Questioni di metodo. Sullo statuto fenomenologico della metafisica

1. Introduzione

A conclusione della voce «Fenomenologia» per l’Enciclopedia britannica Husserl scrive:

La filosofia fenomenologica si riconosce, nel proprio metodo complessivo, come conseguenza pura delle intenzioni metodiche che hanno mosso la filosofia greca fin dai suoi esordi. […] Conseguenza pura di intenzioni metodiche significa metodo reale per portare i problemi sulla via di un lavoro che li renda evidenti e li risolva in modo concreto.1

In queste parole è contenuta, come riconoscimento di un’eredità, l’indicazione del compito della fenomenologia.2 Il compito è quello dell’enucleazione di un metodo che sia calibrato sulla realtà, così da non risultare astratto, cioè vuoto, perché privo di contenuto. È il metodo dei fenomeni. Esso non è solo un metodo epistemologico trascendentale perché chiarisce le condizioni di possibilità della conoscenza. Piuttosto, avendo di mira i fenomeni, si costituisce come potenzialmente già riempito del contenuto ontologico verso cui tende perché strutturato per accoglierli a partire dalla loro manifestatività. Insieme deve dare, però, la possibilità di portare a soluzione i problemi che l’indagine della realtà incontra secondo il criterio dell’evidenza di cui il soggetto fa esperienza concreta tramite l’Erlebnis del fenomeno nel flusso della sua tensione intenzionale verso di esso: «L’evidenza nel senso più ampio è esperienza dell’ente, dell’ente così determinato, anzi essa è il pervenire da sé dell’ente alla vista spirituale».3 In questo modo il metodo si assicura anche sul piano formale. La fenomenologia mostra di essere, quindi, una scienza che è metodo e non semplicemente una scienza del metodo o il risultato dell’applicazione di un metodo.4 In quanto Erkenntnistheorie o, più esattamente, in quanto epistemologia formale (formale Wissenschaftstheorie) , cioè teoria della teoria (Theorie der Theorie) perché «scienza dei principi e delle leggi di ogni teoria in generale»,5 essa aspira certamente ad illustrare un patrimonio di condizioni (le leggi appunto) a cui le regole delle altre altre scienze devono attenersi, poiché è in grado di coordinare «un capitale di verità normative che precedono tutte le scienze e ne sono quindi completamente indipendenti, rappresentando nel contempo per esse un comune forziere metodologico».6 Eppure il compito della fenomenologia non appare confinato solo a questo. La fenomenologia si costituisce, piuttosto, come il luogo stesso della relazione fra la soggettività e i fenomeni. Per meglio dire: la fenomenologia è il luogo da dove emergono quelle verità normative come modi tramite cui si articola e struttura la relazione intenzionale fra soggetto e fenomeno. Per tale ragione Husserl può asserire che la fenomenologia non è, appunto, un catalogo di regole universali che si possa applicare identico a tutte le scienze. Essa descrive, di contro, la compagine originaria di correlatività fra soggetto e dato secondo la quale ogni scienza, poi, potrà costituire il proprio metodo — quindi il proprio pacchetto normativo — in relazione al proprio ambito:

Ho definito questa scienza un forziere metodologico di tutte le scienze. Ciò rinvia alla sua vocazione universale, quella di porsi al servizio della critica e della metodologia in tutte le scienze. L’ontologia o epistemologia formale è una teoria, dunque non è in se stessa un sistema di regole pratico o normativo. Non esprime proposizioni normative né tratta direttamente di un metodo, di istruzioni pratiche per il pensiero. Essa è però chiamata a porsi al servizio della critica e della metodologia.7

Nondimeno, questo mettersi al servizio della conoscenza fa della fenomenologia un metodo, in quanto prescrive una «norma di comportamento» per il soggetto, quale che sia l’ambito conoscitivo o esperienziale in cui egli si trova implicato. Tale norma altro non è che quella di lasciare che le cose si rivelino nei loro gradi di evidenza secondo i modi della loro datità e, dunque, fenomenicità. È proprio questo che permette alla fenomenologia di raccogliere un’eredità, antica quanto la storia di quella altra scienza che abbiamo imparato a chiamare per tradizione, ma non senza ambiguità e difficoltà, «metafisica».8

Spesso Husserl afferma la continuità metodica fra la sua fenomenologia e la tradizione filosofica precedente, amando definirsi platonico, cartesiano o leibniziano a seconda dei casi. La continuità è, appunto, giustificata sul piano del metodo e non solo sulla scorta della costatazione che i tratti ontologici che definiscono l’eidos sono quei medesimi caratteri secondo cui anche Platone descrive le idee o Lebniz le monadi. Secondo l’interpretazione della prossimità della fenomenologia e della metafisica che Husserl fornisce non si tratta solo di una vicinanza che si lascia apprezzare dal versante ontologico. Da questo punto di vista, Husserl riscontra in vario modo che tanto la propria teoria del reale quanto l’ontologia platonica, cartesiana e leibniziana insistono sul fatto che la realtà, sebbene si consegni tramite adombramenti, tramite modi d’essere variabili e, quindi, contingenti, è però in qualche modo tutto «compattata» intorno ad un nocciolo duro. In quanto essenziale, questo zoccolo ontologico (che poi corrisponderebbe alla realtà della cosa stessa, all’ontos on) ha lo statuto di ciò che permane eternamente, che non muta, che nella sua struttura immateriale svolge il ruolo formale — e quindi funzionale — di determinazione dell’essere della cosa. La continuità è, però, anche in buona misura attestata sul piano del metodo o, più esattamente, in conformità allo scopo del metodo: il fine del metodo è la realtà — ossia il coglierla e il custodirla — e solo un metodo che sia insieme contenutisticamente vero e formalmente certo può garantire il raggiungimento epistemico e non meramente doxastico di essa. Sul piano del metodo, la fenomenologia si costituisce come la stessa ossatura logica della scienza ed a Platone Husserl guarda, non di rado, come a colui che ha compreso l’importanza della logica quale «luogo dell’indagine sulle esigenze essenziali del «vero» sapere e della «vera» scienza»,9 ossia come a colui che «aveva perseguito una dottrina veramente radicale del metodo della conoscenza».10 Tuttavia, è proprio sul piano del metodo, paradossalmente, che Husserl finisce per rivendicare il proprio legittimo diritto a non potersi più dire, ad esempio, cartesiano. E sempre sul piano del metodo, o di un certo uso del metodo trascendentale, egli difende la sua impostazione della fenomenologia in opposizione agli esiti della filosofia kantiana. Agli occhi di Husserl Cartesio si sarebbe fermato troppo presto e non avrebbe compreso la forza della propria intuizione metodica, introducendo Dio a garante della soggettività, laddove le conseguenze della risoluzione del dubbio nella scoperta della verità prima del cogito avrebbero dovuto escluderlo:

