto è in un certo senso perdonarlo: il suo non aver approfittato della sua libertà, l’aver ceduto alle forze causali, è spiegabile e quindi, proprio per questo, comprensibile. «Comprendo» quel cannibale giapponese che ha fatto della fidanzata uno spezzatino nella misura in cui ricostruisco le forze psichiche che hanno agito su di lui: avrebbe potuto sfuggirvi, ma è comprensibile che non vi sia sfuggito.

L’appello alla pietà naturale, nella misura in cui esiste anche nell’essere umano — quella pietà che impedisce sempre al lupo di finire, addentandogli la gola, il rivale che egli ha vinto — mi pare dare più garanzie delle meditazioni ontologiche sull’essere-con. Per fortuna, talvolta con i nostri simili ci comportiamo proprio come i lupi.


  1. Martin Heidegger, Zollikoner Seminare. Protokolle-Gespräche-Briefe, hrsg. Medard Boss, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. /M. 1987; tr. it. Seminari di Zollikon, Guida, Napoli 1991, «Dal 12 al 17 maggio 1965», p. 280. ↩︎

  2. Vedi in particolare Ludwig Binswanger, Schizophrenie, Neske, Pfulligen 1957. ↩︎

  3. Nella psichiatria fenomenologica di lingua tedesca il termine Umgang (relazione, essere in rapporto, essere in compagnia) sostituisce di fatto il concetto di terapia e di cura in senso medico. ↩︎

  4. Anche la filosofia analitica ha cercato di mettere la psicoanalisi spalle al muro con questa alternativa. Ad esempio Jacques Bouveresse, in un’ottica ispirata a Wittgenstein, rimprovera anch’egli la psicoanalisi per non essersi mai decisa tra la spiegazione delle cause e la chiarificazione delle ragioni. Colpisce come tante critiche filosofiche alla psicoanalisi concordino, pur provenendo da filoni di pensiero del tutto eterogenei. ↩︎

  5. Per un recupero dell’opera di Freud in chiave fenomenologica, si vedano Paul Ricœur, De l’interprétation, et Michel Henry, Généalogie de la psychanalyse↩︎

  6. Sigmund Freud, GW; tr. it. Interpretazione dei sogni, Opere, 3. ↩︎

  7. Di solito, i critici fenomenologici della psicoanalisi contestano senza posa quel che chiamerei il vocabolario naturalista di Freud: il suo richiamo alle pulsioni, alla libido, al desiderio, all’inconscio, ecc. Tutte queste critiche non realizzano che il vocabolario di Freud non implica necessariamente quel che egli «fa». Quel che davvero conta in Freud, in rapporto alla fenomenologia, non è l’aver dato nomi biologizzanti a certe istanze, ma l’aver descritto l’essere umano come conflitto e dialettica di istanze diverse, rinunciando insomma all’unità totalizzante dell’Io o dell’Esserci presupposta dalla fenomenologia. ↩︎

  8. Uso qui i concetti di Heidegger, fatti propri da Binswanger nella prima fase della sua opera. Qualcuno potrebbe qui rimproverarmi di minimizzare le differenze tra Husserl e Heidegger. A essere proprio sincero, nel fondo non vedo l’ontologia di Heidegger così essenzialmente diversa dalla dottrina trascendentale di Husserl nella misura in cui — come ha visto Emanuele Severino, ad esempio — la soggettività trascendentale del secondo assomiglia come un fratello gemello all’Essere del primo. Si può mostrare che l’Essere heideggeriano — come luce che fa apparire gli enti, e che così si sottrae alla vista — è descritto in modo simile all’Io descritto da Husserl. In quanto filosofia romantica, anche la fenomenologia resta «soggettivista», malgrado tutto, anche nelle sue pretese più ontologiche: l’Essere appare la sublimazione ontologica dell’atto di coscienza grazie a cui l’ente appare come qualcosa che emerge, che mi è dato, che appare a me. ↩︎

  9. La famosa Analitica dell’Esserci, che costituisce buona parte di Sein und Zeit (Max Niemeyer, Tübingen 1927), non ha di fatto nulla di analitico: è piuttosto un’intuizione sintetica. ↩︎

  10. In Ideen I, § 46, p. 149. ↩︎

  11. In verità, già nelle Passions de l’âme (§ 26) Descartes era giunto molto vicino all’idea che la sensazione, l’affetto, sono una sorta di evidenza ultima, come la cogitatio. Su questo punto, cfr. Michel Henry, Incarnation Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000. ↩︎

  12. Heidegger, Zollikoner Seminäre, cit.; 24 aprile-4 maggio 1963; p. 243. ↩︎

  13. Epperò le spiegazioni freudiane non rendono mai esattamente prevedibile un fenomeno (per questa ragione la filosofia razionalista nega che la psicoanalisi sia una vera scienza). Il vocabolario freudiano è certamente esplicativo, ma la psicoanalisi è davvero esplicativa? Spesso si ha l’impressione che la critica fenomenologica di Freud prenda ingenuamente alla lettera la terminologia di Freud, senza mai davvero interrogarsi su quel che essa di fatto significa nella pratica concreta dell’analisi. ↩︎

  14. Espressione introdotta da Neil Wilson nel 1959 e resa popolare da Willard O. Quine, «On Empirically Equivalent Systems of the World», Erkenntnis, 9, 1975. Occorre avere indulgenza interpretativa (»tratta gli altri come tratta te stesso») ed estendere la nostra razionalità (»ricerca sempre la coerenza tra atteggiamenti ed atti, e inibisci l’ascrizione di credenze in conflitto con la configuraone complessiva di credenze attribuite»). Cfr. Davide Sparti, Sopprimere la lontananza uccide, La Nuova Italia, Firenze 1994. ↩︎

  15. Napolitani in seguito ha sviluppato una teoria — legata alla sua pratica della gruppo-analisi — che deve poco alla fenomenologia in senso classico. ↩︎

  16. Questo progetto è utopistico nella misura in cui risulta spesso impossibile convivere con la follia, quando è una rottura completa con il vivere-con. Ma la rinuncia alla cura, in nome di una convivenza tollerante, non è una rinuncia anche al vero aiuto? Si dirà: non è da escludere che, sentendosi compreso, lo psicotico migliori o guarisca. Certo, ma nella misura in cui la comprensione cura, è difficile sottrarsi alla conclusione che questa comprensione sia una causa di miglioramento o guarigione — proprio quel che il fenomenologo si rifiutava di ammettere. ↩︎

  17. Ludwig Binswanger, Essere nel mondo, Astrolabio, Roma 1973, p. 223. ↩︎

  18. Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, I, Francke, Bern 1947, p. 28. ↩︎

  19. Zollikoner Seminäre, 8 marzo 1965; tr. it. p. 272. ↩︎

  20. Ringrazio in particolare Giusy Cuomo, psicoanalista allieva diretta di Binswanger, per avermi dato conferma di questo. ↩︎

  21. Binswanger ha chiamato il proprio metodo Daseinanalyse. Lo si è tradotta in italiano come antropoanalisi, ma piuttosto è analisi dell’esserci, non analisi genericamente dell’uomo, anthropos↩︎

  22. Ritroviamo questa curiosa esclusione reciproca tra teoria e prassi in altri «praticanti» orientati filosoficamente, ad esempio in Lacan: questi quasi mai parla della propria pratica analitica. È come se la coscienza filosofica rendesse in gran parte indescrivibile la propria prassi psicoterapica. ↩︎

  23. Zollikoner Seminare, cit., 14 luglio 1969; tr. it. p. 331-2 e 416-7. ↩︎

  24. Così in Melancholie und Manie. Phänomenologische Sudien, Neske, Pfulligen 1960; tr. it. Melanconia e mania. Studi fenomenologici, Boringhieri, Torino 1971. ↩︎

  25. Franco Basaglia, Scritti, I, 1953-1968, Einaudi, Torino 1981; Scritti, II, 1968-1980, Einaudi, Torino 1982. ↩︎

  26. In effetti, anche l’Essere di Heidegger minaccia, ad ogni pie’ sospinto, di «onticizzarsi». Ad esempio, Heidegger lo qualifica come finito, evento, «fatto» accidentale e precario, infondato, temporalità, ecc. Nella misura in cui l’Essere è pur sempre «qualificato», ipso facto diventa una sorta di ente. Anche quando si dice che l’Essere è in fondo il Nulla. Nella misura in cui entra nel discorso, persino il nulla diventa «un ente». ↩︎

  27. Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 7, Routledge and Kegan Paul, 1961. ↩︎

  28. Il fenomenologo cita spesso la frase di Nietzsche «quel che conta non è il dominio della scienza, ma il dominio del metodo scientifico sulla scienza». Oggi scienza e metodo scientifico tendono a coincidere. Ma la fortuna del detto di Nietzsche è la spia del sogno fenomenologico: di costituire una scienza che non sia dominata dal metodo scientifico. ↩︎