Cartesio è già prossimo a giungere alla formulazione radicale del problema [scil. il problema della conoscenza]. Anzi, isolando il campo delle pure cogitationes ha già predisposto la condizione essenziale per la sua trattazione scientifica. Ma non l’ha colto in modo abbastanza deciso. Non ha posto il campo delle cogitationes al centro della trattazione, né ne ha approfondito sufficientemente il senso. Perciò non è divenuto il fondatore della teoria della conoscenza come scienza, pur essendone un precursore. Egli non ha alcuna idea dell’autentica portata della propria scoperta delle pure cogitationes, né del fatto che con ciò si sia ottenuto il campo di una scienza infinitamente feconda e fondamentale per ogni critica della ragione e per ogni filosofia.11

Kant, invece, sostenendo la distinzione fra fenomeno e noumeno, non avrebbe colto la forza della soggettività trascendentale nel suo potere euristico, interpretandola più come schiava di un proprio limite che come autrice di un patrimonio conoscitivo oggettuale in grado di porsi a fondamento per ogni altra scienza. La distinzione kantiana, in altri termini, ponendo una differenza radicale fra soggetto ed oggetto come ciò che resta comunque esterno alla coscienza, minerebbe in questo modo alla base il principio fondamentale che, secondo Husserl, regola la datità dei fenomeni e la nostra conoscenza di essi.12 Quindi, anche se Husserl riconosce che l’esigenza kantiana del noumeno è preziosa perché vuole garantire l’indipendenza del dato, tuttavia questa stessa esigenza si piega sotto il peso di un «presupposto trascendente» che in realtà, proprio perché presupposto, agli occhi di Husserl non rappresenta nulla di fondato o di evidente, ancorché plausibile. Plausibile, indubbiamente, perché la realtà è esterna al soggetto, ma pur sempre un presupposto. Ciò perché non solo la tesi del mondo naturale è soggetta a legittimo dubbio e, dunque, a conseguente e necessaria epoché, ma soprattutto perché nulla in sede di soggettività trascendentale, secondo Husserl, può portare a negare che nel fenomeno, in quanto dato alla coscienza nel passaggio dalla trascendenza del dato alla sua immanenza, si dà la cosa stessa nel suo essere in sé, in quanto appunto cosa (in sé) stessa:

Egli [scil. Kant] opera continuamente con presupposti trascendenti tratti dalla concezione naturale del mondo, e anche se con lo sviluppo delle sue teorie essi devono ammettere alcune limitazioni e modificazioni, è inevitabile che venga mantenuto un nucleo di trascendenza, proprio perché esso era già presupposto nell’impostazione del problema. La nozione di una cosa in sé da cui si è affetti sta ad indicare delle trascendenze derivate dalla tesi naturale del mondo extrasoggettivo.13

2. Il metodo fenomenologico

Nella sua datità originaria indipendente dal soggetto, ma per il soggetto la cosa manifesta se stessa così come essa è; il soggetto, destinatario della datità del fenomeno, che entra nel suo orizzonte come dato di coscienza, è nelle condizioni di cogliere il fenomeno senza che le sue operazioni si pongano come barriera ed impedimento per l’accesso all’essenza delle cose. Il rapporto di Husserl con la tradizione è, in genere, quasi sempre filtrato dal suo interesse più per la questione gnoseologica che per quella ontologica. È con la metafisica che si è costituita come gnoseologia (Erkenntnistheorie) che Husserl è più frequentemente impegnato a costruire il confronto e ciò perché egli considera secondaria la fondazione della fenomenologia come ontologia — e, quindi, anche lo stesso impegno ontologico della metafisica tradizionale — rispetto al compito dell’individuazione dei modi di accesso alle cose stesse, ai fenomeni. La fenomenologia potrà essere un’ontologia, se e solo se si sarà garantita prima quella costituzione che le permette di definirsi come «vera» e «certa». Impossibile, qui, non pensare in primo luogo ad Hegel che, tuttavia, rispetto all’identificazione che si produce nella fenomenologia husserliana fra scienza e metodo, è a ben vedere solo uno dei tanti «anticipi» tramite cui la metafisica, nel corso della sua storia, ha appunto già prospettato, prima della lezione husserliana, la conversione del metodo in sapere.

Verità e certezza sono notoriamente i caratteri con cui Hegel descrive il sapere assoluto che tale è, ossia vero e certo, perché vero e certo è il suo metodo. La verità e la certezza non possono essere separate e sono garantite al metodo dall’oggetto stesso del sapere a cui il metodo è sotteso. La separazione di verità e certezza, di forma e contenuto è opera dell’abituale intelletto astraente che tiene rigide le determinazioni: «Il concetto che fin qui si è avuto della logica è basato sulla separazione, presupposta una volta per sempre nella coscienza ordinaria, del contenuto della conoscenza della forma di essa, sulla separazione cioè della verità e della certezza».14 Di contro la ragione è in grado di comprendere l’intrinseca identità fra la materia del conoscere e la sua forma, fra verità e certezza. Il sapere assoluto è il modo — e dunque il metodo stesso — della risoluzione dell’opposizione posta alla coscienza fra verità e certezza: «Il sapere assoluto è la verità di tutte le guise di coscienza, perché […] solo nel sapere assoluto si è completamente risoluta la separazione dell’oggetto dalla certezza di sé, e la verità si è fatta uguale a questa certezza, così come questa alla verità».15 Senza potere qui percorrere l’intera storia della metafisica, è però opportuno notare che già nel suo originario costituirsi in Platone ed Aristotele si assiste in metafisica alla sovrapposizione fra metodo, sapere e realtà. Per Platone la dialettica da metodo assunto dal filosofo per giungere al vero si fa scienza (dialektiké episteme), perché dialettica è la realtà che, nella sua conoscenza, «l’amico delle idee» custodisce a differenza del sofista. Il movimento della scienza — il suo metodo, il suo modo di procedere — è il movimento della realtà che si struttura per sé in rapporti di articolazione fra particolare e universale. Questi rapporti sono colti dal filosofo tramite il procedimento dialettico che è insieme diairetico e sinottico. Synagoghé e diariresis sono, però, modi delle cose stesse, non semplici tecniche del pensiero:

Chi sia dunque capace di fare questo [scil. di praticare la scienza dialettica], coglierà distintamente un’unica idea che si ramifica da ogni parte attraverso molte altre, ciascuna delle quali rimane un’unità separata, e poi molte idee fra loro diverse circondate dall’esterno da una sola, e anche coglierà un’unica idea che, attraversando molti interi si ricompone in un’unità, e molte idee che sono invece totalmente distinte e separate: in questo consiste il saper operare distinzioni per genere (diakrínein katá ghenos epístasthai), cioè come per ciasun genere sia possibile o no comunicare (koinonein).16

Platone stesso, del resto, si appella ad un criterio fortemente fenomenologico per giustificare il fatto che la scienza dialettica non applica arbitrariamente il proprio metodo alla realtà. Il criterio è la strada (ten hodón) necessaria in massimo grado (anankaiotáten) su cui procedere, secondo le parole dello Straniero in dialogo con Teeteto nel Sofista: «Innanzitutto indagare le cose stesse che adesso sembrano manifeste (enargós), per non rischiare di confonderci».17 L’oggetto, dunque, stabilisce il criterio, la via del discernimento fra vero e falso per il filosofo dialettico. Anche aristotelicamente ogni episteme è fondamentalmente costituita dal carattere oggettuale del proprio ambito ontologico d’indagine e dal metodo adatto a cogliere tale oggettualità. La conoscenza del metodo dovrebbe apparire preliminare rispetto alla scienza stessa, se non fosse che il metodo è già il modo tramite cui l’oggetto è colto e compreso. Esso corrisponde al sapere o, con più esattezza, alla costituzione in forma di sapere dell’esperienza tramite cui entriamo in contatto con le cose ed esperendole le apprendiamo nello stabilizzare l’empeiria in episteme: «Pertanto è necessario essere stati istruiti sul modo in cui (pos) ogni cosa debba essere compresa, giacché è insulso cercare nello stesso tempo la scienza ed il metodo (tropon)».18 È insulso procedere ad un’indagine parallela del metodo e della scienza, perché ovviamente non può esserci nessuna episteme, nessuna conoscenza di ambiti oggettuali, che non sia già in qualche modo il risultato di un procedimento esperienziale dell’oggetto da apprendere. In questo senso il metodo deve essere preliminarmente stabilito, ma il criterio per farlo arriva dalle cose stesse. Il metodo, cioè, deve farsi conforme all’oggetto da indagare per potersi configurare come il «luogo» conoscitivo dell’apprensione dell’oggetto. La maggiore o minore chiarezza di una conoscenza è direttamente dipendente dalla maggiore o minore evidenza con cui l’oggetto si lascia comprendere. Questa potenzialità di adattamento del metodo (e, quindi, del sapere stesso al fenomeno) non è pertanto a discrezione del soggetto, bensì riposa sulla concreta apertura del soggetto all’ambito oggettuale che, in sé, mostrandosi secondo la sua datità, orienta le stesse scelte metodiche ed investigative di chi ricerca. A monte è necessaria una certa apertura conoscitiva del soggetto, giacché — come sostiene Aristotele — non tutti sono in grado di calibrare il metodo sull’oggetto, ma solo coloro che sono istruiti; ciò, però, sempre sotto la condizione che l’opera di «taratura» è possibile unicamente in forza dell’essere in una qualche maniera manifesto del dato al soggetto: «Infatti è proprio dell’uomo istruito ricercare l’esattezza in ciascun ambito tanto quanto la natura della cosa ammette. Difatti sembra pressoché lo stesso accettare che il matematico provi con ragionamenti verosimili e che il retore reclami dimostrazioni».19 In altri termini, è ugualmente sconclusionato che il matematico ricorra ad argomentazioni probabili in un’ambito in cui vige il criterio della dimostrazione e che il retore, invece, tenti di dimostrare in un campo dove non vale la legge del costruire inferenze a partire da premesse prime e vere per sé, non prendendo di mira la retorica il campo di ciò che è necessario.

Il metodo o la decisione sul metodo a partire dalle cose deve già previamente implicare, allora, un essere aperto del soggetto verso le cose su cui egli intende indagare, un suo già orientato comprenderle per discernere il modo fecondo nell’indagine su di esse. Se non c’è certamente un darsi a priori della scienza in modo compiuto, deve senz’altro esserci, però, un preliminare esperire non semplicemente doxastico delle stesse. Più propriamente il soggetto deve in anticipo disporsi a farsi guidare dalle cose stesse. Questo implica che il soggetto risulta in condizione non solo di apprendere sul piano della ricerca ontologica che cosa le cose siano, ma di sapere come le cose siano prima ancora di pronunciarsi su che cosa esse siano.20 Strana inversione, a ben pensarci! Nell’immediatezza con cui entra in contatto con i fenomeni, tramite i modi della loro datità, il soggetto è già in condizione di indirizzare in modo mirato il proprio sforzo, la propria tensione conoscitiva, e ciò senza sapere che cosa siano i fenomeni con cui entra in relazione. Il soggetto vede i fenomeni, ma ancora non li osserva; scorgendoli, quasi di soppiatto, si acconcia per riceverli. I fenomeni sono lì, ci sono, sono dati, eppure non si sono ancora dati a lui. Affinché si consumi questo passaggio — l’unico che in termini fenomenologici possa assicurare la conoscenza — la ricettività del soggetto deve sprigionare il suo potenziale attivo: la passività con cui il soggetto sostiene lo sforzo di essere investito dal fenomeno, prestandosi a custodirlo, a farsene carico deve convertirsi in un fare che altro non è che il prendere posizione. Il passivo si converte in attivo: l’esposizione al fenomeno deve diventare un assumere posizione, un sostenere una postura, un occupare comunque un posto rispetto a ciò che lo colpisce, affinché questa esposizione da costatazione d’esistenza, a livello di esperienza immediata, si faccia costatazione d’essenza ad un livello riflessivo superiore (il livello trascendentale). In questo senso, se così si può leggere la lezione non solo husserliana sulla genesi passiva ma tutto il tentativo già della filosofia greca di «salvare i fenomeni», la critica di Derrida appare ad esempio troppo severa, sebbene estremamente lucida nel cogliere sia il passaggio fra passivo e attivo sia la problematicità di questo passaggio nella riduzione trascendentale e nella messa in parentesi della primaria dimensione iletica di cui la soggettività è, in prima battuta, nella Lebenswelt recettiva solo passivamente e di necessità, pena la perdita delle cose stesse in quanto cose (in sé) stesse autonome:

Anziché descrivere la sintesi passiva come l’esperienza esistenziale pura che precede ogni costituzione trascendentale mediante un soggetto teoretico, irriducibile in quanto tale a ogni chiarimento eidetico, anziché farne il nucelo dell’esistenza e dell’oggettività precategoriale, Husserl non la considera che come condizione di possibilità della genesi attiva propriamente detta; in ultima analisi è a quest’ultima che si riduce ai suoi occhi ogni genesi trascendentale. Mentre, effettuata la riduzione trascendentale, la sintesi passiva appare come lo strato costitutivo assolutamente originario, Husserl sembra, implicitamente e in contraddizione con le sue intenzioni iniziali, mettere a sua volta fra parentesi la sintesi passiva pura e in quanto tale.21