  29. Zollikoner Seminare, cit. ; tr. it., p. 430. ↩︎

  30. Kritik der praktischen Vernunft, Akademieausgabe, pp. 289-290. ↩︎

  31. La neurologia ha dato un grande rilievo al caso di Phineas Gage, un giovane che nel 1848 fu vittima di un incidente nel quale una scheggia metallica gli attraversò il cervello da parte a parte. Il paziente non subì alcuna menomazione delle funzioni psichiche fondamentali — memoria, capacità di ragionare, leggere, scrivere, parlare, muoversi (cfr. Antonio R. Damasio, Descartes’ Error, 1994). Cambiò invece drammaticamente il suo carattere, sin da renderlo irriconoscibile a parenti ed amici: divenne una personalità rissosa, inconcludente, insomma un fallito. Il caso è apparso così scientificamente interessante in quanto permetteva di ipotizzare una vera e propria localizzazione cerebrale della vita etica. Ora, immagino il gioiello letterario che Binswanger avrebbe tratto dalla descrizione dell’essere-con-gli-altri di Gage, come «Dasein mancato». Ma questo gioiello apparirebbe un tantino irrilevante nella misura in cui il drammatico cambiamento della dimensione etica di Gage è causalmente correlato alla lesione dell’area prefrontale dovuta alla barra metallica. ↩︎

  32. Di fatto, conosco vari filosofi fenomenologici che non manderebbero mai un loro caro, che avesse seri problemi mentali, da uno psichiatra fenomenologico! Una cosa è la speculazione filosofica, altra cosa è il curare chi sta male. ↩︎

  33. Cfr. L. Binswanger, Drei Formen Missglückten Daseins, Max Niemeyer, Tübingen 1956; tr. it. Tre forme di esistenza mancata, Il Saggiatore, Milano 1964. ↩︎

  34. Il famoso mito del Fedro, in cui le ideai (aspetti) sono rappresentate come oggetti di contemplazione nell’Oltre-cielo, è appunto solo un mito — è la visione del poeta lirico Stesicoro d’Eufemo, non la teoria di Socrate. ↩︎

  35. Indubbiamente molti sono sedotti dalla differenza ontologica proprio perché l’Essere heideggeriano appare come non-fondamento, puro lasciar-essere gli enti, come nulla. Si potrebbe mostrare che questo risvolto nichilistico è stato sempre presente nella tradizione filosofica già con la differenze eidetica. In Aristotele, ad esempio, forma e materia sono quasi un nulla, puro essere-in-potenza — eppure è la loro presupposizione che permette di pensare il reale come atto. La tradizione metafisica ha sempre tematizzato il divenire — il flusso del fiume — a partire da una sorgente-eidos che è nulla o quasi. Heidegger tematizza il divenire temporale a partire proprio da quel nulla che è l’Essere. ↩︎

  36. Heidegger sottolinea la concretezza dell’Essere. Ma non è rivendicando il concetto di Concretezza contro l’Astrazione che il primo cessa per questo di essere più astratto… Il fatto che l’Essere non sia pensato come astrazione non toglie che esso venga usato, nel discorso filosofico, astrattamente. ↩︎

  37. Platone, Repubblica, VII, 514 a-517 a, 7. ↩︎

  38. Punto giustamente messo in evidenza da Heidegger in «La concezione platonica della verità». ↩︎

  39. La questione, sempre dibattuta tra gli specialisti come nel vasto pubblico, se certe sofferenze mentali abbiano causa organica o puramente mentale è in parte una falsa questione. È evidente che il programma di ricerca neurologico tende a trovare in qualsiasi atto mentale — anche nella nostra comprensione di Sein und Zeit — l’equivalente nella «estensione cerebrale», per dirla alla Descartes. E ci riuscirà in modo sempre crescente. Non raccontiamoci baje: sul piano scientifico, il programma organicista neurologico prevarrà sempre più su quello puramente psicologico. Ma il vero problema non è sapere se la causa ultima dei moti dell’anima sia materiale o spirituale, bensì quale sia il modo più proficuo, buono e bello di rapportarci ai moti dell’anima nostri e degli altri. ↩︎

  40. Ad essere precisi, le anime elette non sono solo philosophoi (amanti della sapienza), ma il filosofo ammette graziosamente in questa élite anche i philokaloi (gli amanti della bellezza), i mousikoi (ispirati dalle Muse) e gli erotikoi (dediti al desiderio amoroso). ↩︎

  41. Dal discorso di accettazione del Premio Adorno a Frankfurt-sul-Meno, 22-IX-2001. ↩︎