Eppure a questa lettura si potrebbe ancora obiettare che la messa in parentesi richiesta in fenomenologia in nome dell’evidenza che non sembra darsi sul piano dell’esistenza del Leib non nega il ruolo germinale della passività nel campo dell’esperienza concreta. Non nega neppure che la forza generativa del passivo nel soggetto consiste appunto nel fatto che l’affettività originaria costituita da questo essere passivo, con la stessa immediatezza con cui esperiamo i dati tramite il Leib, si iscrive nella possibilità di una sua conversione subitanea all’attivo, perché se il Leib non avesse questa capacità sarebbe corpo-oggetto (Körper) e non corpo-vivo (Leib). Ciò, ovviamente, implica un’altra domanda, direi anzi la vera domanda cui la fenomenologia deve dare risposta, ossia quella che chiede se la soggettività risponda secondo modalità che sono trasversali a tutti i soggetti o se, invece, questa risposta implichi a monte l’aprirsi di un invalicabile spazio individuale in cui la risposta all’attivo si configura sotto il segno di un atteggiamento di interpretazione e, quindi, di trasformazione del dato. È noto che rispondere secondo il secondo corno dell’opposizione significa operare già una trasformazione ermeneutica della stessa fenomenologia. In ogni caso, per la questione che ho scelto qui di affrontare, credo che la possibilità che la fenomenologia fonda per tutte le scienze e che consiste nel permettere a ciascuna di discernere la liceità di un metodo o di un altro nel proprio campo tematico, determinando la scelta di una applicazione o di un suo rifiuto, si presenti come una possibilità assolutamente equivalente a quella a cui ogni soggetto è sin dall’origine destinato come vita. Accettare o meno un metodo, cioè, significa atteggiarsi in un qualche modo, rispondendo attivamente all’ingiunzione fenomenica del dato che è ogni volta diversa a seconda dei contesti e delle circostanze della sua datità. Questa ragione spiega perché non possa esserci un metodo universale, bensì una pluralità di modi di approccio alle cose, secondo la natura ontologica che è propria di ciascuna. Aristotele, ragionando come un coerente fenomenologo ante litteram, è molto chiaro a proposito: non esiste un solo metodo universale che si possa applicare tout court per tutte le scienze, se non quel modo apodittico che comunque compete a tutte le epistemai in quanto tali e che in sé è, nondimeno, del tutto vuoto e scevro di contenuto. Ogni regione ontologica, di contro, necessita di un proprio metodo: «Non si deve richiedere l’esattezza della matematica in tutte le cose […]. Per questo, il metodo della matematica non è il metodo della scienza fisica».22 Ciò significa che i diversi ambiti oggettuali si comprendono in modi diversi, in conformità al loro diverso statuto d’essere. Per tale ragione, la prote philosophia aristotelica non sostituisce affatto le singole epistemai (teoretiche o no che siano), ma resta una possibilità epistemica fra le altre, sebbene poi una serie di considerazioni attinenti al suo oggetto portino a definirla come la prote, la prima scienza.

Allo stesso modo, però, va detto che neppure in Husserl la fenomenologia aspira a restare l’unica scienza ammessa. In quanto Erkenntnistheorie, essa chiarisce le condizioni alle quali le altre scienze (le scienze dei dati di fatto) si possono costituire, raggiungendo quello statuto di certezza e verità a cui tutte, in quanto scienze, aspirano. Solo la fenomenologia, infatti, ha la possibilità di lavorare sulla necessità eidetica, nella misura in cui non pone come specifico oggetto un ambito particolare ontologico, ma guarda all’intero delle condizioni che sono proprie di ogni fenomeno in quanto tale, prendendo di mira la questione dei fenomeni come questione della manifestatività in quanto tale:

La questione della fenomenologia, la sola che conferisce alla filosofia un oggetto proprio, facendo di essa una disciplina autonoma, la disciplina fondamentale del sapere — non una semplice riflessione a cose fatte su ciò che altre scienze hanno trovato — tale questione non concerne più i fenomeni ma il modo della loro donazione, la loro fenomenalità, non ciò che appare, ma l’apparire.23

La questione della fenomenalità resta per Husserl profondamente legata alla possibilità di operare in sede di apprensione conoscitiva il passaggio dal contingente al necessario. Questo passaggio, che decreta l’importanza di una scienza quale la fenomenologia come scienza di questo transito dal concreto all’eidetico, dal contingente al necessario, è già compiuto, tuttavia, nella prassi delle singole scienze dei dati di fatto. È già in actu exercito in ognuna, sebbene nessuna sia per sé in grado di esplicitarlo a se stessa. Ogni scienza dei dati di fatto, però, lo implica proprio nel momento in cui si istituisce programmaticamente come scienza di un certo ambito regionale per il quale sceglie uno specifico metodo e riconosce che i vari enti che abitano quella regione hanno il significato di variabili cui potere applicare leggi di comportamento, di strutturazione, di previsione e di manifestatività. Ciò vuol dire che, sia pure implicitamente, le scienze dei dati di fatto circoscrivono un ambito ontologico preciso sulla scorta di una sua determinazione formale, ossia sulla base di una invariante che, tollerando le differenze introdotte da ciascun ente individuale (da ciascuna variabile), sostiene la delimitazione dell’ambito:

Ma il senso di questa contingenza [scil. degli oggetti contingenti di volta in volta presi di mira dalle singole scienze dei dati di fatto], che è chiamata fattualità, trova il suo limite in quanto si riferisce correlativamente a una necessità che non indica il semplice sussistere fattuale di una regola di coordinazione tra dati di fatto spazio-temporali, ma ha il carattere della necessità eidetica ed è quindi connessa con la generalità eidetica. Dicendo: ogni dato di fatto potrebbe «secondo la sua essenza» essere diverso da quello che è, lasciammo già intendere che al senso di ogni essere contingente appartiene appunto un’essenza, un eidos afferrabile nella sua purezza.24

3. Caratteri fenomenici e fenomenologici

Ciò che la fenomenologia prende in consegna è, quindi, ciò che le scienze dei dati di fatto scartano. È qui che si consuma il passaggio della fenomenologia da teoria della conoscenza ad ontologia formale pura e, parallelamente, a teoria della soggettività. La fenomenologia, cioè, è chiamata in causa operativamente per salvare quello che viene taciuto e nascosto dalle altre scienze, sebbene presupposto. Ciò che viene nascosto è proprio ciò che lascia emergere i fenomeni come oggetti per le singole scienze dei dati di fatto. Il nascosto è la fenomenalità che resta coperta dai modi d’essere che sono poi specifici delle varie classi di fenomeni. A questa fenomenalità Husserl dà il nome di eidos. La forma non è, però, la cristallizzazione ontologica o l’ipostatizzazione in ente della fenomenalità. Essa dice, piuttosto, il modo che è proprio della fenomenalità, ossia il fatto che la fenomenalità è il farsi presente manifestandosi della cosa tramite un aspetto. Tuttavia, c’è un certo modo di farsi presente della cosa, apparendo, che è diverso da tutti gli altri, perché è quello in cui l’apparire è l’essere stesso della cosa: l’esteriorità, ciò che della cosa si fa vedere è il suo proprio essere, la cosa stessa. È un passaggio cruciale perché questo non vuol dire affatto che quando qualcosa appare ed appare in modi non eidetici, se così posso esprimermi, allora questi modi non sono propri della cosa o non mostrano propriamente la cosa. Essi sono modi della cosa e manifestano la cosa. Ma della cosa paradossalmente non mostrano la cosa stessa! E questo non vuol dire neppure che tali modi sono semplicemente eliminabili, perché inessenziali. Ciò significa solo che questi modi per sé non bastano, hanno bisogno di un’aggiunta ulteriore per potere essi stessi configurarsi, mostrarsi, darsi come modi propri di quella cosa in quanto quella cosa e non altra. Il compito della fenomenologia si configura, pertanto, come il metodo per rispondere ad un appello della fenomenalità del fenomeno. Questo appello è la richiesta ad avere cura non solo delle cose, ma anche del soggetto: spostando lo sguardo dalla cosa al soggetto la fenomenologia propriamente fa anche del soggetto la cosa a cui guardare e, quindi, poi da custodire, da accogliere, esattamente come gli altri fenomeni.25 Il criterio fenomenologico si applica coerentemente non solo ai fenomeni extrasoggettivi in quanto trascendenti la coscienza, ma in primo luogo alla soggettività autrice dell’indagine fenomenologica. Scoprendosi a se stessa come proprio oggetto, la soggettività realizza il passaggio dal piano della ricerca sui fenomeni a quello della ricerca sul soggetto conoscente. In altri termini, il passaggio si costituisce come necessario, nella misura in cui la ricerca delle condizioni di possibilità della conoscenza dei fenomeni si lega al modo in cui questi sono nelle operazioni percettive e noetiche dell’ego dati di coscienza, perché dati alla coscienza, divenendo da trascendenti immanenti ad essa nell’Erlebnis: è l’Erlebnis il luogo dove i dati varcano, appunto, la soglia dell’orizzonte della coscienza per offrirsi come fenomeni. Il privilegio della soggettività non è un privilegio posto né su base ontologica né su base gnoseologica, sebbene possa apparire così per via del carattere di evidenza della soggettività cogitante. In realtà, però, la stessa soggettività entra in gioco perché l’interesse primario della fenomenologia è portare alla luce la struttura del fenomeno che risiede non semplicemente nella sua Gegenbenheit, ma nel suo «essere dato a» e nel suo «essere dato in». Che le cose ci siano anche senza essere viste; che il fenomeno sia, cioè appaia anche senza destinatario di donazione non rappresenta un’obiezione alla fenomenologia. Qualsiasi fenomenologo concorda su questo punto. La datità del fenomeno dice, di contro, che ciò a cui il fenomeno si dona, in prima battuta, è il mondo che, per questo stesso, costituisce l’orizzonte liminale della stessa fenomenalità, l’in della datità. Il fenomeno attraversa il tempo e lo spazio. L’invariante eidetica si contamina ileticamente, si fa evidente in una materia. Dell’eidos in quanto invariante non si può fare esperienza a prescindere dalle variabili che esso informa. Della necessità eidetica non c’è esperienza possibile se non nel mondo della vita. Ecco perché accanto alla fenomenologia trovano posto le scienze dei dati di fatto e al metodo fenomenologico si affiancano le procedure specifiche di ciascuna disciplina.

Nondimeno la fenomenalità che si dà nel mondo e per il mondo non è del mondo, o piuttosto è la condizione affinché il mondo stesso come fenomeno appaia. È esattamente questo surplus dei fenomeni — la fenomenicità per sé — che la fenomenologia prende in consegna eideticamente. Il metodo della fenomenologia è il metodo che centra la condizione della fenomenicità che, in sé gratuita, non sopporta alcuna condizione se non quella di essere a propria volta «aperta a» nel suo essere in un mondo, nel suo accadere nel mondo. Questa presa in consegna della fenomenicità in quanto tale richiede il passaggio dal piano del fenomeno al piano del soggetto, in quanto il soggetto entra a propria volta nel mondo come fenomeno che si manifesta come destinatario della fenomenicità. Se l’oggetto della fenomenologia è la fenomenicità, anche il soggetto reclama, come fenomeno, una sua stessa precipua fenomenicità: egli appare come ciò che si attiva nel mondo in quanto correlato del fenomeno ed in quanto un correlato che, tuttavia, sa rispondere a se stesso della propria evidenza come fenomeno. Rispondendo di questa evidenza la fenomenologia — che è opera della soggettività — sembra ritrovarsi al punto di partenza, da ciò da cui era partita come «scienza dei fenomeni» in quanto «teoria della teoria». Chiarendo come sia possibile lo strutturarsi del momento conoscitivo dell’apprensione dell’oggetto, la fenomenologia, infatti, consente ad ogni scienza di reclamare quello statuto di certezza e verità che, in prima battuta, percorrendo la strada dell’epoché, sembra spettare unicamente alla fenomenologia. Ogni scienza fondata in sede eidetica — cioè fenomenologicamente costitutita nel passaggio da scienze dei dati di fatto a corrispettive eidetiche regionali — è vera, in quanto attinge ad un contenuto di verità senza distorsioni, pur adottando prospettive, ed è certa, poiché procede in modo logicamente congruo, rispettando le regole della deduzione formale e il criterio dell’evidenza. Principio formale del metodo fenomenologico, che quindi si applica trasversalmente a tutte le scienze, è che si ammetta come vero solo ciò cui si attinge in modo evidente. L’evidenza non ha nulla a che vedere innanzitutto con la concordanza delle nostre asserzioni e dei nostri giudizi con lo stato di cose, ma è un carattere delle cose stesse, quasi — oserei dire — una proprietà ontologica delle stesse, nella misura in cui esse sono fenomeni.26 Il proprio del fenomeno è, infatti, il fatto che il suo esistere sia espresso dalla sua manifestatività. Ciò che è, ma non si manifesta non può essere detto in senso forte e pregnante fenomeno (Erscheinung). Ciò che è, però, è già dato e, quindi, eo ipso è già manifesto, secondo gradi e modi variabili.27 La piena evidenza è la piena manifestazione, la piena datità, la cosiddetta «datità in carne ed ossa», espressione con cui Husserl non intende solo la presenza fisica materiale della cosa, ma il suo essere attingibile nella sua essenza. «Leibhaftig» è metafora per dire della cosa il suo essere (manifesto) nella sua essenza. In questo modo Husserl sembra mettere fine alla grande questione che ha attraversato il pensiero filosofico sin dall’epoca greca e che, ad esempio, compare espressamente formulata nel Sofista platonico:

Il fatto è, caro mio, che ci troviamo davvero in un’indagine difficile sotto ogni rispetto. Perché, che qualcosa appaia e sembri, ma non sia realmente (to gar pháinesthai touto kai to dokein, einai de me), e che si dica qualcosa, ma non tutto il vero, tutto ciò è da sempre fonte di perplessità, in passato come adesso.28

Husserl neutralizza, in altri termini, il dubbio legittimo che non ogni apparenza sia portatrice di un contenuto ontologico reale e che non ogni phainesthai, dunque, «celi» in sé per manifestarlo un einai o, per meglio dire, che non ogni phainesthai manifesti, oltre al suo proprio essere in quanto manifestazione, un qualcosa di altro che, pur tutt’uno con questo manifestarsi, possa però anche pensarsi come altro dallo stesso phainesthai. La mossa husserliana, infatti, va dritto al cuore del dubbio che il phainesthai possa essere ontologicamente vuoto, reclamando invece la sua pienezza d’essere per legittimare così, in senso forte a questo punto, la sovrapposizione fenomenologica fra apparire ed essere: il phainesthai cioè «dice» ciò che in esso si mostra; esso è ciò che si mostra e mostra ciò che è. Il fatto che tutto ciò possa accadere perché questo phainesthai si faccia nel mondo, ossia che tutto ciò sia possibile solo perché vi sia la presa in consegna di esso da parte di una soggettività che necessita di essere Leib come «surplus ontologico» necessario affinché il cogito possa uscire dal proprio limite puro per accedere più concretamente alle cose e, dunque, anche a se stesso, non toglie, però, che sia possibile procedere senza inganno, direbbe Aristotele, katá ton logon,29 tramite l’astrazione ad opera della ragione. È questa la lezione nascosta, la lezione segreta che la fenomenologia porta in sé all’origine, senza forse riuscire a riconoscerla espressamente, ereditandola dalla metafisica. Aristotele avverte sempre che la costituzione epistemica della metafisica non può avvenire solo su base astratta, come se essa fosse alla ricerca di un ente mai dato che, essendo trascendente e quindi sempre oltre ogni datità e ogni fenomeno, proprio per questo fonda il fenomeno. La metafisica prende il suo avvio a partire dall’intero della realtà (physis) come ricerca della condizione sufficiente affinché la physis stessa come fenomeno appaia. La datità quindi in prima battuta. Esattamente come per ogni altra scienza che prende avvio dalla datità del suo oggetto per rintracciarne la ragione formale. È la physis che, dunque, costituisce la datità in forza della quale la metafisica può poi procedere per via d’astrazione. La forma, quale principio d’essere delle sostanze, del resto, si dà al nous dell’uomo in uno spazio e in un tempo precisi, che sono quelli della vita, e dentro sostanze determinate. Il tentativo della metafisica di isolare eideticamente i principi delle sostanze in quanto tali non può fare a meno dell’orizzonte della physis. Solo a questa precisa condizione l’opera di astrazione del nous non corre il rischio di apparire arbitraria: l’eidos indica la condizione ontologica nell’ente dell’assoluta convertibilità fra il suo apparire ed il suo essere. Solo con questa garanzia preliminarmente posta, l’astrazione dalla materia realizzata dal logos non ha il potere di toccare la cosa per darcela in un di meno, ossia sottraendola nel mondo reale alla materia. Questo tipo di sottrazione reale è possibile solo o per via di un potere che è proprio della physis e che corrisponde al movimento della corruzione, della disintegrazione del sinolo oppure introducendo nella physis un principio d’essere diverso che è la techne, il cui potere non è solo di imitare la natura, ma anche di scavalcarla, di sottrarla a se stessa, di scomporla per distruggerla. La differenza fra chi è bravo e chi no nell’esercizio di una techne, insegna lo Stagirita, non sta semplicemente nel fatto che l’uno conosce le regole e l’altro no. C’è un senso della bravura che riguarda direttamente l’ingresso della proairesis, sicché diventa cattivo il medico che adopera i principi dell’arte medica, che ben conosce e sa applicare, non già per produrre guarigione, ma per fare ammalare qualcuno.30 Ecco perché un cattivo medico, propriamente, non potrebbe neppure dirsi «medico»: per chi è tale, ossia medico, la guarigione del malato non è in sé oggetto di deliberazione, ma il fine proprio secondo cui la stessa arte medica può definirsi.31 L’opera del logos, della ragione, introduce quindi una possibilità epistemica che non è, tuttavia, patrimonio della filosofia prima in quanto tale, ma in quanto episteme. Si tratta di un’operazione che, secondo Aristotele, ogni forma di sapere epistemico mette in campo. Alla filosofia prima, secondo quanto ci giunge dai Secondi Analitici letti in parallelo con il libro IV della Metafisica, spetta il compito di enucleare quelle condizioni di «apoditticità», ossia di verità e certezza, che valgono trasversalmente per ogni altra scienza. È un anticipo forte di quel compito che la stessa fenomenologia rivendica per se stessa. Ovviamente, ci vuol poco a capire che a questo punto la questione della fenomenologia — forse la sola — resta ancora: in che modo è possibile distinguere che un determinato fenomeno, anche a partire dal fenomeno eidos posto a fondamento dell’ontologia, è colto in modo evidente? Cosa intendiamo per evidenza? Questa domanda non è affatto nuova. È una questione antica, che nasce con la filosofia, presso i Greci e che determina tutte quelle oscillazioni che, fino ad oggi, comportano anche, all’interno delle stesse ricerche fenomenologiche, la messa in crisi del progetto di una scienza dei fenomeni e non soltanto della metafisica tout court. Qui non si tratta soltanto della critica al criterio dell’evidenza come ad un modo di intrappolare i fenomeni in strutture ontologiche rigide, come oggetti che, posti di fronte al soggetto, vengono chiusi ed imprigionati in concetti. Qui la questione drammatica, rispetto alla quale tanto la filosofia — quale che sia il suo indirizzo — quanto le cosiddette scienze naturali empiriche devono prendere posizione, è se è possibile parlare di un’evidenza dei fenomeni e cosa intendere per evidenza. Non è detto, infatti, che per evidenza si debba intendere una trasparenza assoluta delle cose. Malgrado l’abitudine del senso comune a considerare ciò che è evidente come ciò che è chiaro, trasparente e, quindi, assolutamente attraversabile dallo sguardo che lo squaderna perfettamente, il criterio dell’evidenza non indica soltanto questo. Indica piuttosto il fatto che non si dubiti — perché il fenomeno non lascia aperta questa possibilità — della presenza dei fenomeni al nostro cospetto, o accanto a noi, o in ogni caso per noi e ciò perché noi ne restiamo affetti (a livello percettivo o a livello intuitivo). In qualche modo il criterio dell’evidenza si lega in prima battuta alla costatazione dei dati, al nostro arrenderci all’evidenza della datità, ossia al fatto che delle cose ci sono, si danno e si impongono a noi, anche quando noi programmaticamente non abbiamo di mira la loro scoperta e, anzi, in certi casi, non supponiamo neppure la loro esistenza. È questo il criterio dell’evidenza che invoca Husserl e che gli consente di potere asserire, senza dubbio, che un’esistenza cogitante, quale che sia poi il suo statuto ontologico, c’è in quanto data ad un’intuizione proprio in quanto cogitante. Tuttavia, è su questo stesso criterio che la metafisica all’origine si istituisce in parallelo alla scienza fisica. La metafisica opera sulla physis; per sé può solo scomettere — come in effetti anche fa — che esiste qualcosa oltre la natura. Ma è una scomessa, non un’evidenza: se esiste un’ente sovrasensibile ci ammonisce Aristotele continuamente, proprio là dove vuole procedere alla determinazione della metafisica come scienza.32 Evidente è solo la natura, tanto che Aristotele non si spende mai per convincerci che physis sia:

È ridicolo provare a dimostrare che la natura esiste. Infatti è evidente che fra gli enti ci sono molte cose di questo tipo. Dimostrare quello che è evidente tramite quello che non lo è è proprio di colui che non è capace di discernere (krínein) fra ciò che è conoscibile per sé (di’hautó gnórimon) e ciò che non lo è.33

La metafisica non nasce perché suppone un qualcosa che è oltre la physis. Il filosofo costata il darsi della physis ed è da questo dato, che egli non pone ma registra, che prende avvio la questione dell’essenza della physis. Dal movimento come ciò che costituisce l’essere della physis, infatti, si arriva alla dimostrazione del primo principio di movimento ed è solo allora che il fisico (il filosofo secondo) consegna il testimone al metafisico (il filosofo primo), rinunciando dunque al vantaggio che gli deriva dall’essere arrivato per primo.

4. Conclusione

La lezione che emerge dal confronto fra Husserl ed Aristotele non attesta una filiazione della fenomenologia dalla metafisica quanto piuttosto — e in modo a mio avviso molto più significativo per le conseguenze che questa tesi può comportare oggi — una radicale vocazione fenomenologica della metafisica. Stupisce, dunque, che proprio Aristotele sia uno degli autori «scomparsi» nel silenzio di Husserl. Nelle lezioni del 1906/07 Husserl dichiara che «il nome metafisica è storicamente una caratterizzazione casuale dell’opera aristotelica che tratta la scienza che Aristotele stesso chiamò «filosofia prima».34 Quindi aggiunge che la filosofia prima è definita dallo Stagirita la scienza dell’ente in quanto tale che è propriamente da intendersi nel gergo aristotelico «nel senso del reale (im Sinn des Realen)».35 Da qui passa ad una considerazione più generale della metafisica che, sebbene colta nella sua lettura come assolutamente marcata dal carattere formale e logico che è proprio della fenomenologia in quanto ontologia formale pura, non è più strettamente legata al nome (e quindi alla paternità) di Aristotele. Lo Stagirita è liquidato in poche battute. La determinazione ontologica della prote philosophia agli occhi di Husserl arriva forse troppo presto, troppo in fretta. Nessuna ontologia appare in generale possibile, al di fuori dell’analisi condotta sulla metafisica in queste lezioni, senza un’indagine della fenomenicità dei dati. Eppure, come ho cercato di mostrare, l’indagine della fenomenicità è già ontologica, se non vogliamo violare l’implicito criterio che apparire è essere ed essere è apparire. E se comunque non per via ontologica siamo autorizzati da Husserl a cercare l’anticipo della fenomenologia nella metafisica, senz’altro, però, possiamo esserlo per via metodica, se riconosciamo che l’evidenza fenomenica altro non è che il modo per dire la datità, l’unico criterio che nella sua origine la metafisica stessa, in Platone ed in Aristotele, ammette come punto di partenza per la filosofia.


  1. E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia, ed. it. a c. di R. Cristin, Unicopli, Milano 1999, p. 172. ↩︎

  2. Scrive Lyotard che è proprio sotto il segno della tensione fra il rifiuto dell’eredità ed il suo riconoscimento che la fenomenologia husserliana nasce: «La sua celebre “messa fra parentesi” consiste per prima cosa nel prendere congedo da una cultura, da una storia, nel riprendere ogni forma di sapere risalendo a un non-sapere radicale. Ma questo rifiuto dell’eredità, questo «dogmatismo», come Husserl lo chiama curiosamente, si radica a sua volta in un’eredità» (J-F. Lyotard, La fenomenologia, ed. it. a c. di R. Kirchmayr, Mimesis, Milano-Udine 2008, p. 9). ↩︎

  3. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, ed. it. a c. di F. Costa, Bompiani, Milano 19973, p. 47. Husserl prosegue subito dopo chiarendo che l’evidenza, quando è completa, riempie di contenuto l’atto intenzionale con l’oggetto in quanto correlato della coscienza. L’evidenza è completa quando il fenomeno, in quanto dato alla coscienza, mostra se stesso a partire da sé in quanto ciò che esso è: «L’evidenza completa e il suo correlato, la verità pura e schietta, si danno come l’idea dimorante nello sforzo verso la conoscenza, verso il riempimento dell’intenzione mirante; si danno cioè nell’atto in cui si vive quello sforzo» (Ibidem). ↩︎

  4. Il problema del metodo in fenomenologia è il problema dello statuto stesso della fenomenologia come scienza dei fenomeni. Henry nota, infatti, che «[l]a questione nel metodo è legata alla fenomenologia da una connessione così stretta che l’ultima sembra definirsi attraverso il primo, appunto come un metodo e un metodo specifico. È questa peculiarità di essere un metodo che viene indicata dal concetto stesso di «fenomenologia», che appare così in primo luogo come un «concetto metodico»» (M. Henry, Fenomenologia materiale, ed. it. a c. di P. D’Oriano, Guerini e Associati, Milano 2001, p. 107). ↩︎

  5. E. Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, ed. it. a c. di P. Volontè, Bompiani, Milano 2000, p. 65. ↩︎

  6. Ibidem, pp.75-77. ↩︎

  7. Ibidem, p. 77. ↩︎

  8. Mi riferisco qui all’espressione con cui in Metafisica XII ad esempio Aristotele parla della filosofia prima come scienza diversa dalla scienza delle sostanze sensibili, ossia la physiké episteme, sottolineando la diversità di oggetto e, dunque, di principi che esiste fra scienza fisica e metafisica (cfr. Aristotele, Metaphys. XII, 1069b1). ↩︎

  9. E. Husserl, Logica formale e logica trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, trad. it. di G. D. Neri, Laterza, Roma-Bari 1966, p. 3. ↩︎

  10. E. Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, cit., p. 65. ↩︎

  11. E. Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, cit., p. 97. Ugualmente anche nelle Meditazioni cartesiane Husserl afferma senza mezzi termini: «In questo punto Cartesio ha mancato, e ciò accade perché egli, avendo fatto in certo senso la più grande scoperta, non ne coglie tuttavia il senso proprio, e non coglie quindi il senso della soggettività trascendentale, sicché non oltrepassa la soglia della filosofia trascendentale autentica» (E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 57). ↩︎

  12. Diverse sono le occasioni in cui Husserl esprime una presa di posizione critica nei confronti di Kant. Si ricordi qui la conclusione netta delle Meditazioni che, se da un lato ribadisce quanto appunto scritto nella voce Fenomenologia circa un’eredità delle istanze della metafisica da parte della fenomenologia, dall’altro chiarisce che, appunto, il bersaglio polemico in fenomenologia non è la metafisica in quanto tale, ma solo quella metafisica che parla di presunte cose in sé in opposizione ai fenomeni. Tra le righe Husserl si sta riferendo proprio a Kant che, del resto, ha già ampiamente criticato in vario modo lungo il corso delle Meditazioni: «In conclusione io vorrei, per evitare malintesi, rilevare che la fenomenologia, come noi l’abbiamo eseguita innanzi, esclude solo ogni metafisica ingenua che abbia a che fare con le cose in sé che sono un controsenso» (Ibidem, p. 171, corsivo mio). ↩︎

  13. E. Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, cit., p. 103. Nelle lezioni sulla Erste Philosophie del 1923/24 Husserl arriva ad esprimersi anche così: «Kant però […] non procede in modo radicale. Egli presuppone come ovvio che fuori, al di fuori dell’animo umano, vi siano delle cose da cui esso è affetto, e che le intuizioni sensibili sono determinate nel loro contenuto dalle cose esterne che esercitano un’affezione. Egli separa in questo contenuto ciò che muta da ciò che si presenta necessariamente ed universalmente, attribuisce il primo alle affezioni mutevoli, il secondo alle facoltà proprie dell’animo. Queste però sono teorie semplicemente prive di significato per una teoria della conoscenza» (E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, trad. it. di C. La Rocca, il Saggiatore, Milano 1990, pp. 16-17). Per Husserl, il tratto universale e necessario della cosa è della cosa e non del soggetto. L’essenza non è posta dal soggetto, ma è il modo della cosa che, se giunge nella datità a manifestazione, permette al soggetto l’esperienza dell’evidenza completa della cosa. ↩︎

  14. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, rev. C. Cesa, Laterza, Roma-Bari, 19944, t. 1, p. 25. ↩︎

  15. Ibidem, p. 31. ↩︎

  16. Platone, Sofista, ed. it. con testo a fronte a c. di F. Fronterotta, BUR, Milano 2007, p. 415 (253d). ↩︎

  17. Ibidem, p. 339 (242c). ↩︎

  18. Aristotele, Metaphys. II, 995a12-14. ↩︎

  19. Aristotele, Eth. Nic. I, 1094b24-27. ↩︎

  20. Nota Henry che è proprio la distinzione fra il che cosa e il come che pone la fenomenologia su un piano diverso da tutte le altre scienze per le quali, invece, il contenuto del fenomeno e il suo apparire «sembrano fare tutt’uno», laddove con Husserl «il contenuto da un lato, il fatto che esso appare dall’altro, sono diversi per principio» (M. Henry, Incarnazione. Una filosofia della carne, trad. it. di G. Sansonetti, SEI, Torino 2001, p. 28). La fenomenologia husserliana quindi non prende di mira i fenomeni come oggetti, bensì in quanto ««oggetti nel come (Gegenstände im Wie)», cioè oggetti non più considerati nel loro contenuto particolare, ma nel modo in cui si danno e appaiono, nel «come» del loro darsi» (Ibidem). ↩︎

  21. J. Derrida, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, trad. it. di V. Costa, Jaca Book, Milano 1992, p. 242. ↩︎

  22. Aristotele, Metaphys. II, 995a14-17. ↩︎

  23. M. Henry, Fenomenologia materiale, cit., pp. 61-62. Ancora più chiaramente forse in Incarnazione Henry afferma: «Che l’apparire puro, la manifestazione pura, la fenomenicità pura siano la condizione di ogni possibile fenomeno - ciò in cui esso ci si mostra e al di fuori del quale niente può mostrarcisi, talché non vi sarebbe fenomeno di nessun genere —, questo fatto colloca indubbiamente l’apparire nel cuore della riflessione fenomenologica come suo tema unico o suo vero oggetto» (M. Henry, Incarnazione, cit., p. 29). ↩︎

  24. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, l. I Introduzione generale alla fenomenologia pura, ed. it. a c. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 15. ↩︎

  25. Con forza espressiva Costa scrive, infatti, che la soggettività in fenomenologia appare sotto la condizione di una comprensione della fenomenicità: «Ciò che la fenomenologia, con un termine vecchio e forse fuorviante, chiama «coscienza trascendentale» è il movimento dell’apparire in quanto tale e, in quanto correlato dell’apparire, l’essere in manifestazione» (V. Costa, Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose, Rubbettino, Soveria Manelli 2007, pp. 132-133). La fenomenologia non pone, dunque, una primaria distinzione fra soggetto ed oggetto, ma si occupa dell’«apparire originario che accade prima della diffrazione in coscienza e mondo» (Ibidem). Tuttavia una manifestazione non accade mai senza un punto di vista (cfr. Ibidem: «Una manifestazione è la cosa vista da un certo punto di vista»), o, per meglio dire, è recepita sempre da una prospettiva ed è questo che libera l’attivo nel passivo dentro la soggettività, nella misura in cui il soggetto di quanto recepisce di tanto costituisce e opera poiché è «il luogo della manifestatività del reale» (Ibidem, p. 135), ossia il luogo entro cui la datità si iscrive donandosi. ↩︎

  26. Husserl afferma con estrema chiarezza la distinzione fra evidenza antepredicativa, che è l’evidenza propria del fenomeno, e l’evidenza del giudizio, che si basa sulla prima: «[N]oi dobbiamo distinguere il giudizio […] e l’evidenza dal giudizio antepredicativo e dall’evidenza antepredicativa. L’evidenza predicativa include quella antepredicativa. L’oggetto dell’intenzione o, nel caso, della visione evidente, viene a espressione; la scienza vuole in generale giudicare espressamente e vuol mantenere il giudizio, la verità, come qualcosa di fissato nell’espressione. Ma l’espressione come tale è suscettibile di una migliore o peggiore adeguazione all’oggetto dell’intenzione che si dà per se stesso» (E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 46). ↩︎

  27. «L’evidenza, cui appartiene in realtà ogni esperienza nel comune senso ristretto, può essere più o meno completa. L’evidenza completa e il suo correlato, la verità pura e schietta, si danno come l’idea dimorante nello sforzo verso la conoscenza; si danno cioè nell’atto in cui si vive quello sforzo» (Ibidem, p. 47). Tra questi atti va incluso quello dell’intuizione eidetica, in cui appunto la cosa «si dà originalmente […] (per così dire in carne ed ossa)» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., pp. 52-53). ↩︎

  28. Platone, op. cit., p. 303 (236d-e). ↩︎

  29. Cfr. Aristotele, Phys. II, 193b4-5, dove lo Stagirita afferma che l’eidos non è separabile (choristón), se non appunto katá ton logon. Similmente in Metaph. VIII, 1042a29 la morphé è un «alcunché di determinato separato secondo ragione (lo logo)». ↩︎

  30. Posto che la techne è una scienza, Aristotele ci avverte nell’Etica Eudemia che le epistemai possono essere messe in uso «secondo giustizia come anche secondo ingiustizia (te dikaiosyne hos adikía)» (Aristotele, Eth. Eud. VIII, 1146a36). ↩︎

  31. «Infatti un medico non delibera se deve guarire» (Aristotele, Eth. Nic. III, 112b12-13). ↩︎

  32. Cfr. ad esempio Aristotele, Metaphys. VI, 1026a10-13. ↩︎

  33. Aristotele, Phys. II, 193a3-6. ↩︎

  34. E. Husserl, Husserliana, Bd. XXIV, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie. Vorlesungen 1906/07, hrsg. v. U. Melle, Nijhoff/ Kluwer, Dordrecht/Boston/Lancaster 1984, p. 95. ↩︎

  35. Ibidem, pp. 95-96. ↩︎